JOSEPH CONRAD 

CUORE DI TENEBRA

I
La Nellie ruotò sull’ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
L’estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all’imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate. Una bruma riposava sulle sponde basse, le cui sagome fuggenti si perdevano nel mare. L’aria era cupa sopra Gravesend, e più indietro ancora sembrava addensarsi in una desolata oscurità che incombeva immobile sulla più grande, e la più illustre, città del mondo.

Il Direttore delle Compagnie era il nostro capitano e il nostro ospite. Noi quattro l’osservavamo con affetto mentre, a prua, volgendoci le spalle, guardava verso il mare. Su tutta la distesa del fiume, nulla aveva l’aria più navigata di lui. Si sarebbe detto un pilota, che per un marinaio è come dire la fiducia in persona. Era difficile credere che il suo lavoro non si svolgesse là, su quell’estuario luminoso, ma alle sue spalle, dentro quell’incombente oscurità.
Fra noi, come ho già detto da qualche parte, c’era il legame del mare. Oltre che tenere uniti i nostri cuori durante i lunghi periodi di separazione, aveva l’effetto di farci tollerare i racconti e addirittura le convinzioni gli uni degli altri. L’Avvocato, il migliore dei vecchi compagni, in ragione dei suoi numerosi anni e delle sue molte virtù, aveva diritto all’unico cuscino che ci fosse sul ponte ed era disteso sulla nostra unica coperta. Il Contabile aveva già preparato il domino e si divertiva ad architettare piccole costruzioni con le tessere d’osso. Marlow sedeva all’estrema poppa a gambe incrociate, appoggiato all’albero di mezzana. Aveva le guance incavate, la carnagione gialla, il dorso eretto, l’aspetto ascetico: con le braccia distese e il palmo delle mani aperte volto in fuori, assomigliava a un idolo. Il Direttore, soddisfatto della tenuta dell’ancora, venne a poppa e si sedette in mezzo a noi. Scambiammo qualche parola, svogliatamente. Poi ci fu silenzio a bordo dello yacht. Non ricordo per quale ragione non iniziammo la partita di domino. Eravamo in vena di meditazioni, a nient’altro disposti che a una placida contemplazione. Il giorno finiva in una serenità di calmo e squisito splendore. L’acqua scintillava pacifica; il cielo, senza macchia, era una benigna immensità di luce pura; sulle paludi dell’Essex, la foschia stessa era come una garza trasparente e radiosa che, impigliata ai pendii boscosi dell’interno, drappeggiava le sponde basse nelle sue pieghe diafane. Solo l’oscurità a ponente, che incombeva sui tratti superiori del fiume, diventava sempre più tetra, come irritata dall’avvicinarsi del sole.
E infine, nella sua caduta obliqua e impercettibile, il sole toccò l’orizzonte e dal bianco incandescente passò a un rosso opaco, senza raggi e senza calore, come stesse per spegnersi all’improvviso, colpito a morte al contatto di quella oscurità che incombeva sopra una moltitudine di uomini.
Anche sull’acqua ci fu un cambiamento repentino, e la serenità si fece meno brillante, ma più profonda. Il vecchio fiume riposava imperturbato al declinare del giorno, dopo secoli di onorato servizio reso alla razza che popolava le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di una via che conduce ai confini più remoti della terra. Guardavamo quel venerabile corso d’acqua non nella passeggera vampata di un giorno che compare e poi scompare per sempre, ma nell’augusta luce dei ricordi duraturi. E di fatti, non c’è niente di più facile che un uomo che, come si usa dire, si è “votato al mare” con amore e riverenza, si metta a evocare il grande spirito del passato sull’estuario del Tamigi. La corrente della marea che va e che viene nel suo incessante lavorio, è popolata dal ricordo degli uomini e delle navi che ha portato verso il riposo nel nido natio o alle battaglie nell’Oceano. Li aveva conosciuti e serviti tutti, quegli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John Franklin, tutti cavalieri, con o senza investitura, i grandi cavalieri erranti del mare. Le aveva portate tutte, quelle navi dai nomi come gioielli scintillanti nella notte dei tempi, dalla Golden Hind, che rientrava in porto con i rotondi fianchi tutti pieni di tesori, per ricevere la visita di sua maestà la Regina e poi uscire dalla gloriosa leggenda, fino all’Erebus e alla Terror, partite per altre conquiste, e non più ritornate. Aveva conosciuto le navi e gli uomini, quelli partiti da Deptford, da Greenwich, da Erith, gli avventurieri e i coloni, navi di re e navi di banchieri, capitani e ammiragli, loschi “intermediari” dei traffici con l’Oriente e “generali” incaricati delle flotte delle Indie Orientali. Che cercassero l’oro o che inseguissero la gloria, tutti avevano disceso quelle acque, portando la spada e spesso la fiaccola, messaggeri della potenza di quella terra, depositari di una scintilla del fuoco sacro. Quale grandezza non aveva fluttuato sulla corrente di quel fiume verso il mistero di un mondo sconosciuto!… Sogni di uomini, semi di comunità, germi di imperi!…
Il sole tramontò. L’ombra cadde sul fiume e le luci cominciarono ad apparire lungo le sponde. Il faro di Chapman, issato come su un treppiedi sul suo banco di fango, gettava uno sfavillio intenso. Le luci delle navi si spostavano nel canale: un gran movimento di luci che si avvicinavano e si allontanavano. E più a occidente, nel tratto a monte del fiume, il luogo della città mostruosa restava sinistramente segnato nel cielo: una cappa incombente alla luce del giorno, un riflesso livido sotto le stelle.
«E anche questo», disse Marlow all’improvviso, «è stato uno dei luoghi di tenebra della terra.»
Era il solo fra noi che ancora “corresse” il mare. Il peggio che si potesse dire sul suo conto, era che rappresentava in modo atipico la sua categoria. Era un marinaio, ma era anche un vagabondo, mentre la maggior parte dei marinai conduce, se così si può dire, una vita sedentaria. La loro indole è casalinga; e la loro casa, la nave, se la portano sempre dietro, e così il loro paese, il mare. Non c’è nave che non assomigli a un’altra, e il mare è sempre lo stesso. Nell’immutabilità di ciò che le circonda, le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della vita, tutto scivola e passa, velato non dal senso del mistero, ma da un’ignoranza un po’ sdegnosa. Perché, per un marinaio, non c’è niente di misterioso al di fuori del mare, signore e padrone della sua vita, e imperscrutabile come il destino. Per il resto, gli bastano una passeggiata o una bisboccia a terra, di tanto in tanto, al termine del lavoro, per scoprire il segreto di un intero continente e per capire, di solito, che non valeva la pena di conoscerlo. I prolissi racconti dei marinai hanno una semplicità immediata e il loro significato sta tutto dentro un guscio di noce. Ma Marlow non era tipico (se non per la sua tendenza a essere prolisso); per lui il significato di un episodio non andava cercato all’interno, nel gheriglio, ma all’esterno, in ciò che, avviluppando il racconto, finiva col rivelarlo, come la luce rivela la foschia, allo stesso modo in cui l’illuminazione spettrale del chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi.
La sua osservazione non sorprese nessuno. Era nello stile di Marlow. Venne accolta in silenzio. Neanche un grugnito da parte nostra. E dopo un istante riprese a parlare, molto lentamente:
«Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa. L’altro ieri… È uscita la luce da questo fiume, da allora… I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c’erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d’animo del capitano di una bella – com’è che si chiama? ah sì – trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l’ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari – altra manica di uomini in gamba – costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere a quello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d’altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l’acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio – il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l’esilio e la morte – la morte in agguato nell’aria, nell’acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l’è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia. E forse lui si faceva coraggio tenendo d’occhio di tanto in tanto la possibilità di una promozione alla flotta di Ravenna, sempre che avesse buoni amici a Roma e che sopravvivesse all’orribile clima. Oppure provate a pensare a un giovane cittadino di buona famiglia con tanto di toga – troppo dedito ai dadi, forse, sapete dove portano – che arriva qui al seguito di qualche prefetto, o di un esattore delle imposte, oppure di un mercante, per rimettere in sesto la sua fortuna. Sbarcare in una palude, marciare nei boschi, e in qualche posto dell’interno sentirsi circondato da una natura selvaggia, assolutamente selvaggia – tutta quella vita misteriosa della landa selvaggia che si agita nella foresta, nella giungla, nel cuore degli uomini selvaggi. E non c’è iniziazione a questi misteri. Lui deve vivere in mezzo all’incomprensibile, che in sé è già detestabile. Che però ha anche un fascino, e che comincia a far presa sul nostro uomo. Il fascino dell’orrido, capite? Immaginate i rimpianti, sempre più grandi, il desiderio ossessivo di fuggire, il disgusto impotente, la resa, l’odio.»
Si interruppe.
«Badate», ricominciò, alzando un avambraccio, il palmo della mano in fuori, le gambe incrociate: adesso aveva la posa di un Budda in preghiera, vestito all’europea e senza fior di loto. «Badate, nessuno di noi proverebbe niente di simile. Ciò che ci salva è l’efficienza, il culto dell’efficienza. Ma su quegli uomini non si poteva fare molto affidamento. Non erano colonizzatori e la loro amministrazione non era che l’arte di spremere, nient’altro, temo. Erano dei conquistatori e per questo, non ci vuole che la forza bruta, niente di cui essere fieri quando la si ha, perché questa forza non è che un accidente che deriva dalla debolezza altrui. Mettevano le mani su tutto quello che potevano arraffare, per il solo piacere di arraffare. Si trattava propriamente di rapina a mano armata, di omicidio premeditato su vasta scala, e gli uomini ci andavano alla cieca, come fanno tutti quelli che si devono misurare con le tenebre. La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino. Quello che la riscatta è solo l’idea. Un’idea che la sostenga, non un pretesto sentimentale, ma un’idea e una fede disinteressata, qualcosa, insomma, da esaltare, da ammirare, a cui si possano offrire sacrifici.»
Si interruppe. Dei bagliori passavano sul fiume, piccoli bagliori verdi, rossi o bianchi, che si inseguivano, si raggiungevano, si congiungevano, si incrociavano per poi separarsi, lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva senza sosta nel cuore della notte sprofondata sul fiume senza sonno. Noi guardavamo e attendevamo con pazienza: non c’era altro da fare fino alla fine della marea. Solo dopo un lungo silenzio, quando, con voce esitante, ci disse: «Suppongo che vi ricordiate di quando, per un po’ di tempo, son diventato marinaio d’acqua dolce», capimmo di essere destinati, prima che il riflusso si facesse sentire, ad ascoltare il racconto di una delle inconcludenti esperienze di Marlow.
