L’INTERVISTA DI PLAYBOY: STANLEY KUBRICK (1968) 

di Eric Nordern
PLAYBOY: La maggior parte delle polemiche a proposito di 2001 riguardano il significato dei simboli metafisici che abbondano nel film: i monoliti neri e lucidi, la congiunzione dell’orbita di terra, luna e sole a ogni ricorrenza dell’intervento dei monoliti sul destino dell’umanità, l’impressionante e caleidoscopico vortice finale di tempo e spazio che avvolge l’astronauta superstite e fa da sfondo alla sua rinascita come «figlio delle stelle» che vaga verso la terra in una placenta semitrasparente. Un critico ha persino definito 2001 «il primo film nietzschiano», asserendo che il suo tema essenziale è il concetto di Nietzsche dell’evoluzione dell’uomo da scimmia a umano a superuomo. Qual è il messaggio metafisico di 2001?
KUBRICK: Non è un messaggio che intendo esprimere a parole, né oggi né mai. 2001 è un’esperienza non verbale: in due ore e diciannove minuti di film ce ne sono solo una quarantina di dialoghi. Ho cercato di creare un’esperienza in tutto e per tutto visiva, che oltrepassi le categorizzazioni verbali e penetri direttamente nel subconscio con un contenuto emotivo e filosofico. Per ribaltare la frase di McLuhan, in 2001 il messaggio è il mezzo. Ho voluto che il film fosse un’esperienza intensamente soggettiva che raggiunge lo spettatore a livelli di consapevolezza interna, proprio come fa la musica: «spiegare» una sinfonia di Beethoven equivarrebbe a infiacchirla, erigendo una barriera artificiale tra concetto e comprensione. Uno è libero di fare tutte le speculazioni che vuole sul significato filosofico e allegorico del film (e quelle speculazioni sono indicative del fatto che è riuscito ad avvincere profondamente il pubblico), ma non ho alcuna intenzione di tracciare per 2001 un percorso verbale ideale che ogni spettatore si senta obbligato a seguire, pena il timore di non avere capito il film. Credo che, se si può parlare di riuscita per 2001, questa consiste nel raggiungere un vasto spettro di persone che di per sé non penserebbero spesso al destino dell’uomo, al suo ruolo nel cosmo e al suo rapporto con forme di vita più elevate. Ma anche nel caso di chi è molto intelligente, alcune idee che si trovano in 2001, se presentate come astrazioni, rimangono inanimate e vengono assegnate automaticamente a certe categorie intellettuali. Vissute in un contesto visivo ed emotivo in movimento, invece, possono andare a toccare le corde più profonde di un essere umano.
PLAYBOY: Senza tracciare una spiegazione filosofica dettagliata per lo spettatore, ci può parlare della sua interpretazione del significato del film?
KUBRICK: No, per i motivi che le ho già detto. Quanto apprezzeremmo oggi la Gioconda se Leonardo avesse scritto in fondo alla tela: «Questa signora ha un sorriso accennato perché ha i denti marci», o «perché nasconde un segreto al suo innamorato»? Impedirebbe al fruitore di esercitare la sua facoltà di comprensione e lo impastoierebbe in una «realtà» diversa dalla sua. Non voglio che questo succeda a 2001.
PLAYBOY: Arthur Clarke ha detto del film: «Se qualcuno riesce a capirlo vedendolo una volta sola, abbiamo fallito il nostro scopo». Perché lo spettatore dovrebbe vederlo due volte per capirne il messaggioì
KUBRICK: Non sono d’accordo con quella frase di Arthur, e credo che fosse una battuta. La natura stessa dell’esperienza visiva di 2001 è dare allo spettatore una reazione istantanea e viscerale che non richiede (e non dovrebbe richiedere} un’ulteriore amplificazione. Però, parlando in generale, affermerei che in ogni buon film ci sono elementi che possono aumentare l’interesse e l’apprezzamento dello spettatore alla seconda visione: spesso lo slancio di un film fa sì che non tutti i particolari o le sfumature interessanti abbiano il loro pieno impatto la prima volta che lo vediamo. L’idea che un film si debba vedere solo una volta è un’estensione del nostro concetto tradizionale di film come divertimento effimero, piuttosto che come opera di arte visiva. Non siamo certo convinti di dover ascoltare un bel brano musicale solo una volta, o vedere un bel quadro solo una volta, e nemmeno di leggere un bel libro solo una volta. Ma, fino a pochi anni fa, i film erano esclusi dalla categoria delle opere d’arte: e sono felice che questa situazione stia finalmente cambiando.
PLAYBOY: A quanto pare, secondo alcuni critici importanti (tra cui Renata Adler del New York Times, John Simon del New Leader, Judith Crist del New York Magazine e Andrew Sarris del Village Voice2001 dovrebbe essere tra i film che rimangono esclusi dalla categoria delle opere d’arte: tutti e quattro l’hanno stroncato in quanto noioso, pretenzioso e troppo lungo. Come giustifica la loro ostilità?
KUBRICK: I quattro critici che mi cita lavorano tutti per riviste di New York. Il novantacinque per cento delle recensioni in America e nel mondo sono state entusiaste. Naturalmente alcune erano più perspicaci di altre, ma persino quelle che lodavano il film per criteri relativamente superficiali sono state in grado di cogliere qualcosa del suo messaggio. New York è stata l’unica città davvero ostile. Forse c’è una parte della classe sottoletteraria che è atea, materialista e priva di fantasia in maniera talmente dogmatica da trovare esecrabile la grandezza dello spazio e la miriade di misteri dell’intelligenza cosmica. Ma per fortuna è molto raro che i critici cinematografici influenzino il grande pubblico: le sale sono gremite ovunque e il film sta per diventare il campione di incassi assoluto nella storia della MGM. Forse questa può sembrare una maniera grossolana di valutare il proprio lavoro, ma credo che, specialmente per un film così palesemente diverso, i dati sull’affluenza record del pubblico significhino che dopo averlo visto la gente si scambia le impressioni giuste: e in fondo non è proprio questo che conta?
PLAYBOY: A proposito di quello che conta (se ci permette di tornare all’interpretazione filosofica di 2001), lei concorda con i critici che lo definiscono un film profondamente religioso?
KUBRICK: Direi che il concetto di Dio è l’essenza di 2001; ma non si tratta di un’immagine di Dio tradizionale, antropomorfica. Io non credo in nessuna delle religioni monoteiste della terra, però credo che ci si possa costruire un’affascinante definizione scientifica di Dio, una volta accettato che ci sono quasi cento miliardi di stelle solo nella nostra galassia, e che ogni stella è un sole ed è fonte di vita, e che ci sono circa cento miliardi di galassie solo nell’universo visibile. Dato un pianeta con orbita stabile, che non sia troppo caldo né troppo freddo, e dati alcuni miliardi di anni di reazioni chimiche casuali create dall’interazione dell’energia di un sole sugli dementi chimici di un pianeta, è piuttosto sicuro che alla fine la vita emergerà in una forma o in un’altra. Non è irragionevole presumere che, in effetti, ci debbano essere infiniti miliardi di pianeti del genere dove sia nata una forma biologica di vita, e le possibilità che una minima parte di quella vita abbia sviluppato una forma di intelligenza sono alte. Ora, il sole è una stella niente affatto vecchia, e i suoi pianeti rispetto all’era cosmica non sono altro che bambini, perciò mi sembra probabile che nell’universo ci siano non solo miliardi di pianeti dove la vita intelligente è di ordine inferiore rispetto all’uomo, ma altri miliardi dove è più o meno uguale e altri ancora dov’è centinaia di migliaia di milioni di anni avanti a noi. Pensando ai giganteschi passi compiuti dalla tecnologia umana in pochi millenni (meno di un microsecondo nella cronologia dell’universo), s’immagina lo sviluppo evolutivo che potrebbero avere raggiunto quelle forme di vita molto più antiche? Potrebbero essersi evolute da specie biologiche, che nella migliore delle ipotesi sono fragili involucri per la mente, a entità meccaniche immortali; e poi, nel corso di eoni innumerevoli, emergere dalla crisalide di materia trasformate in esseri di pura energia e spirito. Le loro potenzialità sarebbero infinite e la loro intelligenza inafferrabile da parte degli umani.
PLAYBOY: Ammettiamo che il processo di evoluzione cosmica che lei ipotizza si sia verificato, ma questo cosa centra con la natura di Dio?
KUBRICK: C’entra in maniera preponderante con la natura di Dio: quegli esseri sarebbero dei per i milioni di razze meno avanzate dell’universo, proprio come un uomo sembrerebbe un dio a una formica che in : un modo o nell’altro potesse capire l’esistenza dell’uomo. Possiede-rebbero gli attributi simultanei di tutte le divinità: onniscienza e onnipotenza. Queste entità potrebbero essere in contatto telepatico in tutto il cosmo e quindi essere al corrente di tutto ciò che succede, intercettando qualsiasi mente intelligente con la stessa facilità con cui noi accendiamo la radio; potrebbero non essere limitati dalla velocità della luce e la loro presenza potrebbe diffondersi fino agli angoli più remoti dell’universo; potrebbero possedere il controllo completo sulla materia e sull’energia; e nello stadio evolutivo finale potrebbero svilupparsi in una coscienza immortale collettiva e integrata. Per noi sarebbero incomprensibili, se non sotto forma di divinità; e se un lembo della loro consapevolezza dovesse mai sfiorare la mente dell’uomo, come spiegazione potremmo arrivare solo al concetto della mano di Dio.
