sabato 25 luglio 2020

Jack London / Martin Eden XXI - XXX

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Jack London
MARTIN EDEN

Venne una bellissima giornata autunnale, calda e dolce, piena dei fremiti del mutare della stagione, illuminata dal pallido sole dell’estate di San Martino californiana e mossa da lievi brezze che non turbavano l’immobilità dell’aria. Sottili foschie violette, che non erano vapori ma leggeri manti di colore, si nascondevano nei recessi delle colline. San Francisco era posata sulle sue alture come una nuvola di fumo e la baia ai suoi piedi era una macchia corrusca di metallo fuso in cui le imbarcazioni erano immobili o trasportate dalla lenta marea. Il lontano Tamalpais, appena visibile nell’argentea nebbiolina, si ergeva massiccio sul Golden Gate, che si stendeva nella pallida luce dorata del sole al tramonto. Al di là di esso il Pacifico, nella sua indistinta vastità, raccoglieva sul proprio orizzonte masse di nubi che si dirigevano verso terra, presagio del primo infuriare dell’inverno.
Benché prossima alla fine l’estate resisteva, nascondendosi fra le colline, accentuando le tonalità violacee delle vallate, intessendo un sudario di nebbia con i declinanti ardori e i desideri ormai appagati, spirando nella quieta contentezza di essere vissuta e di averlo fatto bene. Fra le alture, sul loro poggio preferito, Martin e Ruth si sedettero a fianco a fianco, ed egli le declamò i sonetti d’amore della donna che aveva amato Browning come a pochi uomini è stato concesso di essere amati.
Ma la lettura languiva. Troppo forte, intorno a loro, era il fascino di quella fuggevole bellezza. Lo splendido anno moriva come era vissuto, con una voluttà intensa e innocente, mentre l’aria, carica dell’inebriante felicità dei ricordi, penetrava in loro languida e irreale, indebolendo le fibre della risoluzione e nascondendo il volto della moralità, o del buon senso, con il velo di una caligine violacea. Martin si sentiva struggere di tenerezza e quando vaganti fantasmi di brezza mossero i capelli di lei che gli sfiorarono il viso, la pagina che leggeva cominciò a ballargli davanti alla vista.
«Credo che lei non ricordi una parola di quello che ha letto», gli disse Ruth quando lui perse il segno.
Martin la guardò con occhi ardenti e stava per impappinarsi quando gli venne alle labbra una pronta risposta.
«Penso che neanche lei ricordi nulla. Di che cosa parlava l’ultimo sonetto?».
«Non lo so», disse lei con una risata sincera. «L’ho già dimenticato. Non leggiamo più. È una giornata così bella».
«Per qualche tempo non potremo tornare sulle colline», disse Martin con tono grave. «C’è una tempesta che si addensa sul mare».
Il libro gli sfuggì dalle mani e cadde al suolo, ed essi rimasero seduti in silenzio senza far nulla, guardando quella fantastica baia con occhi che non vedevano la realtà perché persi dietro ai sogni. Ruth lanciò un’occhiata obliqua al collo di lui. Non voleva appoggiarsi a quell’uomo, ma si sentiva attratta da una forza che era fuori di lei, più forte della gravitazione, inevitabile come il destino. I due corpi erano a brevissima distanza e si toccarono senza che Ruth lo volesse. La spalla di lei sfiorò quella di lui con la leggerezza con cui la farfalla si posa sul fiore, e avvertì dall’altra parte un contatto altrettanto lieve. Tuttavia Ruth lo sentì e fu scossa da un tremito. Avrebbe avuto il tempo di ritrarsi, ma ormai era diventata un automa. Le sue azioni sfuggivano al controllo della volontà – non pensava neppure al controllo e alla volontà in quella dolce follia che si era impadronita di lei. Il braccio di lui cominciò a scivolarle dietro avvolgendola e lei ne seguiva il lento movimento in un tormento sublime. Attendeva senza sapere cosa, con il respiro ansimante, le labbra secche e brucianti, le tempie che rimbombavano e un’ansia febbrile nel sangue in tumulto. Il braccio che la cingeva si sollevò e l’attirò verso di lui con moto lento e carezzevole. Lei non poté più aspettare: con uno stanco sospiro e un movimento impulsivo, spontaneo, spasmodico, in cui mise tutta se stessa, gli posò il capo sul petto. Martin chinò la testa rapidamente, e mentre le labbra di lui si avvicinavano, quelle di lei gli volarono incontro.
Questo deve essere l’amore, pensò Ruth nell’unico momento di razionalità che le fu concesso. Se non era amore era un atto vergognoso. E dunque doveva essere amore. Amava l’uomo le cui braccia la circondavano e le cui labbra premevano le sue. Si strinse più forte a lui rannicchiando il corpo. E un attimo dopo, sciogliendosi dall’abbraccio, si sollevò all’improvviso e posò le mani, esultante, sul collo abbronzato di Martin Eden. Tale fu la felicità nell’appagamento di quel desiderio che emise un lieve gemito, lasciò cadere le mani e rimase semisvenuta nelle sue braccia.
Non una parola era stata pronunciata, e non una parola venne detta per molto tempo. Due volte egli si chinò a baciarla, e ogni volta le labbra di lei incontrarono quelle di lui timidamente mentre il suo corpo si raggomitolava felice. Ruth si aggrappava a lui incapace di staccarsi, ed egli rimaneva seduto sostenendola in parte con le braccia e fissando con occhi che non vedevano la massa indistinta della grande città al di là della baia. Una volta tanto il suo cervello non aveva visioni, ma solo colori, luci e fiamme che pulsavano caldi come il giorno e come il suo amore. Si piegò su di lei e sentì che parlava.
«Da quanto tempo mi ami?», sussurrò lei.
«Fin dall’inizio, dal primo momento in cui ho posato gli occhi su di te. Sono stato subito pazzo di te e in tutto questo tempo la mia pazzia è aumentata. Ora sono al massimo della follia, sono quasi privo di senno per la gioia che ho provato».
«Sono contenta di essere una donna, Martin… caro», disse lei dopo un lungo sospiro.
Lui la strinse ripetutamente fra le braccia e quindi chiese:
«E tu? Quando te ne sei accorta?».
«Oh, l’ho sempre saputo, fin quasi dall’inizio».
«E io che ero cieco come una talpa!», esclamò lui con una vena di irritazione nella voce. «Non l’avrei mai immaginato fino a poco fa, quando… quando ti ho baciata».
«Ma non intendevo questo». Ruth si staccò leggermente da lui e lo guardò. «Volevo dire che ho saputo che tu mi amavi quasi fin dall’inizio».
«E tu?», insistette lui.
«Mi è venuto all’improvviso». Lei parlava molto lentamente, con gli occhi caldi, dolci e teneri e un lieve, persistente rossore sulle guance. «Me ne sono accorta solo quando… mi hai abbracciata. E fino a poco fa non mi sarei mai immaginata di sposarti, Martin. Come sei riuscito a farti amare da me?».
«Non lo so», disse ridendo, «se non amandoti, perché io ti ho amata tanto da sciogliere un cuore di pietra e non solo quello di una donna come te, viva e palpitante».
«È così diverso da quello che pensavo fosse l’amore», osservò lei, divagando.
«E come pensavi che fosse?».
«Non pensavo che fosse così». In quel momento lei lo stava guardando negli occhi, ma abbassò lo sguardo riprendendo a parlare: «Vedi, non sapevo come fosse».
Egli riprese ad attirarla verso di sé, ma lo fece solo con il braccio che la cingeva, perché temeva di essere troppo avido. Sentì tuttavia che il corpo di lei cedeva e ancora una volta si trovò a circondare quel corpo con le braccia e a premerle le labbra con le sue.
«Che cosa diranno i miei?», chiese lei improvvisamente preoccupata durante una delle pause.
«Non lo so. Possiamo scoprirlo molto facilmente quando ne avremo voglia».