«Non ho intenzione di affliggervi con quello che mi è capitato personalmente», incominciò, tradendo con questa osservazione l’errore comune a tanti narratori che sembrano così spesso non sapere quello che il loro uditorio preferirebbe sentire. «Però, per capire l’effetto prodotto su di me, bisogna che sappiate come sono giunto fin là, cosa ho visto, e come ho risalito quel fiume fino al luogo in cui per la prima volta ho incontrato quel poveraccio. Era il limite estremo accessibile alla navigazione: fu anche il punto culminante della mia avventura. Mi è sembrato che emanasse una specie di luce su tutte le cose intorno a me e sui miei pensieri. Era oscuro, ciononostante, e penoso, per nulla straordinario, ma neanche chiaro. No, non molto chiaro… Eppure sembrava emanare una specie di luce…
«Ero appena tornato a Londra, ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano Indiano, Pacifico, mari della Cina – una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno – e bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case, proprio come se avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Per un po’ andò benissimo, ma ben presto cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una nave: penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi.
«Dovete sapere che, quand’ero un ragazzino, avevo la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare l’America del sud, o l’Africa o l’Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell’esplorazione. A quei tempi c’erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno dall’aria particolarmente invitante (ma ce l’hanno tutti quell’aria) ci posavo il dito sopra e dicevo: “Quando sarò grande, ci andrò.” Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo. Non ci sono ancora stato e non mi ci proverò certo adesso. L’incanto è finito. Altri di quei luoghi erano disseminati intorno all’Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e due gli emisferi. In qualcuno ci sono stato, e… beh, non è di questo che voglio parlarvi. Ma ce n’era uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente attratto.
«È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto. Dalla mia infanzia, si era riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente avvolta nel mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma là dentro c’era soprattutto un fiume, un fiume possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente. E mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi affascinava, come un serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino. Mi ricordai allora che c’era una grossa impresa, una Compagnia che commerciava su quel fiume. Diamine, mi dissi, non potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella massa d’acqua dolce – i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno? Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi l’idea di dosso. Il serpente mi aveva incantato.
«Si trattava in realtà di un’impresa continentale, la Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a sentir loro, costa poco e non è così sgradevole come sembra.
«Devo purtroppo ammettere che incominciai a scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine ricorrere a questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai creduto di esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l’impressione che lì ci dovevo andare, a qualunque costo. Così li scomodai. Gli uomini mi dissero “Carissimo” e non fecero nulla. Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow misi le donne all’opera per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l’idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una tenera anima entusiasta. Mi scrisse: “Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un’idea straordinaria. Conosco la moglie di un personaggio molto in vista nell’Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in capitolo…”, ecc., ecc. Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio.
«Naturalmente ottenni il posto, e anche rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava del corpo, seppi che all’origine della questione c’era stato un malinteso per delle galline. Sì, per due galline nere! Fresleven – è così che si chiamava quell’uomo, un danese – pensando di essere stato in qualche modo imbrogliato nell’affare, scese a terra e iniziò a picchiare il capo del villaggio con un bastone. Oh, non mi sorpresi neanche un po’ quando me lo raccontarono e neanche quando, contemporaneamente, mi assicurarono che Fresleven era l’essere più mite e più pacifico che avesse mai camminato su questa terra. Era sicuramente vero, ma erano già due anni che era laggiù, al servizio della nobile causa, sapete, e probabilmente sentiva un estremo bisogno di riaffermare in qualche modo la sua dignità. Perciò bastonò il nero senza pietà, sotto gli occhi impietriti degli indigeni, finché un uomo – mi dissero che era il figlio del capo del villaggio – spinto alla disperazione dalle urla del vecchio, provò, in via sperimentale, a colpire il bianco con la lancia che, naturalmente, entrò senza difficoltà fra le due scapole. Al che l’intera popolazione se la svignò nella foresta, aspettandosi ogni genere di calamità, mentre, dal canto suo, il vapore che Fresleven comandava se la filava anche lui in preda al panico, agli ordini, credo, del macchinista. In seguito, nessuno sembrò preoccuparsi molto dei resti di Fresleven, fino al giorno in cui arrivai io a prendere il suo posto. Non potevo non seppellirlo; ma quando finalmente mi si presentò l’occasione di incontrare il mio predecessore, l’erba che gli cresceva tra le costole era abbastanza alta da nascondere le sue ossa. C’erano tutte. Dopo la sua caduta, l’essere soprannaturale non era stato toccato. E nel villaggio abbandonato, le capanne si spalancavano come bocche nere, putrescenti, tutte sghembe entro i recinti caduti. Una calamità si era davvero abbattuta su di lui. E la popolazione era svanita. Un terrore folle li aveva dispersi tutti nella boscaglia, uomini, donne, bambini, e non erano più ritornati. Anche le galline, non so che fine abbiano fatto. Immagino, però, che siano andate alla causa del progresso. In ogni modo, fu per quest’affare glorioso che io ricevetti la mia nomina, prima ancora che avessi iniziato a sperarci.
«Corsi come un matto per essere pronto in tempo e, meno di quarantott’ore dopo, attraversavo la Manica per presentarmi ai miei datori di lavoro, e firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in quella città che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Un pregiudizio, certo. Non mi fu difficile trovare gli uffici della Compagnia. Era la cosa più notevole della città ed era sulla bocca di tutti quelli che incontravo. S’accingevano a gestire un impero d’oltremare e a trarne una barca di soldi con il commercio.
«Una strada stretta e deserta, sprofondata nell’ombra di alte case, piene di finestre, con le persiane chiuse, un silenzio mortale, l’erba che spuntava fra le pietre, imponenti portoni a destra e a sinistra, immense doppie porte che stavano faticosamente socchiuse. Mi infilai in una di queste fessure, salii una scala spoglia e pulita, arida come un deserto, e aprii la prima porta che trovai. Due donne, una grassa e una magra, sedute su seggiole impagliate, sferruzzavano della lana nera. La magra si alzò e venne dritta verso di me, sempre sferruzzando, con gli occhi bassi, e proprio mentre pensavo di scansarmi per lasciarle il passo, come si farebbe per un sonnambulo, lei si fermò e sollevò lo sguardo. Indossava un vestito insignificante come il fodero di un ombrello. Si voltò senza dire una parola e mi precedette in una sala d’aspetto. Dissi il mio nome e mi guardai attorno. Un tavolo di abete nel mezzo, seggiole comuni intorno alle pareti, su un lato una grande carta lucida, segnata con tutti i colori dell’arcobaleno. Una gran quantità di rosso – sempre bello da vedere, perché si sa che lì si lavora sul serio – un bel po’ di azzurro, un po’ di verde, macchie di arancione e, sulla costa orientale, una chiazza violacea, che stava a indicare il luogo in cui gli euforici pionieri del progresso bevono l’euforizzante birra bionda. Ma io non andavo né qui né lì. Io andavo nel giallo. Dritto nel centro. E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un serpente. Ohi, ohi! Una porta s’aprì, e comparve una canuta testa da segretario, ma con un’espressione di compatimento, e il suo indice ossuto mi fece cenno di entrare nel santuario. La luce era fioca, e una massiccia scrivania ingombrava il centro della stanza. Dietro quel monumento si distingueva una pallida pinguedine in redingote. Il grand’uomo in persona. Poco più alto di un metro e sessanta, a quanto potei giudicare, teneva in pugno le fila di chissà quanti milioni. Mi strinse la mano, se non mi sbaglio, mormorò qualcosa, si dichiarò soddisfatto del mio francese. Bon voyage.
«Passati quarantacinque secondi mi ritrovai nella sala d’aspetto con il segretario compassionevole, che, afflitto e partecipe, mi fece firmare dei documenti. Credo di essermi impegnato, fra l’altro, a non rivelare segreti commerciali. Beh, non ho intenzione di farlo.
«Cominciavo a sentirmi un po’ a disagio. Sapete che non sono abituato a questo genere di cerimonie, e nell’atmosfera c’era qualcosa di sinistro. Come se mi avessero coinvolto in una cospirazione – non so – in qualcosa di non proprio onesto; ed ero contento di andarmene. Nell’anticamera, le due donne sferruzzavano febbrilmente la lana nera. Arrivava gente e la più giovane andava avanti e indietro ad accompagnarla. La vecchia restava seduta sulla sua sedia, con le ciabatte di stoffa appoggiate su uno scaldino, e un gatto che le riposava in grembo. Portava sulla testa un affare bianco, inamidato, aveva una verruca su una guancia e gli occhiali cerchiati d’argento poggiavano sulla punta del naso. Mi diede un’occhiata da sopra le lenti. La placidità sbrigativa e distaccata di quello sguardo mi turbò. A due giovanotti, che con aria allegra e spensierata stavano seguendo la loro guida, lei lanciò la stessa rapida occhiata di imperturbabile saggezza. Pareva sapesse tutto di loro e anche di me. Mi invase una sensazione inquietante. Lei mi sembrava misteriosa e fatale. Spesso, quand’ero laggiù, ripensai a quelle due – le guardiane della porta delle tenebre – che sferruzzavano la loro lana nera come per farne una calda coltre funebre, una che accompagnava, accompagnava senza tregua verso l’ignoto, l’altra che scrutava i volti allegri e spensierati con i suoi vecchi occhi impassibili. Ave!Vecchia sferruzzatrice di lana nera. Morituri te salutant. Di tutti quelli che lei guardò, non furono in molti a rivederla: molto meno della metà.