PLAYBOY: Se esistono creature del genere, perché dovrebbero interessarsi agli uomini?
KUBRICK: Forse non sono interessati. Ma perché gli uomini dovrebbero interessarsi ai microbi? I moventi intrinseci di tali esseri ci sarebbero sconosciuti tanto quanto la loro intelligenza.
PLAYBOY: In 2001, sembra che tali creature incorporee manipolino i nostri destini e controllino la nostra evoluzione, anche se non è chiaro se nel bene o nel male, o in entrambi i sensi. Crede davvero possibile che l’uomo sia un giocattolo cosmico nelle mani di quelle entità?
KUBRICK: In realtà non credo proprio niente: come potrei? Il solo discutere sulla possibilità della loro esistenza è già qualcosa di infinitamente arduo, anche senza spingersi a cercare di decifrare i loro moventi. Il discorso importante è che tutti gli attributi abitualmente assegnati a Dio nella nostra storia potrebbero benissimo essere le caratteristiche delle entità biologiche che miliardi di anni fa erano a uno stadio di sviluppo simile a quello dell’uomo e che si sono evolute in qualcosa di tanto lontano dall’uomo quanto l’uomo è lontano dal brodo primordiale da cui è emerso.
PLAYBOY: In questa filogenesi cosmica che ci ha descritto, non è possibile che ci siano forme di vita intelligente di ordine addirittura superiore a quelle entità di pura energia} e forse altrettanto lontane da loro quanto lo sono da noi?
KUBRICK: Certo che sì: in un universo infinito ed eterno il punto è che tutto è possibile, ed è improbabile che riusciamo anche solo a scalfire la superficie della gamma completa di possibilità. Ma in un’epoca [il 1968] in cui l’uomo si prepara a mettere piede sulla luna, credo sia necessario aprire le nostre menti prive di fantasia a speculazioni di questo genere. Nessuno sa cosa ci attende nell’universo. Credo sia stato un famoso astronomo ad aver scritto di recente: «A volte credo che siamo soli e a volte credo di no. In entrambi i casi, l’idea è piuttosto stupefacente».
PLAYBOY: Lei dice che ci potrebbero essere miliardi di pianeti in grado di ospitare forme di vita notevolmente più avanzate dell’uomo, ma che non si sono ancora evolute in forme non-biologiche o sovrabiologiche. Secondo lei quale sarebbe l’effetto sull’umanità se la terra fosse contattata da una razza di simili esseri, non divini e tecnologicamente superiori?
KUBRICK: Sull’argomento c’è tra scienziati e filosofi una sensibile divergenza di opinioni. Alcuni affermano che incontrare una civiltà molto avanzata (persino una la cui tecnologia ci fosse sostanzialmente comprensibile) produrrebbe un effetto traumatico di shock culturale sull’uomo, spogliandolo del suo compiaciuto etnocentrismo e infrangendo l’illusione di essere il centro dell’universo. Carl Jung ha riassunto questa posizione quando ha scritto del contatto con forme di vita extra-terrestri evolute che «ci avrebbero strappato le redini dalle mani così che noi, come mi ha detto una volta uno stregone in lacrime, ci saremmo ritrovati “privi di sogni” […] avremmo trovato talmente antiquate le nostre aspirazioni intellettuali e spirituali da restare del tutto paralizzati». Personalmente non accetto questo punto di vista, ma è largamente condiviso e non si può liquidare in modo frettoloso.
Per esempio, nel 1960 il comitato per le ricerche a lungo termine della Brookings Institution ha preparato una relazione per la nasa nella quale avvertiva che persino un contatto indiretto (cioè manufatti alieni che venissero scoperti durante le nostre attività spaziali sulla luna, su Marte o su Venere, oppure un contatto radio con una civiltà interstellare) potrebbe causare gravi scompensi psicologici. Il loro studio metteva in guardia sul fatto che «le ricerche antropologiche contengono molti esempi di società, sicure del loro posto nell’universo, che si sono disintegrate quando sono dovute entrare in contatto con società precedentemente sconosciute, portatrici di idee diverse e stili di vita diversi; altre società che sono sopravvissute a simili esperienze di solito l’hanno fatto pagando il prezzo di un cambiamento nei valori, negli atteggiamenti e nei comportamenti». La relazione concludeva che, dato che si potrebbero scoprire forme di vita intelligenti in qualsiasi momento, e che le conseguenze di una tale scoperta «allo stato attuale sono imprevedibili», era consigliabile che il governo iniziasse degli studi continuativi sull’impatto psicologico e intellettuale del confronto con la vita extraterrestre. Non so quali azioni siano state intraprese dopo questo rapporto, ma immagino che ora si siano avviati studi del genere. In ogni caso, anche se non scarto un possibile impatto emotivo negativo su alcune persone, personalmente tendo a valutare la prospettiva di contatti del genere con un’incredibile gioia ed entusiasmo. Invece di disgregare la nostra società, credo che potrebbero arricchirla in modo incommensurabile.
Un altro aspetto positivo è che è praticamente certo che tutte le forme di vita intelligenti, in un determinato stadio del proprio sviluppo tecnologico, devono aver scoperto l’energia nucleare. Questo è ovviamente lo spartiacque per qualsiasi civiltà: riuscirà a trovare un modo per usare l’energia nucleare senza disastri e a imbrigliarla per scopi pacifici, o si autodistruggerà? Credo che qualsiasi civiltà che sia sopravvissuta per migliaia di anni dopo la scoperta dell’energia atomica abbia studiato un modo di adattarsi all’esistenza della bomba, e questo potrebbe essere davvero rassicurante per noi, oltre a fornirci linee guida specifiche per la nostra sopravvivenza. In ogni caso, per quanto riguarda lo shock culturale, ho l’impressione che in media la soglia di attenzione della gente sia piuttosto breve; dopo una settimana o due di grande entusiasmo e di saturazione sui giornali e alla televisione, l’interesse del pubblico scemerebbe e le Nazioni Unite, o qualsiasi altro organismo mondiale di cui fossimo dotati, accetterebbero le trattative con gli alieni.
PLAYBOY: Dà per scontato che gli extraterrestri sarebbero benintenzionati. Perché?
KUBRICK: Perché una razza largamente superiore a noi dovrebbe prendersi la briga di danneggiarci e distruggerci? Se-una formica intelligente improvvisamente vergasse un messaggio nella sabbia ai miei piedi con scritto: «Sono un essere senziente, parliamone», ho molti dubbi che mi precipiterei a schiacciarla sotto la scarpa. Anche se non fossero superintelligenti, però, ma semplicemente più avanzati dell’umanità, tendo lo stesso alla teoria della benevolenza, o quantomeno dell’indifferenza. Siccome è molto improbabile che riceviamo visite dall’interno del nostro sistema solare, qualsiasi società capace di attraversare anni luce di spazio dovrebbe avere un grado altissimo di controllo sulla materia e sull’energia. Quindi, che motivo potrebbero avere per essere ostili? Rubarci l’oro o il petrolio o il carbone? E difficile pensare a intenzioni malvagie che giustifichino il viaggio lungo e difficoltoso da un’altra stella.
PLAYBOY: Però ammette che di solito nei fumetti e nei film di fantascienza di second’ordine gli extraterrestri sono ritratti come mostri dagli occhi d’insetto che tampinano avidamente procaci fanciulle terrestri.
KUBRICK: Probabilmente questo risale ai tempi delle riviste di fantascienza dozzinali degli anni Venti e Trenta, e forse persino alla trasmissione sull’invasione marziana di Orson Welles nel 1938 e all’isteria di massa da essa provocata, che viene sempre citata a sostegno dell’ipotesi secondo cui il contatto causerebbe un grave shock culturale. In un certo senso, le battute con cui Welles aprì quella trasmissione hanno dettato il tono dell’opinione pubblica sulla vita extraterrestre per anni e anni. Le ho imparate a memoria: «Attraverso un immenso golfo di etere, menti per le quali la nostra mente equivale a quella degli animali della giungla (intelletti ampi, freddi, e ostili) hanno guardato questa terra con occhi invidiosi, e lentamente e con determinazione hanno formulato piani contro di noi…» Al momento qualsiasi ipotesi sulla natura delle forme di vita aliene è ugualmente valida. Ci possono essere civiltà psicotiche, o civiltà decadenti che hanno elevato il dolore a estetica e possono bramare gli esseri umani come gladiatori o soggetti da torturare, o civiltà che potrebbero volerci per uno zoo o per i loro esperimenti scientifici, come schiavi e persino come cibo. Anche se io sono notevolmente più ottimista, non possiamo proprio essere sicuri di quali saranno i loro moventi effettivi.
Trovo interessante l’argomentazione del professor Freeman Dyson dell’Istituto di Studi Avanzati di Princeton: lui sostiene che sarebbe un errore aspettarsi che tutti i potenziali visitatori spaziali saranno altruisti, o credere che abbiano un qualsiasi concetto di etica morale paragonabile a quello dell’umanità. Dyson scrive, se ricordo bene, che «l’intelligenza può essere un’influenza benigna che crea gruppi isolati di re-filosofi in punti remoti dell’universo», ma è altrettanto possibile che «l’intelligenza sia un cancro di sfruttamento tecnologico senza scopo, e si estenda in una galassia in modo irrefrenabile così come si è estesa nel nostro stesso pianeta». Dyson conclude che è «altrettanto poco scientifico attribuire alle intelligenze remote saggezza e serenità, quanto attribuirgli impulsi irrazionali e omicidi. Dobbiamo essere preparati a entrambe le possibilità e condurre le nostre ricerche di conseguenza».
