Vita di quarantena in città
Noi giochiamo a palla asino, ogni volta che uno sbaglia prende una lettera, A, S, I, N, O; chi realizza la parola completa ha perso. Prendiamo il gioco seriamente e io cerco di renderlo più difficile gettando la palla obliquamente per far fare uno scatto imprevisto al corpo, perché mia figlia faccia un po’ di moto. I suoi undici anni sono come intorpiditi da questo mese e mezzo di reclusione forzata. Lei, che è una piletta di energia e anche in casa deve fare il parcours domestico, che consiste nell’arrampicarsi sulla schiena del divano e poi saltare in quello che gli sta di fronte, sembra fiaccata. Si rianima se faccio un tiro basso e vigliacco, le scappa una risata che muore quasi subito, quando esplode a sorpresa l’urlo delle ambulanze, che si mangiano il silenzio irreale, gareggiando con il rumore degli elicotteri che non vediamo. Questo ci fa sentire cieche e vulnerabili.
C’è una calma assurda a Milano in questi quaranta giorni, che all’inizio c’è parsa bellissima. Solo i tram e la città ferma.
Non ho dovuto spiegare niente a mia figlia piccola, sa già tutto, perché la scuola acutamente ha approfittato subito della situazione per spiegare in scienze il virus. Della parte brutta la mia figlia piccola vede solo il contingente, le proibizioni e i veti. Mia figlia grande ha invece l’apprensione delle conseguenze tragiche, ha paura per chi le sta vicino, più di sempre ha bisogno di affondare la testa nella pancia, come se fosse un giocatore di rugby gentile, un cucciolo che si rifugia nel ventre della mamma.
Sono bravissime le ragazze. Da subito ho imposto loro rigore: quando ci si sveglia via il pigiama, ci si lava e ci si veste, si studia, si fa ginnastica, si legge, si cucina, si dipinge. Quella meno brava sono io.
Ho sempre giocato poco con le mie figlie, ho insegnato loro ad andare in bicicletta, a sciare e nuotare. Per questo sono la peggiore delle tre. Sono nata in mezzo ai campi e alle montagne. Con le amiche il sabato, anche di sera a volte, finivamo sul greto del fiume con qualsiasi temperatura. Quando attraversavamo il campo di stoppie e qualcuna si lamentava di essersi graffiata ridevamo. Non ci mettevamo mai a studiare tornate da scuola, dovevamo prendere aria altrimenti ci sembrava di impazzire, non importava che piovesse.
Mi sono portata dietro da quegli anni un paio di braccia che quando ho partorito il dottore insisteva che barrassi sul questionario informativo della puerpera la casella operatrice agricola alla voce lavoro.
Mi sono portata dentro un senso di ribellione pura alla prigionia del cemento quando esce un raggio di sole. In quelle infinite settimane di pioggia friulane, quando arrivava la luce scattava un impulso primordiale a prenderlo in faccia. Da quando sono arrivata a Milano, la più cementificata delle città in cui ho vissuto, ho sempre trovato delle scorciatoie per fingere di ritrovarmi in quella culla, un parco in cui mangiare il panino, le colline dell’Oltrepò pavese, le cime vicine di Como, i Corni di Canzo. Ci correvo in cima finché non ero sfinita, poi, domata, tornavo a Milano.
Questo impulso le mie figlie non ce l’hanno. Hanno corpi con la memoria di un’atleticità antica, ma non sentono la prigionia della casa.
Per questo soffoco più di loro nel bivaccare tra le mura amatissime al piano terra, in cui le stanze vanno divise per ore della giornata: solo la parte destra gode di luce e cerchiamo di ficcarci in quel lato come tre lucertole di giorno. Di notte stiamo nella parte sinistra.
Le ragazze si sono abituate meglio di me a vivere una vita senza impegni all’esterno. Sandro Veronesi ha scritto l’altro giorno sulla “Lettura” una riflessione corretta: i bambini si sono adattati perché finora abbiamo fatto vivere loro una vita tossica. È vero. Godono di quello stato di dispersione, di noia che piombava addosso a noi da piccoli di domenica, il giorno più brutto della settimana, quando dopo il pranzo non c’era nulla da fare, se non sperare che alle quattro arrivassero i cartoni. Non era uso andare a giocare a casa di altri, si disturbava. Se si era fortunati si scorgeva qualche bambino tirare calci in piazza a un pallone e lo si raggiungeva in fretta e furia, prima che fosse richiamato dentro. I ragazzi di oggi sono infarciti fin da piccoli di stimoli, il corso di coro, l’inglese cucinando, il francese cantando, il pattinaggio su ghiaccio e poi uno sfrenato impegno mondano di “dormite” a casa di amici, che sgrava a turno i genitori.