«Restava ancora la visita dal dottore. “Una semplice formalità”, mi assicurò il segretario, con l’aria di prendere immensa parte a tutte le mie pene. A questo scopo, un giovanotto, che portava il cappello inclinato sul sopracciglio sinistro, un impiegato, immagino – ci dovevano pur essere degli impiegati in quell’azienda, anche se l’edificio era altrettanto silenzioso di una casa della città dei morti – arrivò da qualche piano superiore e mi fece strada. Era sciatto e trasandato, con delle macchie di inchiostro sulle maniche della giacca, e un’ampia cravatta svolazzante sotto un mento a punta, come uno stivale vecchio. Siccome era un po’ troppo presto per il dottore, proposi di andare a bere qualcosa, il che lo fece diventare gioviale. Mentre sedevamo davanti ai nostri vermout, si mise a magnificare gli affari della Compagnia, tanto che, di lì a poco, espressi la mia sorpresa che non fosse andato laggiù. Diventò subito freddo e riservato. “Non sono così stupido come sembro, disse Platone ai suoi discepoli”, proferì in tono sentenzioso; poi vuotò il bicchiere con grande risolutezza e ci alzammo.
«Il vecchio medico mi tastò il polso pensando visibilmente ad altro. “Buono, buono per laggiù”, borbottò, e poi con una certa animazione mi chiese se gli permettevo di misurarmi la testa. Piuttosto sorpreso dissi di sì ed egli tirò fuori una specie di calibro. Prese le mie misure, davanti, di dietro, da tutte le parti, annotandole accuratamente. Era un ometto mal rasato, con un logora palandrana e, ai piedi, un paio di pantofole. Mi fece l’effetto di un matto innocuo. “Nell’interesse della scienza, chiedo sempre il permesso di misurare il cranio di quelli che vanno laggiù”, disse. “Anche quando tornano?”, domandai. “Oh”, rispose, “io non li vedo mai e poi i cambiamenti, sa, avvengono internamente.” Sorrise, come se avesse detto una spiritosaggine. “Così lei va laggiù. Ottima idea. Interessante, anche.” Mi lanciò un’occhiata indagatrice e prese un altro appunto. “Nessun caso di pazzia in famiglia?”, chiese in tono molto naturale. Mi seccai moltissimo. “Anche questa domanda è nell’interesse della scienza?” “Per la scienza”, disse, senza rilevare la mia irritazione, “sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli individui, ma…” “Lei è uno specialista in malattie mentali?”, lo interruppi. “Ogni medico lo dovrebbe essere, un po'”, rispose quell’originale, senza scomporsi. “Ho una piccola teoria che voi signori che andate laggiù, dovreste aiutarmi a dimostrare. Questa è la mia parte nei profitti che il mio paese mieterà dal possesso di una colonia così magnifica. La nuda ricchezza la lascio agli altri. Scusi le mie domande, ma lei è il primo inglese che ho occasione di osservare…” Mi affrettai a garantirgli che non ero affatto tipico. “Se lo fossi”, aggiunsi, “non parlerei così con lei.” “Quel che dice è senz’altro profondo, ma probabilmente errato”, disse ridendo. “Eviti ogni fonte di irritazione, più dell’esposizione al sole. Addio. Com’è che dite voi inglesi, eh? Goodbye. Allora, good-bye. Addio. Ai tropici bisogna soprattutto mantenere la calma…” Fece un cenno di ammonimento con l’indice…”Du calme, du calme. Adieu.”
«Non restava che una cosa da fare: salutare la mia ottima zia. La trovai trionfante. Mi offrì una tazza di tè – l’ultima tazza di tè decente per non so quanto tempo – in una stanza che rispondeva nel modo più lusinghiero all’idea che ci si fa del salotto di una signora. Parlammo a lungo, tranquilli, vicini al camino. Nel corso di quelle confidenze divenne evidente che ero stato descritto alla moglie dell’alto dignitario, e Dio sa a quante altre persone ancora, come un essere eccezionalmente dotato – una vera fortuna per la Compagnia – un uomo come non se ne trovano tutti i giorni. Dio santo! e io che andavo ad assumere il comando di un vaporetto da quattro soldi munito di un fischio da due. Risultava chiaro, però, che io ero anche uno dei Pionieri, con la P maiuscola, capite. Qualcosa come un portatore di luce, una specie di apostolo in formato ridotto. Proprio a quel tempo circolavano sulla stampa, e nei discorsi, un mucchio di stupidaggini di questo tipo e quella bravissima donna, che in mezzo a quelle frottole ci viveva, se ne era lasciata travolgere. Parlò di “distogliere quella massa di ignoranti dalle loro orribili usanze”, tanto che alla fine, parola d’onore, riuscì a farmi sentire molto a disagio. Provai ad accennare al fatto che la Compagnia agiva a scopo di lucro.
«”Tu dimentichi, caro Charlie, che ogni fatica merita una ricompensa”, disse lei raggiante. Straordinario che le donne siano così lontane dalla verità. Vivono in un mondo che si costruiscono loro stesse, che non c’è mai stato e non ci sarà mai. Troppo perfetto nel suo insieme e tale che, se dovessero realizzarlo, non vedrebbe neanche un tramonto, crollerebbe prima. A buttar giù tutto salterebbe fuori uno di quei maledetti fatti a cui noi uomini siamo rassegnati sin dal giorno della creazione.
«Poi mia zia mi abbracciò, mi raccomandò di portare la maglia di lana, di scrivere spesso, ecc., ecc., e me ne andai. Per strada, non so perché, ebbi la curiosa sensazione di essere un impostore. Strana cosa che io, abituato a partire per qualsiasi parte del mondo in meno di ventiquattr’ore, senza pensarci tanto quanto la maggior parte degli uomini per attraversare la strada, avessi un momento, non dirò di esitazione, ma di pausa allarmata davanti a questa impresa banale. Non saprei spiegarmi meglio se non dicendo che, per un paio di secondi, mi sentii come se, invece di partire per il centro di un continente, stessi per avventurarmi nel centro della terra.
«Mi imbarcai su un piroscafo francese, che fece scalo in ognuno di quei dannati porti che loro hanno laggiù, al solo scopo, per quanto mi fu dato di vedere, di sbarcarvi dei soldati e dei doganieri. Io osservavo la costa. Osservare una costa mentre scivola via lungo la nave, è come riflettere su un enigma. È là, davanti a voi, sorridente o accigliata, invitante, splendida o mediocre, insipida o selvaggia, e muta sempre, ma con l’aria di sussurrare: “Venite a vedere.” Quella era quasi informe, come ancora incompiuta, con un aspetto ostile e monotono. Il limitare di una giungla colossale, di un verde così scuro da sembrare quasi nero, orlato dal bianco della risacca, correva dritto, come tracciato con la riga, lontano, lontano lungo un mare azzurro il cui scintillio era offuscato da una foschia strisciante. Il sole era implacabile, la terra sembrava rorida e luccicante per il vapore. Qua e là affioravano delle macchie di un grigio biancastro raggruppate dentro la bianca risacca, con a volte una bandiera inastata: insediamenti vecchi di qualche secolo, e non più grandi di capocchie di spillo sull’intatta distesa di quell’immenso entroterra. Ci trascinavamo lentamente, ci fermavamo, sbarcavamo soldati; proseguivamo, sbarcavamo funzionari di dogana venuti a riscuotere le gabelle su quella che sembrava una landa selvaggia, dimenticata da Dio, con una baracca di latta e un’asta per la bandiera sperdute là dentro. Sbarcavamo altri soldati che, apparentemente, dovevano vegliare sui doganieri. Alcuni di loro, a quanto ho sentito dire, annegarono nella risacca; che fosse vero o no, nessuno sembrava preoccuparsene. Venivano scaraventati a terra e si ripartiva. La costa era ogni giorno la stessa, come se non ci fossimo mossi; ma toccammo diversi luoghi – luoghi commerciali – i cui nomi, come Gran Bassam o Piccolo Popo, sembravano appartenere a qualche sordida farsa recitata davanti a un sinistro scenario. La mia inoperosità di passeggero, l’isolamento in mezzo a tutti quegli uomini con cui non avevo niente in comune, il mare languido e oleoso, la tetra uniformità della costa, sembravano tenermi lontano dalla realtà delle cose, irretito da una fantasmagoria lugubre e assurda. La voce della risacca che si percepiva di tanto in tanto dava un piacere reale, come una parola fraterna. Era qualcosa di naturale, che aveva una ragione e un significato. Di tanto in tanto una barca che si staccava dalla costa creava un momentaneo contatto con la realtà. Era portata da rematori neri. Di lontano si vedeva splendere il bianco dei loro occhi. Urlavano, cantavano; i loro corpi grondavano sudore, avevano volti simili a maschere grottesche, quegli esseri; ma avevano nerbo, muscoli, una vitalità selvaggia, un’intensa energia di movimenti, naturale e autentica come la risacca lungo la loro costa. Loro non avevano bisogno di un pretesto per essere là. Provavo un gran sollievo a guardarli: era come se mi sentissi di appartenere ancora a un mondo lineare e concreto, ma era una sensazione che durava poco. Sopraggiungeva qualcosa che faceva presto a scacciarla. Un giorno, mi ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non si vedeva neanche una capanna, eppure bombardava la boscaglia. Sembra che i Francesi avessero una delle loro guerre in corso da quelle parti. La bandiera nazionale penzolava flaccida come un cencio; le bocche dei lunghi cannoni da centocinquanta, spuntavano da ogni parte dello scafo basso. Il mare lungo, grasso e fangoso sollevava pigramente la nave per lasciarla poi ricadere, facendo oscillare gli alberi affilati. Nella vuota immensità del cielo, del mare e della terra, stava là, incomprensibile, a far fuoco su un continente. Bum! partiva il colpo di uno dei cannoni da centocinquanta; una piccola fiamma saettava e svaniva; una sottile fumata bianca scompariva subito, un minuscolo proiettile passava fischiando, e non accadeva nulla. Poteva accadere qualcosa? C’era un tocco di follia in quell’azione, un’impressione di macabra buffonata nello spettacolo, che non si dissolse neppure quando qualcuno a bordo mi assicurò con grande convinzione che c’era un campo di indigeni – lui li chiamava nemici! – nascosto da qualche parte.
«Consegnammo la posta (seppi che su quella nave solitaria gli uomini morivano di febbri al ritmo di tre al giorno) e ripartimmo. Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo.
«Prima che si vedesse la foce del grande fiume, passarono più di trenta giorni. Gettammo l’ancora di fronte alla sede del governo. Ma il mio lavoro non sarebbe cominciato che a quattrocento chilometri da lì; perciò, appena fu possibile, raggiunsi una località a una cinquantina di chilometri più a monte.