Ecco perché alcuni scienziati ci mettono in guardia, ora che stiamo cercando di intercettare segnali radio da altri sistemi solari, consigliandoci di aspettare un bel po’ prima di rispondere a un messaggio, se dovessimo riceverlo. Ma è da tanti anni che trasmettiamo segnali radiotelevisivi e qualsiasi civiltà avanzata potrebbe avere ricevuto le nostre emissioni parecchio tempo fa. Quindi, in ultima analisi, non abbiamo poi molta scelta sulla faccenda: o entreranno in contatto con noi oppure no, e se lo faranno non avremo voce in capitolo sulla loro benevolenza o malevolenza.
Se anche si dimostrassero malevoli, il loro arrivo avrebbe comunque un effetto collaterale positivo, perché le nazioni della terra smetterebbero di bisticciare tra loro e farebbero fronte comune per difendere il pianeta. Credo sia stato André Maurois ad affermare, molti anni fa, che il modo migliore per realizzare la pace nel mondo sarebbe inscenare una falsa minaccia proveniente dallo spazio: non è una cattiva idea. Ma di sicuro non credo che dovremmo guardare con timore al contatto con forme di vita extraterrestri, o esitare a esplorare altri pianeti per paura di quello che potremmo trovarvi. Se gli altri non ci contattano, siamo noi a doverli contattare: è il nostro destino.
PLAYBOY: Prima accennava al fatto che la vita intelligente è altamente improbabile in qualsiasi altro punto del nostro sistema solare. Perché?
KUBRICK: Da quello che sappiamo degli altri pianeti di questo sistema, appare improbabile che esista un’intelligenza, per via della temperatura delle superfici e di atmosfere che sono inospitali per le forme di vita avanzate. Improbabile, ma non impossibile. Le concedo che ci sono indizi allettanti che puntano in direzione opposta. Per esempio, mentre gli scienziati scartano unanimemente la possibilità di una vita intelligente su Marte (ma non dell’esistenza di piante o di ordini inferiori della vita organica), alcuni studiosi molto rispettabili sono in disaccordo. Il dottor Frank B. Salisbury, professore di fisiologia vegetale alla Utah State University, in un articolo sulla rivista Sapiens ha sostenuto che, se su un pianeta esiste la vegetazione, allora è logico che ci siano forme di vita più elevate che se ne cibano. «A partire da lì», scrive, «c’è solo un passo da fare (certo, un passo grande) per arrivare alle specie intelligenti».
Salisbury inoltre fa osservare che vari astronomi hanno notato strani lampi di luce, forse esplosioni di grande magnitudo, sulla superficie di Marte, alcune delle quali emettono nuvole; e ipotizza che si tratti di esplosioni nucleari. Altro aspetto interessante di Marte è l’orbita peculiare dei suoi satelliti gemelli, Phobos e Deimos, scoperti per la prima volta nel 1877: guarda caso, lo stesso anno in cui Schiaparelli scoprì i suoi famosi ma ancora oscuri «canali» marziani. Un eminente astronomo, il dottor Josif Slovskij, direttore del dipartimento di radioastronomia all’Istituto Astronomico Sternberg di Mosca, ha proposto la teoria che entrambe le lune siano satelliti spaziali artificiali lanciati dai marziani migliaia di anni fa, nel tentativo di fuggire dalla superficie morente del loro pianeta. Basa questa teoria sulle insolite orbite delle due lune, che, al contrario degli altri trentun satelliti del nostro sistema solare, orbitano più velocemente delle rivoluzioni del loro pianeta ospite. Inoltre l’orbita di Phobos si sta deteriorando in modo inspiegabile e trascina il satellite sempre più vicino alla superficie di Marte. Entrambe queste circostanze, secondo Slovskij, hanno senso solo se le due lune sono cave.
Slovskij crede che i satelliti siano le ultime vestigia dell’antica civiltà marziana estinta; ma il professor Salisbury si spinge oltre e arriva a supporre che siano stati lanciati negli ultimi cento anni. Notando che le lune sono state scoperte da un telescopio poco potente nel 1877 e che non sono state rilevate da un telescopio molto più potente che osservò Marte nel 1862 (quando il pianeta era decisamente più vicino alla terra) si chiede: «Dobbiamo attribuire l’omissione del 1862 all’imperfezione del telescopio, o possiamo immaginare che i satelliti siano stati lanciati in orbita fra il 1862 e il 1877?» In questo caso non ci sono risposte, solo domande, ma è una tesi affascinante. Tutto considerato, però, devo dire che il peso delle prove a disposizione propende a sfavore della vita su Marte.
PLAYBOY: E che ne dice della possibilità, se non della probabilità, di vita intelligente sugli altri pianeti?
KUBRICK: La maggior parte degli scienziati e degli astronomi escludono la vita sui pianeti esterni perché la temperatura della loro superficie è di migliaia di gradi sopra o sotto lo zero e la loro atmosfera sarebbe velenosa. Immagino sia possibile che la vita riesca a evolversi su pianeti di quel tipo basandosi, per esempio, sull’ammoniaca liquida o sul metano, ma non sembra molto probabile. Quanto a Venere, i sondaggi del Mariner indicano che la temperatura della superficie del pianeta è di circa cinquecento gradi, il che negherebbe le basi chimiche per lo sviluppo molecolare della vita. E sulla luna non potrebbero esserci forme di vita intelligenti indigene, per via della totale mancanza di atmosfera; o quantomeno nessuna forma di vita come la conosciamo noi. Però sospetto che rocce o cristalli intelligenti, o statue, con funzioni vitali basate sul silicio non siano in realtà impossibili, e nemmeno masse gassose coscienti o sciami di particelle elettriche senzienti. Creature del genere non genererebbero tecnologia, ma se la loro intelligenza potesse controllare la materia, perché mai dovrebbero averne bisogno? Però è probabile che non sarebbero simili in nulla, neppure remotamente, alla forma di vita umanoide, che è un prototipo notevolmente funzionale di vita nell’universo.
PLAYBOY: Cosa pensa che troveremo sulla luna?
KUBRICK: Credo che la prospettiva più eccitante a proposito della luna sia che, se delle razze aliene hanno mai visitato la terra nel passato remoto e hanno lasciato dei manufatti perché l’uomo li scoprisse nel futuro, è probabile che abbiano scelto l’arido vuoto lunare privo di aria, in cui non si verifica alcun deterioramento e un oggetto potrebbe resistere per millenni. Sembra inevitabile che, man mano che l’uomo si evolve dal punto di vista tecnologico, raggiunga prima o poi il satellite a lui più vicino, e quegli alieni si aspetterebbero che trovasse il loro biglietto da visita: forse un messaggio di saluti, un deposito segreto di conoscenza o semplicemente un antifurto cosmico per segnalare che un’altra razza è in grado di volare nello spazio. Naturalmente questa è la situazione che costituisce il nucleo di 2001.
Ma una domanda altrettanto affascinante è se potrebbe esserci un’altra forma di vita intelligente sulla terra. Il dottor John Lilly, le cui ricerche sui delfini sono state finanziate dalla NASA, ha raccolto prove considerevoli che fanno intravedere la possibilità che i tursiopi siano intelligenti quanto l’uomo, o persino di più.1 Lilly basa questa teoria non solo sulle dimensioni del loro cervello (che è più grande di quello dell’uomo e ha una corteccia più complessa), ma anche sul fatto che i tursiopi hanno sviluppato un linguaggio piuttosto ampio. Al momento Lilly sta tentando, con qualche successo, di decifrare quel linguaggio e stabilire una comunicazione con i tursiopi. L’interesse della nasa per il progetto è ovvio, perché imparare a comunicare con i delfini sarebbe un precedente molto istruttivo per imparare a comunicare con razze aliene di altri pianeti. Naturalmente, se i delfini sono davvero intelligenti è ovvio che la loro cultura non è tecnologica, dato che, senza pollice opponibile, non potrebbero mai creare dei manufatti. La loro intelligenza potrebbe anche essere di ordine nettamente diverso da quella dell’uomo, il che renderebbe ancora più difficile la comunicazione. Il dottor Lilly ha scritto che «è probabile che la loro intelligenza sia paragonabile alla nostra, anche se in modo molto strano […] Forse sono dotati di un nuovo tipo di cervello grande, talmente diverso dal nostro che non riusciremo mai a capire i suoi processi mentali». La loro cultura potrebbe essere completamente dedicata a creare opere poetiche o elaborare idee matematiche astratte, ed è plausibile che usino una comunicazione telepatica per integrare il loro linguaggio subacqueo ad alte frequenze.
Il fatto particolarmente interessante è che i tursiopi, a quanto pare, hanno sviluppato un concetto di altruismo: le storie di marinai naufragati salvati dai delfini e portati a riva, o protetti da loro contro gli squali, non sono affatto leggende. Ma sono piuttosto turbato da certi recenti sviluppi che sono indicativi di come potremmo trattare non solo con i delfini ma anche con razze intelligenti di altri pianeti. Si dice che la marina militare, impressionata dalla presunta intelligenza dei delfini, abbia realizzato esperimenti di emulazione subacquea in cui un missile viene legato a un delfino e fatto esplodere via radio quando si avvicina al prototipo di un sottomarino nemico. Questi esperimenti sono stati ufficialmente smentiti: ma se fossero veri, temo che potremmo capire molto meglio l’uomo tramite i delfini che non viceversa. Paradossalmente, sembra che i russi siano un passo avanti in questo campo: di recente hanno bandito la pesca ai delfini nelle loro acque territoriali, sulla base del fatto che «il compagno delfino» è un essere senziente come noi e ucciderlo sarebbe l’equivalente morale di un omicidio.
