Alda Merini |
Intervista impossibile ad Alda Merini
Alda Merini interpretata da Manuel Serantes Cristàl e Arnoldo Mosca Mondadori
Di Fiamma Colette Invernizzi
Ott 22, 2019
Si muove innervosita sulla seggiola da giardino, come irritata al solo pensiero di una tale sconfitta per il genere femminile. Si muove innervosita sulla seggiola da giardino, al pensiero di tutte le relazioni svanite nelle ombre del tempo a causa di compromessi e false giustificazioni altrui, lontane dall’assolutismo relazionale ed emotivo di cui lei era gran direttrice d’orchestra. Poi ride, come riportata al mondo da un dettaglio improvviso, da una luce inaspettata composta da minuscole sensazioni invisibili. «Io voglio galleggiare, sa», mi confessa, gli occhi negli occhi, «senza accettare i compromessi e le vie di mezzo, i narcisisti e gli egocentrici. Voglio galleggiare nella mia leggerezza e allegria, senza dover trovare un accordo con il soffocamento altrui. Voglio galleggiare nella mia spiritualità, che non è quella della Chiesa e delle messe a cui arrivo sempre in ritardo. È la spiritualità alta dell’animo che, nei suoi vortici di disperazione, mi porta a vivere tante vite in una, come se fossi disposta a morire ogni giorno, tutti i giorni. Come in un processo cellulare dell’animo che ha bisogno di perire per rinascere, provando il vero amore per lo spirito. Capisce?». Capisco. Ma non parlo. Non rispondo. Non faccio cenno. Non muovo ciglio perché lei si è già alzata e sta già riprendendo la via di casa. Senza salutare, lasciando alle spalle una scia di profumo che finora non avevo sentito. Capisco?, mi chiedo. Forse. Di certo so che tra l’orrido e il sublime, Alda Merini sapeva cantare.
«Ho fame», risponde con aria irrequieta, mentre annoda alle nocche un anello cui pare che manchi una pietra. Le ho chiesto di descriversi in tre parole e senza troppo riflettere mi ha congedata così, scrutandomi con lo sguardo di chi non ha tempo da perdere. «Ho fame». Poi tace e da un sospiro fa esplodere le altre due definizioni, secche, improvvise. «Quando la smetteranno di derubarmi?», provoca, come se fosse una riflessione rivolta a un mondo molto più ampio rispetto al nostro, accovacciato intorno al tavolino di pietra del suo cortile in Ripa di Porta Ticinese, civico 47. Io resto in attesa, immobile, spettatrice di una conversazione che percepisco non avrà nulla di convenzionale. «La terza, signorina, la porgo come una supplica: per favore, non mettete il naso nelle lenzuola dei poeti». Cala il silenzio, nel fruscio immaginato di tessuti privati e nel mormorio delle foglie che fremono sopra le nostre teste. Le rughe le addobbano il viso di sogni e di incubi, in un continuo guardare, pensare e porre domande. «In realtà, come lei può vedere», aggiunge allungando il mio sguardo oltre le finestre che ci scrutano da qualche metro più in alto, «io vivo nel letto. Io nel letto faccio tutto: scrivo, faccio l’amore, mangio. Il letto è un territorio di confluenza, è il mio tappeto magico, un luogo da cui posso proiettarmi in tutto il mondo, viaggiando, senza aver bisogno di spostarmi da casa». La consapevolezza che trovo nei suoi occhi mi attanaglia come un uragano silenzioso che mescola certezze e follia, libertà e saggezza, in un terreno fertile per pensieri sciolti e assenza di confini. «Preferisco chiamarlo stupore, invece di follia», afferma illuminandosi di un’energia contagiosa, «per meglio descrivere la magia di recuperare la vista quando si osserva qualcosa. Siamo così abituati ad anteporre giudizi o pregiudizi, vivendo nell’illusione di conoscere ciò che ci troviamo davanti, che ci dimentichiamo di aprire davvero gli occhi, scorgendo la realtà per quello che è, nella sua pura essenza. Lo stupore, invece, fa proprio questo: ci permette di guardare qualcosa e di avere la chiarezza che lo stiamo vedendo per la prima volta». Un passo verso la verità, un altro verso il mistero e lo sconosciuto, tramutato nel palcoscenico più straordinario dell’esistenza. Senza sorgere con un intento preciso o uno scopo specifico, le parole di Alda Merini fioriscono spontanee, capaci di portare meraviglia nelle sue stesse mura domestiche. «Ogni volta che il caro Arnoldo mi porta i libri che pubblichiamo insieme», racconta pensosa, «trovo indispensabile trasformarmi nella prima lettrice di me stessa, portandomi addosso lo stupore necessario per chiedermi se veramente li ho scritti io, certi componimenti».
