martedì 19 aprile 2016

Luisa Mariani / Brera, il volto, la maschera

Ruffini. Cade la maschera

Brera, il volto, la maschera

Libere associazioni

30 GIU 2014
di LUISA MARIANI


Con la scoperta dell’inconscio la psicoanalisi dà voce e legittimazione all’ambiguità, al mistero, all’inconoscibile che è parte dell’umano e differenzia, di conseguenza, l’essere dall’apparire. La maschera e il volto sono immagini significative che parlano della dualità dell’essere umano, dove l’essenza, la verità ultima della persona sembra davvero essere inconoscibile, impensabile, irraggiungibile e suscita un terrore senza nome tale da esigere un nascondimento.
Gli artisti molto prima degli scienziati hanno visto, intuito, sognato, rappresentato queste complessità del mondo interno e, a riprova di questo, a Milano-Brera la galleria Antichità Baroni sta ospitando una singolare esposizione di quadri e sculture dal titolo Il volto e la maschera, titolo intrigante, ricco di mistero che solletica il pensiero: l’ampio locale arredato di mobili d’epoca, specchiere, lampadari importanti e suppellettili curiose è arricchito, infatti, di opere di artisti che hanno raccontato con immagini pittoriche e raffigurazioni plastiche quello straordinario doppio che è appunto il volto e la maschera.
Entrando nella galleria si è subito investiti dall’incontro con la bellezza, il cui potenziale perturbante è amplificato dalla presenza forte di queste opere che si fanno avanti con uno sguardo prepotente tanto quanta è la prepotenza della verità emotiva che trasmettono. Opere che toccano in profondità i visitatori perché parlano il linguaggio comune, universale dell’uomo che in esse si riconosce: sono figure che rivelano la poliedricità di cui è impastato l’essere umano, urlano la fatica del vivere, il disagio della civiltà, la paura delle emozioni, il terrore dell’incontro, ma esprimono anche la speranza nella vita, la serenità dei buoni pensieri e l’appagamento soddisfacente. Perché, a volte, il volto ha bisogno della maschera? È una questione di identità celata? o mai costruita? o mai scoperta? o mai riconosciuta?
Abbiamo, in realtà, tanti buoni motivi per nasconderci: lo facciamo per vergogna, per senso di colpa, per timidezza, per pudore, per rabbia, per vendetta, per provocazione, per celare un vuoto, forse anche per poter vivere senza inibizioni sicuri di non essere scoperti. Alla fine probabilmente ci si nasconde nella speranza inconscia di essere cercati e poi trovati. Forse è proprio questo che chiedono le opere esposte, anelano un incontro, un rispecchiamento, un rinvenimento e sanno che è dall’accoppiamento con lo sguardo dell’altro che si creerà la loro verità.
Da subito mi guarda in maniera ammiccante Nudo con maschera di Giulio Ruffini, è un dipinto ad olio su compensato, che ritrae un nudo di donna, provocatoriamente stesa su un divano; il profilo del corpo mostra un’inarcatura felina, la muscolatura è sottolineata in maniera evidente, le braccia, avvolte da lunghi guanti neri che la fasciano fino al gomito, sono sensualmente aggressive, una mano regge una maschera bianca che copre tutto il viso della donna, solo i capelli ondeggiano in libertà e fanno da cornice al volto che non c’è. Quali saranno le sue reali fattezze, quale l’espressione degli occhi, quali i pensieri che potrebbe essere rivelati se non ci fosse la maschera?
Il corpo parla un linguaggio chiaro, esprime disponibilità sessuale, desiderio, forse impudicizia, spregiudicatezza; è comunque un corpo luminoso che riverbera dallo sfondo scuro dando luce alla rappresentazione. Ma i pensieri sono inguardabili, forse sono bui e confusi e non così nitidi come i contorni stagliati delle membra, magari la mente non conosce la sensualità erotica che il corpo sembra comunicare o addirittura può essere affondata in un non luogo dove il desiderio è allagato: forse è una solitudine che cerca disperatamente un contatto per essere rivitalizzata. Sarebbe molto doloroso se la nudità esibita non corrispondesse alla sua verità, ma ad un desiderio altro, imperioso ed impositivo. Questa idea è inquietante, d’altra parte è con questo interrogativo sibillino che si congeda il quadro, chiedendomi di tollerare di sostare nel dubbio ed invitandomi a sognare, per farlo esistere, una sua possibile storia.
Più riservata è l’adolescente che fa pudicamente capolino nella stanza, ha un atteggiamento composto, il viso è interamente nascosto da una maschera bianca, il busto è rigorosamente statico. In questo bellissimo La maschera Ruffini rappresenta magistralmente l’adolescenza, età di passaggio, di scoperta di sé, di nascondimenti, di costruzione dell’identità, di oscillazione tra stati mentali contrapposti, momento di fluttuazioni tra euforie e depressioni, ma soprattutto età in cui la domanda ontologica è: chi sono io? La maschera adombra bene questo inquietante enigma dove il sé si colora di differenti aspetti e dove l’adolescente fatica a trovarsi e a farsi trovare. Per l’adolescente la maschera è uno stato fisiologico funzionale all’attraversamento del guado della confusione, è paragonabile al segreto, è il salvagente che lo accompagna nella ricerca appassionata e spaventata del suo volto.