«E se la mamma si oppone? Ho una gran paura a dirglielo».
«Lascia che glielo dica io», propose lui generosamente. «Penso di non piacere a tua madre, ma posso conquistarla. Chi riesce a vincere te può fare tutto. E se non…».
«Sì?».
«Continueremo a volerci bene. Ma non c’è pericolo di non persuadere tua madre a lasciarci sposare. Ti ama troppo».
«Non vorrei spezzarle il cuore», disse Ruth pensosamente.
Avrebbe voluto risponderle che i cuori delle madri non si spezzano così facilmente, ma le disse: «E l’amore è la cosa più grande del mondo».
«Sai, Martin, qualche volta ho paura di te. Anche adesso sono spaventata, quando penso a te e a quello che sei stato. Devi essere molto, molto buono con me. Ricordati che, dopo tutto, sono solo una bambina. Non ho mai amato prima».
«Neanch’io. Siamo tutti e due bambini. E siamo più fortunati di tanti altri, perché abbiamo trovato in questo modo il nostro primo amore».
«Ma è impossibile!», esclamò lei sciogliendosi dal suo abbraccio con un movimento rapido e impetuoso. «Per te è impossibile. Tu sei stato marinaio, e i marinai, così ho sentito dire, sono… sono…».
Le venne meno la voce e tacque.
«Sono portati ad avere una moglie in ogni porto?», terminò lui. «È questo che vuoi dire?».
«Sì», rispose lei con un filo di voce.
«Ma quello non è amore». Martin parlava con tono autorevole. «Sono stato in molti porti, ma non ho mai provato un briciolo d’amore fino a quando non ti ho visto quella prima sera. Sai che dopo averti salutata ed essere venuto via fui quasi arrestato?».
«Arrestato?».
«Sì. Un poliziotto pensava che fossi ubriaco; e lo ero… d’amore per te».
«Ma tu hai detto che eravamo bambini, e io ho detto che per te era impossibile, e adesso stiamo divagando».
«Ho detto di non avere mai amato nessuno al di fuori di te», rispose lui. «Sei tu il mio primo, il mio unico amore».
«Ma sei stato marinaio», obiettò lei.
«Ciò non toglie che tu sia il mio primo amore».
«E ci sono state donne… altre donne… oh!».
E con grande sorpresa di Martin Eden, Ruth scoppiò in un uragano di lacrime che cessò solo dopo molti baci e molte carezze. E in tutto quel tempo gli risuonò nella mente il verso di Kipling: «La moglie del colonnello e Judy O’Grady nell’intimo sono sorelle». Decise che era vero, benché i romanzi che aveva letto lo avessero indotto a credere il contrario. Si era fatto l’idea, in seguito a quelle letture, che nelle classi elevate solo le proposte formali venivano accettate. Era normale che nei ceti bassi, da cui proveniva, ragazzi e ragazze rivelassero i loro sentimenti con il contatto diretto, ma gli era parso inconcepibile che i nobili personaggi che vivevano in un mondo superiore facessero all’amore in quel modo. Eppure i romanzi avevano torto. Ne aveva avuto la prova. Gli stessi abbracci e le stesse carezze privi di parole che erano stati efficaci con le ragazze della classe operaia, lo erano stati altrettanto con quelle degli strati sociali più alti. Dopo tutto erano fatte tutte della stessa carne, erano sorelle nell’intimo; se avesse ricordato quello che aveva scritto Spencer anch’egli sarebbe potuto arrivare alla medesima conclusione. Tenendo Ruth fra le braccia per calmarla, trovò una grande consolazione al pensiero che la moglie del colonnello e Judy O’Grady nell’intimo si somigliavano molto. Ciò lo avvicinò a Ruth, che così era alla sua portata. Quella carne adorata era come la carne di tutti, come la sua. Non c’erano ostacoli al loro matrimonio. L’unica differenza era la classe sociale, ma si trattava di un elemento estrinseco, che poteva essere rimosso. Aveva letto che uno schiavo era salito alla dignità di senatore romano. E allora egli poteva elevarsi fino a Ruth. Sotto la sua purezza, la sua sacralità e la sua cultura, sotto l’eterea bellezza dell’anima lei diventava, in ciò che era squisitamente umano, come Lizzie Connolly, e come tutte quelle del suo ceto. Ciò che era possibile a loro lo era anche per lei. Poteva amare, odiare, e magari avere attacchi isterici; e certamente poteva essere gelosa, come lo era in quel momento in cui era scossa dai singhiozzi fra le sue braccia.
«E poi sono più vecchia di te», osservò improvvisamente aprendo gli occhi e alzando lo sguardo verso di lui, «di tre anni».
«Zitta, sei solo una bambina e io ho quarant’anni più di te in fatto di esperienza».
In verità erano entrambi bambini nel campo dell’amore: dei bambini avevano l’ingenuità e l’immaturità nell’espressione dei loro sentimenti, nonostante lei avesse una solida preparazione universitaria e lui avesse la testa piena di nozioni scientifico-filosofiche e dei fatti concreti della vita.
Rimasero seduti nel declinante splendore del giorno parlando come parlano tutti gli innamorati, stupiti del prodigio dell’amore e del destino che così curiosamente li aveva fatti incontrare e ostinatamente convinti di amarsi come mai nessun altro aveva amato prima. Tornarono più volte, ossessivamente, a ripetere le loro prime impressioni e a cercare invano di analizzare con precisione la qualità e la quantità dei reciproci sentimenti.
Le masse di nubi dell’orizzonte occidentale erano intrise dai raggi del sole che tramontava e l’arco del cielo si tingeva di rosa mentre lo zenit brillava dello stesso colore caldo. Quella rosea luce li investì e li avvolse mentre Ruth cantava Addio, dolce giornata. Cantava piano, cullata nelle braccia di lui, le mani nelle mani e i cuori che battevano all’unisono.
XXII
La signora Morse non dovette fare ricorso alla propria intuizione di madre per leggere ciò che era successo sul viso di Ruth quando tornò a casa. Quel rossore che non voleva sparire dalle guance diceva già molto, ma più eloquenti ancora erano i grandi occhi che nella loro luminosità erano il lampante riflesso di una felicità interiore.
«Che cosa è accaduto?», chiese a Ruth dopo avere atteso che la figlia fosse andata a letto.
«L’hai capito?», rispose Ruth con le labbra tremanti.
La madre non disse nulla, ma la circondò con un braccio carezzandole dolcemente la testa.
«Lui non ha parlato», sbottò la ragazza. «Non volevo che avvenisse, e non lo avrei lasciato parlare… solo che non ha parlato».
«Ma se non ha parlato, non sarebbe dovuto capitare niente, non ti pare?».
«Eppure è capitato lo stesso».
«In nome del cielo, bambina mia, che cosa stai dicendo?», esclamò la signora Morse, sbigottita. «Non credo di avere ancora capito che cosa è avvenuto, dopo tutto. Che cosa è avvenuto?».
Ruth guardò la madre sorpresa.
«Ma credevo che lo avessi capito. Ci siamo fidanzati, Martin e io».
La signora Morse ebbe un riso di contrariata incredulità.
«No, non ha parlato», spiegò Ruth. «Mi ha amata, ed è stato tutto. Io sono rimasta sorpresa come tu lo sei ora. Non ha detto una parola. Mi ha abbracciata e… io non sono stata più me stessa. Mi ha baciata e io l’ho baciato. Non potevo evitarlo. Lo dovevo fare. E allora ho capito che l’amavo».
Si fermò aspettando con ansia la consolazione di un bacio materno, ma la signora Morse rimase chiusa in un freddo silenzio.
«È una faccenda terribile, lo riconosco», riprese Ruth con voce sempre più bassa. «E non so come potrai mai perdonarmi. Ma non potevo farne a meno. Non pensavo affatto di amarlo fino a quel momento. E tu devi dirlo al papà».
«Non sarebbe meglio non parlarne con tuo padre? Vorrei vedere io Martin Eden, parlargli e spiegargli. Capirà e ti lascerà libera».