E se la poesia è il mezzo e le parole lo strumento, i concetti di spazio e di tempo sbiadiscono, al servizio di un’espressione di verità tanto sensibile quanto dirompente capace di aprire gli occhi sulla folle realtà del mondo. I desideri svaniscono e infiammano, le relazioni uccidono e salvano, in un dedalo di amici che si allontanano e vicini di casa che accolgono. Un rumore di passi sulla ghiaia interrompe il vortice di pensieri, facendo comparire un ometto che pare un arazzo di racconti cutanei e sguardi dolcissimi. «Vede, lui, proprio lui», sussurra avvicinando il corpo al tavolo per non farsi sentire, «è il Signor F. ed è il responsabile di tutti i delitti del dopoguerra. E di tutto ciò che di brutto accade in questo condominio. E delle Torri Gemelle, anche. Però anche se ogni tanto mi sente urlare lo sa che non sono cattiva. Mi vuole bene ed io ogni sera, alle otto in punto, busso alla sua porta. Così. Senza pensarci troppo. Resto dieci minuti e poi torno a casa, all’altro capo del pianerottolo». La complessità si racconta da sé, nelle trame di frasi irriverenti e ironiche, guizzi di consapevole incredulità, occhi attenti, mormorii altalenanti e sigarette che trovano sepoltura nella fossa comune di un posacenere. Si susseguono le contraddizioni della storia e della politica, i concetti di appartenenza ed esclusione, di ricerche esistenziali e perdite di coscienza, tra attimi di tranquillità che danzano con periodi di internamento manicomiale. «L’unico contatto reale possibile è quello con l’individuo», prosegue assorta nella riflessione, «alla ricerca della più profonda comprensione di chi abbiamo davanti, affinché reciprocamente si possa essere custodi dell’altrui solitudine. Io parto sempre dall’individuo per arrivare a parlare del mondo, mai viceversa. Ascoltare l’essere umano è fondamentale. Così se io divento custode della tua solitudine, essa diventa qualcosa di prezioso, unico. Non c’è altro. Non serve altro. Se non hai questo non avrai nulla. Tutto il resto è effimero». Lo ammetto, sento un brivido lungo la schiena che sa di condivisione, complicità e comprensione. Di comunione, anche, nonostante le donne così coraggiose, indomabili e libere mi abbiano sempre incusso un leggero timore. O meglio, un gigantesco timore. Improvvisamente vorrei passeggiare ma mi sento come incollata alla sedia, incollata ai suoi occhi, incollata al suono della sua voce, ai suoi pensieri rapidi e rapiti, ai suoi gesti secolari, ai suoi guizzi inattesi. «Sa, signorina», apostrofa orgogliosa, «io scrivo perché non posso fare altrimenti. Non ho altra scelta. Io non medio con il mondo in cui vivo. Non sono mai stata capace di mediare, né con le parole né con i fatti. Neppure con i miei amanti. E ho pagato un prezzo per tutto questo». Gli occhi si inumidiscono e il tono si incrina. Poi continua. «Posso dirle una cosa, sinceramente? Io mi sento una donna estremamente privilegiata, rispetto a tutte le altre. Ho conosciuto una verità: noi non sappiamo stare senza fare niente. Infatti se io non scrivo pulisco la casa. Però non ha nessun senso che io pulisca la casa. Ma lo faccio perché non so stare senza fare niente, che è il punto debole dell’uomo. Anche lei sente il bisogno di fare sempre qualcosa. Si ricordi, la contemplazione del silenzio non è una cosa che ci appartiene. Ma sappiamo anche che siamo arrivati in questo mondo per fare qualcosa di vero, che di certo non è pulire la casa». Sorrido. Per la prima volta penso che avere la casa sottosopra da settimane abbia un senso più profondo rispetto al semplice disordine cronico. Il rimbalzarsi tra domandare e ascoltare si infittisce, nascosto dietro le quinte di una città che cammina lontano, oltre le mura e i cancelli tanto milanesi da apparire respingenti da un lato e caldamente accoglienti da quello opposto. «È vero che oggi siamo immersi in una confusione in cui tutti parlano e nessuno ascolta?», mi sento domandare come se la voce non fosse la mia ma venisse da un luogo remoto, molto più profondo e indagatore. «Non confondiamo il mondo delle relazioni dialettiche – con i maestri, gli editori, gli amici e i nemici – con il problema dell’ego e del narcisismo. Oggi i soggetti vivono parlando delle banalità del loro essere, con un ego talmente grande che li soffoca, mostrando come senza una propria definizione identitaria si finisca per cercare di mostrarsi continuamente come un altro individuo diverso dal sé». Ogni parola si trasforma in germoglio di pensiero, coltivato da una delle più grandi