mercoledì 26 ottobre 2016

Bob Dylan, qualcosa è cambiato nella nozione di letteratura

IL NOBEL A DYLAN

Dylan, qualcosa è cambiato
nella nozione di letteratura

Il fatto che il nome del cantautore americano circolasse da anni come candidato non ha attenuato la sorpresa per la decisione presa a Stoccolma



Paolo Di Stefano
13 ottobre 2016 (modifica il 13 ottobre 2016 | 23:17)

È curioso come la giornata di ieri, con il Nobel a Bob Dylan, abbia saldato il cerchio di un’idea inedita di letteratura che a Stoccolma era già affiorata quasi vent’anni fa con l’assegnazione del massimo riconoscimento a Dario Fo. E proprio nel giorno in cui il mattatore del Mistero buffo ha lasciato la scena del mondo. Il fatto che il nome del cantautore americano circolasse da anni come candidato non ha attenuato la sorpresa: a un cantante — sia pure grandissimo, sia pure eccelso — il Nobel della Letteratura con la L maiuscola. Così come nel 1997 si era detto: a un giullare — sia pure grandissimo, sia pure eccelso — il Nobel della Letteratura con la maiuscola. Quell’anno, se proprio doveva essere un italiano, ci si aspettava il trionfo di Mario Luzi o di Andrea Zanzotto e invece gli accademici tirarono fuori dal cappello il nome di Dario Fo. Quello stesso Fo di cui Pasolini, chissà poi perché, disprezzava l’«audiovisività» sottolineando la bruttezza dei suoi testi. Quello stesso «bravo Dario Fo» che Fortini mise accanto al «bravo Giorgio Gaber», sconsigliando di andare ad ascoltarli. Quello stesso Fo che Calvino, attentissimo a ogni forma di cultura popolare e popolareggiante, non citò mai, neanche di striscio.
Dal 1997 a oggi, Grass e Saramago, Coetzee e Vargas Llosa, Pamuk e Alice Munro. È vero che sull’eccellenza assoluta di alcuni nomi sarebbe lecito discutere (Jelinek, Le Clézio…), ma sempre scrittori erano. Comunque, se vogliamo dare retta alle indicazioni (volontarie o involontarie) che provengono da Stoccolma, con il premio a Bob Dylan viene il dubbio che qualcosa, nella nozione di letteratura, sia davvero cambiato: difficile, forse inutile, dire se in meglio o in peggio, ma qualcosa è cambiato. Qualcosa di importante che riguarda la specificità della scrittura letteraria (poetica o narrativa) così come si è andata configurando da secoli. In sostanza la materia della letteratura, così come la intendono a Stoccolma, non sarebbe più esclusivamente la scrittura ma comprenderebbe un’altra dimensione (persino prevalente sul testo), quella musicale e quella esecutiva. Un’arte ibrida, qualcuno direbbe, in negativo, «bastarda». Solo in virtù di questa nuova idea si può considerare legittimo il Nobel della Letteratura a un attore (nel 1997) e a un cantante (2016), sia pure altrettanto straordinari come attore e come cantante, i cui testi non avendo alcuna autonomia esigono di essere sostenuti dalla gestualità e dalla mimica o dalla musica e dal canto. Anzi, a dirla tutta non ambiscono neppure ad avere un valore letterario perché appartengono a un’altra sfera. Uno scrittore è (o pretende di essere) uno scrittore avendo a che fare con la scrittura, così come un chimico è un chimico, un fisico è un fisico e un economista è un economista. Si rimarrebbe stupiti se l’Accademia svedese premiasse per la Fisica un geniale pittore che abbia escogitato nuove miscele di colori e per l’Economia un geniale stilista che abbia immesso nel mercato bellissimi tessuti di successo.
Del resto, ieri una motivazione l’Accademia svedese l’ha pur elaborata. Dice che Bob Dylan è stato capace «di creare una nuova espressione poetica nella grande tradizione della canzone americana». È il vecchio equivoco in cui inciampò anche Fernanda Pivano parlando di De André come del più grande poeta della sua epoca, mentre erano in vita Luzi, Giudici e Zanzotto? Può darsi. Che c’entra Bob Dylan con Eliot, Montale e Brodskij? C’entrerebbe solo se, volendo salvaguardare lo specifico letterario, si cambiasse il «Nobel della Letteratura» in un più generico «Nobel delle Arti» o qualcosa di simile. C’entra solo prendendo atto di una radicale svalutazione del testo come elemento distintivo e irrinunciabile della letteratura a favore di altre componenti: la performance che preveda anche musica e/o recitazione. Insomma, non più un’arte che richieda la lettura silenziosa individuale ma una rappresentazione pubblica consegnata all’ascolto collettivo. Resta da chiedersi se si sia trattato di una scelta un po’ distratta del tipo: ma sì, finalmente diamoglielo ‘sto Nobel, a Dylan; di una deliberata «spericolatezza» tipicamente senile e tardivamente postmoderna degli accademici; di una dimostrazione di disprezzo o di stanchezza per la Letteratura con la maiuscola. Oppure infine di una lucida presa d’atto sull’«audiovisività» pervasiva che sempre più prende il sopravvento sul rapporto intimo tra scrittura e lettura.

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