«No! no!», esclamò Ruth rizzandosi a sedere sul letto.
«Non voglio essere lasciata libera. L’amo e l’amore è una cosa dolcissima. Ho intenzione di sposarlo… naturalmente se me lo permetterete».
«Abbiamo altri piani per te, cara, tuo padre e io… oh, non che abbiamo scelto l’uomo per te, questo no. I nostri progetti non vanno al di là del desiderio che tu sposi un uomo del tuo ambiente sociale, un gentiluomo buono e degno, che tu stessa sceglierai quando avrai trovato quello che ami».
«Ma io amo già Martin», protestò lei con voce quasi di pianto.
«Non vogliamo influenzare in alcun modo la tua scelta; ma sei nostra figlia e ci sarebbe insopportabile vederti fare un matrimonio come questo. Lui non ha altro da offrirti che rozzezza e volgarità in cambio di tutto ciò che in te è fine e delicato. Non è alla tua altezza in nulla. Non è in grado di mantenerti. Non abbiamo sciocche aspirazioni di grande ricchezza, ma l’agiatezza è fuori discussione, e nostra figlia dovrebbe almeno sposare un uomo in grado di assicurargliela, e non un avventuriero squattrinato, marinaio, cowboy, contrabbandiere e il cielo sa che altro, il quale, come se tutto ciò non bastasse, è anche incosciente e irresponsabile». Ruth rimaneva in silenzio. Riconosceva che era tutto vero. «Perde il tempo a scrivere tentando di raggiungere quello che a volte riesce ai geni e agli uomini straordinari che hanno avuto un’istruzione superiore. Uno che pensa al matrimonio dovrebbe prepararsi a questo passo. Lui no. Come ho detto prima, e so che sei d’accordo con me, è un irresponsabile. Ma è naturale che sia così. Tutti i marinai lo sono. Non ha mai imparato a fare economie e a moderarsi. È stato segnato da questi anni di eccessi. Naturalmente non è colpa sua, ma questo non può cambiare la sua natura. E hai pensato agli anni licenziosi che inevitabilmente ha trascorso? Ci hai pensato, figlia mia? Tu sai che cosa vuol dire sposarsi».
Ruth rabbrividì e si strinse alla mamma.
«Ci ho pensato». Fece una lunga pausa per formulare le proprie idee. «Ed è terribile. Se ci penso mi sento male. Ti ho detto che è una faccenda terribile, il mio amore per lui; ma non posso evitarlo. Potevi impedirti di amare il papà? Lo stesso è per me. C’è qualcosa in me, in lui – fino a oggi non me n’ero mai accorta – c’è qualcosa che mi spinge ad amarlo. Non avrei mai pensato di innamorarmi di lui, eppure è avvenuto», concluse con un debole trionfo nella voce.
Parlarono a lungo inutilmente, trovandosi infine d’accordo che avrebbero atteso per un tempo imprecisato senza prendere alcuna iniziativa.
Alla stessa conclusione giunsero più tardi, nel corso della stessa serata, la signora Morse e il marito, dopo che lei gli ebbe onestamente confessato il fallimento dei suoi piani.
«Non poteva essere altrimenti», fu il commento del signor Morse. «Questo marinaio è stato il solo uomo con cui lei abbia avuto contatti. Presto o tardi si sarebbe comunque svegliata; e quando è accaduto ecco pronto per lei il marinaio, e naturalmente Ruth si è subito innamorata di lui, o pensa di esserlo, che poi è la stessa cosa».
La signora Morse si impegnò a fare una lenta e indiretta opera di persuasione nei confronti di Ruth, invece che di contrastarla apertamente. Avrebbe avuto molto tempo a disposizione, perché Martin non era in condizione di potersi sposare.
«Lasciamo che lo veda tutte le volte che vuole», fu il suo parere. «Scommetto che più lo conoscerà, meno lo amerà. E diamole molte occasioni per fare confronti. Impegnamoci a farle venire in casa altri giovani. Ragazze e giovanotti, e giovanotti di ogni tipo, uomini in gamba, uomini che hanno fatto qualcosa o che stanno facendo cose, uomini del suo ceto, gentiluomini. Avrà così la possibilità di fare paragoni e di capire chi è lui veramente. Dopo tutto è un ragazzo di appena ventun’anni, mentre Ruth non è più una bambina. È una cotta giovanile, per lui e per lei. Passerà a tutti e due».
E così fu fatto. All’interno della famiglia si accettò il fidanzamento fra Ruth e Martin senza che ne venisse dato l’annuncio ufficiale, perché si pensava che non sarebbe mai stato necessario farlo. Si decise inoltre implicitamente che sarebbe stato un lungo fidanzamento. Non chiesero a Martin né di cercarsi un lavoro né di smettere di scrivere, perché non avevano intenzione di incoraggiarlo a migliorarsi. Ed egli li aiutò e li favorì nei loro disegni ostili, perché mettersi a lavorare era lontanissimo dai suoi pensieri.
«Voglio sapere se approvi quello che ho fatto!», disse a Ruth qualche giorno dopo. «Ho deciso che restare a pensione presso mia sorella era troppo dispendioso e ho scelto una soluzione più economica. Ho preso in affitto una camera a North Oakland, sai, è un quartiere periferico, e ho comprato un fornello a petrolio per cucinare».
Ruth ne fu lieta e mostrò una soddisfazione particolare per il fornello a petrolio.
«È così che ha cominciato il signor Butler», disse.
In cuor suo Martin avvertì un senso di irritazione al nome di quel degno gentiluomo, e proseguì: «Ho messo francobolli a tutti i miei manoscritti e li ho rispediti ai direttori. Poi oggi ho fatto trasloco e domani comincio a lavorare».
«Hai un posto!», esclamò lei rivelando in tutti i modi la felicità che quella sorpresa le aveva provocato, rannicchiandosi contro di lui, stringendogli la mano, sorridendo. «E non me lo dicevi! Che lavoro è?».
Lui scosse la testa.
«Voglio dire che comincio a lavorare ai miei scritti». Il viso di lei si rannuvolò ed egli continuò senza fermarsi. «Non devi giudicarmi male. Questa volta non mi presento con capolavori ambiziosi, ma con proposte prosaiche e concrete. È meglio che tornare in mare e potrò guadagnare più di quanto possa ottenere a Oakland da un impiego non qualificato.
«Vedi, questa vacanza che mi sono preso mi ha fatto riflettere. In questo periodo non mi sono ammazzato di studio e non ho composto nulla, almeno non cose destinate ad essere pubblicate. Tutto quello che ho fatto è stato amarti e pensare. Ho letto un po’, ma faceva parte di questo processo di riflessione, e si trattava soprattutto di riviste. Sono giunto a certe conclusioni su me stesso, sul mondo, sul mio posto in questa società e sulle mie possibilità di conquistarmi una posizione degna di te. Ho anche letto la Filosofia dello stile di Spencer, e ho scoperto che cosa non andava in me, o meglio in quello che scrivevo; che non è molto diverso, fra l’altro, da ciò che si pubblica ogni mese nelle riviste. E il risultato di tutto ciò – dei miei pensieri, delle mie letture e del fatto che ti amo – è che produrrò scritti di taglio giornalistico. Lascerò perdere la grande poesia e farò lavoretti per il grosso pubblico – racconti umoristici, brevi commenti, articoli di attualità, poesie comiche e versi salottieri – tutta la robaccia di cui sembra esserci tanta richiesta. Poi ci sono le associazioni dei collaboratori dei giornali, quelle degli autori di racconti per i periodici e quelle dei supplementi domenicali. Posso benissimo produrre il ciarpame che occorre loro e in tal modo guadagnare l’equivalente di un discreto stipendio. Sai che ci sono giornalisti indipendenti che guadagnano fino a quattrocento o a cinquecento dollari il mese? Non pretendo di diventare come loro, ma posso arrivare a un reddito dignitoso e avere in tal modo quella libertà che non mi sarebbe possibile con nessun altro impiego.
