Harold Bloom |
Bloom, un dandy al contrario, colto e stravagante, grande dilettante e profondo erudito
Il ritratto Il mondo invecchia, diceva, e disperava del presente, ma amava in modo appassionato la vita, e in essa la letteratura, perché la letteratura è vita
È morto ieri, all'età di 89 anni, il più grande critico americano del secolo, il più venerato e il più controverso: Harold Bloom. Anche se provato nel corpo, era rimasto giovane nello spirito agonistico, sempre pronto allo scontro - come negli anni '30 del Novecento, quando, da bambinetto ebreo, nelle strade pericolose dell'East Bronx imparò a difendersi dalle bande antisemite americano-irlandesi.
Aveva sempre amato posare da 'vecchio', sin dalla metà degli anni '60, dopo quella che definiva la sua midlife crisis, quando nel bel mezzo del cammino sembrò aver perso la direzione della vita. Raccontava che a salvarlo fu Emerson, l'apostolo del sublime, che contese la sua anima all'altro angelo, o demonio, il pessimista e ironico Sigmund Freud. Dalla crisi nacque il suo libro forse più famoso, L'angoscia dell'influenza
Era un dandy all'incontrario, Bloom - colto e stravagante, grande dilettante e profondo erudito, umanissimo e sprezzante, gentile nei modi, cortese fino al manierismo con le donne, prepotente, narcisista, feroce nel pregiudizio quanto sprezzante nel giudizio. Ma infinitamente seduttivo con gli studenti, un maestro indimenticabile; un interlocutore più simile alla figura del sileno Socrate che all'accademico tronfio e pedante.
Adorava presentarsi come una creatura umana stanca, triste, un Pierrot lunare che trasudava un'accattivante, esuberante melanconia. Il mondo invecchia, diceva, e disperava del presente, ma amava in modo appassionato la vita, e in essa la letteratura, perché la letteratura è vita - affermava. La grande poesia, predicava, altro non è se non la scena in cui si mostra la mente umana in lotta per conquistare la propria originalità. Che l'uomo sia degno di esistere niente lo dimostra meglio del teatro di Shakespeare, della poesia di Blake, di Dante, insisteva.
Del resto, lui nato nel 1930 a New York da poverissimi ebrei in fuga dagli shtlet dell'Europa orientale, era rinato leggendo Blake, Crane. Aveva imparato così l' americano, che parlava con un accento tutto suo, cresciuto com'era nella lingua yiddish. Crane, Blake furono gli agenti della sua 'conversione'. Se con tanto entusiasmo ancora ieri insegnava poesia, era perché la poesia aveva rappresentato l'inizio del suo risveglio, e sperava che il miracolo potesse ripetersi per ogni giovane uomo o giovane donna che lo seguiva.
Ricordo le sue lezioni; entrava sempre in anticipo, si sedeva tra i primi banchi, cominciava a sfogliare il libro di cui avrebbe parlato, ma non leggeva. D'un tratto prendeva a recitare by heart: col cuore, a memoria. Sapeva di poter contare su una memoria formidabile. Ma più che di un talento acquisito grazie all'esercizio, si trattava del suo modo di corrispondere alla poesia, anticipando l'inevitabilità della parola attesa alla fine del verso. Perché come pochi altri Bloom sapeva che la poesia è 'inevitabile'.
Il suo amore per la letteratura era contagioso; era la sua religione, scherzava, e Shakespeare Dio. Il suo disprezzo del fasullo, altrettanto definitivo. La grande letteratura non ha niente a che fare con l'agenda politica o sociale; ha a che fare con il sublime spirituale, con l'intensità e la profondità della bellezza. Chi confonde Donna Tartt con Dickens, chi prende sul serio Salman Rushdie, chi dà il premio Nobel a Modiano diseduca dalla bellezza, si lamentava.
Per anni Bloom s'era disperato del fatto che l'accademia fosse invasa da un branco di 'operatori culturali', critici marxisti o neo-storicisti, gay o lesbian, tutti decostruzionisti, che invece di Shakespeare, Dante, Omero, Platone, facevano leggere ai loro studenti Derridà, Greenblatt, Foucault. Come può esserci critica, senza amore della lettura? inorridiva. Simile a Falstaff, nell'infinita bonomia che lo predisponeva all'ascolto dei propri e altrui vizi segreti, c'erano però vizi che non perdonava. Enorme era in lui l'insofferenza verso l'abito mediocre dell'universitario in carriera, impegnato nella self-promotion e nell'esibizione della propria tecnica, che chiama teoria.
"Io sono arcaico" ripeteva, ma era una provocazione. Era in realtà un lottatore 'visionario', mai stanco di difendere non la propria teoria, ma la propria visione, maturata nello studio dei grandi poeti romantici inglesi, a cui aveva dedicato i suoi primi, bellissimi libri; e nella profonda adesione all'eresia gnostica, a cui dedicherà saggi molto contestati. Decisivo, in tal senso, l'incontro con Corbin e il suo 'mondo angelico', e con l'"angelo necessario" di stevensiana memoria, anch'esso tramite di accesso a regni che trascendono l'esperienza ordinaria, ma aprono in essa finestre su mondi altri. La Poesia è questo azzardo, o non è: decreterà Bloom nel suo stile lapidario, a bella posta esagerato.
Allo zio - che aveva un negozio di dolci a Brooklyn e un certo giorno, visto che il nipotino stava sempre con un libro in mano, preoccupato gli chiese: ma che intendi fare da grande? candidamente il bimbo rispose: voglio leggere poesia. Al che lo zio gli spiegò che c'erano professori di poesia a Harvard e a Yale. Il piccolo Bloom - età cinque, sei anni- piacevolmente sorpreso ribattè: allora, farò il professore di poesia.
È quello che genialmente è stato: Sterling Professor of the Humanities and English a Yale e Berg Professor of English alla New York University.
Con indosso il maglione blu da marinaio, una mano sul petto all'altezza del cuore, gli occhi lucidi per l'emozione, lo rivedo che cerca un altro accesso ancora al testo che legge, come se ne andasse della sua vita. E s'illumina quando sente che il testo cede il suo segreto, come uno scassinatore quando la cassaforte si apre. Non c'è metodo che tenga, insegnava. C'è soltanto l'allenamento dell'orecchio che si affina, della mente che si intona fino a cogliere nella lettera lo spirito.
Se il sapere universitario è nella sostanza un bluff, è perché pretende di astrarre dell'immagine un contenuto. Mentre chi legge deve abbandonarsi al potere dell'immagine, farsi immagine...
Questa è stata la sua battaglia. Ha perso? Forse, ma l'onore delle armi sia comunque reso allo sconfitto.
LA REPUBBLICA
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