JOSEPH CONRAD
CUORE DI TENEBRA
II
«Una sera, mentre me ne stavo lungo disteso sul ponte del mio battello, sentii avvicinarsi delle voci: erano zio e nipote che venivano passeggiando lungo il fiume. Misi di nuovo giù la testa sul braccio e, già mezzo assopito, udii qualcuno dire, quasi dentro al mio orecchio: “Io non faccio del male a una mosca, però non mi piacciono le imposizioni. Sono o non sono il direttore? Mi hanno ordinato di mandarlo là. È incredibile…” Mi accorsi che quei due si erano fermati sulla riva, all’altezza della prora del battello, proprio sotto la mia testa. Non mi mossi. Non mi venne neanche in mente di muovermi: avevo sonno. “È spiacevole”, grugnì lo zio. “È lui che ha chiesto all’Amministrazione di essere mandato lì”, disse l’altro, “per far vedere quello che sa fare e io ho ricevuto le relative istruzioni. Vedi che razza di ascendente deve avere quell’uomo. Non è spaventoso?” Ne convennero entrambi, che era spaventoso; dopo di che all’orecchio mi giunsero delle espressioni bizzarre: “Fare il bello e il cattivo tempo… un uomo solo… il Consiglio… menare per il naso”, frammenti di frasi assurde che ebbero la meglio sul mio torpore, tant’è vero che ero quasi in pieno possesso delle mie facoltà mentali quando lo zio disse: “Potrebbe aiutarti il clima a risolvere queste difficoltà. È da solo là?” “Sì”, rispose il direttore, “ha spedito il suo assistente giù per il fiume con un biglietto per me che diceva: ‘Allontani subito dal paese questo povero diavolo e non si disturbi a mandarmene altri dello stesso stampo. Preferisco star solo piuttosto che avere il genere di uomini che lei mi rifila.’ Questo avveniva più di un anno fa. Si può immaginare una maggiore impudenza?” “E da allora più niente?”, chiese l’altro, con la voce roca. “Avorio”, scattò il nipote, “a mucchi e di prima qualità, mucchi di avorio, molto seccante, provenendo da lui.” “Dopo di che?”, domandò il greve brontolio. “La fattura”, fu la risposta, sparata a bruciapelo, come si suol dire. Poi silenzio. Era di Kurtz che stavano parlando.
«Ormai ero completamente sveglio, ma rimanevo disteso, immobile nella mia comoda posizione, e non avevo nessuna intenzione di cambiarla. “Ma come ha fatto tutto quell’avorio ad arrivare fin qua?”, ringhiò il più anziano che sembrava molto irritato. L’altro spiegò che era giunto con una flottiglia di canoe guidata da un meticcio inglese, un impiegato di Kurtz; che Kurtz stesso aveva apparentemente progettato di rientrare, la sua stazione era ormai sfornita di provviste e mercanzie, ma dopo aver percorso trecento miglia, aveva improvvisamente deciso di tornare indietro; cosa che aveva fatto, da solo, in una piccola piroga, con quattro vogatori, lasciando che il meticcio continuasse il viaggio giù per il fiume con l’avorio. I due compari sembravano sbalorditi che qualcuno avesse tentato una cosa simile; e non riuscivano a immaginarne il motivo. Quanto a me, mi sembrò di vedere Kurtz per la prima volta. Ne ebbi una visione fugace ma chiara: la piroga, i quattro selvaggi che remavano, e l’uomo bianco solitario che volgeva subitaneo le spalle al quartier generale, a ogni forma di aiuto, a ogni idea di ritorno, chissà!, per dirigersi a viso fermo verso le profondità della selva selvaggia, verso la sua stazione vuota e desolata. Non ne conoscevo il motivo. Forse era solo un tipo in gamba attaccato al lavoro per amore del lavoro. Il suo nome, notate, non era mai stato pronunciato, neanche una volta. Era “quell’uomo”. Al meticcio che, da quanto potevo giudicare, aveva condotto quella spedizione difficile con grande prudenza e fegato, si alludeva invariabilmente come a “quella canaglia”. La “canaglia” aveva riferito che l'”uomo” era stato molto ammalato e che non si era rimesso del tutto… I due sotto di me si allontanarono di qualche passo, passeggiando avanti e indietro poco distanti. Udii: “Posto militare… dottore… duecento miglia… completamente solo adesso… ritardi inevitabili… nove mesi… nessuna notizia… strane voci.” Poi si riavvicinarono, proprio mentre il direttore diceva: “Nessuno, per quanto io sappia, tranne una specie di trafficante vagabondo, un individuo esiziale, che scippa l’avorio agli indigeni.” Di chi è che parlavano adesso? Mettendo assieme i pezzi capii che si trattava di un uomo che molto probabilmente stava nella zona di Kurtz, e che non godeva della simpatia del direttore. “Riusciremo a sbarazzarci della concorrenza sleale solo quando uno di questi individui verrà impiccato, per dare l’esempio”, disse. “Certamente”, grugnì l’altro, “fallo impiccare! Perché no? In questo paese si può fare di tutto, di tutto. Sai cosa ti dico? Qui, capisci, qui, nessuno può compromettere la tua posizione. E sai perché? Tu sopporti il clima: li seppellirai tutti. Il pericolo è in Europa, ma lì, prima di partire ho provveduto io a…” Si allontanarono bisbigliando; poi le loro voci si alzarono di nuovo. “Questa straordinaria serie di ritardi non è colpa mia. Io ho fatto il possibile.” Il grassone sospirò: “Che ci vuoi fare!” “E la pestilenziale assurdità dei suoi discorsi”, continuò l’altro. “Mi ha quasi asfissiato quand’era qua. ‘Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla via del progresso, un centro per commerciare, certo, ma anche per umanizzare, migliorare, istruire.’ Ti rendi conto… quel coglione! E vuole diventare direttore! No, è…” A quel punto si soffocò in un accesso di indignazione e io alzai un pochino la testa. Fui sorpreso di vedere quanto fossero vicini, proprio sotto di me. Avrei potuto sputare sui loro cappelli. Guardavano per terra, assorti nei loro pensieri. Il direttore si frustava la gamba con una verga sottile; il suo sagace parente sollevò la crapa. “Sei stato bene da quando sei tornato qui, questa volta?”, chiese. L’altro trasalì. “Chi? Io? Oh! D’incanto, d’incanto. Ma gli altri, Dio santo! Tutti malati. Muoiono così in fretta poi, che non faccio neanche a tempo a mandarli via dal paese. È incredibile!” “Hem. Per l’appunto”, grugnì lo zio. “Ah! ragazzo mio, è proprio su questo che devi contare, ti dico, su questo.” Gli vidi stendere un braccetto, corto come una pinna, in un gesto che abbracciava la foresta, l’insenatura, il fango, il fiume, come se, con una mossa oltraggiosa alla faccia assolata del paese, rivolgesse un perfido invito alla morte in agguato, al male nascosto, alla profondità tenebrosa del cuore di quella terra. Era così stupefacente che balzai in piedi e mi voltai a guardare il ciglio della foresta, quasi mi aspettassi una qualche risposta a quel diabolico sfoggio di confidenza. Sapete che idee stravaganti ci vengono talvolta. L’immobilità assoluta, paziente e minacciosa, fronteggiava quelle due figure in attesa che sparisse la fantastica invasione.
«Bestemmiarono tutti e due ad alta voce, per pura paura, credo, poi fingendo di ignorare che io esistessi, s’incamminarono verso la stazione. Il sole era basso e, piegati in avanti, fianco a fianco, sembravano trascinare faticosamente su per la salita le loro ridicole ombre di ineguale lunghezza, che strisciavano lentamente dietro di loro sull’erba alta senza piegarne un solo filo.
«Di lì a pochi giorni la Spedizione Eldorado si inoltrò nella paziente landa selvaggia, che si richiuse su di lei come fa il mare sopra uno che si tuffa. Dopo molto tempo arrivò la notizia che erano morti tutti gli asini. Della sorte degli altri animali meno preziosi non so nulla. Trovarono, senza dubbio, come tutti noi, ciò che si meritavano. Non indagai. Allora ero troppo eccitato alla prospettiva che molto presto avrei incontrato Kurtz. Quando dico molto presto vuol dire per quanto fosse consentito laggiù, cioè in modo relativo. Da quando lasciammo l’insenatura, passarono giusto due mesi prima che toccassimo terra sotto la stazione di Kurtz.
«Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendore del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze. Sui banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco. Negli slarghi, le acque scorrevano in mezzo a una moltitudine di isole boscose; ci si perdeva in quel fiume, come in un deserto, e per tutto il giorno, si continuava a incappare nelle secche, alla ricerca del canale, fino a sentirsi stregati e tagliati fuori per sempre da quello che si era conosciuto un tempo, in qualche luogo, lontano da lì, in un’altra vita forse. C’erano momenti in cui il proprio passato riaffiorava, come capita talvolta quando non si ha un momento da dedicare a se stessi; ma veniva in forma di sogno inquieto e rumoroso, ricordato con stupore fra le prorompenti realtà di quello strano mondo di piante, di acqua e di silenzio. E questa immobilità di vita non assomigliava affatto alla pace. Era l’immobilità di una forza implacabile che covava un qualche insondabile disegno. Vi guardava con un’aria vendicativa, piena di risentimento. Alla lunga mi ci abituai: non la vedevo più. Non ne avevo il tempo. Dovevo continuamente scrutare il fiume per cercare di indovinare il passaggio; per discernere, più con l’intuito che con la vista, i segni di banchi nascosti; per spiare le rocce sommerse. Imparai a serrare prontamente i denti per impedire che il mio cuore balzasse via, quando schivavo, sfiorandolo, qualche infernale vecchio tronco sornione che avrebbe attentato alla vita della mia bagnarola, sventrandola, facendo annegare tutti i pellegrini. E dovevo tenere d’occhio ogni traccia di albero morto che avremmo tagliato durante la notte per assicurarci il vapore del giorno dopo. Quando si deve badare a questo genere di cose, ai meri accidenti di superficie, la realtà – la realtà, vi dico – impallidisce. La verità più riposta rimane nascosta, fortunatamente, fortunatamente. Ma io la sentivo lo stesso; sentivo spesso la sua immobilità misteriosa che osservava i miei trucchi da scimmia, proprio come osserva voi, quando vi esibite sulle vostre funi tese nel vuoto, per quanto?, per mezza corona a ogni salto mortale.»
“Cerca di essere più civile, Marlow”, borbottò una voce, per cui capii che oltre a me ce n’era almeno un altro sveglio, ad ascoltare.
«Scusatemi. Dimenticavo che si deve aggiungere il patema d’animo al resto del prezzo. Ma che importanza ha il compenso se l’acrobazia è riuscita bene? A voi riescono benissimo. E anch’io non me la sono cavata tanto male, dato che son riuscito a non far affondare il battello al mio primo viaggio. Me ne meraviglio ancora. Immaginatevi un uomo bendato che debba guidare un furgone su una strada dissestata. Ho sudato e tremato non poco su quell’affare, ve l’assicuro. In fin dei conti, per un marinaio, è il peccato più imperdonabile scorticare il fondo di quella cosa che dovrebbe stare sempre a galla sotto la sua guida. Forse nessuno se n’è accorto, ma voi il tonfo non lo dimenticherete mai, vero? Un colpo al cuore. Ve lo ricorderete, lo sognerete, e anni dopo, vi sveglierete di notte per pensarci, e sentirete caldo e freddo in tutto il corpo. Non pretendo di dire che il battello sia rimasto sempre a galla. Più di una volta ha dovuto passare a guado per un tratto, con venti cannibali intorno a diguazzare e a spingere. Strada facendo ne avevamo arruolati alcuni, come ciurma. Brava gente, i cannibali, al loro posto. Uomini con cui si poteva lavorare e a cui io sono grato. E poi non si sono mangiati fra di loro sotto i miei occhi. Si erano portati dietro della carne di ippopotamo che marcì e che mi portò l’odore del mistero della landa selvaggia fin dentro alle narici. Puah! Sento ancora il tanfo. A bordo avevo il direttore e tre o quattro pellegrini col bastone: al completo. Qualche volta incontravamo una stazione sulla sponda del fiume, aggrappata ai margini dell’ignoto, e i bianchi che si precipitavano fuori dai loro tuguri, accogliendoci con gesti festosi e sorpresi, avevano un’aria stranita: sembravano prigionieri di un incantesimo. La parola avorio echeggiava nell’aria per un po’ e poi ci rimmergevamo nel silenzio, lungo tratti deserti, intorno ad anse tranquille, tra le alte mura del nostro tortuoso percorso, che riverberavano in cupi colpi il poderoso battito della nostra ruota poppiera. Alberi, alberi, milioni di alberi, massicci, immensi, svettanti; e ai loro piedi, rasentando la sponda per vincere la corrente, arrancava il piccolo battello fuligginoso, come un indolente scarafaggio che si trascini sul pavimento di un ampio e nobile porticato. Ci si sentiva molto piccoli e sperduti, eppure quella sensazione non era del tutto deprimente. In fin dei conti, anche se eravamo piccoli, quello sporco scarafaggio andava avanti ed era proprio quello che si voleva che facesse. Dove i pellegrini si immaginavano che strisciasse io non lo so. Verso un luogo in cui si aspettavano di arraffare qualcosa, scommetto! Per me strisciava esclusivamente verso Kurtz, ma quando i tubi del vapore iniziarono a perdere ci trascinammo molto lentamente. Le lunghe strade d’acqua si aprivano davanti a noi e si richiudevano al nostro passaggio, come se la foresta, pigra e tranquilla, avesse scavalcato l’acqua per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre più a fondo nel cuore della tenebra. Regnava una gran quiete. La notte, qualche volta, il rullio dei tamburi dietro la cortina degli alberi saliva su per il fiume e si prolungava debolmente, come sospeso nell’aria, sopra le nostre teste, fino allo spuntar del giorno. Se era un segnale di guerra, di pace o di preghiera noi non lo sapevamo. L’alba era sempre annunciata dal calare di un gelido torpore; i taglialegna dormivano, con i fuochi che bruciavano bassi; lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ci faceva trasalire. Eravamo viandanti su una terra preistorica, su una terra che aveva l’aspetto di un pianeta sconosciuto. Potevamo immaginarci di essere i primi uomini che prendevano possesso di un’eredità maledetta, che si doveva conquistare al prezzo di un profondo tormento e di un’enorme fatica. Ma improvvisamente, mentre lottavamo attorno a un’ansa, si apriva una visione di muri di giunco, di tetti d’erba a punta, ed era un’esplosione di grida, un turbinio di membra nere, una moltitudine di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi che ondeggiavano, di occhi che roteavano, sotto la cascata del fogliame fitto e immobile. Il battello arrancava lentamente ai margini di una nera e incomprensibile frenesia. L’uomo preistorico ci malediva, ci implorava, ci dava il benvenuto, chi poteva dirlo? Eravamo tagliati fuori dalla comprensione di ciò che ci circondava; scivolavamo via come fantasmi, stupiti e segretamente sgomenti, come lo sarebbero degli uomini sani di mente davanti a uno scoppio di entusiasmo in manicomio. Non potevamo capire, perché eravamo troppo lontani, e non potevamo ricordare, perché stavamo viaggiando nella notte dei tempi, di quei tempi scomparsi senza quasi lasciare traccia e alcun ricordo.
«La terra non sembrava più terrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì, lì si vedeva il mostro in libertà. Non era terreno e gli uomini erano… No, non erano inumani. Ecco, sapete, era questa la cosa peggiore: il sospetto che non fossero inumani. Veniva a poco a poco. Ululavano e saltavano, si contorcevano e facevano delle orribili smorfie; ma quello che faceva rabbrividire era proprio il pensiero della loro umanità, simile alla nostra, il pensiero di una nostra lontana parentela con quella violenza selvaggia e appassionata. Sgradevole. Sì era abbastanza sgradevole, ma con un po’ di coraggio, bisognava ammettere che c’era in noi, sia pur debolissima, una traccia di rispondenza alla terribile franchezza di quel frastuono, l’impressione confusa che vi si nascondesse un significato che, per quanto lontani noi si fosse dalla notte dei tempi, si poteva capire. E perché no? La mente dell’uomo è aperta a tutto, perché contiene tutto, tutto il passato e tutto l’avvenire. E in fondo là dentro cosa c’era? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio, collera, – chi lo sa? – ma verità certamente, la verità spogliata dal mantello del tempo. Padronissimo lo sciocco di restare a bocca aperta e tremare: l’uomo capisce, e può guardare senza battere ciglio. Ma deve essere almeno altrettanto uomo di quelli sulla spiaggia. Deve rispondere a quella verità con ciò che c’è di più vero in lui, con la sua forza innata. I principi? I principi non servono: acquisizioni, mascheramenti, orpelli, che volerebbero via alla prima scossa un po’ rude. No, ci vuole una fede deliberata. C’è un appello per me in questo barbaro tumulto, sì? Benissimo, lo ascolto, lo riconosco, ma anch’io ho una voce, e nel bene come nel male quello che io dico non può essere messo a tacere. Naturalmente, uno sciocco, sia per semplice paura sia per nobili sentimenti, non corre alcun rischio. Cos’è quel borbottio? Vi domandate se sono sceso a terra a ululare e a ballare? No, non l’ho fatto. Nobili sentimenti, dite? Al diavolo i nobili sentimenti! Non avevo tempo. Dovevo trastullarmi con biacca di piombo e strisce tagliate dalle coperte di lana per aiutare a bendare quei tubi che perdevano, proprio così. Dovevo sorvegliare la rotta, aggirare i tronchi, e di riffa o di raffa, far avanzare la mia bagnarola. In quelle cose c’era tanta verità di superficie da salvare anche un uomo più saggio. E nel frattempo dovevo badare a quel selvaggio del mio fuochista. Era un esemplare progredito, capace di alimentare una caldaia verticale. Era là, sotto di me, e, parola mia, guardarlo era altrettanto edificante che vedere un cane in calzoncini da clown e cappello di piume, che cammina sulle zampe posteriori. Erano bastati pochi mesi di addestramento, a quel tipo davvero notevole. Sbirciava il manometro del vapore e l’indicatore di livello dell’acqua con un evidente sforzo di audacia, eppure aveva i denti limati, quel povero diavolo, e dei bizzarri disegni scolpiti a rasoio sulla lana del suo cranio e tre cicatrici ornamentali sulle guance. Avrebbe dovuto essere sulla riva a battere le mani e i piedi invece di star lì a lavorare sodo, schiavo di una strana stregoneria, ricca di sapere avanzato. Era utile perché era stato istruito e quel che sapeva era questo: che se veniva a mancare l’acqua in quella cosa trasparente, lo spirito maligno chiuso nella caldaia si sarebbe infuriato per la gran sete e si sarebbe vendicato in maniera terribile. Perciò sudava e attizzava il fuoco e sorvegliava timoroso il vetro (con un feticcio improvvisato, fatto di stracci, legato al braccio, e un pezzo d’osso levigato, grosso come un orologio, infilato di piatto nel labbro inferiore), mentre le rive boscose scorrevano lentamente al nostro passaggio, il breve clamore rimaneva indietro, ricominciavano le miglia interminabili di silenzio, e noi strisciavamo, verso Kurtz. Ma le insidie erano molte, i tronchi nascosti, l’acqua traditrice e senza profondità, e la caldaia sembrava davvero posseduta da un demone scontroso. Perciò né io né il fuochista avevamo il tempo di scrutare nei nostri strani e terribili pensieri.
