MATTATOIO N. 5 – Introduzione di Vincenzo Mantovani
Kurt Vonnegut Jr.
Mattatoio N.5 o la crociata dei bambini. (Danza obbligata, con la morte).
Titolo dell’opera originale “Slaughterhouse-Five or The Children’s Crusade”.
1970 Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Titolo dell’opera originale “Slaughterhouse-Five or The Children’s Crusade”.
1970 Arnoldo Mondadori Editore, Milano
Introduzione di Vincenzo Mantovani.
Nel febbraio del 1945 la sconfitta tedesca era sicura. Le truppe sovietiche si trovavano a 150 chilometri da Dresda, e i treni che venivano dalla Slesia e dalle altre regioni orientali scaricavano sui marciapiedi una folla di profughi.
Da un mese la città era praticamente indifesa. Finti cannoni di legno avevano sostituito le batterie della contraerea. Quelli veri erano in viaggio per il fronte, dove avrebbero dovuto cercare, sparando ad alto zero, di perforare le spesse corazze dei carri armati del maresciallo Koniev. Dresda non era una ‘città aperta’, come si è tanto spesso erroneamente sostenuto, Alcuni dei suoi obiettivi avevano, anzi, una certa importanza militare. Eppure, per ragioni che non sono state mai chiarite, fino a quel momento la città non era stata presa di mira dai bombardieri alleati. Anche per questo la sua popolazione era cresciuta, in seguito all’afflusso dei profughi, mentre una strana normalità caratterizzava la sua vita. Cinema, teatri e ristoranti erano aperti. Tutti parevano nutrire la bizzarra convinzione che ‘la Firenze dell’Elba’ sarebbe giunta intatta alla fine della guerra.
‘Il 13 febbraio 1945’, leggiamo in un’intervista raccolta dopo la guerra da Enzo Biagi parlando con Walter Graf, un cameriere dell’Hotel Astoria, ‘era il martedì grasso, l’ultimo giorno di carnevale. Molti bambini erano in costume, all’Opera rappresentavano, mi pare, “Il cavaliere della rosa”, e le signore si erano messe in ghingheri. Io ero autista della protezione antiaerea, e a quarantasei anni ne avevo viste tante, ma quello che accadde quella notte me lo porterò dietro per sempre.’
Il 13 febbraio 1945 è cominciata, sul fronte della Vistola, la tanto attesa offensiva sovietica. I russi hanno ripreso l’avanzata senza chiedere, in quel settore, l’appoggio dell’aviazione alleata. A Mosca, quindi, nulla si sa dell’ordine che Winston Churchill sta per impartire al comando bombardieri, Sulle piste d’Inghilterra sono pronti a entrare in azione 6000 aviatori e 1400 apparecchi. Prima della missione si è spiegato agli equipaggi che nel centro della città tedesca sorgono fabbriche di gas venefici e di munizioni, e che vi si trova il comando della Gestapo. Nei “briefing” tenutisi in altre basi aeree si sottolinea l’importanza della gloriosa capitale degli antichi sovrani di Sassonia come nodo ferroviario, decisivo per i rifornimenti tedeschi al fronte orientale. Nessuno dice che Dresda è una delle più belle città del mondo.
Le sirene suonarono una volta sola, poco dopo le 22,10. Il cielo era coperto, la gente usciva dai locali pubblici. Al Circo Sarassini era cominciato il gran finale: i clown sfilavano in groppa agli asini e il pubblico, divertito, applaudiva. Pochi minuti dopo caddero i primi bengala colorati, rischiarando le zone da colpire. La gente stava ancora ammassandosi nei rifugi, in quella luce cruda e abbacinante, quando si udirono le prime esplosioni.
La notte fra il 13 e il 14 febbraio 1945 quasi ottocento Lancaster della Raf attaccano Dresda in due ondate successive. I caccia notturni tedeschi che decollano per contrastare il più grande attacco aereo mai sferrato contro la Germania sono 27 in tutto il territorio del Reich, e l’unico apparecchio che solca il cielo di Dresda non è nemmeno un caccia mi un semplice corriere del comando supremo dell’esercito che sta portando a Berlino il capo di stato maggiore generale von Xylander. Sarà inghiottita, quell’ala solitaria, dalle fiamme che divampano sopra la città. I Lancaster della Raf hanno infatti rovesciato su Dresda, oltre a migliaia di bombe dirompenti, quasi 650000 spezzoni incendiari, per un totale di 2659 tonnellate, che provocano un uragano di fuoco simile a quello che, due anni prima, aveva distrutto Amburgo.
‘Gettai distrattamente un’occhiata sotto di me mentre cadevano le bombe’, racconterà un aviere britannico, ‘e mi si presentò l’orribile spettacolo di una città che ardeva da un capo all’altro. Quando il vento spazzava via le nuvole di fumo Dresda, illuminata a giorno, sembrava un modellino di se stessa, da cui salivano vampate di calore fino alla carlinga del mio aereo. Nel cielo, che si era tutto colorato di rosso, le luci di bordo ammiccavano sbiadite, come in un tramonto autunnale, e gli incendi continuavano a vedersi a più di trecento chilometri di distanza.’
Si devastano così in una sola notte oltre venti chilometri quadrati di edifici. Per avere un’idea di quello che significa, basti pensare che in tutta la guerra i tedeschi, anche con l’ausilio delle V-2, non riuscirono a distruggere completamente nemmeno due chilometri quadrati e mezzo di Londra.
‘Andai a cercare mio padre, che abitava vicino alla stazione’, ricorda ancora Graf nell’intervista citata, ‘e la sua casa non era stata toccata. Lo trovai in cantina, era solo. Non furono molto danneggiate le ferrovie, e nemmeno le fabbriche. Lo aiutai a scappare in campagna. Tutti correvano verso l’Elba, per sfuggire al fumo e agli incendi, quando arrivò la seconda ondata. Fu allora che vennero colpiti i treni che i ferrovieri avevano riportato sotto le pensiline dopo averli allontanati in occasione del primo attacco. Fuggirono le belve dallo zoo e quelle dei Circo Sarassini. I cavalli erano impazziti, Vidi un cammello che correva verso il fiume, le scimmie strillavano, c’erano dei bambini in costume da Pierrot e delle donne in abito da sera, tutti morti.’