Ma ecco, per contrasto, farsi presente nella sua perentoria tridimensionalità l’adolescente di Biancini, sublime scultura in bronzo che dà corpo e anima alla contessina Zanelli che non teme di mostrarsi nella sua verità: il volto aperto, pudicamente sorridente, dai lineamenti puri evidenziati dalle treccine che le conferiscono un’aria innocente, un’espressione lieve che comunica serenità. La ragazzina non pare toccata dai turbamenti della crescita, ma è come se fosse ancora protetta dall’esperienza infantile che l’ha tenuta al riparo da sentimenti e sensazioni turbolente per cui non ha bisogno di nascondimenti, ma può apparire a viso scoperto, seria e tranquilla. I suoi genitori interni sono saldi e la guidano con mente ferma garantendole sicurezza, la ragazzina può guardare alla vita con fiducia ancorata ad un’oasi di soavità.
Lascio con nostalgia la contessina e vengo fulmineamente attratta dal capo di un giovanetto mollemente adagiato su un cuscino, che abbaglia per la bellezza e per la luce che emana. Il marmo è magicamente plasmato da Francesco Wildt, la sua mano sembra averlo accarezzato in maniera così dolce e appassionata da renderlo liscio e trasparente come se fosse cera e da trasfondergli un alito di grazia che lo apparenta al divino. Richiama alla mente l’immagine della idealità. Il viso è sereno, quasi sorridente, trasognato: quale storia si tesserà nella sua mente? Viene voglia di chiedergli di essere presi per mano per essere accompagnati nel suo sogno e danzare con lui in un luogo meraviglioso. Sembra talmente abbandonato ad una dimensione altra che ci si domanda se il ragazzo stia davvero dormendo oppure sia morto. Qualunque sia il suo stato comunica beatitudine, appagamento, in lui non si percepisce ombra che richiami un bisogno, ma sembra essere in uno stato di grazia, in intimo contatto con la sua verità.
Saluto teneramente il bel dormiente e, andando a zonzo per la galleria, sento ad un tratto come un battito d’ali che solletica l’aria: è la maschera-farfalla di Munari che si libra leggera, quasi impalpabile, e mi sfiora il volto. Poche linee decise, il tratto essenziale del disegno di un bambino, colori delicati che non osano imporsi per non profanare il segno sottile che delinea un volto senza contorno, ma che è riempito della sagoma dell’insetto che nelle sue volute va a rappresentare il mento puntuto, le guance rosate, il naso percettivo, gli occhi sornioni e la fronte corrucciata del pittore. È un viso sorridente, un po’ furbesco perché dietro le linee infantili si maschera l’esperienza di un adulto che risignifica la vita. Le antenne della farfalla simbolizzano la funzione del pensare con la capacità di percepire, di cogliere, elaborare i messaggi che provengono dal mondo esterno, sono anche messaggi sensoriali che vengono captati dalla bocca, dalle narici, dalla pelle e poi sono veicolati nella mente che è lì operosa, pronta a metabolizzare. È un volto-pensiero, (le antenne) e un volto-sensualità, (le labbra carnose, il naso annusatore, gli occhi penetrativi). Suggerita in quei tratti sottili è l’immagine di una percezione di sé leggera, ma netta, dove appaiono aspetti di femminilità adombrati nella farfalla che racchiude però anche sottolineature di virilità evidenziate, per esempio, nella forma del naso. Il maschile e il femminile, dunque, artisticamente svelati da Munari in questo bel sogno di sé che raffigura il suo ritratto.
Per contrasto all’evanescenza del disegno di Munari ecco imporsi con forza tragica una serie di bellissime sculture che rappresentano le maschere. Maschere che vivono una vita propria e che hanno la capacità di comunicare con grande intensità, quasi con sfida, le emozioni che connotano l’umano e lo fanno senza pudore, con una immediatezza e sincerità che, toccando profondamente, crea sconcerto, sgomento. Sono maschere-specchio, maschere rivelatrici, maschere impudiche perché svelano impietosamente invece che occultare le più segrete innervazioni dell’anima. L’opera di Alloati, in particolare, richiama le maschere del teatro greco di cui conserva la tragicità e l’essenzialità dell’emozione che vuole rappresentare.