«A una cinquantina di miglia dalla Stazione Interna, scorgemmo sulla riva una capanna di canniccio, un palo inclinato e melanconico, su cui svolazzavano i brandelli irriconoscibili di quella che doveva essere stata una specie di bandiera, e una pila di legna da ardere accatastata con cura. Una cosa inattesa. Scendemmo a terra e in cima alla catasta di legna trovammo un’asse con una scritta a matita, tutta sbiadita. Una volta decifrata, diceva: “Legna per voi. Fate presto. Avvicinatevi con cautela.” C’era anche la firma, ma illeggibile, non Kurtz, una parola molto più lunga. Sbrigarsi. A far cosa? A salire il fiume? “Avvicinatevi con cautela.” Noi non l’avevamo fatto. Ma l’avvertimento non poteva riferirsi al luogo in cui si poteva trovare il messaggio solo dopo essercisi avvicinati. Era più su che qualcosa non andava bene. Ma cosa? Qualcosa di grave? Questo era il dilemma. Commentammo negativamente la stupidità di quello stile telegrafico. La boscaglia intorno non rivelava nulla e non consentiva nemmeno di inoltrarsi con lo sguardo molto lontano. Una tenda lacera di saia rossa pendeva dalla soglia della capanna e ci sbatté tristemente in faccia. L’abitazione era stata smantellata, ma si vedeva che fino a poco tempo prima ci aveva vissuto un bianco. Restavano una tavola rudimentale, non era che un’asse su due sostegni, delle immondizie ammucchiate in un angolo buio e, accanto alla porta, un libro, che raccolsi. Era senza copertina e le pagine portavano l’impronta di un dito che, a forza di sfogliarle, le aveva sporcate e logorate; il dorso, invece, era stato amorevolmente ricucito con del filo di cotone bianco che sembrava ancora pulito. Avevo trovato una cosa straordinaria. Il titolo era Indagine su alcuni aspetti dell’arte di navigare, di un certo Towser, o Towson, un nome simile, capitano della Marina di Sua Maestà. La materia sembrava un po’ ostica, con grafici illustrativi e orrende tavole numeriche; e la copia era vecchia di sessant’anni. Maneggiai quel sorprendente pezzo d’antiquariato con la massima delicatezza, per paura che mi si polverizzasse in mano. Là dentro, Towson o Towser dissertava sul punto di massima tensione delle catene, dei paranchi e su altri argomenti analoghi. Non proprio avvincente, quel libro, ma dalla prima occhiata vi si scorgeva una serietà di intenti, un interesse autentico per come affrontare bene un lavoro, che quelle umili pagine, pensate tanti anni prima, s’illuminavano di una luce non solo professionale. Quel semplice vecchio marinaio mi fece dimenticare la giungla e i pellegrini dandomi la sensazione di aver finalmente di fronte qualcosa di indiscutibilmente reale. Che un libro simile fosse là era già abbastanza sorprendente, ma ancor più stupefacenti erano le note scritte in margine a matita, chiaramente riferite al testo. Non potevo credere ai miei occhi! Erano in codice! Sì, aveva tutta l’aria di un codice. Vi immaginate un uomo che in quel nulla si porta dietro un libro del genere, se lo studia, ci fa sopra delle note, e in codice! Era un mistero davvero stravagante.
«Era già da un po’ che avvertivo dei vaghi rumori molesti: quando alzai gli occhi vidi che la catasta di legna era scomparsa e che il direttore, con l’aiuto di tutti i pellegrini, mi stava chiamando a gran voce dalla riva del fiume. Mi infilai il libro in tasca. Dover abbandonare la lettura era come essere strappati dalle braccia di una vecchia e solida amicizia, ve lo assicuro.
«Rimisi in moto lo zoppicante macinino. “Non può essere che quel miserabile trafficante, quell’intruso”, esclamò il direttore, voltandosi a guardare con aria malevola il luogo che avevamo appena lasciato. “Dev’essere inglese”, dissi io. “Il che non gli eviterà di passare dei guai se non sta attento”, borbottò, cupo, il direttore. Osservai con finta innocenza che a questo mondo nessuno è al riparo dai guai.
«La corrente si era fatta più rapida, il battello sembrava boccheggiare, la ruota poppiera batteva l’acqua languidamente, e mi accorsi di stare sulla punta dei piedi ad ascoltare il successivo battito della pala, perché in tutta sincerità, mi aspettavo che da un momento all’altro quella cosa sciagurata avrebbe ceduto di schianto. Era come assistere agli ultimi fremiti di una vita che si spegne. Ma, sia pure lentamente, continuavamo a procedere. Ogni tanto sceglievo un albero davanti a me, come riferimento, per misurare il nostro progresso verso Kurtz, ma lo perdevo invariabilmente di vista prima di averlo raggiunto. Tenere gli occhi fissi, e a lungo, su uno stesso punto, era chiedere troppo alla pazienza umana. Il direttore mostrava una grande capacità di rassegnazione. Io mi rodevo il fegato e non smettevo di arrovellarmi chiedendomi se dovevo parlare apertamente con Kurtz oppure no; ma prima di essere arrivato a una conclusione, mi si affacciò l’idea che se io parlavo, o tacevo, o facevo una cosa qualsiasi, sarebbe stata una pura futilità. Che importanza aveva quello che uno sapeva o ignorava? Che importanza aveva chi era il direttore? Talvolta si hanno simili lampi d’intuizione. L’essenziale di quella faccenda giaceva molto sotto la superficie, oltre la mia portata e al di là del mio potere d’intervento.
«Verso la sera del secondo giorno, calcolammo di essere a circa otto miglia dalla stazione di Kurtz. Io avrei voluto proseguire, ma il direttore, che aveva assunto un’aria grave, disse che più a monte la navigazione era talmente pericolosa che sarebbe stato più prudente, col sole già così basso, fermarci dov’eravamo fino al mattino seguente. Mi fece inoltre notare che, se dovevamo seguire l’avvertimento di avvicinarci con cautela, ci conveniva farlo di giorno, non al crepuscolo, o col buio. Era abbastanza sensato. Per noi otto miglia volevano dire circa tre ore di navigazione, e per di più, in fondo a quel tratto di fiume, a monte vedevo delle increspature sospette. Ciononostante quel ritardo mi contrariò in modo indicibile, e anche assolutamente irragionevole, dato che dopo tanti mesi una notte in più o in meno non poteva fare molta differenza. Siccome la legna abbondava, e la parola d’ordine era “cautela”, gettai l’ancora in mezzo al fiume. In quel tratto correva diritto, stretto fra argini alti come le trincee di una ferrovia. Il crepuscolo vi entrò scivolando molto prima che fosse calato il sole. La corrente fluiva liscia e veloce ma sulle sponde pesava una muta immobilità. Sembrava che tutti quegli alberi vivi, allacciati gli uni agli altri da liane e rampicanti, che ogni arbusto di quella viva boscaglia, fossero stati tramutati in pietra, dal rametto più sottile, alla foglia più leggera. Troppo innaturale per essere un sonno: sembrava uno stato di trance. Non si sentiva il più debole suono, di nessuna specie. Si stava a guardare stupiti, con il sospetto di essere diventati sordi e all’improvviso scese la notte a renderci anche ciechi. Verso le tre del mattino, un grosso pesce saltò sull’acqua con un tonfo così sonoro che mi fece sobbalzare come se fosse stato sparato un colpo di arma da fuoco. Al sorgere del sole ci trovammo immersi in una nebbia bianca, calda e gommosa, più accecante ancora della notte. Non si spostava, né verso riva né in avanti: stava lì immobile intorno a noi, come una cosa solida. Verso le otto o forse le nove, si alzò, come si alza una saracinesca. Si aprì uno spiraglio sulla torreggiante foresta d’alberi, sull’immenso intrico della giungla su cui dardeggiava la piccola palla del sole – tutto perfettamente immobile – e poi la bianca saracinesca si riabbassò senza intoppi, come scivolando su guide ben oliate. Diedi l’ordine di mollare di nuovo la catena dell’ancora che avevamo già iniziato a issare a bordo. Prima che finisse di scorrere con un rantolo soffocato, un grido, un grido altissimo, di infinita desolazione, si alzò adagio nell’aria ovattata. Cessò. Un clamore lamentoso, modulato su selvagge dissonanze, ci riempì le orecchie. Era talmente inaspettato che sotto il berretto mi si rizzarono i capelli. Non so che effetto facesse agli altri: quel frastuono lugubre e tumultuoso era sorto talmente improvviso, e apparentemente ovunque e simultaneo, che a me parve che a gridare fosse stata proprio la nebbia. Culminò in una precipitosa esplosione di urla acute, di un’intensità quasi intollerabile, che cessò di colpo, lasciandoci irrigiditi in una varietà di atteggiamenti ridicoli, in accanito ascolto del silenzio, quasi altrettanto spaventoso ed eccessivo. “Dio mio! Ma di cosa si tratta?…”, balbettò accanto a me uno dei pellegrini, un ometto grasso, coi capelli di stoppa e le basette rosse, che indossava stivaletti con gli elastici ai lati e un pigiama rosa, con le braghe infilate nei calzini. Altri due restarono a bocca aperta per un minuto intero, poi si precipitarono dentro la piccola cabina di prua da dove ricomparvero di corsa, Winchester carichi alla mano, lanciando sguardi spaventati in tutte le direzioni. E non si vedeva che il battello sul quale stavamo, con i contorni così sfocati che sembrava sul punto di dissolversi e tutt’intorno una nebbiosa striscia d’acqua, larga forse mezzo metro: nient’altro. Il resto del mondo non esisteva, almeno non per i nostri occhi e le nostre orecchie. Non esisteva più: svanito, volatilizzato, spazzato via senza lasciarsi dietro un sussurro o un’ombra.
«Andai a prua e ordinai di accorciare la catena, in modo da essere pronti a issare l’ancora e metterci subito in marcia, se ce ne fosse stato bisogno. “Attaccheranno?”, bisbigliò una voce atterrita. “Ci massacreranno tutti con questa nebbia”, mormorò un altro. I volti distorti dalla tensione, le mani leggermente tremanti, gli occhi sbarrati: era molto curioso il contrasto fra le espressioni dei bianchi e quelle dei neri del nostro equipaggio, che in quella parte del fiume non erano meno stranieri di noi, anche se le loro case erano solo a milletrecento chilometri di distanza. I bianchi non erano solo molto agitati, avevano anche l’aria di essere dolorosamente colpiti da un tumulto così scandaloso. Gli altri avevano un’espressione vigile e naturalmente interessata, ma i loro volti erano essenzialmente distesi, anche quelli di quei due o tre che, issando la catena dell’ancora, l’avevano contratto. Alcuni si scambiarono delle brevi frasi gutturali che sembrarono risolvere la faccenda con loro soddisfazione. Il loro capo, un giovane nero con un ampio torace, austeramente avvolto in un drappo blu scuro sfrangiato, le narici focose e la capigliatura acconciata artisticamente in ricciolini oliati, era in piedi vicino a me. “Aha!”, dissi tanto per dire qualcosa. “Prendeteli”, latrò, spalancando gli occhi iniettati di sangue mentre i suoi denti aguzzi brillavano, “prendeteli e dateceli.” “A voi?”, chiesi, “E per farne che?” “Mangiarli!” disse laconico e, appoggiato il gomito al parapetto, guardò fuori nella nebbia in un atteggiamento solenne e profondamente pensieroso. Sarei senza dubbio rimasto giustamente orripilato se non mi fosse venuto in mente che lui e i suoi compagni dovevano avere molta fame, una fame che era andata progressivamente crescendo da almeno un mese a questa parte. Erano stati ingaggiati per sei mesi (ma penso che nessuno di loro avesse una chiara nozione del tempo, come l’abbiamo noi alla fine di innumerevoli ere. Appartenevano ancora agli albori del mondo, senza alcuna esperienza ereditata, per così dire, che gliela potesse insegnare), e naturalmente, purché ci fosse un pezzo di carta scritta in conformità di qualche legge farsesca confezionata ed emanata all’altro capo del fiume, a nessuno era mai passato per la testa di preoccuparsi di come sarebbero vissuti. Era vero che si erano portati la carne di ippopotamo putrefatta, che non avrebbe potuto durare a lungo comunque, però, anche se i pellegrini, in mezzo a uno schiamazzo impressionante, non ne avessero gettata in acqua una gran quantità. Sembrava un atto di prepotenza, ma in realtà fu un caso di legittima difesa. Non si può respirare ippopotamo morto, quando si dorme, mentre si mangia, quando ci si sveglia, e nello stesso tempo conservare un precario controllo sulla propria esistenza. A parte questo, ogni settimana gli avevano dato tre pezzi di filo di ottone, ciascuno lungo circa venti centimetri; in teoria doveva servire come moneta di scambio perché si comprassero delle provviste nei villaggi lungo il fiume. Ma in pratica, le cose andarono diversamente, come forse avrete già capito. O non c’erano villaggi, o la popolazione era ostile, o il direttore, che come tutti noi, si nutriva a scatolette, con dentro in aggiunta, ogni tanto, un pezzo di vecchio caprone, non voleva fermare il battello per qualche ragione, più o meno oscura. Perciò, a meno che il filo non se l’ingoiassero, o che ne facessero dei cappi per prendere al laccio i pesci, non vedo quale beneficio traessero da quello stravagante salario. Devo ammettere che veniva pagato con una regolarità degna di una grande e, rispettabile, azienda commerciale. All’infuori di questo, l’unica cosa da mangiare che possedevano – sebbene non avesse affatto un aspetto commestibile – erano dei pezzi di una sostanza simile a pasta poco cotta, del colore della lavanda sporca, che tenevano avvolta nelle foglie; ogni tanto ne ingoiavano un boccone, ma così piccolo, che sembrava lo facessero più per le sembianze della cosa che per un serio scopo di sostentarsi. Perché poi in nome di tutti i diavoli della fame che rode non ci saltassero addosso – erano trenta contro cinque – e si facessero finalmente una bella scorpacciata, mi stupisce ancora quando ci penso. Erano degli uomini grandi e robusti, senza una gran capacità di valutare le conseguenze dei loro atti, ma coraggiosi e, anche se la loro pelle non era più lucida e i muscoli non erano più sodi, ancora forti. Capii che doveva essere entrato in gioco qualcosa a frenarli, uno di quei segreti dell’animo umano che sfuggono a qualsiasi calcolo delle probabilità. Li osservai con un acuto risveglio di interesse, non perché pensassi che mi potevano mangiare da un momento all’altro, sebbene vi debba confessare che proprio allora mi accorsi – guardando le cose sotto una nuova luce – di quanto malsani apparissero i pellegrini e speravo, sì, lo speravo sul serio, che il mio aspetto non fosse così – come potrei dire? – così poco appetitoso; un pizzico di stravagante vanità che ben si accordava con la sensazione onirica che permeava la mia vita a quell’epoca. Forse avevo anche un po’ di febbre. Ma non si può stare tutto il tempo a tastarsi il polso. Avevo spesso “un po’ di febbre” o un leggero attacco di altre cose: le zampate scherzose della landa selvaggia, le iniziali schermaglie che precedono l’assalto più serio che venne poi a tempo debito. Sì, li guardavo – come si guarderebbe un qualsiasi essere umano – curioso di capire quali avrebbero potuto essere i loro impulsi, moventi, risorse, debolezze, davanti alla prova di un’inesorabile necessità fisica. Un freno inibitore! Quale freno era possibile immaginare? Superstizione, disgusto, pazienza, paura, o una specie di primitivo onore? Non c’è paura che tenga davanti alla fame, non c’è pazienza che la plachi, e, dove c’è fame, il disgusto semplicemente non esiste. Quanto alle superstizioni, alle credenze, a quelli che voi chiamereste principi, pesano meno di un fuscello al vento. Conoscete l’inferno del digiuno prolungato, il suo tormento esasperante, i suoi neri pensieri, la tetra ferocia che si alimenta di nascosto? Beh, io sì. Un uomo deve far appello a tutta la sua forza innata, per combattere adeguatamente la fame. È molto più facile affrontare un lutto, il disonore, la perdita della propria anima che questo genere di fame protratta. Triste, ma vero. E non c’era ragione al mondo che quegli esseri si facessero degli scrupoli. Il ritegno! Era più facile aspettarselo da una iena che si aggiri famelica fra i cadaveri in un campo di battaglia. Eppure il fatto era lì davanti a me, lampante, inoppugnabile, come la schiuma sopra gli abissi del mare, come un’increspatura su un enigma insondabile; e, a pensarci bene, era un mistero più grande di quella strana, inspiegabile nota di afflizione disperata nel clamore selvaggio esploso accanto a noi, sulla sponda del fiume, dietro il cieco biancore della nebbia.
«Ma su quale sponda? Due pellegrini stavano litigando su questo punto in concitato bisbiglio. “Sinistra.” “No, no; ma figurati! Destra, destra, son sicuro.” “È una faccenda molto seria”, disse la voce del direttore dietro di me. “Sarei desolato se accadesse qualcosa al signor Kurtz prima del nostro arrivo.” Lo guardai in faccia e non ebbi il minimo dubbio che era sincero. Era proprio il genere di uomo che desidera innanzi tutto salvare le apparenze. Era quello il suo freno inibitore. Ma quando bofonchiò qualcosa sull’andare lì subito, non mi presi neanche la briga di rispondergli. Io sapevo, e lui anche, che era impossibile. Se avessimo mollato la presa sul fondo, ci saremmo trovati, letteralmente, in aria: nello spazio. Non avremmo più capito dove andavamo – se in giù o in su, o per traverso, del fiume – finché non saremmo finiti contro una sponda, ma neanche allora avremmo saputo dire subito qual’era delle due, la destra o la sinistra? Naturalmente non mi mossi. Non avevo nessuna intenzione di fracassare tutto. Sarebbe difficile immaginarsi un posto peggiore per un naufragio. Anche se non annegavamo subito, potevamo star sicuri che in un modo o nell’altro saremmo morti entro brevissimo tempo.