‘Insignificanti i danni prettamente militari’, informa alla fine del bombardamento il comandante la difesa del settore, generale Reinhardt. E conclude: ‘Si manifestano ovviamente transitorie difficoltà nelle comunicazioni telefoniche e interruzioni nel traffico ferroviario’.
Il giorno dopo, verso mezzodì, più di trecento fortezze volanti americane B-17 sganciavano sulla città in fiamme altre 771 tonnellate di bombe, mentre i Mustang P-51 di scorta mitragliavano le strade e la gente che cercava di fuggire. Il campo d’aviazione di Dresda-Klotzsche si salvò ancora una volta, e quasi indenni rimasero i giganteschi depositi di materiale bellico e le grandi caserme che sorgevano tra le piste e le città, cioè proprio gli obiettivi militari che gli Alleati avrebbero dovuto distruggere se avessero realmente voluto dare una mano ai russi.
Il 15 febbraio 1945, nella terza incursione consecutiva, oltre duecento B-17 americani ricompaiono nel cielo della città, rovesciando sulle case ancora in piedi altre 461 tonnellate di bombe. Racconta Walter Graf: ‘La terza ondata completò il disastro. Arrivarono, su Dresda senza che ci fosse alcuna reazione. Alle quattro del mattino, finalmente, cominciò a cadere la pioggia, mescolata al nevischio, ed erano gocce nere, pesanti, sporche di cenere. E cominciarono a imperversare gli sciacalli: vennero fucilati un prigioniero inglese che aveva rubato un prosciutto e uno spalatore che aveva riempito un sacchetto con quasi duecento vere nuziali’.
Militarmente – dicono le storie della seconda guerra mondiale – il raid fu un successo: le perdite alleate si aggirarono intorno allo 0,50 per cento, mentre l’obiettivo fu ridotto un mucchio di rovine. Nella città gremita di profughi il numero dei morti si rivelò difficilissimo da accertare. Ancor oggi si fanno delle cifre che sono assai lontane le une dalle altre. Secondo l’ex-borgomastro di Dresda Walter Weidauer, che sulla vicenda ha scritto un libro, le vittime sarebbero 35000. L’ufficio statistico federale di Wiesbaden porta questo numero a 60000. Altre stime parlano di 245000 morti. La cifra comunemente accettata è oggi quella di 135000, fornita dal capo della polizia di Dresda. Certo è che le incursioni non affrettarono in alcun modo l’avanzata delle armate sovietiche e non abbreviarono la durata del conflitto. Altrettanto sicuro è che il bombardamento e la distruzione di Dresda suscitarono, dopo la guerra, infinite polemiche. Forse proprio per non soffiare sul fuoco di queste polemiche gli Alleati mantennero lungamente il segreto sui particolari di un’azione militare che a molti apparve più inutilmente sanguinosa delle atomiche sganciate sul Giappone.
Come disse Weidauer a Biagi: ‘La gente non può dimenticare. Ce l’hanno con gli inglesi e con gli americani, non riescono a capire quella strage. Fu un gesto di crudeltà o di follia’.
Da un mese la città era praticamente indifesa. Finti cannoni di legno avevano sostituito le batterie della contraerea. Quelli veri erano in viaggio per il fronte, dove avrebbero dovuto cercare, sparando ad alto zero, di perforare le spesse corazze dei carri armati del maresciallo Koniev. Dresda non era una ‘città aperta’, come si è tanto spesso erroneamente sostenuto, Alcuni dei suoi obiettivi avevano, anzi, una certa importanza militare. Eppure, per ragioni che non sono state mai chiarite, fino a quel momento la città non era stata presa di mira dai bombardieri alleati. Anche per questo la sua popolazione era cresciuta, in seguito all’afflusso dei profughi, mentre una strana normalità caratterizzava la sua vita. Cinema, teatri e ristoranti erano aperti. Tutti parevano nutrire la bizzarra convinzione che ‘la Firenze dell’Elba’ sarebbe giunta intatta alla fine della guerra.
‘Il 13 febbraio 1945’, leggiamo in un’intervista raccolta dopo la guerra da Enzo Biagi parlando con Walter Graf, un cameriere dell’Hotel Astoria, ‘era il martedì grasso, l’ultimo giorno di carnevale. Molti bambini erano in costume, all’Opera rappresentavano, mi pare, “Il cavaliere della rosa”, e le signore si erano messe in ghingheri. Io ero autista della protezione antiaerea, e a quarantasei anni ne avevo viste tante, ma quello che accadde quella notte me lo porterò dietro per sempre.’
Il 13 febbraio 1945 è cominciata, sul fronte della Vistola, la tanto attesa offensiva sovietica. I russi hanno ripreso l’avanzata senza chiedere, in quel settore, l’appoggio dell’aviazione alleata. A Mosca, quindi, nulla si sa dell’ordine che Winston Churchill sta per impartire al comando bombardieri, Sulle piste d’Inghilterra sono pronti a entrare in azione 6000 aviatori e 1400 apparecchi. Prima della missione si è spiegato agli equipaggi che nel centro della città tedesca sorgono fabbriche di gas venefici e di munizioni, e che vi si trova il comando della Gestapo. Nei “briefing” tenutisi in altre basi aeree si sottolinea l’importanza della gloriosa capitale degli antichi sovrani di Sassonia come nodo ferroviario, decisivo per i rifornimenti tedeschi al fronte orientale. Nessuno dice che Dresda è una delle più belle città del mondo.
Le sirene suonarono una volta sola, poco dopo le 22,10. Il cielo era coperto, la gente usciva dai locali pubblici. Al Circo Sarassini era cominciato il gran finale: i clown sfilavano in groppa agli asini e il pubblico, divertito, applaudiva. Pochi minuti dopo caddero i primi bengala colorati, rischiarando le zone da colpire. La gente stava ancora ammassandosi nei rifugi, in quella luce cruda e abbacinante, quando si udirono le prime esplosioni.