PLAYBOY: Anche se i dischi volanti spesso sono oggetto del pubblico ludibrio, nella comunità scientifica ci sono state molte discussioni serie sulla possibilità che gli UFO siano astronavi aliene. Lei cosa ne pensa?
KUBRICK: L’analisi più importante degli ufo che ho letto di recente è stata scritta da L.M. Chassin, un generale dell’aeronautica militare francese che è stato un pezzo grosso della NATO. Secondo lui, anche adottando i criteri stabiliti per l’ammissibilità delle prove in tribunale, ormai siamo in possesso di dati sufficienti raccolti da fonti attendibili (astronomi, piloti, radaristi e simili) per iniziare un’inchiesta seria e approfondita a livello mondiale sul fenomeno degli ufo. A dire la verità, se si esamina anche solo una minima parte delle testimonianze esistenti, si scopre che c’è gente finita nella camera a gas sulla base di prove molto meno lampanti. Certo, è possibile che tutti i governi del mondo in realtà prendano gli UFO molto seriamente e forse siano già impegnati in studi segreti per scoprire la loro origine, natura e intenzioni. Se così fosse, potrebbe darsi che non rivelino le loro scoperte per paura che la popolazione si allarmi: il pericolo dello shock culturale derivante dal confronto con l’ignoto di cui abbiamo parlato prima, e che è un elemento di 2001, quando vengono insabbiate le notizie sulla scoperta del monolite sulla luna. Ma credo che anche solo quel due per cento di avvistamenti convalidati dai documenti ufficiali del progetto dell’aeronautica militare, e cioè dichiarati inspiegabili con mezzi convenzionali, basterebbero a giustificare un’indagine seria e rigorosa.
Un segno che forse finalmente questo argomento otterrà le discussioni serie che merita, comunque, è la tardiva ma esemplare conversione del dottor J. Allen Hynek, che dal 1948 è consulente dell’aeronautica sugli UFO e al momento è direttore del dipartimento di astronomia alla Northwestern University. Hynek, che nelle sue vesti ufficiali ha deriso gli avvistamenti di UFO, ora crede che gli UFO meritino un’attenzione prioritaria (come ha scritto sul numero di Playboy del dicembre 1967) e ammette persino che le prove esistenti possono indicare un legame plausibile con la vita extraterrestre. Pronostica: «Sarei molto sorpreso se uno studio approfondito non portasse a niente. Ai contrario, credo che l’umanità si stia avviando alla più grande avventura dai tempi in cui l’intelligenza umana ai suoi albori si è rivolta verso l’esterno per contemplare l’universo». E io sono d’accordo con lui.
PLAYBOY: Se i dischi volanti sono veri, chi o cosa crede che siano?
KUBRICK: Non lo so. Le prove dimostrano che sono lassù, ma ci danno pochissimi indizi su cosa sono. Alcuni scrittori di fantascienza teorizzano in modo semiserio sul fatto che potrebbero essere navette temporali che rimbalzano avanti e indietro fra le ere da un futuro in cui l’uomo sarà in grado di viaggiare nel tempo; da quello che so, il biologo Ivan Sanderson ha persino accampato la teoria che possano essere una specie di animali spaziali viventi che abitano nella stratosfera superiore, anche se non riesco a dare molto credito a questa proposta. È anche possibile che siano fenomeni perfettamente naturali, forse catene di lampi, come suggerito una volta da un saggista scientifico americano; anche se questo, ancora una volta, non spiega alcune delle fotografie scattate da fonti affidabili, della marina argentina, che mostrano chiaramente oggetti metallici sferici sospesi nel cielo. Come probabilmente avrà già dedotto, gli UFO mi affascinano moltissimo e il mio unico rimpianto è che questo campo d’indagine sia stato ostacolato da una minoranza di matti che affermano di aver spiccato il volo fino a Marte su dischi volanti pilotati da umanoidi verdi alti un metro con la testa a punta. Questo approccio stravagante rende facile liquidare tutto il fenomeno come un’assurdità, ma lo facciamo a nostro rischio e pericolo.
Credo che qui un altro problema (uno dei motivi per cui, nonostante le prove schiaccianti, l’interesse pubblico è stato davvero poco) sia che la maggior parte della gente non vuole pensare sul serio a esseri extraterrestri che pattugliano i nostri cieli e che forse ci osservano come insetti su un vetrino. Il pensiero è troppo inquietante: scuote la nostra ordinata, consolante e asettica Weltanschauung da provinciali: il cosmo si trova a moltissimi anni luce di distanza da Scarsdale. Può darsi che si tratti di un meccanismo di sopravvivenza, ma rischia di renderci ciechi davanti a quello che potrebbe rivelarsi il momento più drammatico e importante della storia dell’uomo: il contatto con un’altra civiltà.
PLAYBOY: Tra i motivi addotti da quelli che mettono in dubbio l’origine interstellare degli UFO c’è la teoria della relatività speciale di Einstein, che sostiene che la velocità della luce è assoluta e niente la può superare. Di conseguenza, un viaggio anche solo dalla stella più vicina fino alla terra durerebbe migliaia di anni. Secondo loro questo esclude ì viaggi interstellari, quantomeno per esseri senzienti con un arco vitale pari al più lungo che l’uomo conosca. Lei ritiene che questo argomento sia valido?
KUBRICK: Trovo difficile credere che abbiamo già scandagliato gli abissi della conoscenza a proposito delle leggi fisiche dell’universo. Mi sembra piuttosto arrogante credere che, nello spazio di poche centinaia di anni, abbiamo capito tutto quello che c’è da capire. Quindi non penso sia giusto sostenere con incrollabile certezza che la velocità della luce è la massima raggiungibile nell’universo. Sono diffidente nei riguardi delle regole scientifiche dogmatiche: di solito hanno vita breve. Gli scienziati europei più illustri dell’Ottocento ridevano dei meteoriti, affermando che «non possono piovere pietre dal cielo»; appena un anno prima dello Sputnik, uno dei più grandi astrofisici del mondo ha affermato seccamente che «i viaggi spaziali sono una fandonia». A dire la verità, esistono già studi teorici molto interessanti in corso (uno del dottor Gerald Feinberg delia Columbia University} che indicano la possibilità di trovare scorciatoie che permettano di superare la velocità della luce in certe condizioni specifiche.
Inoltre, c’è sempre la possibilità di aggirare il limite della velocità della luce, anche ammesso che sia così assoluto, grazie a un balzo spazio-temporale, come ha proposto Arthur Clarke. Ma prendiamo in esame un altro modo, un po’ più conservatore, di eludere questo tipo di limitazione: se entrassimo in contatto radio con un’altra civiltà, nel giro di duecento anni raggiungeremmo avanzamenti tali nell’ingegneria genetica che l’altra razza potrebbe trasmetterci il suo codice genetico via radio e noi potremmo ricreare la loro sequenza del DNA e duplicare artificialmente in laboratorio un membro della loro specie, e viceversa. Questo sembra fantascientifico solo a quelli che non hanno seguito i progressi incredibili fatti dall’ingegneria genetica.
Ma il viaggio interstellare vero e proprio non sarebbe impossibile, nemmeno se non si riuscisse a raggiungere la velocità della luce. Ogni volta che escludiamo la possibilità di viaggi spaziali nel nostro sistema solare obiettando che richiederebbero migliaia di anni, pensiamo a esseri con una durata della vita simile alla nostra. Le drosofile, a quanto ne so, esauriscono tutta l’esistenza (nascita, riproduzione e morte) in ventiquattr’ore; nell’universo potrebbero esserci altre creature per le quali la vita dell’uomo dura quanto quella di una drosofila. Potrebbero esserci infinite razze nell’universo con vite che durano centinaia di migliaia di anni, o milioni persino, alle quali un viaggio verso la terra di diecimila anni incuterebbe lo stesso timore che incute a noi un pomeriggio al parco. Ma anche nei termini della nostra cronologia, nel giro di pochi anni dovrebbe essere possibile congelare gli astronauti, o indurre una sospensione delle funzioni vitali con l’ibernazione, per tutta la durata di un viaggio interstellare. Potrebbero passare trecento o mille anni nello spazio e venire risvegliati automaticamente, sentendosi freschi proprio come dopo una bella dormita di otto ore.
Anche la teoria della velocità della luce potrebbe funzionare a sostegno dei viaggi lunghi: lo speciale fattore di «dilatazione temporale» nella teoria della relatività di Einstein significa che, mentre un oggetto accelera verso la velocità della luce, il tempo rallenta. Tutto sembra normale a chi è a bordo: ma se fossero stati lontani dalla terra per cinquantasei anni, per esempio, al loro ritorno sarebbero più vecchi di solo vent’anni rispetto a quando sono partiti. Perciò, prendendo in considerazione tutti questi fattori, mi lasciano un po’ scettico le affermazioni di alcuni scienziati sul fatto che il limite della velocità della luce renda impossibili i viaggi interstellari.
PLAYBOY: Ha parlato di ibernare gli astronauti per ì lunghi viaggi spaziali, come negli «ibernacoli» di 2001. Come ben sa, il fisico Robert Ettinger e altri hanno proposto di congelare i morti nell’azoto liquido fino a un’epoca futura in cui si possano riportare in vita. Cosa pensa di questa proposta?