«”La autorizzo a correre qualsiasi rischio”, disse, dopo un breve silenzio. “E io mi rifiuto di correrne anche uno solo”, risposi secco secco. Era proprio la risposta che si aspettava, anche se il tono poteva averlo sorpreso. “In questo caso, devo rimettermi alle sue decisioni. È lei il capitano”, disse, con marcata cortesia. Per significargli la mia gratitudine, gli voltai le spalle per guardare nella nebbia. Quanto sarebbe durata? La prospettiva non era delle più rosee. La via d’accesso a quel Kurtz, che rastrellava la misera boscaglia in cerca d’avorio, era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa addormentata sotto l’effetto di un incantesimo in un favoloso castello. “Crede che ci attaccheranno?” chiese il direttore, in tono confidenziale. “Pensavo che non ci avrebbero attaccato, per diverse e ovvie ragioni. Anzitutto la nebbia fittissima: se si fossero allontanati dalla riva nelle loro canoe vi si sarebbero persi, come noi, se ci fossimo azzardati a muoverci. Poi, anche se mi era parso che la giungla fosse assolutamente impenetrabile da entrambe le sponde, lì dentro c’erano degli occhi, degli occhi che ci avevano visto. La boscaglia lungo la riva era sicuramente molto fitta, ma più internamente il sottobosco era evidentemente più accessibile. Eppure, durante la breve schiarita, non avevo visto delle canoe da nessuna parte, certamente non all’altezza del battello. Ma ciò che per me rendeva inconcepibile l’idea di un attacco era la natura del clamore, delle grida che avevamo udito. Non avevano quel carattere feroce che prelude a un’immediata intenzione ostile. Per quanto inaspettate, selvagge e violente, mi avevano dato un’irresistibile impressione di dolore. Per chissà quale motivo, l’apparizione del battello aveva riempito quei selvaggi di una pena infinita. Il pericolo per noi, spiegai, ammesso che ci fosse, dipendeva dal fatto che ci trovavamo in prossimità di una grande passione umana senza freni. Anche il dolore estremo può risolversi in violenza, ma più spesso si traduce in apatia…
«Avreste dovuto vedere gli occhi spalancati dei pellegrini! Non ebbero il coraggio di ridermi in faccia e neanche di insultarmi, ma credo che pensassero che ero diventato matto, di paura, forse. Tenni una conferenza vera e propria. Cari ragazzi, non c’era di che preoccuparsi. Stare all’erta? Beh, come potete immaginare, io guatavo la nebbia per vedere se c’era il minimo segno di schiarita, come un gatto guata un topo; ma per qualsiasi altro uso gli occhi ci erano altrettanto inutili che se fossimo stati sepolti a qualche chilometro di profondità sotto una montagna di ovatta, con anche la stessa sensazione di soffoco, calore, asfissia. Del resto, tutto quello che dissi ai pellegrini, per quanto stravagante sembrasse allora, era invece la pura verità. Quello che in seguito considerammo come un attacco, in realtà, non fu che un tentativo di respingerci. Lungi dall’essere aggressiva l’azione non era neanche difensiva, nel senso usuale del termine: intrapresa sotto la spinta della disperazione, non era che un modo per proteggersi da noi.
«Si svolse, direi, due ore dopo che la nebbia si era alzata, e iniziò in un luogo che si trovava, grosso modo, a circa un miglio e mezzo sotto la stazione di Kurtz. Avevamo appena doppiato faticosamente un’ansa, quando un’isoletta, nulla più che una cunetta erbosa di un verde brillante, mi apparve in mezzo all’acqua. Era la sola del genere, ma quando avanzammo un poco, vidi che essa costituiva la punta avanzata di un lungo banco di sabbia, o meglio di una catena di secche che si stendevano nel mezzo del fiume. Erano scolorite, appena affioranti e si intravvedevano sotto il pelo dell’acqua, proprio come, lungo la schiena, sotto la pelle di un uomo si intravvede correre la spina dorsale. Per quanto avevo modo di vedere, ci si poteva passare sia da destra che da sinistra. Naturalmente, io non conoscevo i due lati del canale. Le sponde parevano quasi identiche e anche la profondità sembrava la stessa, ma siccome mi avevano detto che la stazione si trovava sulla riva occidentale, mi diressi istintivamente verso il passaggio a ovest.
«Non appena imboccato, si rivelò molto più stretto di quanto mi fosse sembrato. Alla nostra sinistra si stendeva la lunga, ininterrotta fila di secche e, a destra, la sponda alta e ripida, era coperta da una folta macchia, con dietro gli alberi svettanti in ranghi serrati. Il fogliame pendeva fitto sul fiume e di tanto in tanto un grosso ramo si protendeva rigido di traverso. Nel pomeriggio ormai inoltrato, il volto della foresta appariva cupo, e sull’acqua era già scesa una larga striscia d’ombra. Era in quell’ombra che avanzavamo, molto a rilento, non c’è bisogno che ve lo dica. Mi tenevo il più possibile accostato alla sponda, perché l’acqua, come indicavano gli scandagli fatti con la pertica, era più profonda lungo la riva.
«Uno dei miei amici affamati, costretti all’astinenza, scandagliava a prua proprio sotto di me. Quel battello era fatto come una chiatta pontata. Sul ponte c’erano due casette in legno di tek, con porte e finestre. La caldaia si trovava a prua e le macchine a poppa. Il tutto era ricoperto da un tetto leggero, sostenuto da quattro puntali. Il fumaiolo sbucava dal tetto, e proprio davanti al fumaiolo una stretta cabina, costruita con assi sottili, fungeva da cabina di pilotaggio. Conteneva una cuccetta, due seggiolini da campo, una Martini-Henry carica in un angolo, un minuscolo tavolino e la ruota del timone. Sul davanti un’ampia porta e due larghi portelli ai lati. Porta e portelli, naturalmente, erano sempre spalancati. Io passavo le mie giornate lassù, appollaiato all’estremità prodiera di quel tetto, davanti alla porta. Di notte dormivo, o cercavo di dormire, sulla cuccetta. Un atletico nero che apparteneva a non so quale tribù costiera e che era stato istruito dal mio sfortunato predecessore, era il timoniere. Portava dei vistosi orecchini di ottone, una specie di guaina di stoffa blu che lo avvolgeva dalla vita alle caviglie e aveva di sé la più alta opinione. Era il pazzo più imprevedibile che avessi mai incontrato. Finché si era lì, teneva il timone con l’aria del padrone del vapore, ma appena si girava l’occhio, in balia di una fifa invereconda, lasciava che quello sciancato di un battello gli prendesse in un attimo la mano.
«Stavo osservando lo scandaglio, molto contrariato nel constatare che, a ogni immersione, dall’acqua ne sporgeva un pezzo sempre più lungo, quando vidi il mio scandagliatore piantar tutto in asso e buttarsi bocconi sul ponte senza nemmeno curarsi di ritirare la pertica. Però non l’aveva mollata e quella continuava a trascinarsi nell’acqua. Nello stesso momento, vidi il fuochista, anche lui sotto di me, sedersi di colpo davanti alla caldaia infossando la testa fra le spalle. Ero esterrefatto, ma dovetti subito volgere gli occhi al fiume perché sulla nostra strada c’era un tronco d’albero. Intorno volavano dei bastoncini, dei piccolissimi bastoncini fitti fitti; mi sibilavano davanti al naso, cadevano ai miei piedi, battevano dietro a me contro la cabina. E intanto, il fiume, la riva, i boschi erano silenziosi, assolutamente silenziosi. Non si udiva che il poderoso tonfo sciabordante della nostra ruota poppiera e il picchiettio di quelle cose che volavano. Senza eleganza, ma il tronco lo scansammo. Erano frecce, per Giove! E le lanciavano contro di noi! Rientrai rapido per chiudere il portello dal lato della terra. Quell’idiota del timoniere, le mani strette alle caviglie della ruota, alzava le ginocchia, pestava i piedi, si mordeva la bocca, come un cavallo imbrigliato. Maledizione a lui! E noi ci trascinavamo barcollando a tre metri dalla sponda! Dovetti sporgermi in fuori per smuovere il pesante portello e allora vidi una faccia fra le foglie, all’altezza della mia, che mi guardava con feroce fissità. Ed ecco che, all’improvviso, come se mi fosse caduta una benda dagli occhi, distinsi, in fondo a quel tenebroso intrico vegetale, dei petti nudi, delle braccia, delle gambe, degli occhi abbaglianti: la boscaglia brulicava di forme umane in movimento, lucenti, del colore del bronzo. Dai rami che si agitavano, dondolavano, frusciavano, uscivano volando le frecce, e, finalmente il portello si chiuse. “Tienila dritta”, dissi al timoniere. Teneva la testa ferma, la faccia protesa, ma gli occhi roteavano, e continuava ad alzare e ad abbassare adagio i piedi, con un po’ di bava alla bocca. “Sta fermo!”, dissi infuriato. Era come se avessi ordinato a un albero di non muoversi al vento. Schizzai fuori. Sotto di me, sul ponte di ferro, sentivo un gran scalpiccio e degli schiamazzi confusi. Una voce gridò: “Non può tornare indietro?” Sull’acqua davanti a noi scorsi un’increspatura a forma di V. Cosa? Un altro tronco! Sotto i miei piedi scoppiò una scarica di fucili. I pellegrini avevano aperto il fuoco con i loro Winchester e stavano letteralmente innaffiando di piombo la boscaglia. Si formò un malefico nuvolone di fumo che avanzava lentamente sul fiume. Bestemmiai. Non potevo più vedere né l’increspatura né il tronco. Facendo capolino, mi tenevo sul vano della porta con le frecce che arrivavano a sciami. Potevano anche essere avvelenate, ma a vederle, non sembravano in grado di far male a un gatto. La boscaglia cominciò a ululare. I nostri taglialegna lanciarono un grido di guerra e lo sparo di una carabina proprio dietro la schiena mi assordò. Diedi un’occhiata sopra la mia spalla e nella cabina ancora piena di rumore e fumo, con un balzo, mi lanciai sulla ruota del timone. Quel deficiente del nero aveva mollato tutto per spalancare il portello e metter fuori la Martini-Henry. Stava in piedi davanti alla larga apertura, con l’aria feroce e, mentre gli gridavo di tornare al timone, raddrizzai l’improvvisa torsione del battello. Non c’era spazio per far marcia indietro neanche se lo avessi voluto; il tronco era da qualche parte davanti a noi, molto vicino, nascosto da quel fumo maledetto; non c’era tempo da perdere, perciò schiacciai il battello contro la sponda, dritto contro la sponda, dove sapevo che l’acqua era più profonda.
«Ci aprimmo lentamente un varco attraverso i cespugli sporgenti in un vortice di rametti spezzati e di foglie che cadevano. Il fuoco di fila si interruppe di botto, come avevo previsto sarebbe accaduto, una volta sparate tutte le sue cartucce. Ritrassi la testa per evitare un baluginio sibilante che attraversò la cabina, entrando dal varco di un portello e uscendo dall’altro. Al di là del timoniere demente che brandiva la carabina scarica urlando in direzione della riva, vidi delle vaghe forme umane correre piegate in due, saltare, strisciare, indistinte, incomplete, evanescenti. Qualcosa di grosso apparve nell’aria davanti al portello, la carabina filò in acqua e l’uomo, indietreggiando rapido, mi lanciò di traverso un’occhiata straordinaria, profonda e familiare, e poi cadde ai miei piedi. Batté la testa due volte sulla ruota del timone e l’estremità di quella che sembrava una lunga canna sbatacchiò in giro rovesciando uno dei seggiolini da campo. Si sarebbe detto che dopo aver strappato quella cosa dalle mani di qualcuno sulla riva, avesse perso l’equilibrio nello sforzo. Il fumo sottile era svanito, avevamo evitato il tronco, e guardando in avanti vidi che a un centinaio di metri più in là sarei stato libero di scostarmi dalla sponda, ma dovetti abbassare lo sguardo perché mi sentii improvvisamente i piedi caldi e bagnati. L’uomo era riverso sulla schiena con gli occhi fissi su di me e le mani avvinghiate a quella canna. Era l’asta di una lancia che, scagliata o affondata attraverso il portello, lo aveva colpito al fianco appena sotto le costole. La lama era entrata tutta, sino a scomparire, dopo aver fatto un terribile squarcio. Avevo le scarpe piene e una pozza di sangue si stendeva immobile in un luccichio rosso scuro sotto la ruota del timone. Gli occhi dell’uomo brillavano di un sorprendente splendore. La sparatoria ricominciò. Mi rivolse uno sguardo ansioso, stringendo la lancia come una cosa preziosa, come se avesse paura che io cercassi di portargliela via. Dovetti fare uno sforzo per distogliere gli occhi da quello sguardo e occuparmi del timone. Con una mano cercai a tentoni, sopra la mia testa, la cordicella del fischio a vapore e la strattonai stridore dopo stridore precipitosamente. Il tumulto delle grida furiose e guerriere si interruppe all’istante e dalle profondità del bosco si alzò, tremulo e prolungato, un gemito di disperato spavento e di costernazione estrema, simile a quello che, ci si immagina, seguirebbe all’involarsi dell’ultima speranza da questa terra. Ci fu un gran fermento nel sottobosco: la pioggia di frecce cessò, qualche sparo isolato echeggiò sonoro, e poi il silenzio, in cui il languido battito della ruota poppiera mi arrivò distintamente all’orecchio. Stavo mettendo il timone a tutta dritta nel momento in cui, nel vano della porta, apparve il pellegrino in pigiama rosa, molto accaldato e su di giri.
«”Mi manda il direttore…”, cominciò in tono ufficiale ma si interruppe di botto. “Dio santo!”, disse, spalancando gli occhi alla vista del ferito.
«Noi due bianchi stavamo sopra di lui e lui con i suoi occhi lustri e inquisitori ci avvolgeva entrambi nel suo sguardo. Ve lo assicuro, sembrava che stesse per farci una domanda, in una lingua comprensibile, invece morì, senza emettere un suono, senza muovere un arto, senza contrarre un muscolo. Solo all’ultimo istante, come in risposta a un segno che noi non potevamo vedere, a un sussurro che non potevamo udire, aggrottò profondamente la fronte e quella fronte aggrottata impresse sulla sua nera maschera di morte un’espressione indicibilmente cupa, torva e minacciosa. La lucentezza di quello sguardo inquisitore non fu ben presto che vitrea vacuità.
«”È capace di governare una barca?”, chiesi brusco all’agente. Mi guardò dubbioso, ma io feci l’atto di afferrargli un braccio ed egli capì immediatamente che intendevo dargli il timone in mano, capace o meno che fosse a tenerlo. Per dire la verità, avevo un bisogno quasi morboso di cambiarmi le calze e le scarpe.
«”È morto”, mormorò l’agente, immensamente impressionato. “Su questo non c’è dubbio”, dissi io, strappandomi furiosamente i lacci delle scarpe. “A proposito, suppongo che a quest’ora sia morto anche il signor Kurtz.”
«In quel momento, era quello il mio pensiero dominante. Provavo una grandissima delusione: come se avessi scoperto di aver rincorso una cosa assolutamente inconsistente. Non mi sarei sentito più disgustato se avessi intrapreso tutto quel viaggio al solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con… Lanciai una scarpa fuori bordo, e mi resi conto che era proprio quello che non vedevo l’ora di fare: parlare con Kurtz. Feci la strana scoperta che di lui non avevo una immagine di un agire, capite?, ma di un discorrere. Non mi dicevo: “Dunque non lo vedrò mai”, o “Non gli stringerò mai la mano”, ma, “Dunque non lo udrò mai.” Quell’uomo si presentava come una voce. Naturalmente non è che non lo associassi a qualche specie di azione. Su tutti i toni dell’invidia e dell’ammirazione, non mi avevano forse detto che da solo aveva raccolto, barattato, estorto o rubato più avorio lui di tutti gli altri agenti messi insieme? Non si trattava di questo. Si trattava del fatto che, fra tutte le doti di quell’essere tanto dotato, quella che emergeva in modo preponderante, che dava il senso di una presenza reale, era la sua capacità di parlare, il dono della parola: questa dote che sconcerta o illumina, la più nobile e la più spregevole, vivificante flusso di luce o torrente ingannatore scaturito dal cuore di una tenebra impenetrabile.
«Anche l’altra scarpa andò volando al dio maligno di quel fiume. Pensai, per Giove! è finita. Siamo arrivati troppo tardi. Lui è svanito, il dono è svanito, per opera di una lancia o di una freccia o di un bastone. Dunque non lo udrò mai parlare. C’era nella mia afflizione uno strano eccesso emotivo, simile a quello che avevo avvertito nell’angoscioso ululato di quei selvaggi nella boscaglia. Non avrei sentito una peggiore desolata solitudine, se fossi stato derubato di una fede o se avessi mancato al mio destino in questa vita… Perché qualcuno ha sbuffato in modo così bestiale? Assurdo, dice? Va bene, assurdo. Signore Iddio! Un uomo non deve mai… Basta, datemi del tabacco.»
Ci fu una pausa di profonda quiete, poi, alla luce di un fiammifero, apparve il magro volto di Marlow, consunto, svuotato, le pieghe cascanti, le palpebre abbassate, l’aria attenta e concentrata; e mentre dava vigorose tirate alla sua pipa, nello sfavillio regolare di quella piccola fiamma, sembrava emergere dalla notte per poi sprofondarvi. Il fiammifero si spense.
«Assurdo!», esclamò. «È questa la cosa peggiore quando si cerca di raccontare… Eccovi qua tutti, ciascuno ormeggiato a due buoni indirizzi, come un vecchio scafo alle sue due ancore, il macellaio da una parte, il poliziotto dall’altra, eccellenti appetiti e temperatura del corpo normale – normale, capite – dall’inizio alla fine dell’anno. E dite assurdo! Assurdo un corno! Assurdo! Cari miei, che cosa vi potevate aspettare da un uomo che, in uno scatto di nervi, aveva appena fatto volare fuori bordo un paio di scarpe nuove! Quando ci penso, mi sembra sorprendente di non essermi messo a piangere. E, tutto considerato, sono fiero della mia forza d’animo. Mi pungeva sul vivo l’idea di aver perduto l’inestimabile privilegio di ascoltare il dotatissimo Kurtz. Naturalmente, avevo torto: il privilegio mi stava aspettando. Ah sì, ne ho sentito più che abbastanza. Ma avevo anche ragione: era una voce. Poco più di una voce. E ho udito – lui – lei – quella voce – altre voci – erano tutti poco più che delle voci – e il ricordo stesso di quell’epoca si attarda intorno a me, impalpabile, come la vibrazione morente di un immenso bla bla bla, sciocco, atroce, sordido, selvaggio o semplicemente meschino e insensato. Voci, voci… la ragazza stessa… ormai…»
Stette zitto a lungo.