La notte fra il 13 e il 14 febbraio 1945 quasi ottocento Lancaster della Raf attaccano Dresda in due ondate successive. I caccia notturni tedeschi che decollano per contrastare il più grande attacco aereo mai sferrato contro la Germania sono 27 in tutto il territorio del Reich, e l’unico apparecchio che solca il cielo di Dresda non è nemmeno un caccia mi un semplice corriere del comando supremo dell’esercito che sta portando a Berlino il capo di stato maggiore generale von Xylander. Sarà inghiottita, quell’ala solitaria, dalle fiamme che divampano sopra la città. I Lancaster della Raf hanno infatti rovesciato su Dresda, oltre a migliaia di bombe dirompenti, quasi 650000 spezzoni incendiari, per un totale di 2659 tonnellate, che provocano un uragano di fuoco simile a quello che, due anni prima, aveva distrutto Amburgo.
‘Gettai distrattamente un’occhiata sotto di me mentre cadevano le bombe’, racconterà un aviere britannico, ‘e mi si presentò l’orribile spettacolo di una città che ardeva da un capo all’altro. Quando il vento spazzava via le nuvole di fumo Dresda, illuminata a giorno, sembrava un modellino di se stessa, da cui salivano vampate di calore fino alla carlinga del mio aereo. Nel cielo, che si era tutto colorato di rosso, le luci di bordo ammiccavano sbiadite, come in un tramonto autunnale, e gli incendi continuavano a vedersi a più di trecento chilometri di distanza.’
Si devastano così in una sola notte oltre venti chilometri quadrati di edifici. Per avere un’idea di quello che significa, basti pensare che in tutta la guerra i tedeschi, anche con l’ausilio delle V-2, non riuscirono a distruggere completamente nemmeno due chilometri quadrati e mezzo di Londra.
‘Andai a cercare mio padre, che abitava vicino alla stazione’, ricorda ancora Graf nell’intervista citata, ‘e la sua casa non era stata toccata. Lo trovai in cantina, era solo. Non furono molto danneggiate le ferrovie, e nemmeno le fabbriche. Lo aiutai a scappare in campagna. Tutti correvano verso l’Elba, per sfuggire al fumo e agli incendi, quando arrivò la seconda ondata. Fu allora che vennero colpiti i treni che i ferrovieri avevano riportato sotto le pensiline dopo averli allontanati in occasione del primo attacco. Fuggirono le belve dallo zoo e quelle dei Circo Sarassini. I cavalli erano impazziti, Vidi un cammello che correva verso il fiume, le scimmie strillavano, c’erano dei bambini in costume da Pierrot e delle donne in abito da sera, tutti morti.’
‘Insignificanti i danni prettamente militari’, informa alla fine del bombardamento il comandante la difesa del settore, generale Reinhardt. E conclude: ‘Si manifestano ovviamente transitorie difficoltà nelle comunicazioni telefoniche e interruzioni nel traffico ferroviario’.
Il giorno dopo, verso mezzodì, più di trecento fortezze volanti americane B-17 sganciavano sulla città in fiamme altre 771 tonnellate di bombe, mentre i Mustang P-51 di scorta mitragliavano le strade e la gente che cercava di fuggire. Il campo d’aviazione di Dresda-Klotzsche si salvò ancora una volta, e quasi indenni rimasero i giganteschi depositi di materiale bellico e le grandi caserme che sorgevano tra le piste e le città, cioè proprio gli obiettivi militari che gli Alleati avrebbero dovuto distruggere se avessero realmente voluto dare una mano ai russi.
Il 15 febbraio 1945, nella terza incursione consecutiva, oltre duecento B-17 americani ricompaiono nel cielo della città, rovesciando sulle case ancora in piedi altre 461 tonnellate di bombe. Racconta Walter Graf: ‘La terza ondata completò il disastro. Arrivarono, su Dresda senza che ci fosse alcuna reazione. Alle quattro del mattino, finalmente, cominciò a cadere la pioggia, mescolata al nevischio, ed erano gocce nere, pesanti, sporche di cenere. E cominciarono a imperversare gli sciacalli: vennero fucilati un prigioniero inglese che aveva rubato un prosciutto e uno spalatore che aveva riempito un sacchetto con quasi duecento vere nuziali’.
Militarmente – dicono le storie della seconda guerra mondiale – il raid fu un successo: le perdite alleate si aggirarono intorno allo 0,50 per cento, mentre l’obiettivo fu ridotto un mucchio di rovine. Nella città gremita di profughi il numero dei morti si rivelò difficilissimo da accertare. Ancor oggi si fanno delle cifre che sono assai lontane le une dalle altre. Secondo l’ex-borgomastro di Dresda Walter Weidauer, che sulla vicenda ha scritto un libro, le vittime sarebbero 35000. L’ufficio statistico federale di Wiesbaden porta questo numero a 60000. Altre stime parlano di 245000 morti. La cifra comunemente accettata è oggi quella di 135000, fornita dal capo della polizia di Dresda. Certo è che le incursioni non affrettarono in alcun modo l’avanzata delle armate sovietiche e non abbreviarono la durata del conflitto. Altrettanto sicuro è che il bombardamento e la distruzione di Dresda suscitarono, dopo la guerra, infinite polemiche. Forse proprio per non soffiare sul fuoco di queste polemiche gli Alleati mantennero lungamente il segreto sui particolari di un’azione militare che a molti apparve più inutilmente sanguinosa delle atomiche sganciate sul Giappone.
Come disse Weidauer a Biagi: ‘La gente non può dimenticare. Ce l’hanno con gli inglesi e con gli americani, non riescono a capire quella strage. Fu un gesto di crudeltà o di follia’.
‘Di poi, nel mese, di agosto, nel giorno di sabato, ottavo delle calende di settembre (cioè il 25 agosto), entrò nella città di Genova un certo fanciullo teutonico, di nome Nicolao, a cagione di peregrinazione, e con esso una moltitudine grandissima di pellegrini che portavano croci, bordoni e scarselle, oltre settemila tra uomini e donne e fanciulli e fanciulle, a giudizio di uomo di senno; e nel dì seguente, di domenica, uscirono dalla città; ma molti uomini e donne e fanciulli e fanciulle di quel numero rimasero in Genova.’