Mia figlia grande si è adattata subito, ha confessato di stare meglio senza la nevrosi della vita normale, segue le lezioni online tutte le mattine, sforna torte per distrarsi, fa ginnastica, vede serie in inglese, ha ripreso a suonare il piano. Le mancano gli amici ma è più abituata di noi a comunicare virtualmente. La piccola studia, suona la chitarra, ci ha messo di più a ingranare con la scuola, le piattaforme sono oberate, anche i professori incerti su cosa fare in quell’età, le medie, in cui non sono bambini, né ragazzi.
Io dormo poco, ogni giorno passo almeno un’ora sulla lavagna elettronica per capire quali compiti deve fare la mia figlia piccola, con le indicazioni disseminate come un sudoku in posti diversi. Do di matto a ricondurli a uno schema accettabile che lei possa seguire. Aspetta con pazienza che arrivi il momento in cui urlo che “non ne posso più”. Succede una volta alla settimana, ma succede regolarmente. E io regolarmente mi sento un’assassina.
Mi fa impazzire la prigionia, la mattina mi alzo e faccio le faccende di casa. Pensavo nel tempo libero dal telelavoro di leggere la Divina Commedia, di sentire Mozart e dipingere la Primavera di Botticelli e invece infilo le faccende di casa con una frustrazione che sale alle stelle. Mentre faccio il bucato, divento ossessiva con la polvere, pensando che questo è tempo sprecato, che avrei potuto leggere un libro. Mi sale una rabbia frontale del tempo buttato e anche qui, almeno una volta alla settimana la riverso sulle ragazze. E di nuovo mi sento un’assassina.
Un’altra cosa che mi ferisce è l’impossibilità di concentrarmi per più di un quarto d’ora di seguito. C’è sempre una domanda cui rispondere, una rassicurazione da dare, un buffetto da fare. E anche quando nessuno viene a bussare alla mia porta mi autocondanno a qualche attività: cosa preparo per pranzo? Vado a fare il letto, devo fare il bucato, devo lavare il bagno. E fingo di farli diventare dei piccoli diversivi alla mia attività di studio e di lavoro. Ma non è vero. Sono delle schiavitù utili che fanno aumentare la pressione a mille. Mentre metto a bagno un maglione, mi accorgo che devo lavare i vetri, mentre guardo le finestre penso che devo chiamare il falegname che la maniglia è allentata. E così, a ruota.
Cerco di non uscire più nemmeno per la spesa: ho paura dell’aggressività della gente che si prende a cazzotti al banco dei salumi perché è nervosa, che ti guarda come se tu fossi l’untore e non si sa bene perché devi esser tu l’untore e non lui. Faccio dei calcoli sociologici per fare la spesa nel momento migliore: subito scarto il sabato e la domenica, in cui le file iniziano già alle 8 in punto. Hanno ossessione di non riuscire a fare approvvigionamenti. Ho imparato che il supermercato più caro è frequentato da gente più tranquilla: si trova più o meno di tutto, meno la crema per le mani. Quello più a buon mercato è affollato da gente logorata, che sente odore di povertà imminente: lì frutta, verdura e uova sono regolarmente finiti, però lo scomparto della cioccolata è sempre fornito.
Ho smesso subito di uscire per prendere aria anche quando era consentito: cercare di raggiungere il parco senza recinzioni in bicicletta è stata una stretta al cuore. Milano sembrava Guatemala City, grigia, subdola.
E poi c’è l’umore della gente. In una giornata di sole prepotente siamo andate a fare un giro in bicicletta, ci sembrava l’unica cosa che potevamo fare senza essere contagiate o eventualmente evitare di contagiare se fossimo state inconsciamente positive. Un tassista e un autista di camion si sono fermati per insultarci. Se la prendevano con noi che stavamo ben distanziate, lontane da tutti nel deserto delle strade e non con quelli che stavano a grappolo nel parco a far sfogare i cani. Siamo tornate a casa, la città senza nessuno, con le serrande abbassate era un preludio sinistro.