«Alla fine ho placato il fantasma delle sue doti con una bugia», riprese all’improvviso. «La ragazza! Cosa? Ho parlato di una ragazza? Ma lei non c’entra, assolutamente. Loro – le donne, voglio dire – sono al di fuori di tutto questo, o almeno dovrebbero esserlo. Dobbiamo aiutarle a stare in quel bellissimo mondo che è il loro, se non vogliamo che il nostro diventi ancora peggiore. Oh, lei non c’entrava. Avreste dovuto sentirlo il cadavere dissepolto del signor Kurtz dire, “La mia fidanzata.” Avreste percepito immediatamente a qual punto lei fosse estranea a tutto ciò. E quel grande osso frontale del signor Kurtz! Dicono che qualche volta i capelli continuino a crescere, ma questo… ehm… questo esemplare era di una calvizie impressionante. La selva selvaggia gli aveva dato un buffetto sulla testa, ed ecco, era diventata come una palla: una palla d’avorio. Lo aveva accarezzato e toh, lui era avvizzito; lo aveva preso, amato, tenuto fra le braccia, era entrata nelle sue vene, aveva consumato la sua carne, aveva posto il suo sigillo sulla sua anima attraverso inconcepibili riti di una qualche diabolica iniziazione. Era il suo favorito, coccolato e viziato. Avorio? Ma direi! Mucchi, montagne di avorio. La vecchia baracca di fango era piena da scoppiarne. C’era da pensare che non ne restasse nemmeno una zanna, né sopra né sotto la terra di quel paese. “Per la maggior parte fossile”, fu il commento denigratorio del direttore. Era meno fossile di me, ma lo chiamano fossile quando lo dissotterrano. Sì, sembra che i neri a volte seppelliscano le zanne, ma evidentemente quella partita non l’avevano seppellita a profondità sufficiente da sottrarre il dotato signor Kurtz al suo destino. Riempimmo il battello di avorio e ne dovemmo accatastare un mucchio anche sul ponte. Così, finché fu in grado di vedere, lo potè guardare, e goderne, perché fino alla fine apprezzò quel suo fiore all’occhiello. Avreste dovuto sentirgli dire: “Il mio avorio.” Ah! io l’ho sentito. “La mia fidanzata, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio…” Era tutto suo. E io trattenevo il fiato aspettandomi di udire la selva selvaggia scoppiare in una fragorosa risata che avrebbe scosso le stelle fisse sul loro asse. Apparteneva tutto a lui, ma questo sarebbe stato irrilevante. L’importante era sapere a chi apparteneva lui, quante potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà. Quella era la riflessione che vi faceva accapponare la pelle. Era impossibile – e anche malsano – cercare di indovinarlo. Aveva occupato un posto molto elevato fra i demoni di quel paese, lo dico letteralmente. Voi non potete capire. E come potreste, voi che avete un terreno solido sotto i piedi, che siete circondati da vicini cortesi, pronti ad applaudire o a gettarsi su di voi, voi che vi muovete a piccoli passi guardinghi fra il macellaio e il poliziotto, col sacro terrore dello scandalo, della prigione e del manicomio? Come riuscireste a immaginare in quale particolare regione delle epoche primordiali i piedi senza impacci di un uomo lo possano portare lungo la via della solitudine – una solitudine assoluta senza un poliziotto – lungo la via del silenzio, un silenzio assoluto, dove non si può sentire la voce ammonitrice di un cortese vicino che si fa eco dell’opinione della gente? Sono queste piccole cose che fanno la grande differenza. E quando non ci sono più si deve ricorrere alla propria forza interiore, alla propria capacità di restare fedeli. Certo, si può anche essere troppo sciocchi per correre il rischio di perdersi, troppo ottusi persino per sospettare di star subendo l’assalto dei poteri della tenebra. Potrei scommetterlo: uno sciocco non ha mai fatto un patto col diavolo per vendergli l’anima. O lo sciocco è troppo sciocco, o il diavolo è troppo diavolo: una delle due. Oppure si può essere degli esseri talmente al di sopra da rimanere sordi e ciechi a qualsiasi cosa tranne che alle visioni e ai suoni celesti. Per costoro la terra non è che un luogo di passaggio, e, se per chi è così sia una perdita o un guadagno, io non ho la pretesa di saperlo. Ma la maggior parte di noi non è né l’uno né l’altro. Per noi la terra è un luogo in cui ci si deve vivere, dove si devono sopportare spettacoli, rumori, e anche odori, per Giove! – respirare carogna di ippopotamo, per esempio, – e non restarne contaminati. Ed è qui, vedete?, che entra in gioco la forza personale, la fiducia nella propria capacità di scavare delle fosse non troppo vistose per seppellirvi quella roba: la capacità di dedizione, non a se stessi, ma a qualche oscura, estenuante faccenda. E non è una cosa facile. Badate, non sto cercando di giustificare e neanche di spiegare. Sto solo cercando di farmi una ragione di… del signor Kurtz…, dell’ombra del signor Kurtz. Questo iniziato fantasma, scaturito dal fondo del Nulla, mi onorò delle sue sorprendenti confidenze prima di sparire in modo definitivo. Semplicemente perché poteva parlare inglese con me. Il Kurtz originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto parte della sua educazione in Inghilterra e – come ebbe la bontà di dirmi – le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L’Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e un po’ alla volta venni a sapere che, molto a proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l’aveva scritto quel rapporto. L’ho visto. L’ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po’ troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo doveva essere avvenuto prima che i suoi – diciamo nervi – saltassero, e lo portassero a presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che – da quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese – venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo arrivati, “dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina”, ecc., ecc. “Con il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene, praticamente illimitato”, ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a un’Immensità esotica retta da un’augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era questo il potere illimitato dell’eloquenza – della parola – di nobili parole infiammate. Non c’erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una specie di nota in fondo all’ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con mano malferma, possa essere considerata l’enunciazione di un metodo. Era molto semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno: “Sterminare tutti questi bruti!” La cosa più curiosa è che doveva aver apparentemente dimenticato del tutto quel prezioso post-scriptum, perché, più tardi, quando in un certo senso ritornò in sé, mi pregò ripetutamente di prendermi cura del suo “pamphlet” (è così che lo chiamava), perché sicuramente in futuro avrebbe influito favorevolmente sulla sua carriera. Ebbi informazioni complete su tutte queste cose e, inoltre, accadde che dovetti essere io a prendermi cura della sua memoria. Ciò che ho fatto per lei mi darebbe l’indiscutibile diritto di depositarla, se questa fosse la mia scelta, nel secchio delle spazzature del progresso, per un eterno riposo in mezzo a tutti i rifiuti e – parlando metaforicamente – a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, in realtà, vedete, non ho scelta. Non si lascia dimenticare. Qualsiasi cosa fosse non era un uomo comune. Aveva il potere di incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in un esaltato sabba; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari presagi. Aveva almeno un amico devoto, e aveva conquistato un’anima al mondo che non era né semplice né macchiata di egoismo. No, non lo posso dimenticare, anche se non sono disposto ad affermare che lui valesse la vita dell’uomo che perdemmo per arrivare da lui. Il mio timoniere morto mi mancava terribilmente. Mi mancava già quando ancora il suo corpo giaceva nella cabina del timone. Forse vi sembrerà piuttosto strano questo rimpianto per un selvaggio che contava quanto un granello di sabbia in un Sahara nero. Ma, vedete, aveva fatto qualcosa: aveva governato la barca; per mesi l’avevo avuto dietro di me – un aiuto – uno strumento. Era una specie di associazione la nostra: lui governava per me, io lo sorvegliavo, mi preoccupavo delle sue deficienze, e così si era creato un sottile legame, di cui mi resi conto solo nel momento in cui fu improvvisamente spezzato. E la profonda intimità dello sguardo che mi aveva lanciato quando era stato colpito, rimane ancor oggi nella mia memoria, come se nel momento supremo, avesse voluto attestare una nostra lontana parentela.
«Che scemo! Bastava che avesse lasciato stare quel portello! Ma non aveva alcun freno, nessun freno inibitore – proprio come Kurtz – un albero in balia del vento. Non appena ebbi infilato un paio di pantofole asciutte, lo trascinai via dalla cabina, dopo avergli tirato fuori la lancia dal fianco, operazione che eseguii, lo confesso, con gli occhi ben chiusi. I suoi talloni sobbalzarono insieme sul piccolo gradino della porta; mi stringevo le sue spalle contro al petto abbracciandolo da dietro disperatamente. Oh! era pesante, pesante; mi sembrava più pesante di qualsiasi altro uomo al mondo. Poi, senza altre cerimonie, lo feci precipitare fuori bordo. La corrente lo afferrò come se fosse un ciuffo d’erba, e vidi il corpo rigirarsi due volte prima di sparire per sempre. Tutti i pellegrini, con anche il direttore, erano radunati in quel momento sul ponte di comando intorno alla cabina del timone. Ciarlavano fra loro, come uno stormo di gazze eccitate e la mia diligenza impietosa sollevò un mormorio scandalizzato. Perché poi ci tenessero a conservare quel corpo, non lo riesco proprio a capire. Per imbalsamarlo, forse. Intanto sul ponte sottostante era corso un altro mormorio, e molto minaccioso. I miei amici, i taglialegna, erano anche loro scandalizzati, e con una parvenza di maggior ragione, benché non esiti a riconoscere che non era una ragione proprio ammissibile. Ah, proprio no! Avevo deciso che se il mio timoniere doveva essere mangiato, sarebbero stati solo i pesci ad averlo. Da vivo, era stato un timoniere di second’ordine, ma adesso che era morto poteva diventare una tentazione di primissima qualità, e magari provocare qualche guaio serio. E per di più, ero anche ansioso di riprendere il timone, dato che l’uomo col pigiama rosa era totalmente negato alla bisogna.
«Cosa che mi affrettai a fare non appena concluso quel semplice funerale. Procedavamo a velocità ridotta, tenendoci nel mezzo della corrente, e io ascoltavo i discorsi attorno a me. Davano Kurtz per spacciato e spacciata la stazione: cioè, Kurtz era morto e la stazione bruciata, e via su questo tono. Il pellegrino dal pelo fulvo era fuori di sé al pensiero che quel povero Kurtz per lo meno era stato degnamente vendicato. “Eh sì, dobbiamo aver fatto proprio un bel macello dentro alla boscaglia. Vero? Cosa ne pensate? Eh?” Gongolava, letteralmente, quel rosso malpelo assetato di sangue. Ed era quasi svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: “Quel che è certo è che avete fatto un bel po’ di fumo.” Avevo visto, dal modo in cui si muovevano e volavano le cime dei cespugli, che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce niente se non si prende la mira e non si imbraccia il fucile; quei tangheri sparavano tenendolo appoggiato all’anca e con gli occhi chiusi. La ritirata, dichiarai, – e avevo ragione – era dovuta unicamente allo stridore del fischio. Al che si dimenticarono di Kurtz e iniziarono a sbraitare, protestando indignati contro di me.
«Mentre il direttore, in piedi vicino al timone, mi mormorava confidenzialmente all’orecchio, qualcosa sulla necessità di ridiscendere la corrente per un bel tratto, prima del calar del sole, come precauzione, scorsi da lontano una radura sulla riva del fiume, e la sagoma di una specie di edificio. “Che cos’è?”, chiesi. Stupitissimo, battè le mani. “La stazione!”, esclamò. Mi spostai immediatamente verso riva, senza aumentare la velocità.
«Col binocolo vidi il pendio di una collina con pochi alberi distanziati fra loro, completamente sgombra dal sottobosco. Un lungo edificio fatiscente appariva sulla cima, mezzo sepolto sotto l’erba incolta; dei grandi buchi nel tetto a punta, si spalancavano da lontano tutti neri; la giungla e la foresta facevano da sfondo. Non c’era né palizzata né steccato di nessuna specie; ma doveva essercene stato uno, perché vicino alla casa, restavano allineati una mezza dozzina di sottili pali, rozzamente squadrati e con le punte ornate di rotondi pomi intagliati. Le traverse, o quello che poteva esserci in mezzo a loro, erano sparite. Naturalmente la foresta circondava tutto, ma la riva era sgombra e sul bordo dell’acqua vidi un bianco, sotto un cappello simile alla ruota di un carro che si sbracciava per richiamare la nostra attenzione. Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, ebbi quasi la certezza di vedere dei movimenti: delle forme umane che scivolavano silenziose qua e là. Per prudenza passai oltre quel luogo, e poi fermai le macchine, lasciandoci trasportare dalla corrente. L’uomo sulla riva iniziò a vociare, incitandoci a scendere a terra. “Siamo stati attaccati”, strillò il direttore. “Lo so, lo so. Va tutto bene”, gridò in risposta l’altro, molto gioviale. “Venite. Tutto bene. Son contento.”
«Il suo aspetto mi ricordava qualcosa, qualcosa di stravagante che avevo già visto da qualche parte. Mentre facevo manovra per attraccare, mi domandavo: “Ma a cos’è che assomiglia quello lì?” E improvvisamente mi venne in mente. Assomigliava a un arlecchino. I suoi vestiti erano fatti di quello che senz’altro era stato una volta del lino greggio, ma erano tutti coperti di toppe, dai colori vivaci, blu, rosse e gialle, toppe sul dorso, toppe sul davanti, sui gomiti, sulle ginocchia; una fettuccia colorata orlava la giacca, una bordura rossa il fondo dei pantaloni, e alla luce del sole appariva estremamente gaio e lindo nello stesso tempo, perché si vedeva con quale cura era stata fatta tutta quella rattoppatura. Un volto imberbe, da ragazzo, molto chiaro, privo di tratti caratteristici, il naso spellato, occhietti azzurri, sorrisi e aggrottamenti che si inseguivano su quella fisionomia aperta, come il sole e l’ombra su una pianura spazzata dal vento. “Attento, capitano!”, gridò. “C’è un tronco d’albero insediato qui dalla notte scorsa.” Cosa? Un altro? Confesso di aver bestemmiato senza ritegno. Mancava solo che squarciassi la mia bagnarola per concludere quel magnifico viaggio. L’arlecchino sulla riva sollevò il nasetto camuso verso di me. “Inglese?”, domandò, tutto sorrisi. “E lei?”, urlai dalla ruota. I sorrisi si spensero e scosse la testa come per scusarsi di dovermi deludere. Poi si rilluminò. “Pazienza!”, esclamò, incoraggiante. “Arriviamo in tempo?”, chiesi. “Lui è lassù”, rispose con una scrollata del capo verso la cima della collina, improvvisamente incupito. La sua faccia era simile al cielo d’autunno, ora coperto ora luminoso.
«Quando il direttore, scortato dai pellegrini armati fino ai denti, se ne andò in casa, il giovinotto salì a bordo. “Guardi, non mi piace per niente. Ci sono gli indigeni nella boscaglia”, dissi. Mi assicurò caldamente che andava tutto bene. “È gente semplice”, aggiunse, “ma, son contento che siate venuti. Mi toccava passar tutto il tempo a tenerli a bada.” “Ma non ha detto che andava tutto bene!”, sbottai. “Oh, non avevano cattive intenzioni”, disse, e siccome lo fissai con gli occhi sgranati, si corresse: “Non proprio.” Poi con vivacità: “Perbacco, la sua cabina ha bisogno di una ripulita!” E senza riprendere fiato, mi consigliò di tenere abbastanza vapore nella caldaia per azionare il fischio in caso di allarme.”Una bella fischiata vi sarà più utile di tutti i vostri fucili. È gente semplice”, ripeté. Mi mitragliava di parole fino a stordirmi. Sembrava volersi rifare di silenzi accumulati, e di fatti mi lasciò capire, ridendo, che era proprio così. “Non parla con il signor Kurtz?”, chiesi. “Non si parla con un uomo come lui, lo si ascolta”, esclamò in tono severo e esaltato. “Ma adesso…” Agitò il braccio e in un batter d’occhio si trovò sprofondato nell’abisso dello scoraggiamento. D’un balzo però ne riemerse, si impossessò delle mie mani e senza smettere di stringerle, farfugliò: “Fratello marinaio… che onore… piacere… gioia… mi presento… russo… figlio di un arciprete… patriarcato di Tambov… Cosa! Del tabacco? Del tabacco inglese? L’eccellente tabacco inglese! Ah, questo sì che è da fratello. Se fumo? E qual è il marinaio che non fuma?”
«La pipa lo sedò, e poco a poco colsi che era scappato da scuola, si era imbarcato su una nave russa, era scappato di nuovo, aveva servito per un po’ su delle navi inglesi e poi si era riconciliato con l’arciprete. Attribuiva grande importanza a questo fatto. “Ma quando si è giovani bisogna vedere il mondo, accumulare esperienza, idee, allargare la mente.” “Qui!”, lo interruppi. “Non si può mai dire! Qui ho incontrato il signor Kurtz”, disse con un tono di rimprovero e di giovanile solennità. Al che tenni a freno la lingua. Pare che avesse persuaso una ditta commerciale olandese della costa ad affidargli delle provviste e delle mercanzie ed era partito per l’interno a cuor leggero, e con più incoscienza di un bambino su quello che poteva capitargli. Aveva vagato sul fiume per quasi due anni, da solo, separato da tutto e da tutti. “Non sono così giovane come sembro. Ho venticinque anni”, disse. “All’inizio il vecchio Van Shuyten aveva provato a mandarmi al diavolo”, raccontò, molto divertito, “ma io, incollato alle sue calcagna, parlavo e parlavo, tanto che alla fine, temendo di restare schiacciato sotto la mia ruota libera, mi riempì di paccottiglia e di qualche fucile, dicendomi che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Bravo vecchio, l’olandese, Van Shuyten. Gli ho spedito una piccola partita di avorio un anno fa, così quando torno non potrà dire che sono un lestofante. Spero che l’abbia ricevuto. E del resto me ne infischio. Avevo preparato della legna per lei. Quella era la mia vecchia casa. L’ha vista?”