KUBRICK: Mi interesso da molti anni e la considero sostanzialmente realizzabile. In effetti credo che, nel giro di dieci anni, l’ibernazione dei morti sarà un’industria di massa negli Stati Uniti e in tutto il mondo: la consiglierei come campo di investimento per speculatori fantasiosi. La tesi del dottor Ettinger è piuttosto semplice: se un corpo viene congelato criogenicamente nell’azoto liquido a una temperatura vicina allo zero assoluto (meno 237,2 gradi Celsius) e immagazzinato in strutture adeguate, in una data futura ancora indeterminata forse sarà possibile scongelare e rianimare il cadavere, e poi curare la malattia o riparare il danno fisico che è stato la causa originaria della morte. Questo, naturalmente, implica un rischio considerevole: non abbiamo modo di sapere se la scienza futura sarà progredita abbastanza da curare, per esempio, il cancro a uno stadio avanzato, e neppure se sarà in grado di rianimare un corpo congelato. Inoltre, il cadavere subisce dei danni nel corso del processo di congelamento: il ghiaccio si cristallizza nel sangue. E, a meno che il corpo non venga congelato nell’istante stesso della morte, si verifica anche un deterioramento progressivo delle cellule cerebrali. Ma cosa abbiamo da perdere? Niente, e quello che abbiamo da guadagnare è l’immortalità. Mi permetta di leggerle quello che ha scritto il dottor Ettinger: «Una volta si pensava che la differenza tra la vita e la morte fosse semplice e ovvia. Un uomo vivo respira, suda, fa osservazioni stupide; da morto se ne sta sdraiato, non presta la minima attenzione, e dopo un po’ imputridisce. Ma al giorno d’oggi non è più così semplice».
In realtà, l’idea di ibernare i morti, quando la si esamina con la dovuta serietà, non è per niente campata in aria come sembra lì per lì, anche se effettivamente è rivoluzionaria. Dopotutto, infinite migliaia di pazienti «muoiono» sul tavolo operatorio e vengono resuscitati dalla stimolazione artificiale del cuore dopo qualche secondo o persino dopo qualche minuto, e in sostanza non c’è molta differenza tra riportare in vita il paziente dopo tre minuti di morte clinica o dopo una fase di «intermezzo» di trecento anni. Per fortuna il concetto di ibernazione ora sta riscuotendo sempre maggiore interesse all’interno della comunità scientifica. Il dottor Jean Rostand, un biologo francese di fama internazionale, ha proposto che ogni paese cominci immediatamente un programma di ibernazione, finanziato da fondi statali e utilizzando i propri migliori scienziati. «Per ogni giorno di ritardo», dice, «un numero incalcolabile di persone morirà invano».
PLAYBOY: A lei interessa farsi ibernare?
KUBRICK: Sì, se al momento ci fossero strutture idonee, cosa che purtroppo non è. Ci sono varie organizzazioni che stanno cercando di diffondere informazioni e raccogliere fondi per realizzare un programma di ibernazione funzionante (la Life Extension Society di Washington, la Cryonics Society di New York e diverse altre), ma siamo ancora nella fase embrionale della criobiologia. Al momento, tutte te strutture di ibernazione esistenti (e non ce ne sono tante) non sono abbastanza sofisticate da offrire una speranza realistica. Ma la situazione cambierà, probabilmente, in modo molto più rapido di quanto ci aspettiamo.
Un concetto chiave da ricordare, particolarmente da parte di chi è pronto a liquidare tutta questa teoria come insensata, è che la scienza ha fatto fantastici passi avanti anche solo negli ultimi quarant’anni: in questo breve periodo, un’ampia gamma di malattie letali che una volta erano la piaga dell’umanità, da! vaiolo alla difterite, sono state virtualmente eliminate grazie ai vaccini e agli antibiotici, mentre altre, come vedete, possono essere tenute sotto controllo (anche se non eliminate completamente) con medicine come l’insulina. I trapianti di cuore sono già un’impresa fattibile e si stanno preparando banche di organi per accogliere riserve di milze, reni, polmoni e cuori per i futuri trapianti.
Il dottor Ettinger prevede che un «aspirante ibernato» che muoia dopo un grave incidente o vasti danni interni e venga resuscitato da un ospedale del futuro ne emerga come «una folle trapunta patchwork». Gli organi interni (cuore, polmoni, fegato, reni, stomaco e il resto) potrebbero essergli stati impiantati, una volta fatti crescere in laboratorio dalle cellule di qualche donatore. Le braccia e le gambe potrebbero essere «manufatti privi di sangue fatti di tessuto, metallo e plastica, guidati da minuscoli motori». Le cellule cerebrali, scrive Ettinger, «potrebbero essere per la maggior parte nuove, rigenerate a partire dalle poche che si fossero salvate, e alcuni dei suoi ricordi e tratti della personalità potrebbero essere stati impressi sulle nuove cellule con microtecniche della chimica e della fisica». La sfida principale per gli scienziati del futuro non sarà la resurrezione ma l’eliminazione della causa originaria della morte: e in questo campo, abbiamo tutti i motivi di essere ottimisti in seguito alle recenti esperienze. Quindi, prima di rifiutare l’idea dell’ibernazione, bisogna riflettere sui risultati raggiunti in alcuni decenni e chiedersi cosa saremo capaci di fare nei prossimi secoli.
PLAYBOY: Se si realizzasse un programma del genere, la persona ibernata, naturalmente, non avrebbe modo di sapere se riusciranno mai a farla resuscitare. Pensa che gli scienziati del futuro, se ne fossero in grado, sarebbero disposti a riportare alla vita i loro antenati?
KUBRICK: Be’, l’uomo del xx secolo forse non rivestirà una grande importanza per una civiltà più avanzata di questa, anche solo fra cent’anni; ma a meno che i nostri pronipoti non abbiano ottenuto l’immortalità, e scientificamente è piuttosto probabile, loro stessi verranno congelati al momento della morte, e ogni generazione avrà tutto l’interesse a conservare quella ibernata precedentemente, in modo da essere a sua volta conservata dalla successiva. Naturalmente sarebbe una delusione se, fra trecento anni, qualcuno ci staccasse la spina, vero?
Un altro problema in questo caso, ovviamente, è l’esplosione demografica: quale sarà l’effetto sulla terra di miliardi di corpi congelati improvvisamente resuscitati che riprendono il loro posto nella società? Ma, quando gli scienziati del futuro saranno padroni delle tecniche per resuscitare i loro antenati ibernati, ormai i viaggi spaziali saranno senza dubbio una realtà e altri pianeti saranno aperti alla colonizzazione. Inoltre, si potrebbero costruire giganteschi freezer sul lato oscuro della luna per immagazzinare milioni di corpi. C’è una pletora di problemi, è chiaro, ma le possibilità sono altrettante.
PLAYBOY: Gli avversari del congelamento criogenico obiettano che la morte è il culmine naturale e inevitabile della vita e che non dovremmo intrometterci, nemmeno se fossimo in grado di farlo. Lei cosa gli risponde?
KUBRICK: La morte non è più naturale e inevitabile del vaiolo o della difterite. La morte è una malattia ed è passibile di cura tanto quanto qualsiasi altra malattia. Nel corso delle ere, l’incapacità dell’uomo di evitare la morte lo ha portato a metterla in secondo piano nei propri pensieri, per motivi di salute mentale, e ad accettarla senza discutere come la fine inevitabile di tutto. Ma con il progresso scientifico questo non è più necessario o auspicabile. L’ibernazione è solo uno dei modi possibili di vincere la morte, e sicuramente non sarebbe vincolante per nessuno: chi desiderasse una morte «naturale» potrebbe ottenerla, proprio come si opponevano all’anestesia quelli che nel xix secolo desideravano la sofferenza «predestinata da Dio». Come ha scritto il dottor Ettinger: «A ciascuno il suo, e a quelli che scelgono di non farsi ibernare posso solo dire: marcite in buona salute».
PLAYBOY: Ibernare e far resuscitare i morti è solo una delle rivoluzionarie tecniche scientifiche che potrebbero trasformare la nostra società. Guardando avanti verso l’anno del suo film, il 2001, quali importanti cambiamenti sociali e scientifici prevede?
KUBRICK: Forse la conquista più grande che potremo aver fatto nel 2001 è che l’uomo sia riuscito a eliminare la vecchiaia. Poco fa parlavo della sconfitta duratura della malattia da parte della scienza; anche quando si sarà raggiunto questo obiettivo, però, la piaga della vecchiaia rimarrà tale. Troppe persone ritengono inevitabile la decadenza senile, proprio come la morte. Ma le cose non stanno così. Lo stimatissimo scienziato russo V.F. Kuprevič ha scritto: «Sono sicuro che siamo in grado di trovare un modo per disattivare i meccanismi che fanno invecchiare le cellule». Il dottor Bernard Strehler, un eminente gerontologo, sostiene che non c’è nessun impedimento congenito, nessuna proprietà delle cellule o dei metazoi che precluda loro di organizzarsi in individui che funzionano in eterno e si reintegrano da soli.