«Avrò così tempo a disposizione per lo studio e per gli scritti a cui tengo. Nei ritagli di questa attività di routine cercherò di mettere mano a opere più valide, per le quali occorre un’adeguata preparazione. Sono sbalordito dai progressi che ho fatto. La prima volta in cui ci ho provato non ho trovato altro su cui scrivere se non alcune banali esperienze che non avevo neppure ben capito e che non ero in grado di apprezzare. Nella mente non avevo nulla, proprio nulla. Non possedevo neppure le parole con cui esprimere i pensieri. Le mie esperienze erano tanti quadri privi di senso. Ma cominciando ad allargare le conoscenze e il vocabolario, vidi in quegli episodi qualcosa di più che non semplici quadri. Li richiamai alla mente, e ne trovai l’interpretazione. Fu così che cominciai a scrivere opere valide, AvventuraGioiaIl vasoIl vino della vitaLa strada della lotta, il Ciclo d’amore e le Liriche del mare. Ne scriverò altre e migliori, ma lo farò nel tempo libero. Ora voglio restare con i piedi per terra. Prima lavoro mercenario e reddito e dopo capolavori. Giusto per dimostrartelo ieri sera ho scritto cinque o sei storielle per i settimanali umoristici; e mentre stavo andando a letto mi è venuto in mente di provare a comporre una strofetta comica… e nel giro di un’ora ne avevo scritte quattro. Dovrebbero valere un dollaro ciascuna. Ecco qui quattro dollari per qualche osservazione senza pretese prima di andare a letto.
«Naturalmente sono tutte cose che non valgono niente, frutto di un’attività sordida e grigia; ma non più sordida e grigia di quella di chi tiene la contabilità a sessanta dollari il mese, sommando infinite colonne di cifre senza senso fino alla morte. Inoltre questo lavoro mercenario mi permette di mantenere i contatti con l’ambiente letterario e mi lascia il tempo per cercare di scrivere opere più importanti».
«Ma a che ti servono queste opere più importanti, questi capolavori?», chiese Ruth. «Non riesci a venderli».
«Oh, sì, ci riuscirò», cominciò Martin, ma lei lo interruppe.
«Di tutti quegli scritti che hai ricordato prima, e che ritieni validi… non sei riuscito a venderne uno. Non possiamo sposarci con i soldi di capolavori che non si vendono».
«Allora ci sposeremo con quello che ci danno poesiole che si vendono», rispose lui deciso, mettendole un braccio attorno alle spalle e attirando a sé quell’amata assai riluttante.
«Senti questa», continuò con tono di allegria forzata. «Non è arte, ma vale un dollaro.
«In casa è arrivato
E a quattrini ha bussato
Con gran faccia tosta.
Non ha avuto una crosta
E se n’è andato mogio,
Guardando l’orologio».
La vivace cadenza che aveva dato alla filastrocca contrastava con l’espressione sconfortata che aveva quando finì. Non era riuscito a strappare neppure un sorriso a Ruth, che lo guardava con un viso serio e preoccupato.
«Forse vale un dollaro, ma è il dollaro che si dà al buffone, il compenso che si riceve per rendersi ridicoli. Non vedi, Martin, quanto tutto questo sia umiliante? Voglio che l’uomo da me amato faccia un mestiere più degno di quello del comico che racconta barzellette e canta canzoncine».
«Vuoi che sia come… il signor Butler?».
«So che non ti piace», cominciò a dire Ruth.
«Il signor Butler mi sta bene», l’interruppe lui, «ma non mi va di avere lo stomaco rovinato come lui. Quanto a me non vedo alcuna differenza fra lo scrivere storielle o canzoni comiche e battere a macchina, scrivere sotto dettatura e tenere libri contabili. Sono tutti mezzi per raggiungere un fine. Tu mi suggerisci di cominciare a lavorare in un ufficio per diventare avvocato di successo o uomo d’affari. Io mi propongo invece di iniziare come autore di testi dozzinali per arrivare a essere uno scrittore valido».
«C’è una differenza».
«Quale?».
«Che le tue opere valide, quelle che tu consideri di qualità, non riesci a venderle. Ci hai provato – e lo sai – ma i direttori non vogliono comprarle».
«Dammi tempo, cara», disse lui supplichevole. «Questo lavoro da scribacchino è solo un espediente, che io non prendo sul serio. Dammi due anni. In questo periodo mi farò conoscere e i direttori saranno contenti di comprare i miei scritti migliori. So quel che dico; ho fiducia in me stesso. So quello che ho dentro di me; so che cos’è la letteratura, adesso; so quali porcherie si producono da parte di uomini mediocri; e so che nel giro di due anni sarò avviato sulla strada del successo. Il mondo degli affari non fa per me; non ne ricaverei mai nulla di buono perché non mi piace. Lo considero noioso, stupido, avido e infido. In ogni caso non ci sono portato. Non riuscirei mai a essere più che un semplice impiegato; e come potremmo essere felici con un misero stipendio di contabile? Per te desidero il meglio che ci sia al mondo, e sono disposto a rinunciarvi solo se troverò qualcosa di ancora migliore. E l’otterrò, puoi esserne certa. I guadagni di un autore famoso farebbero impallidire il signor Butler. Un best-seller frutta fra i cinquantamila e i centomila dollari – più o meno; e comunque cifre di questo genere».
Ruth rimase in silenzio; era chiaramente delusa.
«Beh?», chiese lui.
«Avevo altri piani e altre speranze. Avevo pensato, e lo penso ancora, che la cosa migliore sarebbe che tu imparassi la stenografia – visto che a macchina sei già capace di scrivere – e che entrassi nello studio di papà. Hai una bella testa e sono certa che diventeresti un ottimo avvocato».
XXIII
Il fatto che Ruth avesse scarsa fiducia nelle sue qualità di scrittore non aveva diminuito o modificato l’opinione di Martin su di lei. Durante la vacanza che si era concesso aveva passato molto tempo ad analizzarsi e aveva quindi fatto diverse scoperte su se stesso. Aveva capito di amare la bellezza ancor più della celebrità e di essere attratto dalla fama soprattutto per amore di Ruth. Solo per questo motivo voleva raggiungere la notorietà. Desiderava essere grande agli occhi del mondo, «farcela», come ripeteva a se stesso, affinché la donna che adorava fosse fiera di lui e lo considerasse un uomo degno.
Quanto a lui, amava appassionatamente la bellezza e si sentiva ricompensato a sufficienza dalla gioia di servirla. Ma più della bellezza amava Ruth. L’amore, che considerava la cosa più bella del mondo, aveva operato in lui una rivoluzione, trasformando un rozzo marinaio in uno studioso e in un artista; e dunque per lui era ancora più grande della cultura e dell’arte. Aveva già scoperto di avere capacità superiori a quelle di Ruth, dei suoi fratelli e di suo padre. Nonostante lei avesse avuto tutti i vantaggi di un’istruzione universitaria, nonostante la laurea in lettere, egli la sovrastava ormai dal punto di vista intellettuale; quell’anno di studio matto e disperatissimo gli aveva dato una padronanza nelle faccende del mondo, dell’arte e della vita che lei non avrebbe mai potuto sperare di possedere.
Si era accorto di tutto ciò, ma non per questo il suo amore per lei era venuto meno, né quello di Ruth per lui. Era un sentimento troppo fine e nobile, e lui lo viveva con troppa lealtà, perché potesse essere macchiato dalle critiche. Che rapporto esisteva fra il legame che li univa e i dissensi che li separavano in materia di arte, di correttezza del comportamento, di Rivoluzione francese e di suffragio universale? Questi erano processi mentali, ma l’amore era al di là della ragione. Non poteva sminuire una cosa degna solo di venerazione, che si trovava sulle vette delle montagne, lontano dalle pianure della ragione. Era una condizione sublimata dell’esistenza, il vertice della vita, cui si giungeva raramente. Le teorie dei suoi filosofi preferiti gli avevano rivelato le basi biologiche del fenomeno; e tuttavia grazie a una sofisticata interpretazione di quelle posizioni era arrivato alla conclusione che l’organismo umano conseguiva il suo fine più alto nell’amore, il quale non doveva essere messo in dubbio, ma accettato come la massima ricompensa della vita. Considerava quindi l’innamorato come la più felice di tutte le creature, ed era per lui una grande gioia pensare al «folle amante divino» che si ergeva al di sopra di tutte le cose della terra, della ricchezza e della saggezza, dell’opinione pubblica, dell’applauso e della vita stessa, e che moriva «per un bacio».