«Gli porsi il libro di Towson. Stava quasi per buttarmi le braccia al collo, ma si trattenne. “Il solo libro che mi restasse e pensavo di averlo perso”, disse, guardandolo estasiato. “Capitano tanti accidenti, sa, a un uomo che se ne va in giro da solo. Le canoe ogni tanto si capovolgono e qualche volta bisogna anche battersela in fretta quando la gente si arrabbia.” Sfogliava le pagine. “Ci ha fatto delle annotazioni in russo?”, chiesi. Annuì. “Pensavo che fossero scritte in codice”, dissi. Si mise a ridere, poi, serio: “Ho fatto molta fatica a tenere a bada quella gente.” “Volevano uccidervi?”, chiesi. “Oh, no!”, esclamò, interrompendosi subito. “E perché ci hanno attaccati?”, continuai. Esitò, poi con una sorta di pudore disse: “Non vogliono che lui se ne vada.” “Davvero?”, dissi incuriosito. Annuì con un cenno pieno di saggezza e di mistero. “Badi bene”, esclamò, “quell’uomo mi ha allargato la mente.” Spalancò le braccia, guardandomi coi suoi occhietti azzurri, tondi tondi.
«Ormai ero completamente sveglio, ma rimanevo disteso, immobile nella mia comoda posizione, e non avevo nessuna intenzione di cambiarla. “Ma come ha fatto tutto quell’avorio ad arrivare fin qua?”, ringhiò il più anziano che sembrava molto irritato. L’altro spiegò che era giunto con una flottiglia di canoe guidata da un meticcio inglese, un impiegato di Kurtz; che Kurtz stesso aveva apparentemente progettato di rientrare, la sua stazione era ormai sfornita di provviste e mercanzie, ma dopo aver percorso trecento miglia, aveva improvvisamente deciso di tornare indietro; cosa che aveva fatto, da solo, in una piccola piroga, con quattro vogatori, lasciando che il meticcio continuasse il viaggio giù per il fiume con l’avorio. I due compari sembravano sbalorditi che qualcuno avesse tentato una cosa simile; e non riuscivano a immaginarne il motivo. Quanto a me, mi sembrò di vedere Kurtz per la prima volta. Ne ebbi una visione fugace ma chiara: la piroga, i quattro selvaggi che remavano, e l’uomo bianco solitario che volgeva subitaneo le spalle al quartier generale, a ogni forma di aiuto, a ogni idea di ritorno, chissà!, per dirigersi a viso fermo verso le profondità della selva selvaggia, verso la sua stazione vuota e desolata. Non ne conoscevo il motivo. Forse era solo un tipo in gamba attaccato al lavoro per amore del lavoro. Il suo nome, notate, non era mai stato pronunciato, neanche una volta. Era “quell’uomo”. Al meticcio che, da quanto potevo giudicare, aveva condotto quella spedizione difficile con grande prudenza e fegato, si alludeva invariabilmente come a “quella canaglia”. La “canaglia” aveva riferito che l'”uomo” era stato molto ammalato e che non si era rimesso del tutto… I due sotto di me si allontanarono di qualche passo, passeggiando avanti e indietro poco distanti. Udii: “Posto militare… dottore… duecento miglia… completamente solo adesso… ritardi inevitabili… nove mesi… nessuna notizia… strane voci.” Poi si riavvicinarono, proprio mentre il direttore diceva: “Nessuno, per quanto io sappia, tranne una specie di trafficante vagabondo, un individuo esiziale, che scippa l’avorio agli indigeni.” Di chi è che parlavano adesso? Mettendo assieme i pezzi capii che si trattava di un uomo che molto probabilmente stava nella zona di Kurtz, e che non godeva della simpatia del direttore. “Riusciremo a sbarazzarci della concorrenza sleale solo quando uno di questi individui verrà impiccato, per dare l’esempio”, disse. “Certamente”, grugnì l’altro, “fallo impiccare! Perché no? In questo paese si può fare di tutto, di tutto. Sai cosa ti dico? Qui, capisci, qui, nessuno può compromettere la tua posizione. E sai perché? Tu sopporti il clima: li seppellirai tutti. Il pericolo è in Europa, ma lì, prima di partire ho provveduto io a…” Si allontanarono bisbigliando; poi le loro voci si alzarono di nuovo. “Questa straordinaria serie di ritardi non è colpa mia. Io ho fatto il possibile.” Il grassone sospirò: “Che ci vuoi fare!” “E la pestilenziale assurdità dei suoi discorsi”, continuò l’altro. “Mi ha quasi asfissiato quand’era qua. ‘Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla via del progresso, un centro per commerciare, certo, ma anche per umanizzare, migliorare, istruire.’ Ti rendi conto… quel coglione! E vuole diventare direttore! No, è…” A quel punto si soffocò in un accesso di indignazione e io alzai un pochino la testa. Fui sorpreso di vedere quanto fossero vicini, proprio sotto di me. Avrei potuto sputare sui loro cappelli. Guardavano per terra, assorti nei loro pensieri. Il direttore si frustava la gamba con una verga sottile; il suo sagace parente sollevò la crapa. “Sei stato bene da quando sei tornato qui, questa volta?”, chiese. L’altro trasalì. “Chi? Io? Oh! D’incanto, d’incanto. Ma gli altri, Dio santo! Tutti malati. Muoiono così in fretta poi, che non faccio neanche a tempo a mandarli via dal paese. È incredibile!” “Hem. Per l’appunto”, grugnì lo zio. “Ah! ragazzo mio, è proprio su questo che devi contare, ti dico, su questo.” Gli vidi stendere un braccetto, corto come una pinna, in un gesto che abbracciava la foresta, l’insenatura, il fango, il fiume, come se, con una mossa oltraggiosa alla faccia assolata del paese, rivolgesse un perfido invito alla morte in agguato, al male nascosto, alla profondità tenebrosa del cuore di quella terra. Era così stupefacente che balzai in piedi e mi voltai a guardare il ciglio della foresta, quasi mi aspettassi una qualche risposta a quel diabolico sfoggio di confidenza. Sapete che idee stravaganti ci vengono talvolta. L’immobilità assoluta, paziente e minacciosa, fronteggiava quelle due figure in attesa che sparisse la fantastica invasione.
«Bestemmiarono tutti e due ad alta voce, per pura paura, credo, poi fingendo di ignorare che io esistessi, s’incamminarono verso la stazione. Il sole era basso e, piegati in avanti, fianco a fianco, sembravano trascinare faticosamente su per la salita le loro ridicole ombre di ineguale lunghezza, che strisciavano lentamente dietro di loro sull’erba alta senza piegarne un solo filo.
«Di lì a pochi giorni la Spedizione Eldorado si inoltrò nella paziente landa selvaggia, che si richiuse su di lei come fa il mare sopra uno che si tuffa. Dopo molto tempo arrivò la notizia che erano morti tutti gli asini. Della sorte degli altri animali meno preziosi non so nulla. Trovarono, senza dubbio, come tutti noi, ciò che si meritavano. Non indagai. Allora ero troppo eccitato alla prospettiva che molto presto avrei incontrato Kurtz. Quando dico molto presto vuol dire per quanto fosse consentito laggiù, cioè in modo relativo. Da quando lasciammo l’insenatura, passarono giusto due mesi prima che toccassimo terra sotto la stazione di Kurtz.
«Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendore del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze. Sui banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco. Negli slarghi, le acque scorrevano in mezzo a una moltitudine di isole boscose; ci si perdeva in quel fiume, come in un deserto, e per tutto il giorno, si continuava a incappare nelle secche, alla ricerca del canale, fino a sentirsi stregati e tagliati fuori per sempre da quello che si era conosciuto un tempo, in qualche luogo, lontano da lì, in un’altra vita forse. C’erano momenti in cui il proprio passato riaffiorava, come capita talvolta quando non si ha un momento da dedicare a se stessi; ma veniva in forma di sogno inquieto e rumoroso, ricordato con stupore fra le prorompenti realtà di quello strano mondo di piante, di acqua e di silenzio. E questa immobilità di vita non assomigliava affatto alla pace. Era l’immobilità di una forza implacabile che covava un qualche insondabile disegno. Vi guardava con un’aria vendicativa, piena di risentimento. Alla lunga mi ci abituai: non la vedevo più. Non ne avevo il tempo. Dovevo continuamente scrutare il fiume per cercare di indovinare il passaggio; per discernere, più con l’intuito che con la vista, i segni di banchi nascosti; per spiare le rocce sommerse. Imparai a serrare prontamente i denti per impedire che il mio cuore balzasse via, quando schivavo, sfiorandolo, qualche infernale vecchio tronco sornione che avrebbe attentato alla vita della mia bagnarola, sventrandola, facendo annegare tutti i pellegrini. E dovevo tenere d’occhio ogni traccia di albero morto che avremmo tagliato durante la notte per assicurarci il vapore del giorno dopo. Quando si deve badare a questo genere di cose, ai meri accidenti di superficie, la realtà – la realtà, vi dico – impallidisce. La verità più riposta rimane nascosta, fortunatamente, fortunatamente. Ma io la sentivo lo stesso; sentivo spesso la sua immobilità misteriosa che osservava i miei trucchi da scimmia, proprio come osserva voi, quando vi esibite sulle vostre funi tese nel vuoto, per quanto?, per mezza corona a ogni salto mortale.»
“Cerca di essere più civile, Marlow”, borbottò una voce, per cui capii che oltre a me ce n’era almeno un altro sveglio, ad ascoltare.
«Scusatemi. Dimenticavo che si deve aggiungere il patema d’animo al resto del prezzo. Ma che importanza ha il compenso se l’acrobazia è riuscita bene? A voi riescono benissimo. E anch’io non me la sono cavata tanto male, dato che son riuscito a non far affondare il battello al mio primo viaggio. Me ne meraviglio ancora. Immaginatevi un uomo bendato che debba guidare un furgone su una strada dissestata. Ho sudato e tremato non poco su quell’affare, ve l’assicuro. In fin dei conti, per un marinaio, è il peccato più imperdonabile scorticare il fondo di quella cosa che dovrebbe stare sempre a galla sotto la sua guida. Forse nessuno se n’è accorto, ma voi il tonfo non lo dimenticherete mai, vero? Un colpo al cuore. Ve lo ricorderete, lo sognerete, e anni dopo, vi sveglierete di notte per pensarci, e sentirete caldo e freddo in tutto il corpo. Non pretendo di dire che il battello sia rimasto sempre a galla. Più di una volta ha dovuto passare a guado per un tratto, con venti cannibali intorno a diguazzare e a spingere. Strada facendo ne avevamo arruolati alcuni, come ciurma. Brava gente, i cannibali, al loro posto. Uomini con cui si poteva lavorare e a cui io sono grato. E poi non si sono mangiati fra di loro sotto i miei occhi. Si erano portati dietro della carne di ippopotamo che marcì e che mi portò l’odore del mistero della landa selvaggia fin dentro alle narici. Puah! Sento ancora il tanfo. A bordo avevo il direttore e tre o quattro pellegrini col bastone: al completo. Qualche volta incontravamo una stazione sulla sponda del fiume, aggrappata ai margini dell’ignoto, e i bianchi che si precipitavano fuori dai loro tuguri, accogliendoci con gesti festosi e sorpresi, avevano un’aria stranita: sembravano prigionieri di un incantesimo. La parola avorio echeggiava nell’aria per un po’ e poi ci rimmergevamo nel silenzio, lungo tratti deserti, intorno ad anse tranquille, tra le alte mura del nostro tortuoso percorso, che riverberavano in cupi colpi il poderoso battito della nostra ruota poppiera. Alberi, alberi, milioni di alberi, massicci, immensi, svettanti; e ai loro piedi, rasentando la sponda per vincere la corrente, arrancava il piccolo battello fuligginoso, come un indolente scarafaggio che si trascini sul pavimento di un ampio e nobile porticato. Ci si sentiva molto piccoli e sperduti, eppure quella sensazione non era del tutto deprimente. In fin dei conti, anche se eravamo piccoli, quello sporco scarafaggio andava avanti ed era proprio quello che si voleva che facesse. Dove i pellegrini si immaginavano che strisciasse io non lo so. Verso un luogo in cui si aspettavano di arraffare qualcosa, scommetto! Per me strisciava esclusivamente verso Kurtz, ma quando i tubi del vapore iniziarono a perdere ci trascinammo molto lentamente. Le lunghe strade d’acqua si aprivano davanti a noi e si richiudevano al nostro passaggio, come se la foresta, pigra e tranquilla, avesse scavalcato l’acqua per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre più a fondo nel cuore della tenebra. Regnava una gran quiete. La notte, qualche volta, il rullio dei tamburi dietro la cortina degli alberi saliva su per il fiume e si prolungava debolmente, come sospeso nell’aria, sopra le nostre teste, fino allo spuntar del giorno. Se era un segnale di guerra, di pace o di preghiera noi non lo sapevamo. L’alba era sempre annunciata dal calare di un gelido torpore; i taglialegna dormivano, con i fuochi che bruciavano bassi; lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ci faceva trasalire. Eravamo viandanti su una terra preistorica, su una terra che aveva l’aspetto di un pianeta sconosciuto. Potevamo immaginarci di essere i primi uomini che prendevano possesso di un’eredità maledetta, che si doveva conquistare al prezzo di un profondo tormento e di un’enorme fatica. Ma improvvisamente, mentre lottavamo attorno a un’ansa, si apriva una visione di muri di giunco, di tetti d’erba a punta, ed era un’esplosione di grida, un turbinio di membra nere, una moltitudine di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi che ondeggiavano, di occhi che roteavano, sotto la cascata del fogliame fitto e immobile. Il battello arrancava lentamente ai margini di una nera e incomprensibile frenesia. L’uomo preistorico ci malediva, ci implorava, ci dava il benvenuto, chi poteva dirlo? Eravamo tagliati fuori dalla comprensione di ciò che ci circondava; scivolavamo via come fantasmi, stupiti e segretamente sgomenti, come lo sarebbero degli uomini sani di mente davanti a uno scoppio di entusiasmo in manicomio. Non potevamo capire, perché eravamo troppo lontani, e non potevamo ricordare, perché stavamo viaggiando nella notte dei tempi, di quei tempi scomparsi senza quasi lasciare traccia e alcun ricordo.
«La terra non sembrava più terrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì, lì si vedeva il mostro in libertà. Non era terreno e gli uomini erano… No, non erano inumani. Ecco, sapete, era questa la cosa peggiore: il sospetto che non fossero inumani. Veniva a poco a poco. Ululavano e saltavano, si contorcevano e facevano delle orribili smorfie; ma quello che faceva rabbrividire era proprio il pensiero della loro umanità, simile alla nostra, il pensiero di una nostra lontana parentela con quella violenza selvaggia e appassionata. Sgradevole. Sì era abbastanza sgradevole, ma con un po’ di coraggio, bisognava ammettere che c’era in noi, sia pur debolissima, una traccia di rispondenza alla terribile franchezza di quel frastuono, l’impressione confusa che vi si nascondesse un significato che, per quanto lontani noi si fosse dalla notte dei tempi, si poteva capire. E perché no? La mente dell’uomo è aperta a tutto, perché contiene tutto, tutto il passato e tutto l’avvenire. E in fondo là dentro cosa c’era? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio, collera, – chi lo sa? – ma verità certamente, la verità spogliata dal mantello del tempo. Padronissimo lo sciocco di restare a bocca aperta e tremare: l’uomo capisce, e può guardare senza battere ciglio. Ma deve essere almeno altrettanto uomo di quelli sulla spiaggia. Deve rispondere a quella verità con ciò che c’è di più vero in lui, con la sua forza innata. I principi? I principi non servono: acquisizioni, mascheramenti, orpelli, che volerebbero via alla prima scossa un po’ rude. No, ci vuole una fede deliberata. C’è un appello per me in questo barbaro tumulto, sì? Benissimo, lo ascolto, lo riconosco, ma anch’io ho una voce, e nel bene come nel male quello che io dico non può essere messo a tacere. Naturalmente, uno sciocco, sia per semplice paura sia per nobili sentimenti, non corre alcun rischio. Cos’è quel borbottio? Vi domandate se sono sceso a terra a ululare e a ballare? No, non l’ho fatto. Nobili sentimenti, dite? Al diavolo i nobili sentimenti! Non avevo tempo. Dovevo trastullarmi con biacca di piombo e strisce tagliate dalle coperte di lana per aiutare a bendare quei tubi che perdevano, proprio così. Dovevo sorvegliare la rotta, aggirare i tronchi, e di riffa o di raffa, far avanzare la mia bagnarola. In quelle cose c’era tanta verità di superficie da salvare anche un uomo più saggio. E nel frattempo dovevo badare a quel selvaggio del mio fuochista. Era un esemplare progredito, capace di alimentare una caldaia verticale. Era là, sotto di me, e, parola mia, guardarlo era altrettanto edificante che vedere un cane in calzoncini da clown e cappello di piume, che cammina sulle zampe posteriori. Erano bastati pochi mesi di addestramento, a quel tipo davvero notevole. Sbirciava il manometro del vapore e l’indicatore di livello dell’acqua con un evidente sforzo di audacia, eppure aveva i denti limati, quel povero diavolo, e dei bizzarri disegni scolpiti a rasoio sulla lana del suo cranio e tre cicatrici ornamentali sulle guance. Avrebbe dovuto essere sulla riva a battere le mani e i piedi invece di star lì a lavorare sodo, schiavo di una strana stregoneria, ricca di sapere avanzato. Era utile perché era stato istruito e quel che sapeva era questo: che se veniva a mancare l’acqua in quella cosa trasparente, lo spirito maligno chiuso nella caldaia si sarebbe infuriato per la gran sete e si sarebbe vendicato in maniera terribile. Perciò sudava e attizzava il fuoco e sorvegliava timoroso il vetro (con un feticcio improvvisato, fatto di stracci, legato al braccio, e un pezzo d’osso levigato, grosso come un orologio, infilato di piatto nel labbro inferiore), mentre le rive boscose scorrevano lentamente al nostro passaggio, il breve clamore rimaneva indietro, ricominciavano le miglia interminabili di silenzio, e noi strisciavamo, verso Kurtz. Ma le insidie erano molte, i tronchi nascosti, l’acqua traditrice e senza profondità, e la caldaia sembrava davvero posseduta da un demone scontroso. Perciò né io né il fuochista avevamo il tempo di scrutare nei nostri strani e terribili pensieri.