«Feci il viaggio su un piccolo piroscafo. Il capitano, uno svedese, quando venne a sapere che ero un marinaio, mi invitò sul ponte di comando. Era un giovane magro, biondo e imbronciato, i capelli lisci e sottili, l’andatura strascicata e irregolare. Mentre ci allontanavamo dalla miserabile banchina, fece con la testa un cenno di disprezzo in direzione della riva. “È stato lì?”, chiese. Dissi di sì. “Bei tipi quei funzionari del governo, vero?”, continuò. Parlava inglese con molta precisione e grande amarezza. “È sorprendente quello che certa gente è disposta a fare per pochi franchi al mese. Mi domando cosa succeda a quella genia quando s’inoltra nell’interno.” Gli dissi che mi aspettavo di scoprirlo presto. “Ah-ah!”, esclamò. Si spostò di traverso strascicando i piedi, senza staccare gli occhi dalla rotta. “Non ne sia troppo sicuro”, proseguì, “l’altro giorno ho fatto salire a bordo un uomo che si è impiccato durante il viaggio. Anche lui era svedese.” “Impiccato!”, esclamai, “ma perché in nome di Dio?” Non distolse il suo sguardo vigile. “Chi lo sa! Non ha retto al sole o al paese, forse.”
«Alla fine il fiume si allargò. Apparvero un picco roccioso, dei monticelli di terra rivoltata presso la riva, delle case su una collina, altre col tetto di lamiera tra mucchi di terra di scavo, o abbarbicate sul pendio. Il rumore incessante delle rapide più a monte, planava sopra quel paesaggio di devastazione abitata. Degli uomini, generalmente neri e nudi, andavano e venivano come formiche. Un piccolo molo avanzava nel fiume. E un sole accecante annegava talvolta l’insieme in una improvvisa recrudescenza di luce. “Ecco la stazione della sua Compagnia”, disse lo svedese indicando col dito tre edifici di legno, simili a caserme, sulla salita scoscesa. “Le faccio portare su la sua roba. Quattro colli, ha detto? Benissimo. Arrivederci.”
«Mi imbattei in una caldaia che sguazzava nell’erba, poi trovai un sentiero che portava alla collina. Non procedeva in linea retta perché era ostruito da massi di pietra e anche da un vagoncino che giaceva capovolto con le ruote all’aria. Ne mancava una. La carcassa di un animale avrebbe dato la stessa impressione di morte. Mi imbattei in altri pezzi di macchine deteriorate e in una catasta di rotaie arrugginite. Alla mia sinistra un gruppo d’alberi gettava una macchia d’ombra in cui delle cose oscure sembravano muoversi debolmente. Battei le palpebre: il sentiero era ripido. Un corno risuonò alla mia destra e vidi i neri correre. Una detonazione violenta e sorda scosse il suolo, uno sbuffo di fumo uscì dalla rupe, e fu tutto. Non apparve alcun cambiamento sulla parete della roccia. Stavano costruendo una ferrovia. La rupe non intralciava affatto; ma tutto il lavoro in corso consisteva in quel brillamento di mine senza scopo.
«Un lieve tintinnio dietro di me mi fece volgere il capo. Sei neri in fila si inerpicavano su per il sentiero. Camminavano rigidi e lenti, tenendo in equilibrio sulla testa delle ceste piene di terra, e il tintinnio segnava il tempo dei loro passi. Sui loro fianchi erano annodati degli stracci neri, le cui corte estremità si agitavano dietro la schiena come delle code. Le loro costole si distinguevano una a una, le giunture delle loro membra sembravano i nodi di una corda; ciascuno aveva un collare di ferro intorno al collo e tutti erano legati a una catena i cui anelli, dondolando assieme, tintinnavano ritmicamente. Una nuova esplosione nella rupe mi richiamò improvvisamente alla memoria quella nave da guerra che avevo visto far fuoco su un continente. Era la stessa voce sinistra, ma neanche con uno sforzo di immaginazione questi uomini si potevano chiamare nemici. Qui li chiamavano criminali, e la legge oltraggiata, come le cannonate, si era abbattuta su di loro, un mistero insolubile, venuto dal mare. I magri petti ansimanti, le narici frementi, violentemente dilatate, gli occhi pietrificati, fissi sulla collina, mi passarono accanto, quasi sfiorandomi, senza uno sguardo, con quella totale, mortale indifferenza dei selvaggi infelici. Dietro quella materia prima, uno dei redenti, il prodotto delle nuove forze all’opera, veniva avanti ciondolando con aria smarrita, tenendo una carabina per la canna. Aveva indosso una giubba d’uniforme senza un bottone. Scorgendo un bianco sul sentiero, issò l’arma alla spalla con grande alacrità. Un’elementare misura di precauzione, perché da lontano non poteva riconoscermi, visto che i bianchi si assomigliano tutti. Si sentì presto rassicurato e con un’ampia smorfia da furfante, che gli scoprì i denti bianchi, strizzò l’occhio verso il suo gregge, come per associarmi all’alta missione che compiva. Dopo tutto, anch’io facevo parte della grande causa da cui derivavano queste nobili e giuste misure.
«Invece di continuare a salire, girai a sinistra e incominciai a scendere. Volevo lasciare il tempo a quella squadra incatenata di sparire dalla mia vista prima di riprendere la salita. Sapete che non sono particolarmente tenero; ho dovuto dare e parare molti colpi; difendermi e qualche volta attaccare – anche questo è un modo di difendersi – senza valutarne esattamente il costo, secondo le esigenze del genere di vita in cui mi ero andato a cacciare. Ho visto il demone della violenza e il demone della cupidigia, e quello della passione; ma, numi del cielo!, questi erano demoni in carne e ossa, forti e robusti, gli occhi iniettati di sangue, che trascinavano e dominavano degli uomini…, degli uomini, capite. In piedi sul fianco di quella collina, ebbi il presentimento che sotto il sole accecante di quel paese, avrei imparato a conoscere il demone flaccido, finto, dalla vista corta, di una follia rapace e spietata. E anche quanto potesse essere insidioso, dovevo scoprirlo solo molti mesi più tardi e a qualche migliaio di chilometri da lì. Rimasi sgomento per un attimo, come da una premonizione. Infine discesi la collina, trasversalmente, verso gli alberi che avevo visto.
«Evitai una vasta fossa artificiale che era stata scavata nel pendio, a quale scopo mi fu impossibile indovinare. Non era sicuramente una cava, né di pietra né di sabbia. Era soltanto una fossa. Forse aveva qualche nesso col desiderio filantropico di dare qualcosa da fare ai criminali. Chissà. Poi stavo quasi per cadere in una forra, poco più di una ferita sul fianco della collina. Scoprii che un mucchio di tubi di scolo, importati a uso della colonia, erano stati fatti ruzzolare là dentro. Non ce n’era uno che non fosse rotto. Puro vandalismo. Finalmente arrivai sotto gli alberi. La mia intenzione era di gironzolare all’ombra per un po’, ma non appena fui lì dentro mi parve di essere entrato in un girone dell’Inferno. Le rapide erano vicine, e un fragore ininterrotto, uniforme, irruente, precipitoso, riempiva la lugubre quiete di quel boschetto – dove non un soffio di vento alitava, non una foglia si muoveva – di un suono misterioso, come se il movimento vorticoso della terra nello spazio vi fosse subitamente divenuto percettibile.
«Delle forme nere stavano accovacciate, sdraiate o sedute fra gli alberi, appoggiate ai tronchi, incollate alla terra; per metà in risalto, per metà nascoste entro la luce incerta, in tutte le pose del dolore, dell’abbandono e della disperazione. Scoppiò una nuova mina nella rupe, seguita da un leggero fremito della terra sotto i miei piedi. Il lavoro procedeva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni dei suoi servi si erano ritirati a morire.
«Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare. Queste forme moribonde erano libere come l’aria e altrettanto leggere. Incominciai a distinguere il bagliore degli occhi sotto gli alberi. Poi, abbassando lo sguardo, vidi una faccia vicino alla mia mano. La nera ossatura era distesa in tutta la sua lunghezza, la spalla contro l’albero. Con lentezza, le palpebre si sollevarono; gli occhi incavati mi guardarono, enormi e vuoti; nella profondità delle orbite ci fu una specie di scintilla bianca, cieca, che si spense lentamente. L’uomo sembrava giovane, quasi un ragazzo, ma, sapete, con loro non si può mai dire. Non trovai niente di meglio da fare che dargli una di quelle gallette che avevo in tasca, prese dalla nave del mio buon svedese. Le dita si richiusero lentamente e la trattennero, senza nessun altro movimento né un altro sguardo. Si era legato un filo bianco, di lana o di cotone, attorno al collo. Perché? Dove l’aveva trovato? Era un distintivo, un ornamento, un amuleto, un atto propiziatorio? C’era connessa una qualche idea? Era sorprendente, attorno al suo collo nero, quel pezzetto di filo bianco venuto d’oltremare.
«Presso lo stesso albero altri due fagotti ad angoli acuti erano seduti con le gambe ripiegate contro il corpo. Uno dei due, il mento puntellato alle ginocchia, guardava nel vuoto, in modo intollerabile, spaventoso; suo fratello fantasma si sosteneva la fronte, come se fosse schiacciato da una grande spossatezza; e tutt’intorno altri ancora erano dispersi nelle più varie e contorte pose di prostrazione e abbandono, come nei quadri di massacri o di peste. Mentre io restavo immobile, paralizzato dall’orrore, una di quelle creature si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, e si diresse carponi verso il fiume per bere. Sorbì l’acqua dal cavo della mano, poi si sedette al sole, incrociando gli stinchi davanti a sé, e dopo poco lasciò cadere la testa lanosa sul petto.
«Mi era passata la voglia di passeggiare all’ombra, e ripresi in fretta il cammino verso la stazione. Vicino agli edifici incontrai un bianco, di un’eleganza così inaspettata che al primo momento lo presi per una visione. Vidi un alto colletto inamidato, polsini bianchi, una leggera giacca di alpaca, pantaloni candidi, una cravatta chiara e stivaletti di vernice. Senza cappello. I capelli divisi dalla riga, ben spazzolati, impomatati, sotto un parasole bordato di verde, sorretto da una grossa mano bianca. Era stupefacente, e dietro l’orecchio aveva un penna.