In buona parte Martin era già pervenuto a queste idee, che in seguito perfezionò. Nel frattempo lavorava senza sosta, tranne quando andava a trovare Ruth, e viveva spartanamente. Pagava una pigione di due dollari e mezzo il mese per la cameretta che aveva affittato presso una donna portoghese, Maria Silva, una terribile vedova che lavorava sodo e aveva un pessimo carattere, impegnata ad allevare in qualche modo una folta nidiata di bambini e ed annegare il dolore e la fatica, a intervalli irregolari, in un bottiglione di vino aspro e leggero comprato per quindici centesimi all’emporio all’angolo. Dopo aver provato per lei una certa antipatia a causa della sua lingua tagliente, Martin cominciò ad ammirarla per la coraggiosa battaglia che combatteva. Il suo piccolo alloggio aveva solo quattro locali, che si riducevano a tre considerando quello occupato da Martin. Il salotto, ravvivato da un tappeto a colori vivaci e rattristato da un cartoncino listato a lutto e dal ritratto di uno dei numerosi bambini che aveva perso, era tenuto esclusivamente per ricevere la gente. Le persiane erano sempre abbassate e la sua scalza tribù non poteva mai penetrare nel sacro recinto tranne che nelle grandi occasioni. Si mangiava in cucina, dove oltre che cucinare la vedova lavava, inamidava e stirava tutti i giorni salvo la domenica; le sue entrate dipendevano soprattutto dal bucato che le sue più fortunate vicine le mandavano da lavare. Restava la camera da letto, piccola come quella occupata da Martin, in cui si ammassavano per dormire la madre e i suoi sette figli. Martin, per il quale era una fonte di costante meraviglia come ciò fosse possibile, sentiva ogni notte, al di là del sottile muro divisorio, ogni particolare del rito del coricarsi, con le urla, i litigi, il chiacchiericcio soffocato e i sordi e ritmati rumori dei dormienti che assomigliavano al cinguettio degli uccelli. Un altro reddito veniva a Maria da due mucche, che mungeva la mattina e la sera, le quali brucavano abusivamente nei terreni abbandonati e nelle sottili strisce erbose ai lati dei marciapiedi, custodite sempre da qualcuno dei laceri bambini della donna, impegnati soprattutto a sorvegliare la strada per evitare l’arrivo improvviso delle guardie municipali.
In quella piccola stanza Martin abitava, dormiva, studiava, scriveva e sbrigava le faccende domestiche. Davanti all’unica finestra che dava sulla minuscola veranda d’entrata si trovava il tavolo da cucina che gli serviva da scrittoio, libreria e banco per la macchina per scrivere. Il letto, addossato alla parete posteriore, occupava due terzi dello spazio della camera. Il tavolo era fiancheggiato da una parte da un comò vistoso ma di qualità scadente, la cui sottile impiallacciatura si scrostava ogni giorno di più. Era collocato in un angolo, mentre a quello opposto, all’altro lato del tavolo, si trovava la «cucina», costituita da un fornello a petrolio collocato su una cassetta all’interno della quale erano riposte le stoviglie, da uno scaffale a muro per le provviste e da un secchio sul pavimento. Martin doveva prendere l’acqua dal lavello della cucina di Maria, perché in camera sua non c’era lavabo. Nei giorni in cui c’era molto vapore a causa della cottura si accentuavano le crepe nell’impiallacciatura del comò. Al di sopra del letto, attaccata a un paranco fissato al soffitto, era appesa la bicicletta. Dapprima Martin aveva cercato di tenerla nel seminterrato, ma la tribù dei Silva lo aveva costretto a fuggire da lì allentando i mozzi e forando le gomme. In seguito, aveva tentato di metterla nella minuscola veranda d’entrata fino a che una forte sciroccata non l’ebbe investita con raffiche di pioggia per tutta una notte. Fu infine costretto a portarla in camera e a sospenderla per aria.
Un piccolo armadio a muro conteneva i vestiti e i libri che aveva accumulato, per i quali non era riuscito a trovare posto sopra o sotto il tavolo. Insieme con quella della lettura aveva sviluppato l’abitudine di prendere appunti, e ne scriveva tanti che non ci sarebbe stato più spazio per lui in quel vano angusto se non avesse steso da una parete all’altra diversi fili della biancheria, su cui appendeva i fogli. E anche con questo espediente riusciva a muoversi nel locale solo con grande cautela. Non poteva aprire la porta senza prima chiudere il battente dell’armadio a muro, e viceversa. In nessun punto della stanza era possibile andare da una parete all’altra mantenendo una linea retta. Per arrivare dalla porta alla testata del letto bisognava procedere seguendo un percorso a zigzag che al buio era impossibile coprire senza urtare da nessuna parte: superata la difficoltà delle porte doveva virare bruscamente a destra per evitare la cucina; quindi a sinistra per scansare i piedi del letto; poiché una curva troppo larga lo avrebbe spinto contro l’angolo del tavolo, accompagnava la virata con un balzo che lo portava sulla destra lungo una specie di passaggio i cui argini erano il letto da una parte e il tavolo dall’altra. Quando l’unica sedia della camera si trovava al suo solito posto davanti allo scrittoio il passaggio non era più percorribile. Se non veniva usata, era quindi collocata sul letto, benché a volte, cucinando, vi si sedesse sopra a leggere un libro; lo faceva spesso in attesa che l’acqua bollisse e giunse persino al punto di proseguire per uno o due capoversi mentre la bistecca terminava di friggere. L’angolino che costituiva la cucina era così piccolo che Martin era in grado di prendere tutto quello che gli occorreva senza alzarsi. In effetti gli conveniva far da mangiare rimanendo seduto, perché tirandosi su quasi non sapeva dove mettere i piedi.
Oltre ad avere uno stomaco di ferro che gli permetteva di digerire anche i sassi, sapeva quali fossero gli alimenti più nutrienti ed economici. Il passato di piselli era un piatto frequente nella sua dieta, come le patate e i fagioli grandi e scuri, che cuoceva alla maniera messicana. Il riso, preparato come nessuna massaia americana è capace di fare, compariva sulla tavola di Martin almeno una volta il giorno. Poiché la frutta essiccata era meno costosa di quella fresca, di solito ne teneva una ciotola già cotta e pronta all’uso, che spalmava sul pane al posto del burro. Di tanto in tanto si concedeva il lusso di una lombata o di un osso da brodo. Prendeva il caffè, senza panna o latte, due volte il giorno, ma la sera beveva sempre tè; ambedue erano preparati in modo eccellente.
Doveva fare economie. La vacanza aveva consumato quasi tutto quello che aveva guadagnato alla lavanderia, ed era così lontano dal mercato cui erano diretti i prodotti del suo lavoro che sarebbero passate settimane prima di poter vedere i frutti di quell’opera di scrittore mercenario. Tranne che nei momenti in cui vedeva Ruth o faceva un salto a trovare la sorella, viveva come un recluso, riuscendo a svolgere ogni giorno una mole di attività che un uomo normale sarebbe riuscito a terminare in tre. Dormiva appena cinque ore e solo un uomo con una costituzione robusta come la sua sarebbe riuscito a rimanere inchiodato, giorno dopo giorno, al tavolo di lavoro per diciannove ore consecutive. Non perdeva un attimo. Sullo specchio aveva appuntato elenchi di definizioni e di pronunce dei vocaboli, che ripassava mentre si radeva, si pettinava e si vestiva. Ne aveva attaccati altri sulla parete sopra il fornelletto, che rileggeva mentre cucinava e rigovernava. Liste nuove sostituivano in continuazione le vecchie perché ogni parola strana o poco conosciuta che incontrava veniva immediatamente annotata per essere in seguito battuta a macchina e inserita, insieme con altre analoghe, in un foglietto da fissare al muro o allo specchio. A volte se le ficcava in tasca e le riguardava in strada quando non aveva nulla da fare oppure nei negozi in attesa di essere servito.