Un indizio incoraggiante del fatto che potremmo già essere su quella strada è il lavoro del dottor Hans Selye, che nel suo libro Calciphylaxis presenta la tesi interessante e ben corroborata che la vecchiaia sia causata dal trasferimento del calcio all’interno del corpo: un trasferimento che si può fermare facendo circolare per tutto l’organismo specifici composti a base di ferro che eliminino il calcio, lo assorbano e gli impediscano di penetrare nei tessuti. Il dottor Selye sostiene che presto potremmo essere in grado di impedire che un sessantenne progredisca verso la condizione di un novantenne. In un certo senso si sminuisce: avrebbe potuto benissimo aggiungere che il sessantenne può restare tale per centinaia o persino migliaia di anni se tutte le altre malattie sono state debellate. Persino gli incidenti non danneggerebbero in modo grave la sua relativa immortalità: anche se un uomo viene investito da un rullo compressore, la sua mente e il suo corpo si potranno ricreare completamente dal frammento più minuscolo dei suoi tessuti, se l’ingegneria genetica continua i suoi rapidi progressi.
PLAYBOY: Secondo lei che impatto avranno progressi scientifici così incredibili sullo stile di vita della società a cavallo dei due secoli ?
KUBRICK: È quasi impossibile stabilirlo. Chi sarebbe mai riuscito a predire nel 1900 come sarebbe stata la vita nel 1968? La tecnologia è, per tanti versi, molto più prevedibile del comportamento dell’uomo. La politica interna ed estera cambia talmente in fretta che è difficile prevedere con un minimo di esattezza il futuro delle istituzioni sociali anche da qui a dieci anni. Nel 2001 forse vivremo in un paradiso gandhiano in cui tutti gli uomini saranno fratelli, in una dittatura neofascista, o ci staremo arrabattando proprio come oggi. Man mano che si evolve la tecnologia, però, non ci sono molti dubbi sul fatto che il nostro tempo libero sarà migliorato nella quantità e nella qualità.
PLAYBOY: E che mi dice del campo dello spettacolo ?
KUBRICK: Sono sicuro che avremo televisori e film sofisticatissimi a ologrammi tridimensionali, ed è possibile che vengano inventate forme completamente nuove di spettacolo e d’istruzione. Forse ci sarà una macchina che si collegherà al cervello facendoci entrare in un’esperienza di sogno a occhi aperti nella quale siamo protagonisti di una storia d’amore o di un’avventura. A un livello più serio, una macchina del genere si potrebbe programmare direttamente con delle nozioni: in questo modo per esempio si potrebbe imparare facilmente a parlare bene il tedesco in venti minuti. Al momento i processi di apprendimento sono così laboriosi e lunghi che un progresso in quel senso è davvero necessario.
D’altro canto, in cose del genere ci sono dei rischi: ho sentito dire che a Yale hanno fatto esperimenti in cui il centro del piacere del cervello di un topo è stato localizzato e stimolato da elettrodi; il risultato è che il topo raggiunge un orgasmo di otto ore. Se avessimo facilmente a disposizione un piacere così intenso, potremmo anche diventare una razza di zombi dai sensi attutiti, attaccati a simulatori del piacere mentre le macchine lavorano al posto nostro e il corpo e la mente si atrofizzano. Potremmo avere lo stesso problema anche con le droghe psichedeliche: promettono di liberare le percezioni in tutti i modi possibili, ma alio stesso tempo rischiano di causare il ritiro e il disimpegno dalla vita, in una specie di mondo soggetto al Soma2 e completamente endodiretto. Al momento non ci sono droghe ideali; però sono convinto che nel 2001 avremo scoperto sostanze chimiche che non abbiano effetti collaterali fisici, mentali o genetici, in grado di liberare la mente ed estendere la percezione oltre le capacità evolutive che possiede al momento.
A dire la verità, dal punto di vista evolutivo, finora la percezione ai suoi livelli più profondi è risultata in realtà dannosa per la sopravvivenza: se l’uomo primitivo si fosse accontentato di sedersi su una roccia fuori dalla sua caverna, concentrato su un bel tramonto o sulla disposizione complessa di un gruppo di nuvole, non avrebbe mai sterminato le specie rivali; ma non avrebbe nemmeno conquistato il dominio del pianeta. Ora, però, l’uomo si trova nella condizione, mai sperimentata prima, di avere sotto mano risorse materiali e tecnologiche potenzialmente illimitate, e una quantità incredibile di tempo libero. Finalmente ha l’opportunità di guardare sia dentro che oltre se stesso con una nuova prospettiva, senza mettere in pericolo o impedire il progresso della specie. Le droghe, usate con intelligenza, possono essere una guida importante per questa nuova espansione della nostra coscienza. Ma, se impiegate a casaccio, per ottundere la percezione invece che per espanderla, possono avere un’influenza altamente negativa. Nel 2001 saranno disponibili delle droghe molto affascinanti; la questione più importante sarà l’uso che ne faremo.
PLAYBOY: Ha mai usato l’LSD o altre droghe per l’espansione della coscienza?
KUBRICK: No. Credo che le droghe siano più utili al pubblico che agli artisti, sostanzialmente. Credo che l’illusione di essere tutt’uno con l’universo, l’immersione nel significato di ciascun oggetto che ci circonda, l’aura diffusa di pace e soddisfazione non siano lo stato ideale per un artista. Assopisce la sua personalità creativa, che si nutre del conflitto e dello scontro e del fermento delle idee. L’artista deve raggiungere la trascendenza all’interno della sua opera: non deve imporre alcuna barriera artificiale tra se stesso e il movente principale del suo subconscio. Una delle cose che mi ha messo contro l’LSD è che, durante un trip ben riuscito, tutti gli utilizzatori che conosco sono stranamente incapaci di distinguere tra le cose che sono davvero interessanti ed eccitanti e le cose che sembrano tali nello stato di beatitudine universale indotto dalla droga. Sembra che perdano completamente le loro facoltà critiche e si distacchino da uno dei settori più stimolanti della vita. Forse quando è tutto bello, non c’è niente di bello.
PLAYBOY: Secondo lei che fase avrà raggiunto la rivoluzione sessuale di oggi nel 2oo1?
KUBRICK: Di nuovo, siamo nel campo delle pure ipotesi. Forse ci sarà stata una reazione contro le mode del momento, e il pendolo sarà tornato indietro verso una specie di neopuritanesimo. E anche probabile che la cosiddetta rivoluzione sessuale, apportata dalla pillola, si estenda. Tramite le droghe, o forse tramite l’acuirsi di funzioni di percezione extrasensoriale latente, persino tramite la loro amplificazione meccanica, potrebbe essere possibile a ciascun partner vivere la sensazione dell’altro simultaneamente; o forse risulterà che siamo degli individui sessualmente polimorfi, con gli elementi maschili e femminili che si confondono, si mescolano e si scambiano. Le potenzialità per esplorare nuove aree dell’esperienza sessuale sono virtualmente infinite.
PLAYBOY: Considerando queste nuove tendenze, pensa che l’amore romantico sarà fuori moda nel zooi?
KUBRICK: Naturalmente la gente trova sempre più facile avere relazioni intime e soddisfacenti al di fuori dei concetto di amore romantico (che, nella sua forma attuale, è un’acquisizione relativamente recente, sviluppatasi nel XII secolo alla corte di Eleonora d’Aquitania), ma il concetto sostanziale del rapporto d’amore, persino nella sua versione più ossessiva, è radicato troppo profondamente nella psiche dell’uomo per non mantenersi in una forma o nell’altra. Non sarà facile aggirare la nostra programmazione emotiva primitiva. L’uomo possiede essenzialmente lo stesso insieme di istinti utili a rinsaldare la coppia (l’amore, la gelosia, la possessività) che gli sono stati impressi milioni di anni fa per la sopravvivenza individuale e tribale; istinti che non sono stati affatto sepolti, persino in quest’epoca che si definisce illuminata e liberata.
PLAYBOY: Pensa che nel 2001 l’istituzione della famiglia, che alcuni sociologi hanno definito moribonda, si sarà evoluta in qualcosa di piuttosto diverso da quello che è ora?
KUBRICK: Si possono esporre interessanti argomentazioni intellettuali di ogni tipo contro la famiglia come istituzione: l’autoritarismo che vi è insito, eccetera; ma, andando al sodo, la famiglia è l’unità più primitiva e viscerale e vitale della società. Ti puoi trovare fuori dalla stanza di tua moglie in ospedale durante il parto a mormorare: «Dio mio, che responsabilità! È giusto assumersi quest’obbligo tremendo? Cosa sto facendo qui?»; e poi entri e vedi il viso del bambino e zac!, ecco che subentra l’antica programmazione e la tua reazione è di meraviglia, gioia e orgoglio. E un esempio classico di modelli sociali geneticamente acquisiti. A questo mondo ci sono ben poche cose che abbiano un’importanza indiscutibile in quanto tali e che non siano suscettibili di dibattito e discussioni razionali, ma la famiglia è una di esse. Forse l’uomo è stato troppo «liberato» dalla scienza e dalle tendenze sociali evolutive. Si è liberato dalla religione e ha salutato la morte dei propri dèi; la fedeltà assoluta alla verità del vecchio stato-nazione sta scemando e tutti i vecchi valori sociali ed etici, per quanto fossero spesso reazionari e limitati, stanno scomparendo. L’uomo del XX secolo è stato gettato alla deriva in una barca senza timone su un mare inesplorato: deve mantenersi sano di mente per tutto il viaggio, deve avere qualcuno di cui interessarsi, qualcosa che sia più importante di lui stesso.