«A una cinquantina di miglia dalla Stazione Interna, scorgemmo sulla riva una capanna di canniccio, un palo inclinato e melanconico, su cui svolazzavano i brandelli irriconoscibili di quella che doveva essere stata una specie di bandiera, e una pila di legna da ardere accatastata con cura. Una cosa inattesa. Scendemmo a terra e in cima alla catasta di legna trovammo un’asse con una scritta a matita, tutta sbiadita. Una volta decifrata, diceva: “Legna per voi. Fate presto. Avvicinatevi con cautela.” C’era anche la firma, ma illeggibile, non Kurtz, una parola molto più lunga. Sbrigarsi. A far cosa? A salire il fiume? “Avvicinatevi con cautela.” Noi non l’avevamo fatto. Ma l’avvertimento non poteva riferirsi al luogo in cui si poteva trovare il messaggio solo dopo essercisi avvicinati. Era più su che qualcosa non andava bene. Ma cosa? Qualcosa di grave? Questo era il dilemma. Commentammo negativamente la stupidità di quello stile telegrafico. La boscaglia intorno non rivelava nulla e non consentiva nemmeno di inoltrarsi con lo sguardo molto lontano. Una tenda lacera di saia rossa pendeva dalla soglia della capanna e ci sbatté tristemente in faccia. L’abitazione era stata smantellata, ma si vedeva che fino a poco tempo prima ci aveva vissuto un bianco. Restavano una tavola rudimentale, non era che un’asse su due sostegni, delle immondizie ammucchiate in un angolo buio e, accanto alla porta, un libro, che raccolsi. Era senza copertina e le pagine portavano l’impronta di un dito che, a forza di sfogliarle, le aveva sporcate e logorate; il dorso, invece, era stato amorevolmente ricucito con del filo di cotone bianco che sembrava ancora pulito. Avevo trovato una cosa straordinaria. Il titolo era Indagine su alcuni aspetti dell’arte di navigare, di un certo Towser, o Towson, un nome simile, capitano della Marina di Sua Maestà. La materia sembrava un po’ ostica, con grafici illustrativi e orrende tavole numeriche; e la copia era vecchia di sessant’anni. Maneggiai quel sorprendente pezzo d’antiquariato con la massima delicatezza, per paura che mi si polverizzasse in mano. Là dentro, Towson o Towser dissertava sul punto di massima tensione delle catene, dei paranchi e su altri argomenti analoghi. Non proprio avvincente, quel libro, ma dalla prima occhiata vi si scorgeva una serietà di intenti, un interesse autentico per come affrontare bene un lavoro, che quelle umili pagine, pensate tanti anni prima, s’illuminavano di una luce non solo professionale. Quel semplice vecchio marinaio mi fece dimenticare la giungla e i pellegrini dandomi la sensazione di aver finalmente di fronte qualcosa di indiscutibilmente reale. Che un libro simile fosse là era già abbastanza sorprendente, ma ancor più stupefacenti erano le note scritte in margine a matita, chiaramente riferite al testo. Non potevo credere ai miei occhi! Erano in codice! Sì, aveva tutta l’aria di un codice. Vi immaginate un uomo che in quel nulla si porta dietro un libro del genere, se lo studia, ci fa sopra delle note, e in codice! Era un mistero davvero stravagante.
«Era già da un po’ che avvertivo dei vaghi rumori molesti: quando alzai gli occhi vidi che la catasta di legna era scomparsa e che il direttore, con l’aiuto di tutti i pellegrini, mi stava chiamando a gran voce dalla riva del fiume. Mi infilai il libro in tasca. Dover abbandonare la lettura era come essere strappati dalle braccia di una vecchia e solida amicizia, ve lo assicuro.
«Rimisi in moto lo zoppicante macinino. “Non può essere che quel miserabile trafficante, quell’intruso”, esclamò il direttore, voltandosi a guardare con aria malevola il luogo che avevamo appena lasciato. “Dev’essere inglese”, dissi io. “Il che non gli eviterà di passare dei guai se non sta attento”, borbottò, cupo, il direttore. Osservai con finta innocenza che a questo mondo nessuno è al riparo dai guai.
«La corrente si era fatta più rapida, il battello sembrava boccheggiare, la ruota poppiera batteva l’acqua languidamente, e mi accorsi di stare sulla punta dei piedi ad ascoltare il successivo battito della pala, perché in tutta sincerità, mi aspettavo che da un momento all’altro quella cosa sciagurata avrebbe ceduto di schianto. Era come assistere agli ultimi fremiti di una vita che si spegne. Ma, sia pure lentamente, continuavamo a procedere. Ogni tanto sceglievo un albero davanti a me, come riferimento, per misurare il nostro progresso verso Kurtz, ma lo perdevo invariabilmente di vista prima di averlo raggiunto. Tenere gli occhi fissi, e a lungo, su uno stesso punto, era chiedere troppo alla pazienza umana. Il direttore mostrava una grande capacità di rassegnazione. Io mi rodevo il fegato e non smettevo di arrovellarmi chiedendomi se dovevo parlare apertamente con Kurtz oppure no; ma prima di essere arrivato a una conclusione, mi si affacciò l’idea che se io parlavo, o tacevo, o facevo una cosa qualsiasi, sarebbe stata una pura futilità. Che importanza aveva quello che uno sapeva o ignorava? Che importanza aveva chi era il direttore? Talvolta si hanno simili lampi d’intuizione. L’essenziale di quella faccenda giaceva molto sotto la superficie, oltre la mia portata e al di là del mio potere d’intervento.
«Verso la sera del secondo giorno, calcolammo di essere a circa otto miglia dalla stazione di Kurtz. Io avrei voluto proseguire, ma il direttore, che aveva assunto un’aria grave, disse che più a monte la navigazione era talmente pericolosa che sarebbe stato più prudente, col sole già così basso, fermarci dov’eravamo fino al mattino seguente. Mi fece inoltre notare che, se dovevamo seguire l’avvertimento di avvicinarci con cautela, ci conveniva farlo di giorno, non al crepuscolo, o col buio. Era abbastanza sensato. Per noi otto miglia volevano dire circa tre ore di navigazione, e per di più, in fondo a quel tratto di fiume, a monte vedevo delle increspature sospette. Ciononostante quel ritardo mi contrariò in modo indicibile, e anche assolutamente irragionevole, dato che dopo tanti mesi una notte in più o in meno non poteva fare molta differenza. Siccome la legna abbondava, e la parola d’ordine era “cautela”, gettai l’ancora in mezzo al fiume. In quel tratto correva diritto, stretto fra argini alti come le trincee di una ferrovia. Il crepuscolo vi entrò scivolando molto prima che fosse calato il sole. La corrente fluiva liscia e veloce ma sulle sponde pesava una muta immobilità. Sembrava che tutti quegli alberi vivi, allacciati gli uni agli altri da liane e rampicanti, che ogni arbusto di quella viva boscaglia, fossero stati tramutati in pietra, dal rametto più sottile, alla foglia più leggera. Troppo innaturale per essere un sonno: sembrava uno stato di trance. Non si sentiva il più debole suono, di nessuna specie. Si stava a guardare stupiti, con il sospetto di essere diventati sordi e all’improvviso scese la notte a renderci anche ciechi. Verso le tre del mattino, un grosso pesce saltò sull’acqua con un tonfo così sonoro che mi fece sobbalzare come se fosse stato sparato un colpo di arma da fuoco. Al sorgere del sole ci trovammo immersi in una nebbia bianca, calda e gommosa, più accecante ancora della notte. Non si spostava, né verso riva né in avanti: stava lì immobile intorno a noi, come una cosa solida. Verso le otto o forse le nove, si alzò, come si alza una saracinesca. Si aprì uno spiraglio sulla torreggiante foresta d’alberi, sull’immenso intrico della giungla su cui dardeggiava la piccola palla del sole – tutto perfettamente immobile – e poi la bianca saracinesca si riabbassò senza intoppi, come scivolando su guide ben oliate. Diedi l’ordine di mollare di nuovo la catena dell’ancora che avevamo già iniziato a issare a bordo. Prima che finisse di scorrere con un rantolo soffocato, un grido, un grido altissimo, di infinita desolazione, si alzò adagio nell’aria ovattata. Cessò. Un clamore lamentoso, modulato su selvagge dissonanze, ci riempì le orecchie. Era talmente inaspettato che sotto il berretto mi si rizzarono i capelli. Non so che effetto facesse agli altri: quel frastuono lugubre e tumultuoso era sorto talmente improvviso, e apparentemente ovunque e simultaneo, che a me parve che a gridare fosse stata proprio la nebbia. Culminò in una precipitosa esplosione di urla acute, di un’intensità quasi intollerabile, che cessò di colpo, lasciandoci irrigiditi in una varietà di atteggiamenti ridicoli, in accanito ascolto del silenzio, quasi altrettanto spaventoso ed eccessivo. “Dio mio! Ma di cosa si tratta?…”, balbettò accanto a me uno dei pellegrini, un ometto grasso, coi capelli di stoppa e le basette rosse, che indossava stivaletti con gli elastici ai lati e un pigiama rosa, con le braghe infilate nei calzini. Altri due restarono a bocca aperta per un minuto intero, poi si precipitarono dentro la piccola cabina di prua da dove ricomparvero di corsa, Winchester carichi alla mano, lanciando sguardi spaventati in tutte le direzioni. E non si vedeva che il battello sul quale stavamo, con i contorni così sfocati che sembrava sul punto di dissolversi e tutt’intorno una nebbiosa striscia d’acqua, larga forse mezzo metro: nient’altro. Il resto del mondo non esisteva, almeno non per i nostri occhi e le nostre orecchie. Non esisteva più: svanito, volatilizzato, spazzato via senza lasciarsi dietro un sussurro o un’ombra.
«Andai a prua e ordinai di accorciare la catena, in modo da essere pronti a issare l’ancora e metterci subito in marcia, se ce ne fosse stato bisogno. “Attaccheranno?”, bisbigliò una voce atterrita. “Ci massacreranno tutti con questa nebbia”, mormorò un altro. I volti distorti dalla tensione, le mani leggermente tremanti, gli occhi sbarrati: era molto curioso il contrasto fra le espressioni dei bianchi e quelle dei neri del nostro equipaggio, che in quella parte del fiume non erano meno stranieri di noi, anche se le loro case erano solo a milletrecento chilometri di distanza. I bianchi non erano solo molto agitati, avevano anche l’aria di essere dolorosamente colpiti da un tumulto così scandaloso. Gli altri avevano un’espressione vigile e naturalmente interessata, ma i loro volti erano essenzialmente distesi, anche quelli di quei due o tre che, issando la catena dell’ancora, l’avevano contratto. Alcuni si scambiarono delle brevi frasi gutturali che sembrarono risolvere la faccenda con loro soddisfazione. Il loro capo, un giovane nero con un ampio torace, austeramente avvolto in un drappo blu scuro sfrangiato, le narici focose e la capigliatura acconciata artisticamente in ricciolini oliati, era in piedi vicino a me. “Aha!”, dissi tanto per dire qualcosa. “Prendeteli”, latrò, spalancando gli occhi iniettati di sangue mentre i suoi denti aguzzi brillavano, “prendeteli e dateceli.” “A voi?”, chiesi, “E per farne che?” “Mangiarli!” disse laconico e, appoggiato il gomito al parapetto, guardò fuori nella nebbia in un atteggiamento solenne e profondamente pensieroso. Sarei senza dubbio rimasto giustamente orripilato se non mi fosse venuto in mente che lui e i suoi compagni dovevano avere molta fame, una fame che era andata progressivamente crescendo da almeno un mese a questa parte. Erano stati ingaggiati per sei mesi (ma penso che nessuno di loro avesse una chiara nozione del tempo, come l’abbiamo noi alla fine di innumerevoli ere. Appartenevano ancora agli albori del mondo, senza alcuna esperienza ereditata, per così dire, che gliela potesse insegnare), e naturalmente, purché ci fosse un pezzo di carta scritta in conformità di qualche legge farsesca confezionata ed emanata all’altro capo del fiume, a nessuno era mai passato per la testa di preoccuparsi di come sarebbero vissuti. Era vero che si erano portati la carne di ippopotamo putrefatta, che non avrebbe potuto durare a lungo comunque, però, anche se i pellegrini, in mezzo a uno schiamazzo impressionante, non ne avessero gettata in acqua una gran quantità. Sembrava un atto di prepotenza, ma in realtà fu un caso di legittima difesa. Non si può respirare ippopotamo morto, quando si dorme, mentre si mangia, quando ci si sveglia, e nello stesso tempo conservare un precario controllo sulla propria esistenza. A parte questo, ogni settimana gli avevano dato tre pezzi di filo di ottone, ciascuno lungo circa venti centimetri; in teoria doveva servire come moneta di scambio perché si comprassero delle provviste nei villaggi lungo il fiume. Ma in pratica, le cose andarono diversamente, come forse avrete già capito. O non c’erano villaggi, o la popolazione era ostile, o il direttore, che come tutti noi, si nutriva a scatolette, con dentro in aggiunta, ogni tanto, un pezzo di vecchio caprone, non voleva fermare il battello per qualche ragione, più o meno oscura. Perciò, a meno che il filo non se l’ingoiassero, o che ne facessero dei cappi per prendere al laccio i pesci, non vedo quale beneficio traessero da quello stravagante salario. Devo ammettere che veniva pagato con una regolarità degna di una grande e, rispettabile, azienda commerciale. All’infuori di questo, l’unica cosa da mangiare che possedevano – sebbene non avesse affatto un aspetto commestibile – erano dei pezzi di una sostanza simile a pasta poco cotta, del colore della lavanda sporca, che tenevano avvolta nelle foglie; ogni tanto ne ingoiavano un boccone, ma così piccolo, che sembrava lo facessero più per le sembianze della cosa che per un serio scopo di sostentarsi. Perché poi in nome di tutti i diavoli della fame che rode non ci saltassero addosso – erano trenta contro cinque – e si facessero finalmente una bella scorpacciata, mi stupisce ancora quando ci penso. Erano degli uomini grandi e robusti, senza una gran capacità di valutare le conseguenze dei loro atti, ma coraggiosi e, anche se la loro pelle non era più lucida e i muscoli non erano più sodi, ancora forti. Capii che doveva essere entrato in gioco qualcosa a frenarli, uno di quei segreti dell’animo umano che sfuggono a qualsiasi calcolo delle probabilità. Li osservai con un acuto risveglio di interesse, non perché pensassi che mi potevano mangiare da un momento all’altro, sebbene vi debba confessare che proprio allora mi accorsi – guardando le cose sotto una nuova luce – di quanto malsani apparissero i pellegrini e speravo, sì, lo speravo sul serio, che il mio aspetto non fosse così – come potrei dire? – così poco appetitoso; un pizzico di stravagante vanità che ben si accordava con la sensazione onirica che permeava la mia vita a quell’epoca. Forse avevo anche un po’ di febbre. Ma non si può stare tutto il tempo a tastarsi il polso. Avevo spesso “un po’ di febbre” o un leggero attacco di altre cose: le zampate scherzose della landa selvaggia, le iniziali schermaglie che precedono l’assalto più serio che venne poi a tempo debito. Sì, li guardavo – come si guarderebbe un qualsiasi essere umano – curioso di capire quali avrebbero potuto essere i loro impulsi, moventi, risorse, debolezze, davanti alla prova di un’inesorabile necessità fisica. Un freno inibitore! Quale freno era possibile immaginare? Superstizione, disgusto, pazienza, paura, o una specie di primitivo onore? Non c’è paura che tenga davanti alla fame, non c’è pazienza che la plachi, e, dove c’è fame, il disgusto semplicemente non esiste. Quanto alle superstizioni, alle credenze, a quelli che voi chiamereste principi, pesano meno di un fuscello al vento. Conoscete l’inferno del digiuno prolungato, il suo tormento esasperante, i suoi neri pensieri, la tetra ferocia che si alimenta di nascosto? Beh, io sì. Un uomo deve far appello a tutta la sua forza innata, per combattere adeguatamente la fame. È molto più facile affrontare un lutto, il disonore, la perdita della propria anima che questo genere di fame protratta. Triste, ma vero. E non c’era ragione al mondo che quegli esseri si facessero degli scrupoli. Il ritegno! Era più facile aspettarselo da una iena che si aggiri famelica fra i cadaveri in un campo di battaglia. Eppure il fatto era lì davanti a me, lampante, inoppugnabile, come la schiuma sopra gli abissi del mare, come un’increspatura su un enigma insondabile; e, a pensarci bene, era un mistero più grande di quella strana, inspiegabile nota di afflizione disperata nel clamore selvaggio esploso accanto a noi, sulla sponda del fiume, dietro il cieco biancore della nebbia.
«Ma su quale sponda? Due pellegrini stavano litigando su questo punto in concitato bisbiglio. “Sinistra.” “No, no; ma figurati! Destra, destra, son sicuro.” “È una faccenda molto seria”, disse la voce del direttore dietro di me. “Sarei desolato se accadesse qualcosa al signor Kurtz prima del nostro arrivo.” Lo guardai in faccia e non ebbi il minimo dubbio che era sincero. Era proprio il genere di uomo che desidera innanzi tutto salvare le apparenze. Era quello il suo freno inibitore. Ma quando bofonchiò qualcosa sull’andare lì subito, non mi presi neanche la briga di rispondergli. Io sapevo, e lui anche, che era impossibile. Se avessimo mollato la presa sul fondo, ci saremmo trovati, letteralmente, in aria: nello spazio. Non avremmo più capito dove andavamo – se in giù o in su, o per traverso, del fiume – finché non saremmo finiti contro una sponda, ma neanche allora avremmo saputo dire subito qual’era delle due, la destra o la sinistra? Naturalmente non mi mossi. Non avevo nessuna intenzione di fracassare tutto. Sarebbe difficile immaginarsi un posto peggiore per un naufragio. Anche se non annegavamo subito, potevamo star sicuri che in un modo o nell’altro saremmo morti entro brevissimo tempo.