«Strinsi la mano a quel miracolo, e venni a sapere che era il capo contabile della Compagnia, e che tutta la contabilità si teneva in quella stazione. Era uscito un momento, disse, “a prendere una boccata d’aria fresca.” L’espressione mi parve singolarmente sorprendente, perché lasciava intravvedere una vita sedentaria in un ufficio. Non vi avrei nemmeno parlato di costui, ma è dalle sue labbra che per la prima volta è uscito il nome di quell’uomo che è indissolubilmente legato ai ricordi di quel periodo. E in più sentivo del rispetto per quel tale. Sì, del rispetto per i suoi colletti, i suoi ampi polsini, i suoi capelli ben pettinati. Il suo aspetto non era diverso da quello di un manichino, ma nel generale sfacelo di quella terra, lui rispettava le apparenze. Questo significa avere spina dorsale. I suoi colletti inamidati, i rigidi sparati erano prove di carattere. Era lì da quasi tre anni e, più tardi, non potei fare a meno di chiedergli come riuscisse a far sfoggio di una simile biancheria. Arrossì impercettibilmente e con modestia disse: “Ho istruito una delle indigene della stazione. È stato molto difficile. Aveva un’avversione per il lavoro.” Così quell’uomo aveva realmente realizzato qualcosa. E si dedicava anche ai suoi libri, che erano tenuti in modo esemplare.
«Nella stazione tutto il resto era solo confusione: nelle teste, nelle cose, negli edifici. File di neri impolverati e con i piedi piatti che arrivavano e ripartivano; un profluvio di manufatti, tessuti di cotone di scarto, perline e grani di vetro, filo di ottone, spedito nel cuore delle tenebre, da dove, in cambio, sgorgava un prezioso rivolo d’avorio.
«Dovetti aspettare dieci giorni in quella stazione: un’eternità. Alloggiavo in una capanna nel cortile, ma per sfuggire al caos, qualche volta, andavo a rifugiarmi dal contabile. Il suo ufficio era costruito con assi orizzontali, così sconnesse che, stando chino sul suo alto scrittoio, era zebrato dalla testa ai piedi da sottili strisce di sole. Non c’era bisogno di aprire la grande imposta per vederci. E che caldo là dentro! Delle grosse mosche facevano un ronzio infernale e non pungevano: trafiggevano. Generalmente mi sedevo per terra, mentre lui, appollaiato su un alto sgabello, impeccabile (e anche leggermente profumato), scriveva e scriveva. Ogni tanto si alzava per sgranchirsi. Quando portarono lì dentro una branda con un ammalato – un agente dell’interno che veniva rimpatriato – manifestò, educatamente, una certa insofferenza. “I gemiti del malato”, disse, “potrebbero distrarre la mia attenzione. E senza attenzione, con questo clima, è già molto difficile evitare gli errori materiali.”
«Un giorno, senza alzare il capo, osservò: “Nell’interno incontrerà certamente il signor Kurtz.” Siccome gli chiesi chi era il signor Kurtz disse che era un agente di prima classe e, percependo la mia delusione alla sua risposta, aggiunse lentamente, posando la penna: “È una persona veramente notevole.” Incalzato da altre domande, aggiunse che il signor Kurtz attualmente dirigeva un posto commerciale, un posto importantissimo, nel vero paese dell’avorio, “al limite estremo. Ci manda più avorio lui di tutti gli altri messi insieme…” Ricominciò a scrivere. Il malato stava troppo male per lamentarsi. Le mosche ronzavano in una gran quiete.
«All’improvviso si udì un crescente mormorio di voci e un forte scalpitio di piedi. Era arrivata una carovana. Un violento cicaleccio di suoni rozzi e sconosciuti scoppiò dall’altra parte delle assi. I portatori parlavano tutti assieme, e in mezzo al clamore si udì la voce lamentosa dell’agente capo che, per l’ennesima volta nella giornata, dichiarava in tono piagnucoloso che lui “ci rinunciava, non ce la faceva più”… Il contabile si alzò lentamente. “Che chiasso spaventoso”, esclamò. Attraversò piano la stanza, diede un’occhiata al malato, e tornando verso di me, disse: “Lui non sente.” “Come! È morto?”, chiesi trasalendo. “No, non ancora”, rispose tranquillamente. Poi, alludendo con un cenno del capo al tumulto nel cortile: “Quando si è tenuti a riportare i numeri in modo corretto, si finisce con odiare questi selvaggi, odiarli a morte.” Rimase un attimo soprappensiero. “Quando vedrà il signor Kurtz”, continuò, “gli dica da parte mia che qui” – lanciò un’occhiata al suo scrittoio – “va tutto benissimo. Non mi piace scrivergli. Con i messaggeri che abbiamo, non si sa in che mani potrebbe finire una lettera, in quella Stazione Centrale.” Mi fissò per un istante coi suoi placidi occhi sporgenti. “Oh, andrà lontano, molto lontano”, riprese. “In poco tempo diventerà qualcuno nell’Amministrazione. Loro, quelli del Consiglio lassù, in Europa, capisce, hanno questo in mente.”
«Si rimise al lavoro. All’esterno, il rumore era cessato. Prima di varcare la soglia per uscire, mi fermai. Nell’incessante ronzio delle mosche, l’agente malato in attesa del rimpatrio giaceva inerte e congestionato; l’altro, chino sui suoi libri, riportava correttamente le voci relative a transazioni perfettamente corrette; e a una quindicina di metri più in basso del gradino della porta si ergevano immobili le cime del boschetto della morte.
«Il giorno seguente, lasciai finalmente la stazione, con una carovana di sessanta uomini, per una marcia di trecento chilometri.
«Inutile che vi racconti tutti i dettagli. Piste, piste dappertutto; una rete di piste battute che si stendeva su un paese vuoto, attraverso l’erba alta, l’erba bruciata, i rovi, su e giù per fredde gole, giù e su per petrose colline arroventate; e solitudine, solitudine: nessuno, neanche una capanna. La popolazione se n’era andata da tanto tempo. Che volete, se una banda di neri misteriosi, muniti di ogni specie di armi spaventose, si mettesse tutt’a un tratto a percorrere la strada che da Deal porta a Gravesend, acciuffando i contadini a destra e a manca per caricarli di pesi enormi, credo che le fattorie e le cascine di quei paraggi si vuoterebbero tutte in un baleno. Solo che laggiù erano sparite anche le case. Però attraversai anche dei villaggi abbandonati. C’è qualcosa di pateticamente infantile nei muri d’erba in rovina. Giorno dopo giorno, con dietro il calpestio e lo strascicamento di sessanta paia di piedi nudi, ciascun paio sotto un peso di una trentina di chili. Accamparsi, cucinare, dormire, levare il campo, marciare. Ogni tanto un portatore morto sotto il peso, steso tra l’erba alta presso la pista, con accanto la sua zucca per l’acqua, vuota, e il suo lungo bastone. Un gran silenzio attorno e sopra di noi; tutt’al più, in certe notti tranquille, il tremolio di tamburi lontani, un tremolio fievole e vasto, che s’attutiva e si gonfiava; un suono misterioso, supplichevole, suggestivo, e selvaggio, il cui significato forse era altrettanto profondo del suono delle campane in terra cristiana. Un giorno, un bianco, l’uniforme sbottonata, accampato sulla pista, con una scorta armata di allampanati zanzibaresi, molto ospitale e allegro, per non dire ubriaco. Badava alla manutenzione della strada, dichiarò. Non posso dire di aver visto né strada né manutenzione, a meno di non dover considerare una perenne miglioria il corpo di un nero di mezza età, con un foro di pallottola in fronte, nel quale sono letteralmente inciampato a un cinque chilometri da lì. Avevo anche un compagno bianco, non un cattivo soggetto, ma troppo in carne, e con l’esasperante abitudine di svenire sui pendii infuocati, a chilometri di distanza dalla minima traccia d’ombra e di acqua. Snervante, credetemi, tenere la propria giacca a mo’ di parasole sopra la testa di un uomo aspettando che rinvenga. Non potei trattenermi dal chiedergli, una volta, cosa fosse venuto a fare in quel paese. “Che domanda! A far soldi”, rispose un po’ sdegnato. Poi si ammalò e bisognò portarlo dentro a un’amaca sospesa a un palo. Siccome pesava più di un quintale, fu una brutta gatta da pelare con i portatori. Si tiravano indietro, prendevano il largo, scappavano di notte furtivamente col loro carico: un vero ammutinamento. Allora una sera tenni un discorso in inglese, accompagnandomi con gesti di cui neanche uno sfuggì alle sessanta paia d’occhi che mi stavano di fronte; il mattino seguente feci partire l’amaca in testa, in perfetta regola. Un’ora dopo trovai che tutto era naufragato dentro a un cespuglio: l’uomo, l’amaca, i gemiti, le coperte, l’orrore. Il pesante palo aveva scorticato il suo povero naso e lui voleva a tutti i costi che io ammazzassi qualcuno, ma non c’era neanche l’ombra di un portatore nelle vicinanze. Mi ricordai del vecchio dottore: “Per la scienza sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli individui.” Sentii che cominciavo a diventare scientificamente interessante. Comunque tutto questo non ha importanza. Il quindicesimo giorno mi ritrovai in vista del grande fiume ed entrai, zoppicando, nella Stazione Centrale. Si trovava in una insenatura d’acqua stagnante, circondata dalla sterpaglia e dalla foresta, con un bel margine di fango puzzolente da un lato, e recinta sugli altri tre da una cadente staccionata di giunchi. Un varco informe era l’unica via d’accesso, e bastava un’occhiata per capire che lì il demone flaccido regnava sovrano. Degli uomini bianchi, con dei lunghi bastoni in mano, fecero una languida apparizione fra gli edifici, si avvicinarono, ciondolanti, per guardarmi, e poi scomparvero non so dove. Uno di loro, un tipo robusto e frenetico, con i baffi neri, appena saputo chi ero, mi informò con abbondanza di particolari e molte digressioni che il mio battello giaceva in fondo al fiume. Rimasi fulminato. Cos’era successo, come, perché? Oh, “niente di grave”. Il “direttore in persona” aveva assistito. Si era svolto tutto regolarmente. “E tutti si erano comportati magnificamente, magnificamente!” “Lei deve andare subito”, proseguì agitatissimo, “dal direttore generale. La sta aspettando.”