PLAYBOY: Alcuni critici hanno identificato in gran parte della sua opera non solo un profondo pessimismo ma anche una specie di misantropia. Sul Dottor Stranamore, per esempio, un recensore ha commentato che il suo atteggiamento come regista riguardo all’annientamento dell’umanità, nonostante il messaggio pacifista del film, sembrava stranamente distaccato e freddo, quasi come se la terra venisse decontaminata da un’infezione. C’è del vero in tutto ciò?
KUBRICK: Buon Dio, no. Non si smette di preoccuparsi dell’uomo perché si riconoscono le sue fondamentali assurdità e fragilità e presunzione. Per me l’unica vera immoralità è quella che mette in pericolo la specie; è l’unico male assoluto, quello che minaccia di annientarla. Nel senso più profondo, credo nelle potenzialità dell’uomo e nella sua capacità di progresso. Nel Dottor Stranamore parlavo dell’irrazionalità latente in ogni uomo, che minaccia di distruggerlo; quell’irrazionalità è ben presente in noi anche oggi, e va sconfitta. Ma riconoscere la follia non significa celebrarla; e nemmeno provare un senso di disperazione e inutilità riguardo alla possibilità di curarla.
PLAYBOY: Nei cinque anni trascorsi dall’uscita del Dottor Stranamore, le due maggiori potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, hanno raggiunto accordi concreti fra loro. Pensa che questo riduca il pericolo di guerra nucleare?
KUBRICK: No, al contrario: semmai la tanto sbandierata distensione sovietico-americana aumenta la minaccia di guerra accidentale per motivi di negligenza; questa è sempre stata la minaccia più grande, e quella più difficile da affrontare. Il pericolo che le armi nucleari possano essere usate (forse da una potenza secondaria) è grande quanto prima, se non di più, e in realtà è piuttosto stupefacente che il mondo sia riuscito ad abituarcisi psicologicamente dando, in apparenza, così pochi segni di disturbo.
Lo scoppio di una guerra è particolarmente probabile come risultato di un improvviso conflitto imprevisto in qualche parte del mondo, che scatenerà reazioni di panico e catapulterà uomini confusi e spaventati in decisioni che sono incapaci di prendere a livello razionale. Inoltre la minaccia più grave rimane quella che uno psicopatico a qualche livello della moderna struttura di comando inizi una guerra, o quantomeno uno scambio limitato di attacchi nucleari che potrebbero devastare ampie zone del mondo e causare innumerevoli vittime. Questo, naturalmente, era il tema del Dottor Stranamore; e non sono del tutto sicuro che da qualche parte tra gli alti papaveri del Pentagono e dell’Armata Rossa non esista il prototipo autentico del generale Jack D. Ripper.
PLAYBOY: Gli strateghi delle teorie a prova di errore hanno suggerito che un modo per ovviare al pericolo che un pazzo possa scatenare una guerra sarebbe sottoporre a test di salute psicologica tutto il personale chiave nella struttura di comando nucleare. Sarebbe una misura di sicurezza efficace?
KUBRICK: No, perché qualsiasi individuo davvero squilibrato che arrivasse alle alte sfere del sistema dovrebbe possedere una notevole dose di autodisciplina ed essere in grado di dissimulare con successo le sue fissazioni. Test del genere esistono già, in parte, ma bisognerebbe essere davvero suonati per tradirsi mentre li si affronta, e il tipo di persona di cui parliamo sarebbe viceversa uno psicopatico molto controllato visto che fino a quel punto non si è mai fatto scoprire. Ma, al di là dei test, come si fa a valutare obiettivamente la salute del presidente, che ha, in quanto comandante in capo, la responsabilità finale sull’uso delle armi nucleari? E improbabile ma non impossibile che un giorno avremo un presidente psicopatico, un presidente che soffre di esaurimento nervoso o un presidente alcolizzato che, da ubriaco, scatena la guerra. Si può controbattere che un uomo del genere verrebbe identificato e fermato dai suoi vice; ma, con i poteri che il presidente detiene al giorno d’oggi, come si fa a saperlo? Meno improbabile ma ancora più terrificante è la possibilità che uno psicopatico riesca a farsi strada fino ai gradi più bassi del personale della Casa Bianca. Immaginate cosa sarebbe potuto succedere all’apice della crisi dei missili cubani se qualche cameriere squilibrato avesse versato dell’LSD nel caffè di Kennedy; o, dall’altra parte della barricata, nella vodka di Chruscév? Queste ipotesi fanno rabbrividire.
PLAYBOY: Condivide la tesi di alcuni psichiatri secondo cui il nostro continuo appoggiarci all’equilibrio tra le potenze nucleari, con tutti i rischi dì una catastrofe globale che questo comporta, rispecchierebbe una specie dì desiderio di morte collettivo?
KUBRICK: No, ma penso che la paura della morte contribuisca a spiegare perché la gente accetti quella spada di Damocle sulla testa con una serenità così imperturbabile. L’uomo è l’unica creatura conscia della propria mortalità, e allo stesso tempo è in genere incapace di affrontare questa consapevolezza e tutte le sue implicazioni. Quindi milioni di persone, in misura maggiore o minore, vivono ansie emotive, tensioni e conflitti irrisolti che spesso si esprimono sotto forma di nevrosi e di una generica mancanza di gioia che intride la loro vita di frustrazione e amarezza, e aumenta man mano che invecchiano e vedono la tomba che gli si spalanca davanti. Dato che sempre meno persone trovano conforto nella religione come paraurti tra loro e il momento finale, credo davvero che inconsciamente traggano una consolazione perversa dall’idea che, in caso arrivasse la guerra nucleare, il mondo morirebbe insieme a loro. Dio è morto, ma la bomba sopravvive; quindi non sono più soli nella terribile vulnerabilità del loro essere mortali. Una volta Sartre ha scritto che, se c’è una cosa che renderebbe felice un condannato a morte, è sentirsi dire che una cometa colpirà la terra il giorno dopo e distruggerà ogni creatura vivente. Non si tratta tanto di un desiderio di morte collettivo o di un bisogno irrefrenabile di autodistruzione, quanto piuttosto di un riflesso della spaventosa e straziante solitudine della morte. Questo è davvero pernicioso, naturalmente, perché annulla il furore e l’indignazione che dovrebbero galvanizzare il mondo, inducendolo a disinnescare una situazione in cui una manciata di leader politici da entrambe le partì sono effettivamente pronti a incenerire milioni dì persone per un qualche senso deviato di orgoglio nazionale.
PLAYBOY: Lei è pacifista?
KUBRICK: Non sono sicuro di cosa significhi veramente pacifismo. Sarebbe stato un atto moralmente superiore sottomettersi a Hitler per evitare la guerra? Non credo. Ma ci sono state anche guerre tragicamente insensate, come la prima guerra mondiale e l’attuale pasticcio in Vietnam, e la pletora di guerre religiose di cui è costellata la nostra storia. Quello che rende la situazione odierna così diversa da qualsiasi caso precedente, però, è che, per la prima volta nella storia, l’uomo ha i mezzi per distruggere tutta la specie, e forse anche il pianeta. Il problema che s’incontra volendo rappresentare tutto questo al pubblico è che sembra troppo astratto e irreale; è un po’ come dire: «Il sole morirà fra un miliardo di anni». Quello che serve come primo passo correttivo, anche se minimo, è un’alternativa concreta all’attuale equilibrio del terrore che la gente possa capire e sostenere.
PLAYBOY: Crede che una qualche forma di governo mondiale onnipotente, o qualche sistema sociale, politico ed economico radicalmente nuovo, potrebbe affrontare in modo intelligente e lungimirante problemi come la guerra nucleare?
KUBRICK: Be’, nessuno dei sistemi attuali ha funzionato molto bene, ma non so con cosa potremmo sostituirli. L’idea di un gruppo di re-filosofi che gestiscano ogni cosa con paternalismo benevolo e onnisciente attira sempre, ma dove li troviamo i re-filosofi? E se anche li trovassimo, come si reperiscono i loro successori? Bisogna proprio ammettere che la società democratica, con tutte le tensioni e le contraddizioni che le sono proprie, è incontrovertibilmente il sistema migliore che sia mai stato escogitato. Credo sia stato Churchill a osservare che la democrazia è il peggior sistema sociale del mondo, fatta eccezione per tutti gli altri.
PLAYBOY: L’hanno accusata di rivelare, nei suoi film, una forte ostilità verso la moderna società industriale dell’Occidente democratico, e un particolare antagonismo (che coesiste, in modo ambivalente, con una specie di fascino morboso) nei riguardi dell’automazione. I suoi detrattori affermano che questo era particolarmente evidente in 2001, dove il cattivo del film, il computer HAL 9000, era in un certo senso l’unico essere umano. Crede che le macchine stiano diventando sempre più simili agli uomini, e gli uomini più simili alle macchine? Ravvisa un’eventuale lotta per la supremazia tra i due?
KUBRICK: Prima di tutto non sono per niente ostile alle macchine, anzi è il contrario. Non c’è alcun dubbio, però, che stiamo per entrare in una «meccanarchia», e che il nostro rapporto già complesso con i macchinari diventerà ancora più complesso, man mano che le macchine diventeranno sempre più intelligenti. Alla fine dovremo condividere questo pianeta con macchine la cui intelligenza e capacità supereranno di gran lunga le nostre. Ma l’interrelazione, se verrà gestita in modo intelligente dall’uomo, potrebbe avere un effetto di grande arricchimento per la società.