Andò anche più in là. Leggendo le opere di autori affermati si concentrava sui risultati che avevano raggiunto per individuare gli espedienti di cui si erano serviti – gli artifici narrativi, espositivi e stilistici, i punti di vista, i contrasti, gli epigrammi – che trascriveva in elenchi per poterli poi studiare. Non scimmiottava, ma cercava princìpi. Preparava liste di forme incisive e seducenti fino a che da molte espressioni simili tratte da autori diversi non era in grado di ricavare una formula generale che subito applicava per crearne di proprie originali, e valutarne gli effetti e la riuscita. Analogamente raccoglieva elenchi di frasi vigorose, frasi della lingua viva che corrodevano come un acido e bruciavano come il fuoco, o che brillavano di una luce calda e struggente nell’arido deserto del linguaggio comune. Cercava sempre il principio nascosto e sotteso. Voleva sapere come era fatta una cosa per poterla rifare egli stesso. Non si accontentava dello splendido volto della bellezza: la sezionava nel gremito laboratorio della sua stanzetta in cui gli odori della cucina si mescolavano agli urli selvaggi dei bambini Silva. E dopo averla sezionata e averne scoperto l’anatomia, acquisiva sempre più la capacità di ricrearla.
Doveva capire ciò che faceva. Non poteva lavorare ciecamente e al buio, senza sapere che cosa produceva e confidando che il caso e il lampo di genio gli consentissero di ottenere il giusto risultato. Non aveva la pazienza di attendere il colpo di fortuna: voleva conoscere cause e modi. Aveva una creatività cosciente grazie alla quale, ancor prima di cominciare una poesia o un racconto, l’opera completa gli si presentava alla mente insieme con i mezzi necessari a realizzarla. Quando ciò non avveniva il tentativo era destinato al fallimento. D’altro canto vedeva l’intervento del caso sotto forma di parole ed espressioni che dopo essergli pullulate nel cervello leggere e spontanee superavano le successive verifiche perché rispondevano a criteri di bellezza e di forza espressiva, recando inoltre con sé straordinarie e indescrivibili connotazioni. Di fronte a queste egli si inchinava pieno di meraviglia, consapevole che erano al di fuori del deliberato atto creativo dell’uomo. E per quanto sezionasse la bellezza alla ricerca dei principi che dietro di essa si celavano rendendola possibile, capiva che al suo interno rimaneva un imperscrutabile mistero che né lui né altri erano mai riusciti a penetrare. Sapeva benissimo, dal suo Spencer, che l’uomo non può mai arrivare alla conoscenza ultima di alcuna cosa, e che l’arcano della bellezza non era minore di quello della vita: le fibre della bellezza e della vita erano intrecciate fra loro, ed egli stesso non era che un frammento di quell’incomprensibile tessitura fatta di luce solare, polvere di stelle e meraviglia.
Fu proprio sotto l’influsso di questi pensieri che compose il saggio intitolato Polvere di stelle, in cui lanciava i suoi strali non contro i princìpi della critica, ma contro i critici più importanti. Era uno scritto brillante, profondo, meditato e pervaso da una grazia serena e lieve. Fu immediatamente respinto dalle riviste cui fu inviato, ma ciò non turbò Martin, che era soddisfatto di avere sgombrato la mente e di poter procedere sereno sulla sua strada. Aveva sviluppato l’abitudine di raccogliere ed elaborare lentamente i propri pensieri sui diversi temi per poi precipitarsi alla macchina per scrivere pieno di slancio creativo. Il fatto che queste opere non venissero pubblicate lo preoccupava poco. La loro composizione era l’atto culminante di un lungo processo mentale, la raccolta in un unico alveo di rivoli diversi e la sintesi generale di tutti i dati che gli occupavano il cervello. Scrivere un articolo come quello fu uno sforzo consapevole grazie al quale liberò la mente, predisponendola ad accogliere nuovi fatti e nuovi problemi. Era un procedimento simile a quell’abitudine diffusa per mezzo della quale uomini e donne tormentati da crucci reali o immaginari periodicamente rompono il loro lungo e tormentato silenzio e si «fanno sentire», tirando fuori tutto.
XXIV
Passavano le settimane. Martin rimase a corto di soldi e gli assegni degli editori erano più lontani che mai. Tutti i manoscritti importanti che gli erano stati restituiti erano stati inoltrati prontamente ad altri destinatari, e non migliore fortuna avevano avuto gli scritti commerciali. La piccola cucina non era più allietata da una certa varietà di cibi. Ridottosi a un sacco di riso semivuoto e a un paio di chili di prugne secche, per cinque giorni consecutivi e per tre volte al giorno dovette limitarsi a pasti di riso e prugne. Cominciò quindi a comprare a credito. Il droghiere portoghese che fino ad allora era stato pagato in contanti, si rifiutò di continuare a servirlo quando il conto fu arrivato all’impressionante importo di tre dollari e ottantacinque centesimi.
«Perché vedi», gli disse, «ma se tu niente lavoro, io niente soldi».
Martin non ebbe nulla da ridire. Non era possibile spiegargli come stavano le cose. D’altronde non era un sano principio commerciale fare credito a un robusto giovanotto di ceto operaio che era troppo pigro per cercarsi un lavoro.
«Tu trova lavoro, io do a te roba», lo rassicurò il droghiere. «Niente lavoro, niente roba. Così sono affari». E per dimostrargli che era solo una normale cautela commerciale e non il frutto di un pregiudizio aggiunse: «Tu bere, offrire la casa – noi amici lo stesso».
Martin bevve con gran disinvoltura per dimostrare che neanche lui aveva nulla contro la casa, e andò a letto senza cena.
Il negozio di frutta e verdura presso cui Martin si serviva era gestito da un americano i cui principi commerciali erano così poco saldi che permise al cliente di accumulare un debito di cinque dollari prima di smettere di vendergli la merce. Il fornaio si fermò a due dollari, il macellaio a quattro. Facendo la somma delle cifre di cui era debitore Martin scoprì che il credito complessivo di cui godeva in tutto il mondo ammontava a quattordici dollari e ottantacinque centesimi. Era in regola con i pagamenti per l’affitto della macchina per scrivere, ma calcolò di potere ottenere un rinvio di due mesi, per un totale di otto dollari. E con quello aveva esaurito ogni possibilità di credito.
L’ultimo acquisto presso il fruttivendolo era stato un sacco di patate, e per una settimana si nutrì di quell’alimento e di niente altro per tre volte al giorno. Un invito a pranzo da Ruth fu un corroborante per il suo corpo indebolito, anche se, con la morte nel cuore alla vista di tanto ben di Dio davanti a sé e nonostante il furioso appetito che sentiva, rifiutò di servirsi una seconda volta dai piatti di portata che passavano per la tavola. Di tanto in tanto, pur vergognandosi, passò a trovare la sorella all’ora di cena e mangiò fino a quando ebbe il coraggio di farlo – più di quanto non si fosse sentito di fare alla tavola dei Morse.