Così Ogerio Pane, nei suoi annali genovesi, ricorda l’arrivo a Genova di una delle due colonne in cui si era divisa la crociata tedesca dei bambini. L’avvenimento trova conferma nella cronaca di Jacopo da Varagine (Varazze) il quale, descrivendo i seguaci del bambino da lui chiamato Nicholaus, precisa: ‘(…) e dicevano che il mare si sarebbe dovuto prosciugare presso Genova e che essi dovevano proseguire per Gerusalemme. Molti tra di essi erano figli di nobili i quali avevano mandato le loro nutrici ad accompagnarli. Piacque ai genovesi che abbandonassero la città, o perché ritenevano che il loro capo fosse mosso più da leggerezza che da verità, o perché temevano che la loro presenza potesse causare una carestia nella città, o perché temevano che un così gran numero di persone potesse rappresentare un pericolo. Dopo poco tempo tutto l’affare finì in niente, poiché su niente era fondato’.
Correva, come dicevano i nostri nonni, l’anno 1212. Quei bambini, scherniti dalla maggior parte dei cronisti del tempo, venivano da lontano, dalla Renania e da altre regioni, donde erano partiti nella prima metà di luglio. Il loro capo, Nikolaus, sosteneva di aver ricevuto la visita di un angelo che gli aveva affidato la missione di ‘liberare il Sepolcro del Signore dalle mani degli iniqui e perfidi saraceni’. Ardenti di fede ma ignoranti della geografia, Nikolaus e i suoi seguaci (oltre ventimila bambini tra gli otto e i quattordici anni) invece di puntare sui Balcani si diressero verso le Alpi dividendosi in tre gruppi, uno dei quali fu respinto a Tarvisio da emissari del pontefice mentre gli altri due, molto assottigliati dalla fame e dalle malattie, si spinsero fino a Genova e a Brindisi.
A Genova il mare non si aprì, come aveva promesso Nikolaus, e bambini dovettero fare marcia indietro. Solo ad alcuni fu permesso di restare. Secondo uno storico tedesco, essi divennero gli antenati di alcune nobili famiglie genovesi tra le quali, per esempio, i Vivaldi. Altri presero il mare su due navi e, traditi dagli equipaggi, furono probabilmente venduti agli arabi come schiavi. Quelli arrivati a Brindisi con una marcia estenuante di oltre duemila chilometri attraverso una penisola inaridita da una tremenda siccità vi ricevettero la stessa accoglienza tributata dai genovesi ai loro infelici compagni. Contrario a quell’impresa ‘frivola e vana’, e fors’anche ispirata dal demonio. Innocenzo Terzo incaricò i suoi vescovi di sbarrare la strada ai piccoli crociati. ‘E così’, narra un altro cronista medievale, ‘ingannati e confusi, essi cominciarono a fare ritorno; e coloro che prima erano soliti attraversare le terre in gruppi ordinati e mai senza cantare, ora che facevano ritorno a uno a uno e in silenzio, scalzi e affamati, venivano irrisi da tutti perché molte vergini erano state stuprate e avevano perso il fiore della pudicizia’.
Questa fu la triste fine della crociata dei bambini tedeschi. Ma alla corsa al Santo Sepolcro, in quello stesso 1212, partecipò una seconda ondata di bambini. Anche Etienne, il piccolo pastore che guidò la crociata dei bambini francesi, sosteneva di avere una missione da compiere: dare al re di Francia le lettere che, nascosto sotto il mantello di un pellegrino, il Signore gli aveva consegnato. Con quindici o trentamila pastori della sua età (più un codazzo di serve, mendicanti, prostitute e persino madri di famiglia con i lattanti attaccati al seno), Etienne raggiunse Parigi, dove il re gli ordinò di interrompere la crociata. E questa, secondo alcuni storici, fu la fine dell’intera vicenda. Altri sono di diverso avviso, e secondo loro chi più si avvicina alla verità, narrando il seguito della storia, è Alberico delle tre Fontane, un altro cronista del tredicesimo secolo. Questo Alberico riferisce che i bambini non obbedirono all’ordine del re, ma continuarono il viaggio fino a Marsiglia, con l’intenzione di attraversare il mare per raggiungere la Terrasanta e liberare il Sepolcro di Nostro Signore.
Nel porto francese, però, ebbero la sfortuna di imbattersi in due armatori Ugo Ferro e Guglielmo Porco, che con la promessa di fargli fare il viaggio gratis stivarono di bambini sette grandi navi e corsero a venderli come schiavi (tutti meno quelli periti nel naufragio di due dei sette vascelli) ai saraceni. Il fatto più curioso di questa cronaca medievale, e che le conferisce un certo sapore di verità, è che sia Ferro (Hugues Fer, in provenzale) sia Porco sono due personaggi realmente esistiti. Il secondo non era marsigliese, come scrive Alberico, bensì genovese: noto capitano di mare, membro dell’aristocrazia e, successivamente, ammiraglio del regno di Sicilia per conto di Federico Secondo.
Corrado Pallenberg fa notare, nel suo libro sulla crociata dei bambini, che Guglielmo Porco era di casa alla corte del sultano e che probabilmente faceva il doppio gioco. Scrive infatti un cronista arabo intorno al 1210: ‘Arrivò Guglielmo il mercante genovese, che Allah lo maledica; egli offrì dei regali al sultano e si studiò di entrare in favore presso di lui. Il sultano lo prese a benvolere; persino lo portava seco dovunque egli andasse: e il maledetto indagava pian pianino le condizioni dei musulmani e le scriveva ai franchi (cioè agli europei)’. Il genovese (sempre che fosse proprio Guglielmo Porco) era dunque probabilmente una spia, oltre che un capitano di nave e un mercante di schiavi: tre attività alle quali non era affatto insolito che allora si dedicasse chi andava per mare.