«”La autorizzo a correre qualsiasi rischio”, disse, dopo un breve silenzio. “E io mi rifiuto di correrne anche uno solo”, risposi secco secco. Era proprio la risposta che si aspettava, anche se il tono poteva averlo sorpreso. “In questo caso, devo rimettermi alle sue decisioni. È lei il capitano”, disse, con marcata cortesia. Per significargli la mia gratitudine, gli voltai le spalle per guardare nella nebbia. Quanto sarebbe durata? La prospettiva non era delle più rosee. La via d’accesso a quel Kurtz, che rastrellava la misera boscaglia in cerca d’avorio, era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa addormentata sotto l’effetto di un incantesimo in un favoloso castello. “Crede che ci attaccheranno?” chiese il direttore, in tono confidenziale. “Pensavo che non ci avrebbero attaccato, per diverse e ovvie ragioni. Anzitutto la nebbia fittissima: se si fossero allontanati dalla riva nelle loro canoe vi si sarebbero persi, come noi, se ci fossimo azzardati a muoverci. Poi, anche se mi era parso che la giungla fosse assolutamente impenetrabile da entrambe le sponde, lì dentro c’erano degli occhi, degli occhi che ci avevano visto. La boscaglia lungo la riva era sicuramente molto fitta, ma più internamente il sottobosco era evidentemente più accessibile. Eppure, durante la breve schiarita, non avevo visto delle canoe da nessuna parte, certamente non all’altezza del battello. Ma ciò che per me rendeva inconcepibile l’idea di un attacco era la natura del clamore, delle grida che avevamo udito. Non avevano quel carattere feroce che prelude a un’immediata intenzione ostile. Per quanto inaspettate, selvagge e violente, mi avevano dato un’irresistibile impressione di dolore. Per chissà quale motivo, l’apparizione del battello aveva riempito quei selvaggi di una pena infinita. Il pericolo per noi, spiegai, ammesso che ci fosse, dipendeva dal fatto che ci trovavamo in prossimità di una grande passione umana senza freni. Anche il dolore estremo può risolversi in violenza, ma più spesso si traduce in apatia…
«Avreste dovuto vedere gli occhi spalancati dei pellegrini! Non ebbero il coraggio di ridermi in faccia e neanche di insultarmi, ma credo che pensassero che ero diventato matto, di paura, forse. Tenni una conferenza vera e propria. Cari ragazzi, non c’era di che preoccuparsi. Stare all’erta? Beh, come potete immaginare, io guatavo la nebbia per vedere se c’era il minimo segno di schiarita, come un gatto guata un topo; ma per qualsiasi altro uso gli occhi ci erano altrettanto inutili che se fossimo stati sepolti a qualche chilometro di profondità sotto una montagna di ovatta, con anche la stessa sensazione di soffoco, calore, asfissia. Del resto, tutto quello che dissi ai pellegrini, per quanto stravagante sembrasse allora, era invece la pura verità. Quello che in seguito considerammo come un attacco, in realtà, non fu che un tentativo di respingerci. Lungi dall’essere aggressiva l’azione non era neanche difensiva, nel senso usuale del termine: intrapresa sotto la spinta della disperazione, non era che un modo per proteggersi da noi.
«Si svolse, direi, due ore dopo che la nebbia si era alzata, e iniziò in un luogo che si trovava, grosso modo, a circa un miglio e mezzo sotto la stazione di Kurtz. Avevamo appena doppiato faticosamente un’ansa, quando un’isoletta, nulla più che una cunetta erbosa di un verde brillante, mi apparve in mezzo all’acqua. Era la sola del genere, ma quando avanzammo un poco, vidi che essa costituiva la punta avanzata di un lungo banco di sabbia, o meglio di una catena di secche che si stendevano nel mezzo del fiume. Erano scolorite, appena affioranti e si intravvedevano sotto il pelo dell’acqua, proprio come, lungo la schiena, sotto la pelle di un uomo si intravvede correre la spina dorsale. Per quanto avevo modo di vedere, ci si poteva passare sia da destra che da sinistra. Naturalmente, io non conoscevo i due lati del canale. Le sponde parevano quasi identiche e anche la profondità sembrava la stessa, ma siccome mi avevano detto che la stazione si trovava sulla riva occidentale, mi diressi istintivamente verso il passaggio a ovest.
«Non appena imboccato, si rivelò molto più stretto di quanto mi fosse sembrato. Alla nostra sinistra si stendeva la lunga, ininterrotta fila di secche e, a destra, la sponda alta e ripida, era coperta da una folta macchia, con dietro gli alberi svettanti in ranghi serrati. Il fogliame pendeva fitto sul fiume e di tanto in tanto un grosso ramo si protendeva rigido di traverso. Nel pomeriggio ormai inoltrato, il volto della foresta appariva cupo, e sull’acqua era già scesa una larga striscia d’ombra. Era in quell’ombra che avanzavamo, molto a rilento, non c’è bisogno che ve lo dica. Mi tenevo il più possibile accostato alla sponda, perché l’acqua, come indicavano gli scandagli fatti con la pertica, era più profonda lungo la riva.
«Uno dei miei amici affamati, costretti all’astinenza, scandagliava a prua proprio sotto di me. Quel battello era fatto come una chiatta pontata. Sul ponte c’erano due casette in legno di tek, con porte e finestre. La caldaia si trovava a prua e le macchine a poppa. Il tutto era ricoperto da un tetto leggero, sostenuto da quattro puntali. Il fumaiolo sbucava dal tetto, e proprio davanti al fumaiolo una stretta cabina, costruita con assi sottili, fungeva da cabina di pilotaggio. Conteneva una cuccetta, due seggiolini da campo, una Martini-Henry carica in un angolo, un minuscolo tavolino e la ruota del timone. Sul davanti un’ampia porta e due larghi portelli ai lati. Porta e portelli, naturalmente, erano sempre spalancati. Io passavo le mie giornate lassù, appollaiato all’estremità prodiera di quel tetto, davanti alla porta. Di notte dormivo, o cercavo di dormire, sulla cuccetta. Un atletico nero che apparteneva a non so quale tribù costiera e che era stato istruito dal mio sfortunato predecessore, era il timoniere. Portava dei vistosi orecchini di ottone, una specie di guaina di stoffa blu che lo avvolgeva dalla vita alle caviglie e aveva di sé la più alta opinione. Era il pazzo più imprevedibile che avessi mai incontrato. Finché si era lì, teneva il timone con l’aria del padrone del vapore, ma appena si girava l’occhio, in balia di una fifa invereconda, lasciava che quello sciancato di un battello gli prendesse in un attimo la mano.
«Stavo osservando lo scandaglio, molto contrariato nel constatare che, a ogni immersione, dall’acqua ne sporgeva un pezzo sempre più lungo, quando vidi il mio scandagliatore piantar tutto in asso e buttarsi bocconi sul ponte senza nemmeno curarsi di ritirare la pertica. Però non l’aveva mollata e quella continuava a trascinarsi nell’acqua. Nello stesso momento, vidi il fuochista, anche lui sotto di me, sedersi di colpo davanti alla caldaia infossando la testa fra le spalle. Ero esterrefatto, ma dovetti subito volgere gli occhi al fiume perché sulla nostra strada c’era un tronco d’albero. Intorno volavano dei bastoncini, dei piccolissimi bastoncini fitti fitti; mi sibilavano davanti al naso, cadevano ai miei piedi, battevano dietro a me contro la cabina. E intanto, il fiume, la riva, i boschi erano silenziosi, assolutamente silenziosi. Non si udiva che il poderoso tonfo sciabordante della nostra ruota poppiera e il picchiettio di quelle cose che volavano. Senza eleganza, ma il tronco lo scansammo. Erano frecce, per Giove! E le lanciavano contro di noi! Rientrai rapido per chiudere il portello dal lato della terra. Quell’idiota del timoniere, le mani strette alle caviglie della ruota, alzava le ginocchia, pestava i piedi, si mordeva la bocca, come un cavallo imbrigliato. Maledizione a lui! E noi ci trascinavamo barcollando a tre metri dalla sponda! Dovetti sporgermi in fuori per smuovere il pesante portello e allora vidi una faccia fra le foglie, all’altezza della mia, che mi guardava con feroce fissità. Ed ecco che, all’improvviso, come se mi fosse caduta una benda dagli occhi, distinsi, in fondo a quel tenebroso intrico vegetale, dei petti nudi, delle braccia, delle gambe, degli occhi abbaglianti: la boscaglia brulicava di forme umane in movimento, lucenti, del colore del bronzo. Dai rami che si agitavano, dondolavano, frusciavano, uscivano volando le frecce, e, finalmente il portello si chiuse. “Tienila dritta”, dissi al timoniere. Teneva la testa ferma, la faccia protesa, ma gli occhi roteavano, e continuava ad alzare e ad abbassare adagio i piedi, con un po’ di bava alla bocca. “Sta fermo!”, dissi infuriato. Era come se avessi ordinato a un albero di non muoversi al vento. Schizzai fuori. Sotto di me, sul ponte di ferro, sentivo un gran scalpiccio e degli schiamazzi confusi. Una voce gridò: “Non può tornare indietro?” Sull’acqua davanti a noi scorsi un’increspatura a forma di V. Cosa? Un altro tronco! Sotto i miei piedi scoppiò una scarica di fucili. I pellegrini avevano aperto il fuoco con i loro Winchester e stavano letteralmente innaffiando di piombo la boscaglia. Si formò un malefico nuvolone di fumo che avanzava lentamente sul fiume. Bestemmiai. Non potevo più vedere né l’increspatura né il tronco. Facendo capolino, mi tenevo sul vano della porta con le frecce che arrivavano a sciami. Potevano anche essere avvelenate, ma a vederle, non sembravano in grado di far male a un gatto. La boscaglia cominciò a ululare. I nostri taglialegna lanciarono un grido di guerra e lo sparo di una carabina proprio dietro la schiena mi assordò. Diedi un’occhiata sopra la mia spalla e nella cabina ancora piena di rumore e fumo, con un balzo, mi lanciai sulla ruota del timone. Quel deficiente del nero aveva mollato tutto per spalancare il portello e metter fuori la Martini-Henry. Stava in piedi davanti alla larga apertura, con l’aria feroce e, mentre gli gridavo di tornare al timone, raddrizzai l’improvvisa torsione del battello. Non c’era spazio per far marcia indietro neanche se lo avessi voluto; il tronco era da qualche parte davanti a noi, molto vicino, nascosto da quel fumo maledetto; non c’era tempo da perdere, perciò schiacciai il battello contro la sponda, dritto contro la sponda, dove sapevo che l’acqua era più profonda.
«Ci aprimmo lentamente un varco attraverso i cespugli sporgenti in un vortice di rametti spezzati e di foglie che cadevano. Il fuoco di fila si interruppe di botto, come avevo previsto sarebbe accaduto, una volta sparate tutte le sue cartucce. Ritrassi la testa per evitare un baluginio sibilante che attraversò la cabina, entrando dal varco di un portello e uscendo dall’altro. Al di là del timoniere demente che brandiva la carabina scarica urlando in direzione della riva, vidi delle vaghe forme umane correre piegate in due, saltare, strisciare, indistinte, incomplete, evanescenti. Qualcosa di grosso apparve nell’aria davanti al portello, la carabina filò in acqua e l’uomo, indietreggiando rapido, mi lanciò di traverso un’occhiata straordinaria, profonda e familiare, e poi cadde ai miei piedi. Batté la testa due volte sulla ruota del timone e l’estremità di quella che sembrava una lunga canna sbatacchiò in giro rovesciando uno dei seggiolini da campo. Si sarebbe detto che dopo aver strappato quella cosa dalle mani di qualcuno sulla riva, avesse perso l’equilibrio nello sforzo. Il fumo sottile era svanito, avevamo evitato il tronco, e guardando in avanti vidi che a un centinaio di metri più in là sarei stato libero di scostarmi dalla sponda, ma dovetti abbassare lo sguardo perché mi sentii improvvisamente i piedi caldi e bagnati. L’uomo era riverso sulla schiena con gli occhi fissi su di me e le mani avvinghiate a quella canna. Era l’asta di una lancia che, scagliata o affondata attraverso il portello, lo aveva colpito al fianco appena sotto le costole. La lama era entrata tutta, sino a scomparire, dopo aver fatto un terribile squarcio. Avevo le scarpe piene e una pozza di sangue si stendeva immobile in un luccichio rosso scuro sotto la ruota del timone. Gli occhi dell’uomo brillavano di un sorprendente splendore. La sparatoria ricominciò. Mi rivolse uno sguardo ansioso, stringendo la lancia come una cosa preziosa, come se avesse paura che io cercassi di portargliela via. Dovetti fare uno sforzo per distogliere gli occhi da quello sguardo e occuparmi del timone. Con una mano cercai a tentoni, sopra la mia testa, la cordicella del fischio a vapore e la strattonai stridore dopo stridore precipitosamente. Il tumulto delle grida furiose e guerriere si interruppe all’istante e dalle profondità del bosco si alzò, tremulo e prolungato, un gemito di disperato spavento e di costernazione estrema, simile a quello che, ci si immagina, seguirebbe all’involarsi dell’ultima speranza da questa terra. Ci fu un gran fermento nel sottobosco: la pioggia di frecce cessò, qualche sparo isolato echeggiò sonoro, e poi il silenzio, in cui il languido battito della ruota poppiera mi arrivò distintamente all’orecchio. Stavo mettendo il timone a tutta dritta nel momento in cui, nel vano della porta, apparve il pellegrino in pigiama rosa, molto accaldato e su di giri.
«”Mi manda il direttore…”, cominciò in tono ufficiale ma si interruppe di botto. “Dio santo!”, disse, spalancando gli occhi alla vista del ferito.
«Noi due bianchi stavamo sopra di lui e lui con i suoi occhi lustri e inquisitori ci avvolgeva entrambi nel suo sguardo. Ve lo assicuro, sembrava che stesse per farci una domanda, in una lingua comprensibile, invece morì, senza emettere un suono, senza muovere un arto, senza contrarre un muscolo. Solo all’ultimo istante, come in risposta a un segno che noi non potevamo vedere, a un sussurro che non potevamo udire, aggrottò profondamente la fronte e quella fronte aggrottata impresse sulla sua nera maschera di morte un’espressione indicibilmente cupa, torva e minacciosa. La lucentezza di quello sguardo inquisitore non fu ben presto che vitrea vacuità.
«”È capace di governare una barca?”, chiesi brusco all’agente. Mi guardò dubbioso, ma io feci l’atto di afferrargli un braccio ed egli capì immediatamente che intendevo dargli il timone in mano, capace o meno che fosse a tenerlo. Per dire la verità, avevo un bisogno quasi morboso di cambiarmi le calze e le scarpe.
«”È morto”, mormorò l’agente, immensamente impressionato. “Su questo non c’è dubbio”, dissi io, strappandomi furiosamente i lacci delle scarpe. “A proposito, suppongo che a quest’ora sia morto anche il signor Kurtz.”
«In quel momento, era quello il mio pensiero dominante. Provavo una grandissima delusione: come se avessi scoperto di aver rincorso una cosa assolutamente inconsistente. Non mi sarei sentito più disgustato se avessi intrapreso tutto quel viaggio al solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con… Lanciai una scarpa fuori bordo, e mi resi conto che era proprio quello che non vedevo l’ora di fare: parlare con Kurtz. Feci la strana scoperta che di lui non avevo una immagine di un agire, capite?, ma di un discorrere. Non mi dicevo: “Dunque non lo vedrò mai”, o “Non gli stringerò mai la mano”, ma, “Dunque non lo udrò mai.” Quell’uomo si presentava come una voce. Naturalmente non è che non lo associassi a qualche specie di azione. Su tutti i toni dell’invidia e dell’ammirazione, non mi avevano forse detto che da solo aveva raccolto, barattato, estorto o rubato più avorio lui di tutti gli altri agenti messi insieme? Non si trattava di questo. Si trattava del fatto che, fra tutte le doti di quell’essere tanto dotato, quella che emergeva in modo preponderante, che dava il senso di una presenza reale, era la sua capacità di parlare, il dono della parola: questa dote che sconcerta o illumina, la più nobile e la più spregevole, vivificante flusso di luce o torrente ingannatore scaturito dal cuore di una tenebra impenetrabile.
«Anche l’altra scarpa andò volando al dio maligno di quel fiume. Pensai, per Giove! è finita. Siamo arrivati troppo tardi. Lui è svanito, il dono è svanito, per opera di una lancia o di una freccia o di un bastone. Dunque non lo udrò mai parlare. C’era nella mia afflizione uno strano eccesso emotivo, simile a quello che avevo avvertito nell’angoscioso ululato di quei selvaggi nella boscaglia. Non avrei sentito una peggiore desolata solitudine, se fossi stato derubato di una fede o se avessi mancato al mio destino in questa vita… Perché qualcuno ha sbuffato in modo così bestiale? Assurdo, dice? Va bene, assurdo. Signore Iddio! Un uomo non deve mai… Basta, datemi del tabacco.»
Ci fu una pausa di profonda quiete, poi, alla luce di un fiammifero, apparve il magro volto di Marlow, consunto, svuotato, le pieghe cascanti, le palpebre abbassate, l’aria attenta e concentrata; e mentre dava vigorose tirate alla sua pipa, nello sfavillio regolare di quella piccola fiamma, sembrava emergere dalla notte per poi sprofondarvi. Il fiammifero si spense.
«Assurdo!», esclamò. «È questa la cosa peggiore quando si cerca di raccontare… Eccovi qua tutti, ciascuno ormeggiato a due buoni indirizzi, come un vecchio scafo alle sue due ancore, il macellaio da una parte, il poliziotto dall’altra, eccellenti appetiti e temperatura del corpo normale – normale, capite – dall’inizio alla fine dell’anno. E dite assurdo! Assurdo un corno! Assurdo! Cari miei, che cosa vi potevate aspettare da un uomo che, in uno scatto di nervi, aveva appena fatto volare fuori bordo un paio di scarpe nuove! Quando ci penso, mi sembra sorprendente di non essermi messo a piangere. E, tutto considerato, sono fiero della mia forza d’animo. Mi pungeva sul vivo l’idea di aver perduto l’inestimabile privilegio di ascoltare il dotatissimo Kurtz. Naturalmente, avevo torto: il privilegio mi stava aspettando. Ah sì, ne ho sentito più che abbastanza. Ma avevo anche ragione: era una voce. Poco più di una voce. E ho udito – lui – lei – quella voce – altre voci – erano tutti poco più che delle voci – e il ricordo stesso di quell’epoca si attarda intorno a me, impalpabile, come la vibrazione morente di un immenso bla bla bla, sciocco, atroce, sordido, selvaggio o semplicemente meschino e insensato. Voci, voci… la ragazza stessa… ormai…»
Stette zitto a lungo.