Giorno dopo giorno lavorava indefessamente e giorno dopo giorno il postino gli consegnava i manoscritti rifiutati, che si accumulavano in un mucchio sotto il tavolo, perché gli mancavano i soldi per i francobolli. Arrivò a non toccare cibo per quaranta ore in un periodo in cui non poteva andare a mangiare da Ruth, che era a San Rafael per una visita di due settimane a una zia, e non si sentiva il coraggio di passare dalla sorella. Come se ciò non bastasse il postino nel suo giro pomeridiano gli portò cinque manoscritti rifiutati. Martin allora si mise il soprabito e uscì diretto a Oakland. Quando tornò non l’aveva più, ma in tasca gli tintinnavano cinque dollari. Diede un acconto di un dollaro a ciascuno dei quattro negozianti e poté infine prepararsi una bistecca fritta con cipolle, una tazza di caffè e una ciotola di prugne secche bollite. Dopo cena si sedette al tavolo-scrivania e prima di mezzanotte completò un saggio cui diede il titolo di La dignità dell’usura, che gettò nel mucchio dopo averlo trascritto a macchina perché i cinque dollari gli erano volati via prima di avere il tempo di comprare i francobolli.
In seguito impegnò l’orologio, e poi anche la bicicletta, ma ridusse la somma disponibile per l’acquisto di generi alimentari perché volle procurarsi i francobolli per spedire tutti i manoscritti. Era deluso che nessuno volesse comprare le cose che aveva scritto con intenti commerciali. Confrontandole con quelle che si pubblicavano nei quotidiani, nei settimanali e nelle riviste da quattro soldi si accorgeva che erano migliori, molto migliori, della media; e tuttavia non si vendevano. Scoprì allora che spesso i giornali stampavano quello che veniva definito «materiale fatto in serie», e si procurò il recapito dell’organizzazione che lo forniva. Questa tuttavia gli rispedì ciò che le aveva inviato, accompagnandolo con il solito biglietto stampato nel quale gli si comunicava che i redattori della società producevano già tutti i testi in grado di soddisfare i richiedenti.
In uno dei grandi periodici per i giovani notò intere colonne di curiosità e aneddoti. Era un’altra possibilità. Ma i trafiletti che mandò gli vennero restituiti, e nonostante i ripetuti tentativi non gli riuscì mai di piazzarne uno. Più tardi, quando la cosa non aveva ormai più alcuna importanza per lui, seppe che i viceredattori e gli assistenti integravano lo stipendio scrivendo essi stessi quegli articoletti. I settimanali umoristici gli rimandarono le storielle e le poesiole comiche; d’altro canto i versi da salotto non trovarono spazio nelle riviste importanti cui erano stati destinati. C’erano poi i raccontini per i quotidiani. Sapeva che i suoi erano migliori di quelli che venivano pubblicati. Dopo essersi procurato l’indirizzo di due agenzie che lavoravano in questo campo le inondò con i suoi scritti, ma desistette quando si accorse di non esserne riuscito a collocare nemmeno uno dei venti che aveva composto. E tuttavia ogni giorno leggeva sui periodici decine e decine di novellette, nessuna delle quali era all’altezza delle sue. Avvilito, pensò di essere un povero illuso, privo della capacità di giudicare e pieno di sciocca esaltazione per la propria opera.
La disumana macchina editoriale continuava a funzionare con perfetta regolarità. Dopo avere allegato al manoscritto i francobolli per la risposta Martin lasciava cadere la busta nella cassetta delle lettere, e dopo tre settimane, o al massimo un mese, il postino saliva le scale e gliela restituiva. Era certo che all’altra estremità non vi fossero sulle poltrone degli esseri umani, ma solo ruote e ingranaggi ben oliati – perfetti meccanismi manovrati da automi. Giunse a momenti di disperazione durante i quali dubitò persino dell’esistenza dei direttori di giornali e riviste. Non aveva mai ricevuto un segno della loro presenza e dalla mancanza di giudizio dimostrata nel rifiuto di tutto ciò che egli scriveva sembrava plausibile concludere che fossero semplici miti, fabbricati e tenuti in vita da fattorini, tipografi e giornalisti.
Le ore trascorse con Ruth erano le sole felici che passava, ma non sempre lo erano. Lo rodeva una tormentosa irrequietezza, più angosciosa che in passato, prima di sapere dell’amore di lei; perché ora che possedeva il suo amore, possedere lei diventava più elusivo che mai. Le aveva chiesto due anni; il tempo volava e ancora non si vedeva nessun risultato. Inoltre aveva piena coscienza del fatto che Ruth non approvava ciò che lui faceva. Non glielo diceva esplicitamente, ma indirettamente glielo faceva capire in modo così chiaro ed evidente che era come se parlasse. Per lui non provava risentimento, ma disapprovazione; mentre donne meno dolci di lei avrebbero mostrato irritazione, lei era solo delusa. E lo era perché quell’uomo che si era proposta di forgiare, non voleva essere manipolato. Fino ad un certo punto lo aveva trovato malleabile come creta, ma in seguito lui aveva opposto resistenza, rifiutando di essere formato a immagine e somiglianza del padre e del signor Butler.
Ruth non capiva, o peggio fraintendeva, ciò che in lui era grande e sublime. Quest’uomo il cui carattere era così duttile che poteva adattarsi a vivere in qualunque angolo dell’esistenza umana, era da lei ritenuto ostinato e caparbio perché non le riusciva di modellarlo in modo che si adattasse al cantuccio in cui lei viveva, il solo che conoscesse. Non riusciva a seguire gli alti voli della sua mente, e quando il cervello di lui si elevava a una distanza per lei irraggiungibile, pensava che fosse stravagante. Con nessun altro Ruth aveva la stessa impressione. Era sempre in grado di seguire i ragionamenti del padre, della madre, dei fratelli e di Olney; e dunque, quando le capitava di non riuscire a capire Martin, pensava che fosse colpa di lui. È la vecchia tragedia dell’animo gretto e limitato che cerca di far da guida a chi è tanto più grande di lui.
«Tu ti inginocchi davanti all’altare della tradizione», le disse un giorno durante una discussione che ebbero su Praps e Vanderwater. «Ammetto che come autori da citare rappresentano il massimo: sono i due critici più eminenti degli Stati Uniti! Ogni insegnante di lettere del paese considera Vanderwater il decano della critica americana. E tuttavia quando leggo le sue cose mi sembrano la più perfetta e riuscita espressione del vuoto. Mah, è solo un bel sonnifero, grazie a Gelett Burgess. E Praps non è migliore. Per esempio il suo Hemlock Mosses è scritto benissimo. Non c’è una virgola fuori posto e ha un tono così nobile! È il critico più pagato degli Stati Uniti. Ma, santo cielo! Non è neppure un critico. In Inghilterra la critica è fatta meglio. Il fatto è che toccano il tasto della banalità, e lo fanno con eleganza, moralismo e compiacimento. Le loro recensioni mi fanno venire in mente le domeniche inglesi. Sono i portavoce dei luoghi comuni. Danno conferme ai professorini, e i professorini danno conferma a loro. Non c’è un barlume di originalità in quelle teste. Conoscono solo quello che è nella tradizione, e in effetti loro “sono” la tradizione. Nei cervelli deboli i valori costituiti si imprimono agevolmente come il nome della distilleria sulle etichette delle bottiglie di birra. Hanno la funzione di cogliere di sorpresa tutti i giovani che frequentano l’università e di scacciare dalla loro mente tutto ciò che potrebbe esservi di luminoso e originale per stamparvi il marchio delle istituzioni».
«Quando resto fedele alla tradizione», rispose lei, «sono certa di essere più vicina alla verità di te, con la tua rabbia iconoclasta da indigeno dei Mari del Sud».
«Sono stati quelli delle missioni a distruggere le immagini», disse lui ridendo. «Purtroppo ora tutti i missionari sono andati fra i pagani, e in patria non è rimasto nessuno che voglia frantumare queste vecchie cariatidi, il signor Vanderwater e il signor Praps».
«E anche i docenti dell’università», aggiunse Ruth.
Egli scosse il capo con vigore. «No; i professori delle discipline scientifiche possono vivere. Sono bravi. Ma sarebbe una buona azione rompere la testa ai nove decimi degli insegnanti di materie letterarie – petulanti pappagalli con un cervello piccolo così!».