«Non afferrai subito il significato di quel naufragio. Credo di capirlo adesso, ma non ne sono affatto sicuro. Quel che è certo è che la storia era troppo stupida, a pensarci bene, per essere del tutto naturale. Ma d’altra parte… comunque sia, in quel momento mi si presentò semplicemente come una maledetta seccatura. Il battello era affondato. Erano partiti due giorni prima, presi da una fretta improvvisa, per risalire il fiume, con il direttore a bordo e la guida improvvisata di un capitano che si era offerto volontario. Non erano ancora trascorse tre ore che già avevano lacerato lo scafo sulle rocce ed erano andati ad affondare presso la riva sud. Mi chiesi cosa ci restavo a fare là, adesso che la mia barca era perduta. In effetti, ebbi molto da fare per ripescare dal fiume la mia posizione di comandante. Dovetti mettermici subito, dal giorno successivo. Quell’operazione e le riparazioni, una volta portati i pezzi alla stazione, mi presero alcuni mesi.
«Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado quella mattina avessi trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una sedia. Era un uomo ordinario nell’aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche nella voce. Di statura media e costituzione normale. Gli occhi, di un azzurro comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e certamente sapeva far cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un’accetta. Ma anche in quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l’intenzione. Altrimenti c’era solo un’indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di furtivo – un sorriso? no, non un sorriso – me lo ricordo, ma non so spiegarlo. Era inconscio, quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa, si accentuava per un momento. Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle parole, per rendere enigmatico il significato della frase più banale. Era un comune commerciante, impiegato in quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né amore né paura, nemmeno rispetto. Suscitava disagio. Ecco! Disagio. Non una diffidenza vera e propria – solo disagio – niente di più. Non avete idea di quanto efficace tale… tale… facoltà possa essere. Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per l’organizzazione, neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo stato deplorevole in cui giaceva la stazione. Non aveva cultura, né intelligenza. Occupava quella posizione… perché? Forse perché non si era mai ammalato… Erano già tre periodi di tre anni che era in servizio laggiù… Perché nella generale disfatta delle costituzioni, una salute trionfante è di per sé una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su grande scala, fastosamente. Il marinaio a terra…, con qualche differenza solo apparente. Lo si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione. Da lui non nasceva nulla, sapeva far andare avanti l’ordinaria amministrazione, tutto qui. Però era grande. Era grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa facesse presa su quell’uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c’era niente dentro di lui. Ma un tal sospetto dava da pensare, perché laggiù non esistevano controlli esterni. Una volta, quando quasi tutti gli ‘agenti’ della stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si intese dire: “Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri.” Sigillò la dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso la porta della tenebra di cui lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto qualcosa, ma il sigillo era già stato messo. Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per questioni di precedenza durante l’ora dei pasti, un giorno fece costruire un’immensa tavola rotonda, per la quale fu fabbricato un apposito edificio, che poi divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui, era il posto d’onore, il resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente convinto. Non era né cortese né scortese. Stava zitto. Permetteva che il suo ‘servitore’, un giovane nero della costa, supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con provocante arroganza.
«Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto ad arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me. Doveva soccorrere le stazioni a monte del fiume. C’erano stati già così tanti rinvii che non sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc. Non prestò alcuna attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie volte che la situazione era “molto grave, gravissima”. Correvano voci che un’importantissima stazione fosse in pericolo, e chi ne aveva il comando, il signor Kurtz, fosse ammalato. Sperava che non fosse vero. Il signor Kurtz era… Mi sentivo stanco e irritabile. Kurtz… che vada al diavolo!, pensai. Lo interruppi per dire che avevo sentito parlare del signor Kurtz sulla costa. “Ah! Così parlano di lui laggiù”, mormorò fra sé. Poi ricominciò per dirmi che il signor Kurtz era il suo miglior agente, un uomo eccezionale, della massima importanza per la Compagnia; potevo quindi capire la sua ansia. Era, disse, “molto, molto inquieto”. Di fatti continuava ad agitarsi sulla sedia e all’improvviso, mentre esclamava “Ah, il signor Kurtz!”, il bastoncino di ceralacca gli si spezzò in mano e lui ammutolì stupito. Dopo di che volle sapere “quanto tempo avrei impiegato per…” Lo interruppi di nuovo. Con la fame che avevo, capite, costretto anche a stare in piedi, stavo diventando rabbioso. “Come faccio a saperlo?”, dissi. “Non ho ancora visto il relitto; qualche mese, senza dubbio.” Tutte quelle chiacchiere mi sembravano talmente inutili. “Qualche mese”, ripeté. “Beh, diciamo tre mesi, prima che sia possibile ripartire. Sì. Dovrebbero bastare per la faccenda.” Mi precipitai fuori dalla capanna (viveva da solo in una capanna d’argilla con una specie di veranda) borbottando fra i denti l’opinione che mi ero fatta di lui. Era un idiota d’un chiacchierone. In seguito dovetti ricredermi, quando fui colpito dall’estrema precisione con cui aveva valutato il tempo necessario per quella ‘faccenda’.
«Il giorno dopo mi misi al lavoro, voltando, per così dire, le spalle alla stazione. Solo in quel modo, mi sembrava, potevo mantenere un contatto con le realtà redentrici della vita. Di tanto in tanto, però, bisogna pur guardarsi intorno, e allora vedevo la stazione con quegli uomini che girovagavano senza meta nel sole del cortile. E qualche volta mi chiedevo che senso avesse tutto ciò. Vagavano di qua e di là con in mano i loro assurdi lunghi bastoni, come un gruppo di pellegrini senza fede, stregati dentro un recinto putrescente. La parola ‘avorio’ risuonava nell’aria, sussurrata, sospirata. Si sarebbe detto che le rivolgessero delle preghiere. Aleggiava lì sopra un odore infetto di rapacità imbecille, come il fetore di un cadavere. Per Giove! Non ho mai visto niente di tanto irreale nella mia vita. E intorno, la silenziosa landa selvaggia che circondava quel pezzetto diboscato di terra, mi colpiva come qualcosa di grande e d’invincibile, come il male o la verità, in paziente attesa della fine di quella fantastica invasione.
«Ah, quei mesi! Ma lasciamo perdere. Accaddero varie cose. Una sera una capanna d’erba, piena di calicò, di cotoni stampati, di conterie e non so cos’altro, prese fuoco così improvvisamente da far pensare che un fuoco vendicatore fosse sgorgato dalla terra aperta per distruggere tutta quella paccottiglia. Io fumavo tranquillamente la pipa vicino al mio battello in disarmo, e li vedevo da lontano far le capriole fra i bagliori, con le braccia in aria, quando, a rotta di collo, arrivò al fiume l’uomo robusto dai baffi neri, con un secchio di latta in mano. Dopo avermi assicurato che “tutti si comportavano magnificamente, magnificamente”, attinse un paio di litri d’acqua e ripartì correndo. Notai che nel fondo del secchio c’era un buco.
«Andai lì con calma. Non c’era fretta, capite: quella cosa aveva preso fuoco come una scatola di fiammiferi. Fin dal primo momento non c’era stato niente da fare. La fiamma era balzata altissima, respingendo tutti, illuminando tutto, e poi si era abbassata. La capanna non era che un ammasso di braci ardenti. Non lontano da lì, stavano bastonando un nero. Dicevano che in un modo o nell’altro, era stato lui a provocare l’incendio; fosse vero o no, urlava come un ossesso. Poi, per parecchi giorni, lo vidi seduto in un angolo all’ombra, con un’aria molto sofferente, mentre stava cercando di riprendersi; finalmente si alzò e se ne andò, e la silenziosa landa selvaggia se lo riprese in grembo.
«Mentre mi avvicinavo al bagliore provenendo dall’oscurità, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano discorrendo. Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, “approfittare di questo incidente disgraziato”. Uno dei due era il direttore. Gli augurai la buona sera. “Ha mai visto una cosa simile, eh? È incredibile”, disse e si allontanò. L’altro rimase. Era un agente di prima classe, giovane, distinto, un po’ riservato, con una barbetta a due punte e il naso adunco. Teneva a distanza gli altri agenti che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del direttore. Prima di allora non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a conversare e, poco a poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella sua stanza, che era nell’edificio principale della stazione. Accese un fiammifero, e notai che quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da toeletta con la montatura d’argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel tempo era previsto che solo il direttore avesse diritto alle candele. Le pareti di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi era appesa, come un trofeo, una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli. L’incarico affidato a questo tale, mi era stato detto, era di fabbricare mattoni; ma nella stazione non c’era traccia di mattoni, neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A quanto pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della paglia, forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che la spedissero dall’Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando. Un atto di creazione spontanea, forse. Comunque tutti, tutti quei sedici o venti pellegrini che erano, stavano aspettando qualcosa e, parola mia, non sembrava un’occupazione che non gli andasse a genio, dal modo in cui la prendevano. Però, a quanto mi fu dato di vedere, la malattia fu l’unica cosa che mai gli sia arrivata. Ammazzavano il tempo sparlando e tramando gli uni contro gli altri nella maniera più insensata. Sulla stazione soffiava un’aria di complotto, che naturalmente non approdava a niente. Era irreale come tutto il resto: il pretesto filantropico dell’impresa, i loro discorsi, la loro amministrazione, l’esibizione del lavoro. L’unico sentimento autentico era il desiderio di venire assegnati a un centro in cui passasse l’avorio, per poter guadagnare delle buone percentuali. È solo per questo che complottavano, si calunniavano e si odiavano, ma quanto ad alzare effettivamente un dito, ah, no. Sant’Iddio! Non è poi così irragionevole che a un uomo il mondo lasci rubare un cavallo, mentre a un altro non permetta neanche di guardare la cavezza. Rubare un cavallo con decisione. Benissimo. L’ha fatto. Forse è anche capace di cavalcare. Ma c’è un modo di guardare la cavezza che farebbe menar le mani anche a un santo.