«Alla fine ho placato il fantasma delle sue doti con una bugia», riprese all’improvviso. «La ragazza! Cosa? Ho parlato di una ragazza? Ma lei non c’entra, assolutamente. Loro – le donne, voglio dire – sono al di fuori di tutto questo, o almeno dovrebbero esserlo. Dobbiamo aiutarle a stare in quel bellissimo mondo che è il loro, se non vogliamo che il nostro diventi ancora peggiore. Oh, lei non c’entrava. Avreste dovuto sentirlo il cadavere dissepolto del signor Kurtz dire, “La mia fidanzata.” Avreste percepito immediatamente a qual punto lei fosse estranea a tutto ciò. E quel grande osso frontale del signor Kurtz! Dicono che qualche volta i capelli continuino a crescere, ma questo… ehm… questo esemplare era di una calvizie impressionante. La selva selvaggia gli aveva dato un buffetto sulla testa, ed ecco, era diventata come una palla: una palla d’avorio. Lo aveva accarezzato e toh, lui era avvizzito; lo aveva preso, amato, tenuto fra le braccia, era entrata nelle sue vene, aveva consumato la sua carne, aveva posto il suo sigillo sulla sua anima attraverso inconcepibili riti di una qualche diabolica iniziazione. Era il suo favorito, coccolato e viziato. Avorio? Ma direi! Mucchi, montagne di avorio. La vecchia baracca di fango era piena da scoppiarne. C’era da pensare che non ne restasse nemmeno una zanna, né sopra né sotto la terra di quel paese. “Per la maggior parte fossile”, fu il commento denigratorio del direttore. Era meno fossile di me, ma lo chiamano fossile quando lo dissotterrano. Sì, sembra che i neri a volte seppelliscano le zanne, ma evidentemente quella partita non l’avevano seppellita a profondità sufficiente da sottrarre il dotato signor Kurtz al suo destino. Riempimmo il battello di avorio e ne dovemmo accatastare un mucchio anche sul ponte. Così, finché fu in grado di vedere, lo potè guardare, e goderne, perché fino alla fine apprezzò quel suo fiore all’occhiello. Avreste dovuto sentirgli dire: “Il mio avorio.” Ah! io l’ho sentito. “La mia fidanzata, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio…” Era tutto suo. E io trattenevo il fiato aspettandomi di udire la selva selvaggia scoppiare in una fragorosa risata che avrebbe scosso le stelle fisse sul loro asse. Apparteneva tutto a lui, ma questo sarebbe stato irrilevante. L’importante era sapere a chi apparteneva lui, quante potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà. Quella era la riflessione che vi faceva accapponare la pelle. Era impossibile – e anche malsano – cercare di indovinarlo. Aveva occupato un posto molto elevato fra i demoni di quel paese, lo dico letteralmente. Voi non potete capire. E come potreste, voi che avete un terreno solido sotto i piedi, che siete circondati da vicini cortesi, pronti ad applaudire o a gettarsi su di voi, voi che vi muovete a piccoli passi guardinghi fra il macellaio e il poliziotto, col sacro terrore dello scandalo, della prigione e del manicomio? Come riuscireste a immaginare in quale particolare regione delle epoche primordiali i piedi senza impacci di un uomo lo possano portare lungo la via della solitudine – una solitudine assoluta senza un poliziotto – lungo la via del silenzio, un silenzio assoluto, dove non si può sentire la voce ammonitrice di un cortese vicino che si fa eco dell’opinione della gente? Sono queste piccole cose che fanno la grande differenza. E quando non ci sono più si deve ricorrere alla propria forza interiore, alla propria capacità di restare fedeli. Certo, si può anche essere troppo sciocchi per correre il rischio di perdersi, troppo ottusi persino per sospettare di star subendo l’assalto dei poteri della tenebra. Potrei scommetterlo: uno sciocco non ha mai fatto un patto col diavolo per vendergli l’anima. O lo sciocco è troppo sciocco, o il diavolo è troppo diavolo: una delle due. Oppure si può essere degli esseri talmente al di sopra da rimanere sordi e ciechi a qualsiasi cosa tranne che alle visioni e ai suoni celesti. Per costoro la terra non è che un luogo di passaggio, e, se per chi è così sia una perdita o un guadagno, io non ho la pretesa di saperlo. Ma la maggior parte di noi non è né l’uno né l’altro. Per noi la terra è un luogo in cui ci si deve vivere, dove si devono sopportare spettacoli, rumori, e anche odori, per Giove! – respirare carogna di ippopotamo, per esempio, – e non restarne contaminati. Ed è qui, vedete?, che entra in gioco la forza personale, la fiducia nella propria capacità di scavare delle fosse non troppo vistose per seppellirvi quella roba: la capacità di dedizione, non a se stessi, ma a qualche oscura, estenuante faccenda. E non è una cosa facile. Badate, non sto cercando di giustificare e neanche di spiegare. Sto solo cercando di farmi una ragione di… del signor Kurtz…, dell’ombra del signor Kurtz. Questo iniziato fantasma, scaturito dal fondo del Nulla, mi onorò delle sue sorprendenti confidenze prima di sparire in modo definitivo. Semplicemente perché poteva parlare inglese con me. Il Kurtz originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto parte della sua educazione in Inghilterra e – come ebbe la bontà di dirmi – le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L’Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e un po’ alla volta venni a sapere che, molto a proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l’aveva scritto quel rapporto. L’ho visto. L’ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po’ troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo doveva essere avvenuto prima che i suoi – diciamo nervi – saltassero, e lo portassero a presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che – da quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese – venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo arrivati, “dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina”, ecc., ecc. “Con il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene, praticamente illimitato”, ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a un’Immensità esotica retta da un’augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era questo il potere illimitato dell’eloquenza – della parola – di nobili parole infiammate. Non c’erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una specie di nota in fondo all’ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con mano malferma, possa essere considerata l’enunciazione di un metodo. Era molto semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno: “Sterminare tutti questi bruti!” La cosa più curiosa è che doveva aver apparentemente dimenticato del tutto quel prezioso post-scriptum, perché, più tardi, quando in un certo senso ritornò in sé, mi pregò ripetutamente di prendermi cura del suo “pamphlet” (è così che lo chiamava), perché sicuramente in futuro avrebbe influito favorevolmente sulla sua carriera. Ebbi informazioni complete su tutte queste cose e, inoltre, accadde che dovetti essere io a prendermi cura della sua memoria. Ciò che ho fatto per lei mi darebbe l’indiscutibile diritto di depositarla, se questa fosse la mia scelta, nel secchio delle spazzature del progresso, per un eterno riposo in mezzo a tutti i rifiuti e – parlando metaforicamente – a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, in realtà, vedete, non ho scelta. Non si lascia dimenticare. Qualsiasi cosa fosse non era un uomo comune. Aveva il potere di incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in un esaltato sabba; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari presagi. Aveva almeno un amico devoto, e aveva conquistato un’anima al mondo che non era né semplice né macchiata di egoismo. No, non lo posso dimenticare, anche se non sono disposto ad affermare che lui valesse la vita dell’uomo che perdemmo per arrivare da lui. Il mio timoniere morto mi mancava terribilmente. Mi mancava già quando ancora il suo corpo giaceva nella cabina del timone. Forse vi sembrerà piuttosto strano questo rimpianto per un selvaggio che contava quanto un granello di sabbia in un Sahara nero. Ma, vedete, aveva fatto qualcosa: aveva governato la barca; per mesi l’avevo avuto dietro di me – un aiuto – uno strumento. Era una specie di associazione la nostra: lui governava per me, io lo sorvegliavo, mi preoccupavo delle sue deficienze, e così si era creato un sottile legame, di cui mi resi conto solo nel momento in cui fu improvvisamente spezzato. E la profonda intimità dello sguardo che mi aveva lanciato quando era stato colpito, rimane ancor oggi nella mia memoria, come se nel momento supremo, avesse voluto attestare una nostra lontana parentela.
«Che scemo! Bastava che avesse lasciato stare quel portello! Ma non aveva alcun freno, nessun freno inibitore – proprio come Kurtz – un albero in balia del vento. Non appena ebbi infilato un paio di pantofole asciutte, lo trascinai via dalla cabina, dopo avergli tirato fuori la lancia dal fianco, operazione che eseguii, lo confesso, con gli occhi ben chiusi. I suoi talloni sobbalzarono insieme sul piccolo gradino della porta; mi stringevo le sue spalle contro al petto abbracciandolo da dietro disperatamente. Oh! era pesante, pesante; mi sembrava più pesante di qualsiasi altro uomo al mondo. Poi, senza altre cerimonie, lo feci precipitare fuori bordo. La corrente lo afferrò come se fosse un ciuffo d’erba, e vidi il corpo rigirarsi due volte prima di sparire per sempre. Tutti i pellegrini, con anche il direttore, erano radunati in quel momento sul ponte di comando intorno alla cabina del timone. Ciarlavano fra loro, come uno stormo di gazze eccitate e la mia diligenza impietosa sollevò un mormorio scandalizzato. Perché poi ci tenessero a conservare quel corpo, non lo riesco proprio a capire. Per imbalsamarlo, forse. Intanto sul ponte sottostante era corso un altro mormorio, e molto minaccioso. I miei amici, i taglialegna, erano anche loro scandalizzati, e con una parvenza di maggior ragione, benché non esiti a riconoscere che non era una ragione proprio ammissibile. Ah, proprio no! Avevo deciso che se il mio timoniere doveva essere mangiato, sarebbero stati solo i pesci ad averlo. Da vivo, era stato un timoniere di second’ordine, ma adesso che era morto poteva diventare una tentazione di primissima qualità, e magari provocare qualche guaio serio. E per di più, ero anche ansioso di riprendere il timone, dato che l’uomo col pigiama rosa era totalmente negato alla bisogna.
«Cosa che mi affrettai a fare non appena concluso quel semplice funerale. Procedavamo a velocità ridotta, tenendoci nel mezzo della corrente, e io ascoltavo i discorsi attorno a me. Davano Kurtz per spacciato e spacciata la stazione: cioè, Kurtz era morto e la stazione bruciata, e via su questo tono. Il pellegrino dal pelo fulvo era fuori di sé al pensiero che quel povero Kurtz per lo meno era stato degnamente vendicato. “Eh sì, dobbiamo aver fatto proprio un bel macello dentro alla boscaglia. Vero? Cosa ne pensate? Eh?” Gongolava, letteralmente, quel rosso malpelo assetato di sangue. Ed era quasi svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: “Quel che è certo è che avete fatto un bel po’ di fumo.” Avevo visto, dal modo in cui si muovevano e volavano le cime dei cespugli, che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce niente se non si prende la mira e non si imbraccia il fucile; quei tangheri sparavano tenendolo appoggiato all’anca e con gli occhi chiusi. La ritirata, dichiarai, – e avevo ragione – era dovuta unicamente allo stridore del fischio. Al che si dimenticarono di Kurtz e iniziarono a sbraitare, protestando indignati contro di me.
«Mentre il direttore, in piedi vicino al timone, mi mormorava confidenzialmente all’orecchio, qualcosa sulla necessità di ridiscendere la corrente per un bel tratto, prima del calar del sole, come precauzione, scorsi da lontano una radura sulla riva del fiume, e la sagoma di una specie di edificio. “Che cos’è?”, chiesi. Stupitissimo, battè le mani. “La stazione!”, esclamò. Mi spostai immediatamente verso riva, senza aumentare la velocità.
«Col binocolo vidi il pendio di una collina con pochi alberi distanziati fra loro, completamente sgombra dal sottobosco. Un lungo edificio fatiscente appariva sulla cima, mezzo sepolto sotto l’erba incolta; dei grandi buchi nel tetto a punta, si spalancavano da lontano tutti neri; la giungla e la foresta facevano da sfondo. Non c’era né palizzata né steccato di nessuna specie; ma doveva essercene stato uno, perché vicino alla casa, restavano allineati una mezza dozzina di sottili pali, rozzamente squadrati e con le punte ornate di rotondi pomi intagliati. Le traverse, o quello che poteva esserci in mezzo a loro, erano sparite. Naturalmente la foresta circondava tutto, ma la riva era sgombra e sul bordo dell’acqua vidi un bianco, sotto un cappello simile alla ruota di un carro che si sbracciava per richiamare la nostra attenzione. Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, ebbi quasi la certezza di vedere dei movimenti: delle forme umane che scivolavano silenziose qua e là. Per prudenza passai oltre quel luogo, e poi fermai le macchine, lasciandoci trasportare dalla corrente. L’uomo sulla riva iniziò a vociare, incitandoci a scendere a terra. “Siamo stati attaccati”, strillò il direttore. “Lo so, lo so. Va tutto bene”, gridò in risposta l’altro, molto gioviale. “Venite. Tutto bene. Son contento.”
«Il suo aspetto mi ricordava qualcosa, qualcosa di stravagante che avevo già visto da qualche parte. Mentre facevo manovra per attraccare, mi domandavo: “Ma a cos’è che assomiglia quello lì?” E improvvisamente mi venne in mente. Assomigliava a un arlecchino. I suoi vestiti erano fatti di quello che senz’altro era stato una volta del lino greggio, ma erano tutti coperti di toppe, dai colori vivaci, blu, rosse e gialle, toppe sul dorso, toppe sul davanti, sui gomiti, sulle ginocchia; una fettuccia colorata orlava la giacca, una bordura rossa il fondo dei pantaloni, e alla luce del sole appariva estremamente gaio e lindo nello stesso tempo, perché si vedeva con quale cura era stata fatta tutta quella rattoppatura. Un volto imberbe, da ragazzo, molto chiaro, privo di tratti caratteristici, il naso spellato, occhietti azzurri, sorrisi e aggrottamenti che si inseguivano su quella fisionomia aperta, come il sole e l’ombra su una pianura spazzata dal vento. “Attento, capitano!”, gridò. “C’è un tronco d’albero insediato qui dalla notte scorsa.” Cosa? Un altro? Confesso di aver bestemmiato senza ritegno. Mancava solo che squarciassi la mia bagnarola per concludere quel magnifico viaggio. L’arlecchino sulla riva sollevò il nasetto camuso verso di me. “Inglese?”, domandò, tutto sorrisi. “E lei?”, urlai dalla ruota. I sorrisi si spensero e scosse la testa come per scusarsi di dovermi deludere. Poi si rilluminò. “Pazienza!”, esclamò, incoraggiante. “Arriviamo in tempo?”, chiesi. “Lui è lassù”, rispose con una scrollata del capo verso la cima della collina, improvvisamente incupito. La sua faccia era simile al cielo d’autunno, ora coperto ora luminoso.
«Quando il direttore, scortato dai pellegrini armati fino ai denti, se ne andò in casa, il giovinotto salì a bordo. “Guardi, non mi piace per niente. Ci sono gli indigeni nella boscaglia”, dissi. Mi assicurò caldamente che andava tutto bene. “È gente semplice”, aggiunse, “ma, son contento che siate venuti. Mi toccava passar tutto il tempo a tenerli a bada.” “Ma non ha detto che andava tutto bene!”, sbottai. “Oh, non avevano cattive intenzioni”, disse, e siccome lo fissai con gli occhi sgranati, si corresse: “Non proprio.” Poi con vivacità: “Perbacco, la sua cabina ha bisogno di una ripulita!” E senza riprendere fiato, mi consigliò di tenere abbastanza vapore nella caldaia per azionare il fischio in caso di allarme.”Una bella fischiata vi sarà più utile di tutti i vostri fucili. È gente semplice”, ripeté. Mi mitragliava di parole fino a stordirmi. Sembrava volersi rifare di silenzi accumulati, e di fatti mi lasciò capire, ridendo, che era proprio così. “Non parla con il signor Kurtz?”, chiesi. “Non si parla con un uomo come lui, lo si ascolta”, esclamò in tono severo e esaltato. “Ma adesso…” Agitò il braccio e in un batter d’occhio si trovò sprofondato nell’abisso dello scoraggiamento. D’un balzo però ne riemerse, si impossessò delle mie mani e senza smettere di stringerle, farfugliò: “Fratello marinaio… che onore… piacere… gioia… mi presento… russo… figlio di un arciprete… patriarcato di Tambov… Cosa! Del tabacco? Del tabacco inglese? L’eccellente tabacco inglese! Ah, questo sì che è da fratello. Se fumo? E qual è il marinaio che non fuma?”
«La pipa lo sedò, e poco a poco colsi che era scappato da scuola, si era imbarcato su una nave russa, era scappato di nuovo, aveva servito per un po’ su delle navi inglesi e poi si era riconciliato con l’arciprete. Attribuiva grande importanza a questo fatto. “Ma quando si è giovani bisogna vedere il mondo, accumulare esperienza, idee, allargare la mente.” “Qui!”, lo interruppi. “Non si può mai dire! Qui ho incontrato il signor Kurtz”, disse con un tono di rimprovero e di giovanile solennità. Al che tenni a freno la lingua. Pare che avesse persuaso una ditta commerciale olandese della costa ad affidargli delle provviste e delle mercanzie ed era partito per l’interno a cuor leggero, e con più incoscienza di un bambino su quello che poteva capitargli. Aveva vagato sul fiume per quasi due anni, da solo, separato da tutto e da tutti. “Non sono così giovane come sembro. Ho venticinque anni”, disse. “All’inizio il vecchio Van Shuyten aveva provato a mandarmi al diavolo”, raccontò, molto divertito, “ma io, incollato alle sue calcagna, parlavo e parlavo, tanto che alla fine, temendo di restare schiacciato sotto la mia ruota libera, mi riempì di paccottiglia e di qualche fucile, dicendomi che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Bravo vecchio, l’olandese, Van Shuyten. Gli ho spedito una piccola partita di avorio un anno fa, così quando torno non potrà dire che sono un lestofante. Spero che l’abbia ricevuto. E del resto me ne infischio. Avevo preparato della legna per lei. Quella era la mia vecchia casa. L’ha vista?”
«Gli porsi il libro di Towson. Stava quasi per buttarmi le braccia al collo, ma si trattenne. “Il solo libro che mi restasse e pensavo di averlo perso”, disse, guardandolo estasiato. “Capitano tanti accidenti, sa, a un uomo che se ne va in giro da solo. Le canoe ogni tanto si capovolgono e qualche volta bisogna anche battersela in fretta quando la gente si arrabbia.” Sfogliava le pagine. “Ci ha fatto delle annotazioni in russo?”, chiesi. Annuì. “Pensavo che fossero scritte in codice”, dissi. Si mise a ridere, poi, serio: “Ho fatto molta fatica a tenere a bada quella gente.” “Volevano uccidervi?”, chiesi. “Oh, no!”, esclamò, interrompendosi subito. “E perché ci hanno attaccati?”, continuai. Esitò, poi con una sorta di pudore disse: “Non vogliono che lui se ne vada.” “Davvero?”, dissi incuriosito. Annuì con un cenno pieno di saggezza e di mistero. “Badi bene”, esclamò, “quell’uomo mi ha allargato la mente.” Spalancò le braccia, guardandomi coi suoi occhietti azzurri, tondi tondi.
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