Chi è convinto che al termine di una storia il bene debba trionfare e il male essere punito sarà lieto di apprendere che anche Guglielmo Porco, come i bambini che aveva ingannato, fece una brutta fine. Caduto in disgrazia presso Federico Secondo quando l’imperatore fu abbastanza forte da non aver più bisogno dell’aiuto dei genovesi (e per questo li cacciò da Siracusa confiscando i loro fondaci a Palermo, Messina e Trapani), l’ex-ammiraglio riuscì a fuggire e a unirsi agli arabi in rivolta sulle montagne della Sicilia. Quella specie di guerriglia durò poco, e nel 1222 Guglielmo Porco saliva sul patibolo col suo degno compare Ugo Ferro e con i capi arabi della rivolta. Potrà essere di qualche conforto sapere che in quel momento, almeno secondo Alberico, circa settecento dei bambini venduti dal mercante come schiavi, e diventati ormai uomini fatti, vivevano, ‘ben trattati’ dai tolleranti musulmani, ad Alessandria d’Egitto.
Così Ogerio Pane, nei suoi annali genovesi, ricorda l’arrivo a Genova di una delle due colonne in cui si era divisa la crociata tedesca dei bambini. L’avvenimento trova conferma nella cronaca di Jacopo da Varagine (Varazze) il quale, descrivendo i seguaci del bambino da lui chiamato Nicholaus, precisa: ‘(…) e dicevano che il mare si sarebbe dovuto prosciugare presso Genova e che essi dovevano proseguire per Gerusalemme. Molti tra di essi erano figli di nobili i quali avevano mandato le loro nutrici ad accompagnarli. Piacque ai genovesi che abbandonassero la città, o perché ritenevano che il loro capo fosse mosso più da leggerezza che da verità, o perché temevano che la loro presenza potesse causare una carestia nella città, o perché temevano che un così gran numero di persone potesse rappresentare un pericolo. Dopo poco tempo tutto l’affare finì in niente, poiché su niente era fondato’.
Correva, come dicevano i nostri nonni, l’anno 1212. Quei bambini, scherniti dalla maggior parte dei cronisti del tempo, venivano da lontano, dalla Renania e da altre regioni, donde erano partiti nella prima metà di luglio. Il loro capo, Nikolaus, sosteneva di aver ricevuto la visita di un angelo che gli aveva affidato la missione di ‘liberare il Sepolcro del Signore dalle mani degli iniqui e perfidi saraceni’. Ardenti di fede ma ignoranti della geografia, Nikolaus e i suoi seguaci (oltre ventimila bambini tra gli otto e i quattordici anni) invece di puntare sui Balcani si diressero verso le Alpi dividendosi in tre gruppi, uno dei quali fu respinto a Tarvisio da emissari del pontefice mentre gli altri due, molto assottigliati dalla fame e dalle malattie, si spinsero fino a Genova e a Brindisi.
A Genova il mare non si aprì, come aveva promesso Nikolaus, e bambini dovettero fare marcia indietro. Solo ad alcuni fu permesso di restare. Secondo uno storico tedesco, essi divennero gli antenati di alcune nobili famiglie genovesi tra le quali, per esempio, i Vivaldi. Altri presero il mare su due navi e, traditi dagli equipaggi, furono probabilmente venduti agli arabi come schiavi. Quelli arrivati a Brindisi con una marcia estenuante di oltre duemila chilometri attraverso una penisola inaridita da una tremenda siccità vi ricevettero la stessa accoglienza tributata dai genovesi ai loro infelici compagni. Contrario a quell’impresa ‘frivola e vana’, e fors’anche ispirata dal demonio. Innocenzo Terzo incaricò i suoi vescovi di sbarrare la strada ai piccoli crociati. ‘E così’, narra un altro cronista medievale, ‘ingannati e confusi, essi cominciarono a fare ritorno; e coloro che prima erano soliti attraversare le terre in gruppi ordinati e mai senza cantare, ora che facevano ritorno a uno a uno e in silenzio, scalzi e affamati, venivano irrisi da tutti perché molte vergini erano state stuprate e avevano perso il fiore della pudicizia’.
Questa fu la triste fine della crociata dei bambini tedeschi. Ma alla corsa al Santo Sepolcro, in quello stesso 1212, partecipò una seconda ondata di bambini. Anche Etienne, il piccolo pastore che guidò la crociata dei bambini francesi, sosteneva di avere una missione da compiere: dare al re di Francia le lettere che, nascosto sotto il mantello di un pellegrino, il Signore gli aveva consegnato. Con quindici o trentamila pastori della sua età (più un codazzo di serve, mendicanti, prostitute e persino madri di famiglia con i lattanti attaccati al seno), Etienne raggiunse Parigi, dove il re gli ordinò di interrompere la crociata. E questa, secondo alcuni storici, fu la fine dell’intera vicenda. Altri sono di diverso avviso, e secondo loro chi più si avvicina alla verità, narrando il seguito della storia, è Alberico delle tre Fontane, un altro cronista del tredicesimo secolo. Questo Alberico riferisce che i bambini non obbedirono all’ordine del re, ma continuarono il viaggio fino a Marsiglia, con l’intenzione di attraversare il mare per raggiungere la Terrasanta e liberare il Sepolcro di Nostro Signore.
Nel porto francese, però, ebbero la sfortuna di imbattersi in due armatori Ugo Ferro e Guglielmo Porco, che con la promessa di fargli fare il viaggio gratis stivarono di bambini sette grandi navi e corsero a venderli come schiavi (tutti meno quelli periti nel naufragio di due dei sette vascelli) ai saraceni. Il fatto più curioso di questa cronaca medievale, e che le conferisce un certo sapore di verità, è che sia Ferro (Hugues Fer, in provenzale) sia Porco sono due personaggi realmente esistiti. Il secondo non era marsigliese, come scrive Alberico, bensì genovese: noto capitano di mare, membro dell’aristocrazia e, successivamente, ammiraglio del regno di Sicilia per conto di Federico Secondo.