menti femminili dell’ultimo secolo. O degli ultimi secoli. Sementi lanciate sulla terra grassa, come le questioni poste non perché se ne debba trovare una risposta, bensì perché si possa godere del dubbio e del ragionamento, nella stessa maniera in cui Rainer Maria Rilke invocava all’amore per le domande affinché forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta. «Cos’è il desiderio?», chiedo a bruciapelo, pur consapevole di quanto venire interrotta la rendesse nervosa. Di domande ne avrei avute altre mille e non so giustificare il perché quella sia sorta così spontanea e pronta a raccogliere ogni granello di saggezza che la preziosa fonte avrebbe spillato. Cos’è il desiderio? Lei accende contemporaneamente una nuova sigaretta e uno sguardo rinnovato, come incipit di una riposta tanto tattile quanto esistenziale. «Il corpo è come un bambino, signorina, un bambino che continua a fare richieste. Richieste di cibo, di attenzioni, di gratificazioni sessuali, di protezione dai pericoli e dalle intemperie. Il corpo ci parla di fame, di freddo e di sesso. E come un bambino capriccioso va sempre assistito e accudito. Però il corpo sa di avere una scadenza e pretende ogni cura possibile prima di essere abbandonato. Ammettiamolo, è una grande trappola, questo nostro agglomerato di carne e di ossa, che non ci permette nemmeno di volare ma solamente di ciondolare sulla terra come le altre bestie. Io ne farei anche a meno, sa, ma lo ammetta con me, guardi che bella pelle che ho, nonostante l’età. Guardi che pelle liscia…». Per ore mi sono lasciata affascinare dagli strappi ironici di Alda Merini, capaci di portarmi verso mondi sempre diversi, saltando ponti di connessioni vivaci e sorvolando le profondità umane della disperazione. Il rispetto per l’assolutismo relazionale – se così davvero si può definire – e l’amore per un’intima spiritualità sono stati gli ultimi due doni che mi ha fatto prima di congedarsi; due presenti di cui ora mi sento debitrice. «Sono sempre stata una donna generosa», afferma avviandosi alla conclusione, «ma non ho mai sopportato che mi toccassero le mie cose, le mie amicizie o le mie relazioni. Le ho sempre vissute a modo mio, con il mio modo di vedere e di pensare. Non accetto la moltitudine se associata alle amicizie perché io sono per il singolo, per l’individuo, come ho già detto. Per me la tua individualità è fondamentale. A prescindere che tu sia uomo o donna, marito o moglie, vedova o suocero, figlia o nipote. Esisti tu. E non sopporto che l’idea della famiglia diventi il territorio per giustificare qualsiasi tipo di egoismo. Se qualcuno viene da me e mi dice “eh ma mio marito…” o “eh ma mia moglie…” allora lo caccio a casa. Lo allontano. Lo dico da donna a donna, che differenza possiamo fare se poi siamo proprio noi a relegare la nostra condizione ad una azione o ad un titolo? Senza libertà. Mogli, figlie, divorziate, vedove… Non ci siamo, qualcosa non funziona».
Si muove innervosita sulla seggiola da giardino, come irritata al solo pensiero di una tale sconfitta per il genere femminile. Si muove innervosita sulla seggiola da giardino, al pensiero di tutte le relazioni svanite nelle ombre del tempo a causa di compromessi e false giustificazioni altrui, lontane dall’assolutismo relazionale ed emotivo di cui lei era gran direttrice d’orchestra. Poi ride, come riportata al mondo da un dettaglio improvviso, da una luce inaspettata composta da minuscole sensazioni invisibili. «Io voglio galleggiare, sa», mi confessa, gli occhi negli occhi, «senza accettare i compromessi e le vie di mezzo, i narcisisti e gli egocentrici. Voglio galleggiare nella mia leggerezza e allegria, senza dover trovare un accordo con il soffocamento altrui. Voglio galleggiare nella mia spiritualità, che non è quella della Chiesa e delle messe a cui arrivo sempre in ritardo. È la spiritualità alta dell’animo che, nei suoi vortici di disperazione, mi porta a vivere tante vite in una, come se fossi disposta a morire ogni giorno, tutti i giorni. Come in un processo cellulare dell’animo che ha bisogno di perire per rinascere, provando il vero amore per lo spirito. Capisce?». Capisco. Ma non parlo. Non rispondo. Non faccio cenno. Non muovo ciglio perché lei si è già alzata e sta già riprendendo la via di casa. Senza salutare, lasciando alle spalle una scia di profumo che finora non avevo sentito. Capisco?, mi chiedo. Forse. Di certo so che tra l’orrido e il sublime, Alda Merini sapeva cantare.
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