Guardando nel futuro remoto, immagino non sia inconcepibile che si possa evolvere una sottocultura di robot-computer semisenzienti che un giorno potrebbero decidere di non avere più bisogno degli uomini. Forse avete sentito la storia del computer più avanzato del futuro: per mesi gli scienziati pensano alla prima domanda da fargli, e finalmente trovano quella giusta: «Esiste Dio?» Dopo un attimo di ronzii e luci lampeggianti esce una scheda, su cui sono perforate le parole: «ADESSO SÌ».Ma questo problema è remoto e non passo le notti in bianco a preoccuparmene; sono convinto che i nostri tostapane e televisori siano completamente addomesticati, anche se non mi sentirei altrettanto sicuro a proposito dei circuiti telefonici integrati, che a volte mi sembrano dotati di una maligna volontà propria.
PLAYBOY: Parlando di elettronica e meccanica futurista, gli oggetti incredibilmente elaborati e le scene di viaggi spaziali di zooi sono stati acclamati (anche dai critici ostili) come una pregevole svolta cinematografica. Com’è riuscito a ottenere effetti speciali tanto notevoli?
KUBRICK: Non posso rispondere in modo tecnico a questa domanda nel tempo che abbiamo a disposizione, ma posso dire che per produrre quegli effetti speciali abbiamo dovuto concepire, progettare e costruire davvero nuove tecniche. Per farlo ci sono voluti diciotto mesi e sei milioni e mezzo di dollari su un budget totale di dieci milioni e mezzo. Credo si debba rendere grande merito a Robert H. O’Brien, il presidente della mgm, che ha avuto abbastanza fiducia nel concedermi di perseverare in quella che a volte deve essere sembrata un’impresa senza fine. Ma sentivo che era necessario girare questo film in modo tale che ciascun effetto speciale fosse del tutto convincente, cosa che non era mai stata realizzata prima.
PLAYBOY: Grazie a quegli effetti speciali, 2001 è senza dubbio la raffigurazione più vivida dei viaggi spaziali nella storia del cinema; eppure lei ha confessato che si rifiuta di volare, anche su un aereo di linea. Perché?
KUBRICK: Immagino che si riduca tutto a una tremenda consapevolezza della propria mortalità. La nostra capacità (non comune ad altri animali) di concettualizzare la nostra fine ci crea dentro terribili tensioni psichiche; che ci piaccia o meno ammetterlo, ogni uomo ha in petto la paura di quella consapevolezza basilare, che come un furetto gli rosicchia l’Io e il senso della vita. Per certi versi è una fortuna che il corpo, e la soddisfazione dei suoi bisogni e delle sue funzioni, giochi un ruolo così essenziale nella nostra vita; quell’involucro fisico crea un paracolpi tra noi e la consapevolezza sconvolgente che solo pochi anni di esistenza separano la nascita dalla morte. Se l’uomo si soffermasse davvero a pensare alla propria fine imminente e alla propria agghiacciante futilità e solitudine nel cosmo, di sicuro impazzirebbe o soccomberebbe a un annichilente senso di inutilità. Perché, potrebbe chiedersi, deve prendersi la briga di scrivere una grande sinfonia, o darsi da fare per guadagnarsi da vivere, o persino per amare, quando non è altro che un microbo passeggero su una particella di polvere che rotea nell’inimmaginabile immensità dello spazio?
Quelli che possiedono una sensibilità che li costringe a vedere la propria vita in questa prospettiva (e che riconoscono che non c’è uno scopo alla portata della loro comprensione, e che tra una miriade infinita di stelle la loro esistenza è sconosciuta e mai narrata) possono cadere preda fin troppo facilmente della massima anomia. Capisco bene perché per Matthew Arnold la vita sia diventata «una distesa sempre più buia […] dove eserciti ignoranti si affrontano nella notte» e non c’è «né amore, né luce, né certezza, né pace, né sollievo nel dolore». Ma anche per quelli a cui manca la sensibilità per capire la loro transitorietà e la loro insignificanza, questa consapevolezza rudimentale sottrae senso e scopo alla vita; è il motivo per cui «la massa degli uomini conduce vite di quieta disperazione», e per cui tanti di noi trovano la propria vita vuota di significato tanto quanto la propria morte.
Le religioni del mondo, per quanto possano essere di ristrette vedute, hanno effettivamente fornito una specie di consolazione a questo grande dolore; ma ora che il clero proclama la morte dì Dìo e, per citare di nuovo Arnold, «il mare della fede» si ritira, nel mondo, con «un lungo ruggito che arretra al respiro del vento della notte», l’uomo non ha più stampelle a cui appoggiarsi; e non ha più speranze, per quanto irrazionali, di dare uno scopo alla propria esistenza. Questa disastrosa consapevolezza della nostra mortalità sta alla base di molte malattie mentali più di quanto, sospetto io, gli stessi psichiatri si rendano conto.
PLAYBOY: Se la vita è così priva di senso, lei crede che valga la pena viverla?
KUBRICK: Sì, per quelli di noi che in qualche modo riescono ad affrontare la propria mortalità. La stessa mancanza di senso della vita costringe l’uomo a creare un senso proprio. Naturalmente i bambini cominciano la propria vita con la facoltà di meravigliarsi intatta, e la capacità di provare una gioia totale alla vista di qualcosa di semplice come il verde di una foglia. Man mano che crescono, però, la consapevolezza della morte e della decomposizione comincia a influire sulla loro coscienza e a erodere subdolamente la loro gioia di vivere, il loro idealismo… e la loro presunzione di immortalità. Man mano che un bimbo matura, si vede intorno solo morte e dolore, e comincia a perdere fiducia nella bontà intrinseca dell’uomo. Ma se è sufficientemente forte (e fortunato) può emergere da questo crepuscolo dell’anima fino a raggiungere una rinascita dello slancio vitale. Per via della sua consapevolezza di quanto è insensata la vita, e malgrado questo, riesce a crearsi un nuovo senso dello scopo e della conferma. Forse non riuscirà a ritrovare la stessa facoltà di meraviglia pura che aveva alla nascita, ma può riuscire a dar forma a qualcosa di molto più duraturo e incoraggiante. L’aspetto terribile dell’universo non è la sua ostilità, ma la sua indifferenza: se però riusciamo a fare i conti con questa indifferenza e ad accettare le sfide della vita all’interno dei limiti della morte (per quanto mutevoli l’uomo sia in grado di renderli), la nostra esistenza in quanto specie può avere un senso e una realizzazione autentici. Per quanto sia vasta l’oscurità, dobbiamo procurarci da soli la nostra luce.
PLAYBOY: Riusciremo a trovare un qualche senso profondo o una realizzazione, come individui o come specie, finché continuiamo a vivere con la consapevolezza che tutta la vita umana potrebbe essere annientata in qualsiasi momento da una catastrofe nucleare?
KUBRICK: Dobbiamo riuscirci per forza, perché in ultima analisi forse non esiste alcun modo sensato di eliminare la minaccia dell’autoestinzione senza cambiare la natura umana: anche se si riuscisse a disarmare tutti i paesi riducendoli ai soli archi e frecce, comunque non saremmo in grado di eliminare dal cervello degli uomini le tracce delle conoscenze necessarie a costruire testate nucleari, o la perversione che ci permette di giustificarne razionalmente l’uso. Dati questi due imperativi categorici, in un mondo disarmato, il primo paese che accumulerà anche solo poche armi avrebbe un grande incentivo a usarle subito. Si potrebbe sostenere che ci sono più probabilità di un uso occasionale delle armi nucleari in un mondo del tutto disarmato, anche se c’è minor rischio di un’estinzione globale; mentre in un mondo armato fino ai denti ci sono meno probabilità di usarle, ma maggiori possibilità di estinzione se vengono usate.
Se sì cerca di allontanarsi dalla prospettiva terrestre e di guardare questo tragico paradosso col distacco di un extraterrestre, tutto è completamente irrazionale. Adesso l’uomo, come lei sottolinea, ha il potere di sterminare tutta la specie in un unico momento di follia incandescente; la nostra generazione potrebbe essere l’ultima sulla faccia della terra. Basterebbe un errore di calcolo e tutti i progressi della storia potrebbero svanire in un fungo atomico; un passo falso e tutte le aspirazioni e le lotte durate millenni verrebbero annientate. Un corto circuito in un computer, un pazzo in una struttura di comando e potremmo cancellare il patrimonio culturale dei miliardi di uomini morti dagli albori dell’umanità, stroncando le speranze dei miliardi che devono ancora nascere: il genocidio nella sua forma più efferata. L’ironia della sorte è che la scoperta dell’energia nucleare, con il suo potenziale distruttivo, costituisce anche il primo, incerto passo nell’universo che deve essere compiuto da tutti i mondi intelligenti. Purtroppo, il tasso di mortalità infantile tra le civiltà emergenti del cosmo potrebbe essere molto alto. Non che la cosa sia importante, se non per noi: la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante su scala cosmica. Agli occhi di un osservatore nella nebulosa di Andromeda, il segno della nostra estinzione non sarebbe più appariscente di un fiammifero che si accende per un secondo nel cielo; e se quel fiammifero un giorno avvamperà nel buio, non ci sarà nessuno a piangere una razza che ha usato un potere con cui avrebbe potuto mandare un segnale luminoso tra le stelle per accendere la propria pira funeraria. Sta a noi la scelta.
1. Si veda l’articolo «Deep Thinkers», Playboy, agosto 1968. [n.d.c.]
2. Droga tranquillante che, nel romanzo Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, viene somministrata alla popolazione per mantenerla in uno stato di passività e felicità indotta. [n.d.t.]
Pubblicato su Playboy, settembre 1968