Corrado Pallenberg fa notare, nel suo libro sulla crociata dei bambini, che Guglielmo Porco era di casa alla corte del sultano e che probabilmente faceva il doppio gioco. Scrive infatti un cronista arabo intorno al 1210: ‘Arrivò Guglielmo il mercante genovese, che Allah lo maledica; egli offrì dei regali al sultano e si studiò di entrare in favore presso di lui. Il sultano lo prese a benvolere; persino lo portava seco dovunque egli andasse: e il maledetto indagava pian pianino le condizioni dei musulmani e le scriveva ai franchi (cioè agli europei)’. Il genovese (sempre che fosse proprio Guglielmo Porco) era dunque probabilmente una spia, oltre che un capitano di nave e un mercante di schiavi: tre attività alle quali non era affatto insolito che allora si dedicasse chi andava per mare.
Chi è convinto che al termine di una storia il bene debba trionfare e il male essere punito sarà lieto di apprendere che anche Guglielmo Porco, come i bambini che aveva ingannato, fece una brutta fine. Caduto in disgrazia presso Federico Secondo quando l’imperatore fu abbastanza forte da non aver più bisogno dell’aiuto dei genovesi (e per questo li cacciò da Siracusa confiscando i loro fondaci a Palermo, Messina e Trapani), l’ex-ammiraglio riuscì a fuggire e a unirsi agli arabi in rivolta sulle montagne della Sicilia. Quella specie di guerriglia durò poco, e nel 1222 Guglielmo Porco saliva sul patibolo col suo degno compare Ugo Ferro e con i capi arabi della rivolta. Potrà essere di qualche conforto sapere che in quel momento, almeno secondo Alberico, circa settecento dei bambini venduti dal mercante come schiavi, e diventati ormai uomini fatti, vivevano, ‘ben trattati’ dai tolleranti musulmani, ad Alessandria d’Egitto.
A questi due fatti storici, così lontani e diversi tra loro, si ispira il libro che vi presentiamo. Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini, pubblicato negli Stati Uniti nel 1969 e in Italia l’anno seguente, era il sesto romanzo di un autore che, pur scrivendo ininterrottamente da una ventina d’anni e contando tra i suoi ammiratori personalità come Conrad Aiken, Nelson Algren, Jules Feiffer e Graham Greene, non era ancora riuscito a farsi prendere sul serio dalla critica.
Colpa sua. Vonnegut, infatti, aveva il torto di venire dalla gavetta. Si era fatto le ossa macinando parole per il miglior offerente. Non scriveva per vocazione, ma per mestiere. Un mestiere che aveva abbracciato a ventotto anni, nel 1950, solo perché si era visto offrire dal direttore di Collier’s, per il primo dei racconti che pubblicò, una somma pari a sei mesi dello stipendio che allora percepiva dalla grande società che lo aveva assunto come addetto stampa tre anni prima, la General Electric.
Da quel momento, lasciata l’orrida Schenectady per gli attraenti dintorni di Cape Cod, Vonnegut mantenne sé e la sua famiglia vendendo racconti alle “slick magazines”, le riviste in carta patinata (Cosmopolitan, tanto per intenderci, e Redbook, MeCall’s, il Ladies’ Home Journal e il Saturday Evening Post che pagavano di più. Non era affatto, come per molto tempo qui in Italia abbiamo creduto noi, uno scrittore di fantascienza. Sì, molti temi propri di questo filone erano presenti nei suoi scritti, ma questo dipendeva solo dal fatto che Vonnegut, all’università, aveva studiato chimica, biologia e più tardi antropologia, e che da queste materie scientifiche, oltre che dalle esperienze fatte nei tre anni di lavoro alla General Electric, ricavava molti dei suoi spunti. Nel suo lavoro non c’era, comunque, proprio nulla di artistico o di bohèmien. Era – dirà poi – come ‘gestire la mensa di una scuola.’
Anche come romanziere, oltre che come “story-teller”, Vonnegut fu, fino al 1969, una specie di clandestino a bordo del grande piroscafo delle lettere americane. Non che fosse ignoto al pubblico, tutt’altro. Nessun editore gli avrebbe mai offerto un contratto, se i suoi libri non si fossero venduti. Ma la strada che aveva imboccato dopo il primo romanzo, quella dei cosiddetti “original paperback” (cioè delle novità pubblicate in edizione tascabile, diremmo noi), con sgargianti copertine a base di mostri metallici e fanciulle discinte, era la peggiore che si potesse scegliere per arrivare fino ai tavoli sovraccarichi dei recensori dei quotidiani e dei settimanali.
Così il mondo dell’editoria ci mostrò un altro dei suoi tanti paradossi. Mentre l’opera prima di Vonnegut (Player Piano, 1952), uscita con tutti i crismi della ‘serietà’ (“hard cover” ed editore dal nome autorevole), pur essendo un disastro commerciale veniva benevolmente accolta dal New Yorker e dalla New Republic, tutti i suoi romanzi successivi, fino a God Bless You, Mr. Rosewater (1965), ottennero un crescente successo di pubblico ma furono, col loro aspetto pittoresco e caduco da libri per edicola di stazione ferroviaria, totalmente ignorati dalla critica. Né The Sirens of Titan (1959), né Mother Night (1962), né Cats Cradle (1963) fecero inarcare un sopracciglio al più scalcagnato dei mille critici letterari americani. Come se non fossero mai usciti.
Solo nel ’66 le acque cominciarono ad agitarsi. Ma Vonnegut, allora, aveva come una spina di pesce nella strozza, che non andava né su né giù. Da anni rimuginava sulla storia che gli era capitata durante la guerra, quando, dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi nel corso della battaglia delle Ardenne (dicembre 1944), era finito a Dresda, all’inizio del ’45, a lavorare in una fabbrica di sciroppo al malto per gestanti, poco prima del bombardamento che avrebbe distrutto la città. Lui, se non era morto nell’incendio, lo doveva solo al fatto di alloggiare in un mattatoio, e di aver atteso la fine delle incursioni in quella specie di bunker sotterraneo dove si conservavano, in tempo di pace, le carni dei maiali macellati. Quelli che sbucarono dalle viscere della terra dopo il bombardamento, per trovare al posto della città tedesca (la più bella che avessero mai visto) una distesa di macerie fumanti, erano soldati come Vonnegut, ragazzi, anzi bambini. E la guerra che avevano combattuto la ‘crociata in Europa’, come la chiamò Eisenhower nelle sue memorie – era una crociata di bambini. Come tutte le guerre, del resto, scatenate da ‘sporchi vecchioni’ e combattute da bambini.