«Non mi sapevo spiegare la sua improvvisa socievolezza ma, mentre chiacchieravamo là dentro, mi resi conto tutt’a un tratto che quel tale stava mirando a qualche cosa, cercava, infatti, di farmi parlare. Faceva continue allusioni all’Europa, alle persone che si immaginava io conoscessi lì, ponendomi delle domande tendenziose sulle mie relazioni nella città sepolcrale e così di seguito. I suoi occhietti brillavano di curiosità come dischi di mica, benché cercasse di mantenere un’apparenza di distaccata alterigia. In principio ero stupefatto, ma presto divenni curiosissimo di scoprire cosa volesse tirarmi fuori. Non riuscivo proprio a immaginare che cosa ci potesse essere in me da meritare tutta quella fatica. Era un piacere vedere quanto si ingannasse, perché in realtà in corpo non avevo che brividi e in testa nient’altro se non quella disgraziatissima storia del battello. Era evidente che mi considerava uno spudorato mistificatore. Alla fine perse la pazienza e per nascondere un moto di esasperazione furiosa, sbadigliò. Mi alzai. Notai allora un piccolo schizzo a olio, su tavola, che rappresentava una donna con la veste drappeggiata, gli occhi bendati, e una fiaccola accesa in mano. Lo sfondo era tetro, quasi nero. Il movimento della donna era statuario e l’effetto della fiaccola, sul viso, era sinistro.
«Mi ero fermato davanti al quadro e lui era rimasto vicino a me, educatamente, reggendo una mezza bottiglia di champagne vuota (forse un ricostituente), con la candela incastrata dentro. Alla mia domanda rispose che era stato il signor Kurtz a dipingerlo – proprio in quella stazione, più di un anno prima – mentre aspettava il mezzo per raggiungere il suo posto commerciale. “Se non le dispiace”, chiesi, “mi può dire chi è questo signor Kurtz?”
«”Il capo della Stazione Interna”, rispose secco, con lo sguardo altrove. “Grazie tante”, dissi ridendo. “E lei è il mattonaio della Stazione Centrale. Questo lo sanno tutti.” Stette zitto per un po’. “È un prodigio”, disse alla fine. “È l’emissario della pietà, della scienza, del progresso e il diavolo sa di quante altre cose.” E improvvisamente incominciò a declamare: “Per dirigere a buon fine la causa che ci è stata affidata, per così dire, dall’Europa, noi abbiamo bisogno di intelligenze superiori, di vaste simpatie, di unità di intenti.” “Chi è che lo dice?” chiesi. “Sono in molti a dirlo”, rispose. “Ci sono anche quelli che lo scrivono; ed ecco che arriva lui, un essere eccezionale, come lei dovrebbe sapere.” “Perché lo dovrei sapere?”, intervenni sorpresissimo, ma non mi badò. “Sì. Oggi è a capo della stazione più importante, il prossimo anno sarà vicedirettore, fra due anni sarà… ma immagino che lei sappia cosa sarà fra due anni. Non fa parte anche lei della nuova congrega, la congrega della virtù? Le persone che l’hanno mandato qui in missione speciale, sono le stesse che hanno raccomandato lei. Oh, non dica di no. Io mi fido dei miei occhi.” Finalmente avevo capito: le conoscenze influenti della mia cara zia stavano sortendo un effetto inaspettato su quel giovanotto. Per poco non scoppiai a ridere. “Lei legge la corrispondenza riservata della Compagnia?”, chiesi. Non aprì bocca. Era proprio buffo. “Quando il signor Kurtz sarà Direttore Generale”, continuai in tono severo, “lei non potrà più permetterselo.”
«Spense improvvisamente la candela, e uscimmo. Era sorta la luna. Delle ombre nere si aggiravano apatiche, versando l’acqua sulle braci da cui proveniva un suono sibilante. Il vapore saliva nel chiaro di luna, il nero picchiato gemeva da qualche parte. “Che baccano fa quell’animale!”, disse l’infaticabile uomo con i baffi comparendo tutt’a un tratto. “Gli sta bene. Trasgressione: punizione… Bang! Senza pietà, senza pietà. È l’unico modo, e questo impedirà ogni incendio in futuro. Stavo appunto dicendo al direttore…” Riconoscendo il mio compagno, abbassò immediatamente la cresta. “Non ancora a letto”, disse con una specie di servile cordialità. “È naturale d’altronde… il pericolo, l’agitazione.” Si eclissò. Proseguii in direzione del fiume con l’altro dietro. Gli udii mormorare con disprezzo: “Massa di idioti, andate all’inferno.” Si vedevano qua e là gruppi di pellegrini che gesticolavano, discutevano, parecchi con il bastone ancora in mano. Credo proprio che se lo portassero a letto, quell’arnese. Oltre la staccionata la foresta si ergeva spettrale al chiaro di luna, e attraverso il fermento indistinto, attraverso i flebili suoni di quel cortile tristo, il silenzio della terra si faceva strada fin dentro al cuore, col suo mistero, la sua grandezza, la sorprendente realtà della sua vita nascosta. Il nero bastonato si lamentava debolmente da qualche parte vicino a noi, e poi trasse un sospiro profondo che mi fece affrettare il passo per allontanarmi da lì. Sentii una mano infilarsi sotto al braccio. “Mio caro signore”, disse, “non voglio essere frainteso, e tanto meno da lei, che incontrerà il signor Kurtz molto prima che io abbia questo piacere. Non vorrei che si facesse un’idea sbagliata delle mie intenzioni…”
«Lasciai che proseguisse, quel Mefistofele di cartapesta. Mi sembrava che se ci avessi provato, sarei riuscito a passarlo da parte a parte con un dito e che dentro non avrei trovato niente, forse solo un po’ di sporcizia sparsa. Quel tale, vedete, aveva progettato di diventare di lì a poco il vice dell’attuale direttore, ed era chiaro che la venuta di quel Kurtz aveva disturbato non poco i piani di entrambi. Parlava con precipitazione e non cercai di fermarlo. Tenevo le spalle appoggiate al relitto del mio battello, issato a riva sul pendio della sponda come la carcassa di un grosso animale fluviale. L’odore del fango, del fango primordiale, per Giove, riempiva le mie narici; la vasta immobilità della foresta vergine era davanti ai miei occhi; c’erano macchie luccicanti sull’acqua nera dell’insenatura. La luna aveva steso su ogni cosa un sottile strato d’argento: sull’erba folta, sul fango, sulla muraglia di vegetazione intricata che si ergeva più alta delle mura di un tempio, sul grande fiume che, attraverso una breccia scura, vedevo scintillare, scintillare, mentre scorreva nel suo ampio letto senza un mormorio. Tutto era imponente, vigile, silenzioso, mentre quell’uomo si diffondeva in chiacchiere su di sé. E io mi domandavo se quella quiete sul volto dell’immensità che ci guardava fosse una supplica o una minaccia. Che cos’eravamo noi che eravamo andati a sperderci laggiù? Potevamo dominare quella cosa muta o ci avrebbe dominato lei? Sentivo la grandezza, la smisurata grandezza di quella cosa che non poteva parlare, e forse nemmeno udire. Che cosa conteneva? Vedevo uscirne un po’ di avorio, e avevo sentito dire che lì dentro c’era il signor Kurtz. Dio sa se me l’ero sentito dire! Eppure non riuscivo a immaginarmelo, non più che se mi avessero detto che lì dentro c’era un angelo o un demonio. Ci credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta ho conosciuto un velaio scozzese che era sicuro, anzi sicurissimo, che su Marte ci fossero degli uomini. Se gli si chiedeva che aspetto avessero o come si comportassero, diventava elusivo e mormorava qualcosa tipo “camminano a quattro zampe”. Ma se si osava anche solo sorridere, vi proponeva subito, benché fosse un uomo di sessant’anni, di fare a pugni. Non sarei arrivato al punto di fare a pugni per Kurtz, ma per lui sono andato molto vicino alla menzogna. Voi sapete che io odio, detesto, non tollero la menzogna; non perché io sia più retto degli altri, ma solo perché mi sgomenta. Nella menzogna c’è un odore di morte, di corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al mondo e che cerco di dimenticare. Mi fa star male, mi dà la nausea come se avessi in bocca qualcosa di marcio. Questione di temperamento, credo. Beh!, ci andai molto vicino, lasciando credere a quel giovane imbecille quel che più gli piaceva riguardo alle mie amicizie influenti in Europa. In un attimo divenni anch’io parte della finzione, come il resto dei pellegrini stregati. Lo feci semplicemente perché avevo la vaga sensazione che in questo modo sarei stato d’aiuto a quel Kurtz, che pure non riuscivo a figurarmi, capite. Era solo una parola per me. Non vedevo l’uomo dietro a quel nome, non più di quanto lo vediate voi. Voi lo vedete? E la storia la vedete? Vedete qualcosa? È come se stessi cercando di raccontarvi un sogno, e non ci riuscissi, perché non c’è resoconto di un sogno che possa rendere la sensazione del sogno, quel miscuglio di assurdità, di sorpresa e di sconcerto nello spasimo di un’affannata ribellione, quella sensazione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza stessa dei sogni…»
Restò un attimo in silenzio.
«… No, è impossibile. È impossibile comunicare la sensazione della vita di un qualsiasi momento della propria esistenza, ciò che rende la sua verità, il suo significato, la sua essenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo come sognamo: soli.»
Tacque di nuovo come per riflettere, poi aggiunse:
«Naturalmente voi, in questa storia, vedete più di quanto io potessi allora. Vedete me, me, che voi conoscete…»
Si era fatto così buio che noi che ascoltavamo non riuscivamo quasi a vederci l’un l’altro, e già da tempo, lui, che era seduto un po’ in disparte, non era che una voce per noi. Nessuno parlò. Può darsi che gli altri si fossero addormentati, ma io ero sveglio e stavo ad ascoltare, ad ascoltare, aspettando vigile e impaziente la frase, la parola che mi desse la chiave del lieve disagio suscitato da quel racconto che sembrava formarsi da solo, senza labbra umane, nell’aria greve della notte sul fiume.
