giovedì 9 settembre 2021

Morto Belmondo, naso schiacciato e labbra volitive, fu l’eroe «sbruffone» del cinema francese

 

Jean-Paul Belmondo


Morto Belmondo, naso schiacciato e labbra volitive, fu l’eroe «sbruffone» del cinema francese


di Maurizio Porro6 settembre 2021 (modifica il 8 settembre 2021 | 10:28)
In oltre 70 film ha interpretato tutta una serie di personaggi «anti», diventando icona del cinema popolare. Ma non disegnando anche incursioni nella produzione autoriale

E’ morto un pezzo vitale, avventuroso, popolare del cinema francese. Dopo un infarto che lo colpì l’8 agosto del 2001 in scena, alla maniera di Moliére, Jean Paul Belmondo è scomparso dai nostri sogni di celluloide a 88 anni, essendo nato con ascendenze italiane il 9 aprile 1933 da Paul, scultore di origine siculo-algerina. Ma, per volontà del cinema, grinta somatica, bollente personalità, tipologia di personaggio e hobby aggiunti come la boxe e il calcio, Bebel, come lo chiamavano non solo gli amici giocando con il soprannome di Gabin, è a tutti gli effetti immortale, pur con due mogli e quattro figli.

La casistica dei suoi oltre 70 film, cui arrivò col diploma strappato all’Accademia d’arte drammatica di Parigi, l’ha visto rischiare ben altri pericoli: ha camminato sui baratri, ha sfidato gangster in borsalino, è morto per amore, ha fatto il banditello marsigliese che fa il verso cinefilo a Bogart e corre per le strade di Parigi, di spalle, colpito a morte, fino a stramazzare sulle strisce pedonali in “Fino all’ultimo respiro” di Godard, addì 1960, dichiarazione di nascita delle nouvelle vague. Inaugurò così, con spregiudicata naturalezza, la serie delle sequenze cult e la collaborazione col padre padrone della “nouvelle vague”, che continuerà poi con “La donna è donna” e col cerebrale e didascalico “Pierrot le fou”, gangster movie, ‘65, con esplosivo finale. Fu impermeabile alle mode, amante del teatro su cui si affacciò giovanissimo declamando i classici, consapevole dell’anomalo potere seduttivo del naso schiaccato e delle labbra volitive: era uno con cui non la si passava liscia, né uomini né donne avevano da perdere. Belmondo, prima seduttore (da giovane faceva parte, con Charrier e Terzieff dei “Peccatori in blue jeans” di Carnè), poi padre, infine nonno-patriarca con fans, è diventato nei ‘60, insieme a Delon - con cui fece coppia mitica nell’elegante “Borsalino” di Deray, 1969, e nel recente e patetico “Uno dei due” - il prototipo del divo tipo export, il nuovo Jean Gabin (con cui recitò nel malinconico “Quando torna l’inverno”), con l’eroismo e l’erotismo usa e getta da dare in pasto alla fantasia popolare, nè è da dimenticare il film girato con Sautet “Asfalto che scotta”.

Si è spesso tenuto, nella sua brillante carriera, sulla traccia del cinema d’azione e sbruffone, quasi il cartoon dell’eroe dalla faccia da schiaffi, tirando di cappa e spada come in “Cartouche” con la Cardinale, nel ‘62, e poi negli “Sposi dell’anno secondo” con la sua amata Laura Antonelli, nel 71, per cui aveva lasciato Ursula Andress; o affrontando situazioni degne di James Bond, ma con beneficio di grottesco, nella serie dell’“Uomo di Rio” e di Hong Kong, grandi successi personali e muscolari anche come stunt-man, fino al “Cervello” di Oury. Una infinita serie di canaglie e poliziotti, di sparvieri, scomunicati, eredi, incorreggibili, assi degli assi, scorrendo i titoli. Ma la natura di attore bifronte, estroverso ed introverso, gli ha permesso una doppia contabilità espressiva: da un lato il cinema della domenica, virile ed ironico, anche se via via sempre più ripetitivo e consunto, di De Broca, Verneuil, Oury; dall’altro il cinema innovativo, oggettivo, critico di Chabrol (“A doppia mandata” e “Trappola per un lupo”, 72), quello noir ambiguo di Melville (“Leon Morin prete”, “Lo spione”), Godard, che lo rese intellettuale suo malgrado, creandone il mito; di Resnais (“Stavisky” del ‘74, non casuale rievocazione d’un celebre scandalo finanziario), Luis Malle (“Il ladro di Parigi” ‘66), dove Jean Paul diventa silhouette elegante, talvolta perfino una parodia dell’altro Belmondo, quello atletico e nazional popolare amato dalle folle per il suo incredibile eroismo, che sul set non voleva controfigure: raccontò tutto in un’autobiografia prematura, nel ‘63 che non prevedeva il Leone d’oro alla carriera che avrebbe ritirato nel 2016, quando la salute era malferma e poteva confessare che la rivalità con Delon era solo una questione di marketing.

Negli anni 70 si specializza nel poliziesco, con sprezzo del pericolo e rifiutando le controfigure nelle storie di Lautner, Labro e del più sensibile Jacques Deray, mentre negli anni 80 diventa sullo schermo crepuscolare, ma ancora ottiene il premio Cèsar nell’89 per “Una vita non basta” di Claude Lelouch, con cui girerà poi una versione attualizzata dei “Miserabili” nel 95. Fu tra i pochi a non accettare mai le proposte hollywoodiane, era un italo-francese, così sensibile al nostro cinema che quando vi tornò, dopo la malattia, girò un remake di “Umberto D” e nel 2011 viene insignito della Palma d’oro alla carriera a Cannes. E fu anche, se necessario, un bravo romantico con le sue pene d’amor perdute: dall’algido e silenzioso “Moderato cantabile”, 60, di Brook, scritto dalla Duras, con Jeanne Moreau, fino al film più passionale capolavoro di Truffaut, “La mia droga si chiama Julie” (Catherine Deneuve, mai più nessuno al mondo t’amerà così), e a “Un Tipo che mi piace” di Lelouch, sempre nel ‘69, in cui è un compositore che fa scoprire ad Annie Girardot più le delusioni che le illusioni d’amore.

Notevoli le sue incursioni nel cinema italiano, all’epoca, i primi Sessanta, delle grandi coproduzioni con la Francia: dall’occhialuto libraio antifascista della “Ciociara” di De Sica agli amori torbidi altoborghesi veneti di “Lettere di una novizia” di Lattuada, dal “Mare matto” di Castellani, marinaio livornese abbracciato alla Lollo, al bellissimo “La viaccia” di Bolognini, in cui riuscì un intenso, credibile, giovane contadino toscano di fine secolo, vestito dal genio di Piero Tosi e innamorato della prostituta Cardinale fino alla morte. Non è da sottovalutare la sua attività teatrale, cui sarebbe tornato con passione regolare affrontando soprattutto eroi di tradizione a tutto tondo: in Italia lo si ammirò come Cyrano de Bergerac, personaggio che riprese in molte età, cui ancora una volta regalò la sua natura psicosomatica di spavaldo e infelice, un disperato ribelle forse senza causa ma con facoltà di autoparodia, ideale passaggio dall’era Gabin a quella Depardieu. 

CORRIERE DELLA SERA





Nessun commento:

Posta un commento