Fu la moglie di un suo vecchio commilitone – Mary O’Hare, alla quale il romanzo è dedicato – a mettergli la pulce nell’orecchio. Nel 1967 Vonnegut era tornato a Dresda con i soldi della Fondazione Guggenheim, aveva visitato la città (‘Somigliava molto a Dayton, nell’Ohio, ma c’erano più spazi vuoti che a Dayton. Nel terreno dovevano esserci tonnellate di ossa umane’) e si era fatto accompagnare da un tassista al mattatoio. Al ritorno negli Stati Uniti, quella specie di spina di pesce che da tanto tempo aveva in gola si era rimessa a tormentarlo. Stava lì da più di vent’anni, senza andare né su né giù, e gli faceva da promemoria, se mai ce ne fosse stato bisogno: il promemoria di un massacro. Su quel massacro al quale era sfuggito per caso Vonnegut aveva meditato spesso, pensando di trarne un libro che lo rendesse famoso, o che almeno gli facesse guadagnare un mucchio di quattrini; in ventitré anni, invece, non aveva scritto nulla di buono, ‘perché non c’è nulla d’intelligente da dire su un massacro.’
Ma quando Bernard, il marito di Mary, lo invitò a fargli una visita, Vonnegut trovò nella casa degli ospiti un’atmosfera meno accogliente del previsto. La moglie dell’amico non sembrava affatto entusiasta del suo progetto di scrivere un libro sul bombardamento di Dresda e sulla guerra. ‘Fingerà che eravate degli uomini’, disse, ‘anziché dei bambini, e poi ne tireranno fuori un film recitato da Frank Sinatra e da John Wayne o da qualcun altro di quegli sporchi vecchioni che vanno pazzi per la guerra. E la guerra sembrerà qualcosa di meraviglioso, e così ne avremo ancora un bel po’. E a combatterle saranno dei bambini…’
Allora Vonnegut comprese. Era la guerra che faceva uscire dai gangheri la moglie del suo amico, Mary O’Hare non voleva che i suoi figli, o i figli di chiunque altro, si facessero ammazzare in guerra. E pensava che le guerre erano almeno in parte incoraggiate dai libri e dai film. Così Vonnegut alzò la mano destra e le promise che, se un giorno avesse finito il libro che intendeva scrivere, non sarebbe stato ‘una cosa da Frank Sinatra o da John Wayne.’ ‘Le dirò una cosa’, aggiunse. ‘Lo intitolerò “La crociata dei bambini”.’
Solo quando avrà scritto Mattatoio n. 5 Vonnegut scoprirà che la spina se n’è andata. Ma allora egli è già l’idolo della contestazione giovanile, che vede in lui un profeta e nei suoi libri (ignorati dagli adulti) altrettanti possibili scenari del futuro. Vent’anni dopo Il giovane Holden, Vonnegut l’ateo, Vonnegut il pacifista, Vonnegut il dimostrante contro la guerra nel Vietnam è diventato il J. D. Salinger degli studenti universitari americani. Mattatoio n. 5, il suo libro più influente (e per molti il suo capolavoro), gli spalanca le porte dell’Olimpo letterario. Commenterà l’autore, caustico e beffardo come sempre, una dozzina di anni dopo: ‘L’atrocità di Dresda, tremendamente costosa e meticolosamente programmata, fu così insensata che solo una persona sull’intero pianeta ne ricavò qualche beneficio. Io sono quella persona. Ho scritto questo libro, che mi ha fatto guadagnare un mucchio di quattrini e che ha fondato la mia reputazione, quale che sia. In un modo o nell’altro, ho preso due o tre dollari per ogni persona uccisa. Bel mestiere il mio, eh?’.
Colpa sua. Vonnegut, infatti, aveva il torto di venire dalla gavetta. Si era fatto le ossa macinando parole per il miglior offerente. Non scriveva per vocazione, ma per mestiere. Un mestiere che aveva abbracciato a ventotto anni, nel 1950, solo perché si era visto offrire dal direttore di Collier’s, per il primo dei racconti che pubblicò, una somma pari a sei mesi dello stipendio che allora percepiva dalla grande società che lo aveva assunto come addetto stampa tre anni prima, la General Electric.
Da quel momento, lasciata l’orrida Schenectady per gli attraenti dintorni di Cape Cod, Vonnegut mantenne sé e la sua famiglia vendendo racconti alle “slick magazines”, le riviste in carta patinata (Cosmopolitan, tanto per intenderci, e Redbook, MeCall’s, il Ladies’ Home Journal e il Saturday Evening Post che pagavano di più. Non era affatto, come per molto tempo qui in Italia abbiamo creduto noi, uno scrittore di fantascienza. Sì, molti temi propri di questo filone erano presenti nei suoi scritti, ma questo dipendeva solo dal fatto che Vonnegut, all’università, aveva studiato chimica, biologia e più tardi antropologia, e che da queste materie scientifiche, oltre che dalle esperienze fatte nei tre anni di lavoro alla General Electric, ricavava molti dei suoi spunti. Nel suo lavoro non c’era, comunque, proprio nulla di artistico o di bohèmien. Era – dirà poi – come ‘gestire la mensa di una scuola.’
Anche come romanziere, oltre che come “story-teller”, Vonnegut fu, fino al 1969, una specie di clandestino a bordo del grande piroscafo delle lettere americane. Non che fosse ignoto al pubblico, tutt’altro. Nessun editore gli avrebbe mai offerto un contratto, se i suoi libri non si fossero venduti. Ma la strada che aveva imboccato dopo il primo romanzo, quella dei cosiddetti “original paperback” (cioè delle novità pubblicate in edizione tascabile, diremmo noi), con sgargianti copertine a base di mostri metallici e fanciulle discinte, era la peggiore che si potesse scegliere per arrivare fino ai tavoli sovraccarichi dei recensori dei quotidiani e dei settimanali.