«… Sì, ho lasciato che si sfogasse,» ricominciò Marlow, «e che pensasse quello che voleva dei poteri che c’erano dietro di me. Sì. E dietro di me non c’era niente. Niente se non quel miserabile, vecchio vapore sventrato contro cui mi appoggiavo, mentre lui parlava enfaticamente della “necessità che ogni uomo ha di farsi strada”. “E quando uno viene qui, non viene per guardare la luna, le pare?” Il signor Kurtz era un “genio universale”, ma anche un genio lavora meglio con “strumenti adeguati: degli uomini intelligenti”. Lui non fabbricava i mattoni – perché gli era materialmente impossibile – come io sicuramente dovevo sapere; e se faceva da segretario al direttore, era perché “nessun uomo di buon senso rifiuta senza motivo la confidenza e la fiducia dei suoi superiori”. Lo capivo? Sì lo capivo. Che cosa volevo di più? Buon Dio, quello che volevo io, erano dei ribattini. Sì ribattini. Per continuare il lavoro, per tappare la falla, mi servivano i ribattini. Ce n’erano casse intere là sulla costa: casse accatastate, traboccanti, sfasciate! A ogni passo, nel cortile di quella stazione sul fianco della collina, si inciampava su un ribattino smarrito. Dei ribattini erano rotolati persino nel boschetto della morte. Per riempirsi le tasche di ribattini, bastava far la fatica di chinarsi, mentre là dove ce n’era bisogno, non se ne trovava nemmeno uno. C’erano le lamiere che ci servivano, ma niente con cui fissarle. E ogni settimana, il messaggero della nostra stazione, un nero solitario, sacco postale in spalla e bastone in mano, partiva per la costa. E parecchie volte alla settimana, dalla costa arrivava una carovana con la sua mercanzia: dello spaventoso calicò lucido che dava i brividi solo a guardarlo, delle perline di vetro da una lira al chilo, degli orribili fazzoletti di cotone a pallini. Ma ribattini mai. Sarebbero bastati tre portatori per trasportare tutto quello che serviva per rimettere in acqua il battello.
«Ormai aveva assunto un tono confidenziale, ma penso che la mia indifferenza lo avesse infine esasperato, perché ritenne necessario informarmi che non temeva né Dio né il diavolo, e tanto meno un semplice mortale, chiunque fosse. Gli dissi che non ne dubitavo, ma quel che desideravo io era una certa quantità di ribattini, che erano proprio quello che avrebbe desiderato anche il signor Kurtz, se solo l’avesse saputo. Poiché ogni settimana partivano delle lettere per la costa… “Mio caro signore,” esclamò, “io scrivo solo quello che mi si detta!” Io insistevo. Un uomo intelligente trova sempre il modo… Cambiò atteggiamento: divenne freddissimo e si mise improvvisamente a parlare di un ippopotamo. Si domandava se dormendo a bordo del battello (io restavo incollato alla mia ancora di salvezza giorno e notte) non venissi disturbato. C’era un vecchio ippopotamo che aveva la cattiva abitudine di uscire dal fiume sulla riva e di girovagare la notte nei paraggi della stazione. I pellegrini allora facevano una sortita in massa e gli scaricavano addosso tutte le carabine che erano riusciti a scovare. Ce n’erano di quelli che stavano su la notte, per aspettarlo. Tutta fatica sprecata, però: “Quella bestia è stregata, un incantesimo l’ha resa invulnerabile,” disse, “ma questo vale solo per le bestie, perché nessun uomo – mi capisce? – nessun uomo in questo paese è invulnerabile”. Restò lì un momento davanti a me, al chiaro di luna, col suo delicato naso aquilino un po’ storto, gli occhi di mica scintillanti senza un battito di palpebre; poi, con un asciutto “Buona notte” si allontanò speditamente. Vedevo che era turbato e molto sconcertato, il che mi rese fiducioso come da giorni non mi sentivo. Fu un grande sollievo passare da quel tizio alla mia amica influente, la mia bagnarola a vapore, tutta sfasciata, piegata, a pezzi. Mi arrampicai a bordo. Risuonava sotto i miei passi come una scatola di latta di biscotti Huntley & Palmer vuota, presa a calci in un rigagnolo. Era, anzi, molto meno solida di costituzione, e di forma meno elegante, ma le avevo prodigato una quantità di duro lavoro sufficiente per farmela amare. Non c’era amicizia influente che mi fosse più utile di lei. Mi aveva dato la possibilità di mettermi un po’ alla prova, di scoprire quello che sapevo fare. No, non è che io ami il lavoro. Preferisco stare senza far niente a pensare a tutte le belle cose che si potrebbero fare. Non mi piace lavorare, a nessuno piace, ma mi piace ciò che c’è nel lavoro: la possibilità di scoprire se stessi, la propria realtà, valida per noi, non per gli altri, quello che nessun altro potrà mai sapere. Gli altri possono vedere solo l’apparenza, senza mai poter dire che cosa significhi veramente.
«Non fui sorpreso di trovare qualcuno seduto a poppa, sul ponte, con le gambe penzoloni sopra il fango. Vedete, io me la intendevo piuttosto bene con i pochi operai che c’erano in quella stazione, e che naturalmente gli altri pellegrini disprezzavano, per via delle loro maniere poco raffinate, suppongo. Quello era il caposquadra, calderaio di professione, gran lavoratore. Era uno spilungone tutto ossa, con la carnagione gialla e grandi occhi espressivi. Aveva l’aria angustiata e un cranio calvo come il palmo della mia mano, ma sembrava che i capelli, cadendo, si fossero aggrappati al mento e che nel nuovo terreno avessero prosperato, perché la barba gli scendeva fin quasi alla vita. Era vedovo, con sei bambini (che aveva lasciato alle cure di una sorella per venire là), e i piccioni viaggiatori erano la passione della sua vita. Era un entusiasta e un intenditore: delirava per i piccioni. Terminato il suo orario di lavoro, qualche volta lasciava la sua capanna per venire a parlare con me dei suoi bambini e dei suoi piccioni. Quando, al lavoro, doveva strisciare sotto il fondo del battello dentro al fango, avvolgeva la sua famosa barba in una specie di canovaccio bianco che si portava dietro a questo scopo. Era munito di due cappi da passare sopra le orecchie. La sera, lo si vedeva accovacciato sulla riva, intento a sciacquare con gran cura quel suo involucro nell’acqua dell’insenatura, per stenderlo poi solennemente ad asciugare su un cespuglio.
«Gli diedi una manata sulla schiena e gridai: “Avremo i ribattini!” Balzò subito in piedi esclamando: “No! I ribattini!”, come se non potesse credere alle proprie orecchie. Poi a bassa voce, “Lei… eh?” Non so perché ci comportammo come due matti. Col dito davanti al naso, annuii in modo misterioso. “Bravo!”, esclamò e fece schioccare le dita sopra la testa, sollevando un piede. Accennai qualche passo di danza e ci mettemmo a saltare sul ponte di ferro. Dallo scafo smantellato uscì uno spaventoso rumore di ferraglia che la foresta vergine, dall’altro lato dell’insenatura, rimandò come un rombo di tuono sulla stazione addormentata. Dovevamo aver svegliato di soprassalto più di un pellegrino nel suo tugurio. Una sagoma nera oscurò il vano illuminato della porta della capanna del direttore, poi scomparve e dopo qualche secondo, scomparve anche il vano della porta. Avevamo smesso di ballare e il silenzio interrotto dal nostro calpestio rifluì dai recessi della terra. La grande muraglia di vegetazione, una massa esuberante e aggrovigliata di tronchi, rami, foglie, fronde e tralci, immobile, alla luce della luna, era come un’irruzione travolgente di vita silenziosa, una tumultuosa onda vegetale, alta, crestata, pronta a irrompere nella insenatura, e a spazzar via dalla nostra piccola esistenza, tutti noi, minuscoli uomini. E non si muoveva. Uno scroscio attutito di spruzzi e sbuffi possenti ci giunse di lontano, come se un ittiosauro stesse facendo un bagno di gala, di suoni e luci, nel grande fiume. “In fin dei conti”, disse il calderaio, pacatamente, “perché non dovremmo averli i ribattini?” Eh già, perché no? Non c’era nessuna ragione che ce lo impedisse. “Arriveranno fra tre settimane”, dissi fiducioso.
«Ma non arrivarono. Invece dei ribattini ci fu un’invasione, un castigo, un flagello. Arrivò a scaglioni per tre settimane di seguito, con in testa a ogni scaglione un asino montato da un bianco vestito a nuovo e con le scarpe gialle, che da quell’altezza si chinava, a destra e a manca, per salutare i pellegrini ammirati. Una banda litigiosa di neri immusoniti e coi piedi doloranti tallonava l’asino; mucchi di tende, di seggiolini da campo, di scatole di latta, di casse bianche, di balle marrone venivano scaraventate nel cortile, e quell’aria di mistero che aleggiava sul gran disordine della stazione si infittì ancor di più. Ce ne furono cinque di questi arrivi a puntate, tutti con la stessa aria grottesca di fuga precipitosa, col bottino di innumerevoli magazzini e botteghe che, si sarebbe pensato, loro stavano trascinando nella landa selvaggia, dopo la razzia, per spartirselo equamente. Era un’inestricabile accozzaglia di cose rispettabili in sé, ma che la follia degli uomini aveva reso simili a prede di ladroni.
«Questa stimabile compagnia si faceva chiamare Spedizione Esplorativa Eldorado, e credo che i suoi membri fossero legati da un giuramento di segretezza. I loro discorsi, però, erano quelli di sordidi bucanieri: cinici, senza essere arditi, cupidi senza essere audaci, crudeli, ma senza coraggio; non c’era un briciolo di lungimiranza o di intenzione seria nell’intera masnada, e non sembravano nemmeno rendersi conto che queste sono cose necessarie per operare nel mondo. Strappare i tesori dalle viscere della terra era il loro unico desiderio, senza scrupoli morali, almeno non più di quanti ne abbiano dei rapinatori a sfondare una cassaforte. Chi pagasse le spese della nobile impresa, lo ignoro, ma lo zio del nostro direttore era il capo della banda.
«D’aspetto assomigliava a un macellaio di un quartiere povero, e i suoi occhi avevano uno sguardo di furbizia sopita. Portava con ostentazione una grossa pancia su delle gambe corte e durante tutto il periodo in cui la sua truppa infestò la stazione non rivolse la parola a nessuno, se non a suo nipote. Li si vedeva passeggiare dalla mattina alla sera, le teste ravvicinate, in un inesauribile conciliabolo.
«Avevo smesso di tormentarmi per i ribattini. La nostra capacità di preoccuparci per un tal genere di sciocchezze è più limitata di quanto si creda. Dissi, al diavolo, e lasciai correre. Avevo tutto il tempo per meditare e, ogni tanto, rivolgevo uno dei miei pensieri a Kurtz. Non che egli mi interessasse molto. No. Però ero curioso di vedere se quell’uomo, che era venuto là con un certo bagaglio di idee morali, sarebbe davvero arrivato in alto e in che modo avrebbe allora organizzato la sua opera.