È con un balzo dell’anima che incontro le pieghe profonde della maschera di Melandri-Mazzolani che rappresenta il volto vissuto di un uomo tragico, si indovinano i pensieri tormentati e selvatici che ne hanno violentato l’anima e il corpo; è una maschera-volto che parla, che racconta una storia difficile, è una narrazione intensa, si sente l’odore della tristezza, ogni riga del viso è una frase dolorosa, il cavo e il concavo sono avvallamenti di lacrime e montagne di faticosità. Lo sguardo bucato appare severo, implacabile e tagliente, gli occhi vuoti hanno visto tutto e contengono un sapere infinito, il sapere di una vita e sulla vita, si sente allo stesso tempo una ricchezza, una pienezza che potrebbero essere declinate con diverse modalità espressive, in versi, in musica, in immagini e che sembra trattenuta in quella apparente staticità della forma: dietro il gelo, un fuoco. Scoprirò poi con grande emozione che la maschera, che mi aveva comunicato un’inspiegabile vibrazione sonora, rappresenta l’uomo Beethoven.
Molti altri e tutti di una straordinaria bellezza sono i volti e le maschere esposti nella mostra: come dimenticare la raffinata dolcezza di Wally o l’abbagliante sinuosità di Talia di Drei, o la composta signorilità di Bianca Giardini di Biancini o il misticismo del san Francesco di Minerbi? O come non essere solleticati dalle maschere di Bertozzi Casoni o dall’inquietante Malinconia di Melandri? E come non essere turbati dalla stupenda mostruosità delle cartapeste di Cambellotti?
È davvero emotivamente faticoso dire basta e uscire dalla relazione intensa che si è creata dentro la “comunità” delle opere artistiche che danno vita a Il volto e la maschera. È come un campo magnetico da cui è faticoso svincolarsi così come è difficile uscire da un sogno coinvolgente, è faticoso come lo è intrinsecamente ogni esperienza di separazione, è faticoso perché si tratta di interrompere una trama che si stava intessendo dei continui mutui scambi che sono germogliati tra me e questi personaggi. Entrare nel mondo magico dell’arte apre a scenari imprevedibili e infiniti, giocare e mettersi in gioco fa incontrare l’ignoto, è stato davvero emozionante scoprire sulla mia pelle come sia diversa la maschera anonima appoggiata sul volto della persona, come nei dipinti di Ruffini, dalla maschera espressiva che vive di vita propria: la prima ha una funzione di nascondimento, la seconda invece attua uno svelamento delle emozioni, anzi le rappresenta in maniera forte, disinibita e con la fissità della coazione a ripetere.
È stato emozionante, dicevo, mettermi in ascolto dei pensieri delle maschere, sentirle vive, vibranti, davvero “persone” come erano designate nella loro funzione originaria. Maschera anche con l’accezione di strega come significata nel tardo latino, o in età arcaica con l’attribuzione della funzione simbolica di trasfigurare l’uomo, di dotarlo di poteri soprannaturali che lo mettessero in contatto con gli dei, maschera quindi anche come veicolo di congiunzione col divino. E non è forse divino il segreto, la verità ultima, l’inconoscibile che custodiamo gelosamente nel nostro mondo interno?
È vero che ogni relazione è trasformativa, porta a cambiamenti e induce a generare nuovi pensieri: questo incontro è stato per me la scoperta della Maschera non più pensata come bugia avvilente l’uomo e distruttiva della mente, ma anche come metafora, difesa necessaria per digerire dolori intollerabili in certi momenti della vita, riconoscendo che, come dice Schopenhauer “intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera”.
Luisa Mariani
Psicologa, psicoterapeuta, docente di psicoterapia dell’adolescente e di teoria psicoanalitica presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Milano, sono autrice di contributi pubblicati su riviste specializzate riguardanti la supervisione e il gruppo clinico come strumenti di apprendimento nella formazione in psicoterapia.
Ho organizzato corsi e convegni sull’età evolutiva per genitori, insegnanti ed operatori e collaboro a quotidiani e periodici con articoli sulla cultura psicoanalitica, sulle relazioni familiari e sul rapporto tra cinema/arte e psicoanalisi. Conduco seminari per psicoterapeuti sui temi dell’ascolto del corpo, del pensare per immagini e del recupero della capacità di “sognare” come strumenti clinici nella psicoterapia ed è in questo senso che mi appassiona utilizzare il cineforum come mezzo di formazione. D’altra parte se il sogno è all’origine della psicoanalisi e della sua teoria della mente, lo è anche all’origine della creazione di immagini artistiche, di quelle cinematografiche in particolare, ma anche di quelle pittoriche, scultoree, letterarie e musicali.
Mi sento profondamente in sintonia con quei modelli teorici della psicoanalisi secondo cui nella pratica clinica “l’analista deve essere capace di costruire una storia.” (W.R. Bion) e dove lo psicoterapeuta nella sua funzione interpretativa “Deve dunque avere familiarità con quelle sorgenti delle fantasticherie proprie dello scrittore creativo …” (G. Di Chiara): è lasciandomi andare in questa corrente immaginopoietica e visionaria che sognerò e narrerò “storie”.


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