Saul Bellow |
Il poeta senza identità. Il poetà è un'entità
Giuseppe Barreca
Venerdi 4 settembre 2009
Il libro di Saul Bellow (1915-2005), Il dono di Humboldt (1975), è un’opera che si presta a diverse interpretazioni. Leggendolo, però, mi sono venute in mente considerazioni che esulano dal contesto di un’opera che comunque consiglio a tutti di leggere. Il protagonista del libro, Humboldt Fleischer, è un amico dello scrittore, un poeta morto anni prima, dopo essersi minato l’animo e il fisico. Mi viene in mente l’idea, forse un po’ usurata, della solitudine dell’artista. È appena passato il 59° anniversario del suicidio di Pavese. Edgar Allan Poe morì a quarant’anni nel 1849 fuori di sé. E poi molti artisti sono stati ubriaconi, tossici, suicidi e così via. Ma non è tanto questo il punto; m’interessa il ripresentarsi, oggi, nell’epoca contemporanea, del dilemma della funzione del poeta. È la questione delle questioni, dunque dirò solo due parole rapide. Io credo che solo il porsi la questione della “funzione” di un poeta distrugga l’immagine del poeta stesso. La poesia non “serve”, non ha utilizzazioni pratiche. La famosa “arte per l’arte” (la frase di T. Gauthier) non è un dogma, perché attraverso l’arte si può combattere, ci si può comunque spendere per un’idea, ma l’arte in sé non serve a nulla. Questa è una prima convinzione che dovrebbe stare nelle nostre teste. Poi possiamo applaudire il poeta che recita in piazza, andando a casa pieni di quell’indefinibile soddisfazione che deriva dal profumo dell’arte. E poi? Scriveva Ezra Pound: “L’arte non chiede mai a nessuno di fare nulla, di pensare nulla, di essere nulla. Esiste come esiste l'albero, si può ammirare, ci si può sedere alla sua ombra, si possono coglierne banane, si può tagliarne legna da ardere, si può fare assolutamente tutto quel che si vuole”.
Bellow scrive: “I poeti sono amati, ma solo perché non sanno stare al mondo”, aggiungendo che è grazie a loro che il resto del mondo sopporta il cinismo a cui la vita lo costringe o a cui l’esistenza lo invita. Allora il poeta non serve davvero, e lo dimostrano le pagine più pure delle poesie che amiamo. Un poeta non sa operare un paziente, né guidare un aereo, progettare una casa o un ponte. Ma è un’entità che scrive e crea. Mi sovviene qui un’altra idea di Bellow. Il poeta non deve avere un’identità. Quest’ultima ci viene dalla sfera sociale ed è un’etichetta che ci rende riconoscibili all’esterno. Siamo operai, impiegati, insegnanti, professionisti, ingegneri, attori, musicisti, disoccupati e così via. L’identità è un segno o un odore di riconoscimento. “Il tuo cane ti riconosce”, dice Bellow.
Invece, gli uomini di grande valore (e non sempre gli artisti lo sono) sono un’entità, non si possono quindi limitare ad avere un’identità. Il poeta non ha questa identità, perché sa guardare dall’alto il qualcosa, magmatico, che vive nel mondo. Egli è un’entità, è un uomo che non si perdona mai, che non è indulgente con se stesso, perché ha nella testa la sua grandezza. Chi ha un’identità è più buono con se stesso, si siede sul divano, si versa da bere. Chi è un’entità, invece, è uno schiavo dell’arte. “Un’entità è una potenza impersonale che può fare spavento”, afferma Bellow. Ecco, il poeta dovrebbe imparare a spaventare gli altri, a mettere in crisi, a pungere le anime atrofizzate. Un destino davvero ingrato, ma irrinunciabile.
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