Così il mondo dell’editoria ci mostrò un altro dei suoi tanti paradossi. Mentre l’opera prima di Vonnegut (Player Piano, 1952), uscita con tutti i crismi della ‘serietà’ (“hard cover” ed editore dal nome autorevole), pur essendo un disastro commerciale veniva benevolmente accolta dal New Yorker e dalla New Republic, tutti i suoi romanzi successivi, fino a God Bless You, Mr. Rosewater (1965), ottennero un crescente successo di pubblico ma furono, col loro aspetto pittoresco e caduco da libri per edicola di stazione ferroviaria, totalmente ignorati dalla critica. Né The Sirens of Titan (1959), né Mother Night (1962), né Cats Cradle (1963) fecero inarcare un sopracciglio al più scalcagnato dei mille critici letterari americani. Come se non fossero mai usciti.
Solo nel ’66 le acque cominciarono ad agitarsi. Ma Vonnegut, allora, aveva come una spina di pesce nella strozza, che non andava né su né giù. Da anni rimuginava sulla storia che gli era capitata durante la guerra, quando, dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi nel corso della battaglia delle Ardenne (dicembre 1944), era finito a Dresda, all’inizio del ’45, a lavorare in una fabbrica di sciroppo al malto per gestanti, poco prima del bombardamento che avrebbe distrutto la città. Lui, se non era morto nell’incendio, lo doveva solo al fatto di alloggiare in un mattatoio, e di aver atteso la fine delle incursioni in quella specie di bunker sotterraneo dove si conservavano, in tempo di pace, le carni dei maiali macellati. Quelli che sbucarono dalle viscere della terra dopo il bombardamento, per trovare al posto della città tedesca (la più bella che avessero mai visto) una distesa di macerie fumanti, erano soldati come Vonnegut, ragazzi, anzi bambini. E la guerra che avevano combattuto la ‘crociata in Europa’, come la chiamò Eisenhower nelle sue memorie – era una crociata di bambini. Come tutte le guerre, del resto, scatenate da ‘sporchi vecchioni’ e combattute da bambini.
Fu la moglie di un suo vecchio commilitone – Mary O’Hare, alla quale il romanzo è dedicato – a mettergli la pulce nell’orecchio. Nel 1967 Vonnegut era tornato a Dresda con i soldi della Fondazione Guggenheim, aveva visitato la città (‘Somigliava molto a Dayton, nell’Ohio, ma c’erano più spazi vuoti che a Dayton. Nel terreno dovevano esserci tonnellate di ossa umane’) e si era fatto accompagnare da un tassista al mattatoio. Al ritorno negli Stati Uniti, quella specie di spina di pesce che da tanto tempo aveva in gola si era rimessa a tormentarlo. Stava lì da più di vent’anni, senza andare né su né giù, e gli faceva da promemoria, se mai ce ne fosse stato bisogno: il promemoria di un massacro. Su quel massacro al quale era sfuggito per caso Vonnegut aveva meditato spesso, pensando di trarne un libro che lo rendesse famoso, o che almeno gli facesse guadagnare un mucchio di quattrini; in ventitré anni, invece, non aveva scritto nulla di buono, ‘perché non c’è nulla d’intelligente da dire su un massacro.’
Ma quando Bernard, il marito di Mary, lo invitò a fargli una visita, Vonnegut trovò nella casa degli ospiti un’atmosfera meno accogliente del previsto. La moglie dell’amico non sembrava affatto entusiasta del suo progetto di scrivere un libro sul bombardamento di Dresda e sulla guerra. ‘Fingerà che eravate degli uomini’, disse, ‘anziché dei bambini, e poi ne tireranno fuori un film recitato da Frank Sinatra e da John Wayne o da qualcun altro di quegli sporchi vecchioni che vanno pazzi per la guerra. E la guerra sembrerà qualcosa di meraviglioso, e così ne avremo ancora un bel po’. E a combatterle saranno dei bambini…’
Allora Vonnegut comprese. Era la guerra che faceva uscire dai gangheri la moglie del suo amico, Mary O’Hare non voleva che i suoi figli, o i figli di chiunque altro, si facessero ammazzare in guerra. E pensava che le guerre erano almeno in parte incoraggiate dai libri e dai film. Così Vonnegut alzò la mano destra e le promise che, se un giorno avesse finito il libro che intendeva scrivere, non sarebbe stato ‘una cosa da Frank Sinatra o da John Wayne.’ ‘Le dirò una cosa’, aggiunse. ‘Lo intitolerò “La crociata dei bambini”.’
Solo quando avrà scritto Mattatoio n. 5 Vonnegut scoprirà che la spina se n’è andata. Ma allora egli è già l’idolo della contestazione giovanile, che vede in lui un profeta e nei suoi libri (ignorati dagli adulti) altrettanti possibili scenari del futuro. Vent’anni dopo Il giovane Holden, Vonnegut l’ateo, Vonnegut il pacifista, Vonnegut il dimostrante contro la guerra nel Vietnam è diventato il J. D. Salinger degli studenti universitari americani. Mattatoio n. 5, il suo libro più influente (e per molti il suo capolavoro), gli spalanca le porte dell’Olimpo letterario. Commenterà l’autore, caustico e beffardo come sempre, una dozzina di anni dopo: ‘L’atrocità di Dresda, tremendamente costosa e meticolosamente programmata, fu così insensata che solo una persona sull’intero pianeta ne ricavò qualche beneficio. Io sono quella persona. Ho scritto questo libro, che mi ha fatto guadagnare un mucchio di quattrini e che ha fondato la mia reputazione, quale che sia. In un modo o nell’altro, ho preso due o tre dollari per ogni persona uccisa. Bel mestiere il mio, eh?’.
Vincenzo Mantovani. Milano, 30 giugno 1987.
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