Non vedo i telegiornali da tempo, non ne posso più di numeri e di analisi, ci penserò dopo. Devo difendere me e le ragazze, si è più forti fisicamente quando non si è depressi. Solo a metà giornata apro i siti, lontano dai pasti, perché perdo l’appetito, lontano dalla notte, che ultimamente è insonne.
Anche i flashmob dai balconi, che molto mi rincuoravano all’inizio, si sono pian piano silenziati. E io con loro. Mi sento ogni giorno con la famiglia, con gli amici veri, tutte cose di cui avevo perso quotidianità in questa vita frenetica. Sono contatti via chat per lo più, che non si sa perché non ci si chiama, si ha paura di rompere il letargo altrui. Questo mi fa stare bene, mi fa capire che dentro ciascuno di noi c’è un lumino di verità sull’amore.
Anche la mia impazienza motoria si è piano piano calmata. Ho un deleterio effetto di “assuefazione da tana” psicologico e fisico che porta a mansuetudine e a una certa docilità intellettuale. Mi chiedo, se oggi arrivasse un golpe saprei reagire, scendere in piazza?
L’altro giorno ho visto per la prima volta i marziani che ci fanno vedere al telegiornale. Hanno la tuta e la mascherina bianca, ficcati in furgoncino bianco che urla. In quella strada, io in bicicletta mi sentivo vinta: “Ecco” mi sono detta, “adesso mangiano l’asfalto, me e i poveracci che stanno attorno alla mensa di San Francesco”. Perché per i clochard il coronavirus è iniziato tanti anni addietro, da sempre tutti li evitano, temendo siano veicoli di contagio di povertà e disperazione. Loro se ne fregano delle distanze di sicurezza: alla coda per il pranzo devono scegliere se morire di fame o di coronavirus. Tanto, anche se lo prendono, non cambia molto.
Ho vissuto in quel momento la sensazione di quando sono arrivata da Cividale ventitré anni fa in stazione a Milano: mi sembrava che la spianata di via Vittor Pisani mi desse un pugno allo stomaco. Poi pian piano ho imparato ad amare anche quella parte di Milano e la città stessa, la sua capacità di darmi un lavoro che mi piaceva, la possibilità di incontrare teste che pensavano, dove ciò che non amavo – i rumori, la troppa gente, lo smog – diventavano le pezze di un abito interessante.
Milano non mi ha assestato un colpo al ventre. E così anche i marziani se ne sono andati, hanno lasciato incolumi me e i frequentatori della mensa di San Francesco. Ho dato una sgambata forte, come quando ero al liceo, e la bici è ripartita veloce.
I marziani mi hanno fatto pensare a tutto quello che ho. Stiamo (per ora) tutti bene, facciamo lavori che ci proteggono dal contatto con il virus, abbiamo case in cui si possono ritagliare momenti di solitudine. Penso ai medici, agli infermieri, ai senza tetto, a chi non può accompagnare gli ultimi momenti di una persona cara perché non ci può essere contatto. Penso a chi va via da solo e mi auguro che lo faccia in uno stato di dolce stordimento.
Lavoro, scrivo, guardo film vecchi, mi occupo delle ragazze. Sono insonne, spesso isterica, va bene, mi perdono. La maggior parte del tempo sono improduttiva, secondo gli schemi di una vita frenetica e va bene anche questo. Ma organizzo il mio lavoro con una disciplina formidabile e ho in testa pensieri più lucidi, sono in grado di fare collegamenti che prima solo in vacanza riuscivano così chiari.
Quando non ce la faccio più sogno di mettere i piedi sulla sabbia di Grado, in quelle giornate fuori stagione, in cui il cielo è grigio e blu, carico di nuvole e mi sembra di essere sotto l’impero asburgico, in un tempo che non ho vissuto. Sogno di passeggiare da sola, come mi è capitato molte volte. E di fermarmi a dipingere.
So che niente tornerà come prima. Avremo tutti più paura. Siamo fragili, nudi e forti. Forti del nostro essere uomini e non più Dei come ci siamo sentiti fino a un mese e mezzo fa.
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