Era un giudizio indubbiamente severo, ma per Ruth era come una bestemmia. Non poté fare a meno di paragonare i professori, la loro pulizia, la loro erudizione, i loro vestiti ben tagliati, la loro voce ben modulata, la loro aria colta e raffinata, con questo giovanotto quasi incredibile, che lei pur tuttavia amava, con i suoi abiti sempre sformati e i suoi muscoli sviluppati dal tremendo lavoro, il quale si infiammava nel parlare e sostituiva il freddo ragionamento con l’insulto e la calma sicurezza con frasi piene di slancio appassionato. Loro almeno avevano un discreto stipendio ed erano – sì, dovette sforzarsi di ammetterlo – erano gentiluomini; mentre lui non era in grado di guadagnare un soldo, e non era come loro.
Non tenne conto delle parole di Martin, né tornò sui suoi giudizi. Giunse alla conclusione che aveva torto, peraltro inconsciamente, confrontando fatti esteriori. Loro, i professori, davano giudizi letterari esatti perché avevano successo, mentre quelli di Martin erano sbagliati perché non sapeva vendere i suoi prodotti. Per usare le sue parole loro «ce la facevano» e lui no. E poi era logico che avesse torto, lui che ancora poco tempo prima si era trovato proprio in quella stanza, timido e impacciato al momento della presentazione, con le sue occhiate preoccupate per la paura di far cadere i soprammobili muovendo le spalle, con le sue domande su quanto tempo prima fosse morto Swinburne e con le sue boriose dichiarazioni di aver letto Excelsior e Il salmo della vita.
Così, involontariamente, Ruth confermò di venerare la tradizione, come egli aveva detto. Martin intuì quel che lei pensava, ma decise di non continuare la discussione. Non l’amava per quei giudizi su Praps, Vanderwater e i docenti di inglese, e stava cominciando a capire, in modo sempre più convinto, di avere capacità intellettive e conoscenze culturali cui lei non sarebbe mai arrivata e di cui ignorava persino l’esistenza.
Se Ruth considerava insensate le idee di lui in campo musicale, per quanto riguardava l’opera lirica lo trovava non solo ottuso, ma anche caparbio.
«Ti è piaciuto?», gli chiese una sera tornando a casa dal teatro.
Quella volta, dopo un mese di rigide economie sul mangiare, l’aveva portata a sentire un melodramma. Dopo aver atteso invano che egli ne parlasse, gli aveva posto la domanda ancora eccitata e tremante da ciò che aveva appena visto e sentito.
«Mi è piaciuta l’ouverture», rispose Martin. «Era splendida».
«Sì, ma l’opera vera e propria?».
«Era splendida anch’essa; o meglio, lo era l’orchestra, anche se mi sarebbe piaciuta di più se quei tipi che saltabeccavano qua e là avessero tenuto la bocca chiusa o fossero usciti dal palcoscenico».
Ruth rimase sbigottita.
«Non starai parlando della Tetralani o di Barillo, spero?», chiese.
«Tutti… tutta la tribù».
«Ma sono grandi artisti», protestò lei.
«Hanno rovinato la musica lo stesso, con le loro smorfie e i loro gesti artificiosi».
«Ma non ti piace la voce di Barillo?», domandò Ruth. «È il più bravo dopo Caruso, dicono».
«Naturalmente mi è piaciuto, e mi è piaciuta ancor più la Tetralani, che ha una voce squisita, o almeno così mi è parso».
«Ma, ma…», balbettò Ruth. «Allora non ti capisco. Ammiri la loro voce e dici che hanno rovinato la musica».
«Precisamente. Vorrei tanto sentirli in concerto, e ancor più vorrei non sentirli quando suona l’orchestra. Temo di essere un irriducibile realista. I grandi cantanti non sono grandi attori. Sentire Barillo cantare con voce d’angelo una romanza d’amore e la Tetralani rispondergli con suoni altrettanto angelici, e il tutto accompagnato dall’armonia di una musica scintillante e suggestiva, è emozionante, molto emozionante. Non solo lo ammetto, ma lo sostengo con convinzione. Ma tutti questi sentimenti spariscono se li guardo – se guardo la Tetralani, alta un metro e ottanta senza scarpe e pesante novanta chili, e Barillo con il suo metro e sessanta scarso, la faccia viscida e il torace di un fabbro basso e tozzo, e li vedo fare un duetto insieme, con le loro mossette, gli abbracci e le braccia lanciate in aria come i pazzi del manicomio, e poi mi si chiede di leggere in tutto ciò la rappresentazione di una scena d’amore fra una principessa bella e flessuosa e un giovane principe avvenente e romantico, – ecco, non posso proprio accettarlo. Non è verosimile. Non dirmi che qualcuno al mondo ha mai amoreggiato in questo modo. Senti, se io ti avessi fatto la corte così tu mi avresti preso a schiaffoni».
«Ma non capisci», protestò Ruth. «Ogni arte ha i propri limiti». (Stava cercando di ricordare una lezione che aveva sentito all’università sulle convenzioni delle forme artistiche.) «In pittura ci sono solo due dimensioni, ma si accetta l’illusione delle tre dimensioni, che l’arte del pittore cerca di trasfondere sulla tela. In letteratura ammettiamo tranquillamente l’onnipotenza dell’autore. Approviamo come perfettamente legittimo il resoconto fatto dallo scrittore dei pensieri nascosti dell’eroina pur sapendo benissimo, mentre leggiamo, che era sola nelle sue meditazioni e che né l’autore né altri erano in grado di percepire ciò che le passava per la mente. Lo stesso avviene nel teatro, nella scultura, nel melodramma e in qualunque forma d’arte. Si devono accettare cose che sono assurde».
«Sì, questo l’ho capito», rispose Martin. «Tutte le arti hanno le loro convenzioni». (Ruth fu sorpresa nel sentirgli usare questa parola, come se avesse studiato anche lui all’università e non avesse invece afferrato qua e là brandelli di cultura dalle disordinate letture dei libri della biblioteca pubblica.) «Ma anche le convenzioni devono essere credibili. Alberi dipinti su cartone e messi in piedi ai due lati del palcoscenico sono accettabili come foresta, perché si tratta di una convenzione con un grado sufficiente di realismo. Ma non possiamo permettere che ci facciano passare un paesaggio marino per un bosco, perché è contrario alla realtà percepita dai sensi. E così tu non potresti, o meglio non dovresti, accettare come una convincente rappresentazione dell’amore i deliri, i contorcimenti e le parossistiche piroette di quei due pazzi che abbiamo visto stasera».
«Credi di saperne di più di tutti gli intenditori di musica?».
«Niente affatto, per carità. Sostengo solo il mio punto di vista personale. E ti ho detto quello che penso per spiegarti come mai secondo me i lazzi da pachiderma di Madame Tetralani hanno rovinato la musica suonata dall’orchestra. Magari gli intenditori di musica avranno ragione, ma io sono io, e non voglio subordinare il mio gusto al giudizio espresso all’unanimità da tutti gli altri. Se una cosa non mi piace, non mi piace; e non c’è ragione che io debba fingere di aver gradito qualcosa solo perché la maggioranza dei miei simili l’ama, o vuol fare credere di amarla. Non sono capace di seguire la moda per quello che mi piace o che non mi piace».
«Ma per la musica ci vuole preparazione», osservò Ruth, «e nell’opera in particolar modo. Forse…».
«Non ho una preparazione adeguata?», l’interruppe lui.
Lei annuì.
«È proprio così», ammise lui. «Considero per me una gran fortuna non essere stato educato ad amare questa roba. Se lo fossi stato, questa sera avrei sparso anch’io lacrime di commozione, persuaso che i grotteschi balzi di quella straordinaria coppia erano un degno complemento delle loro bellissime voci e dello stupendo accompagnamento orchestrale. Hai ragione. È soprattutto una questione di preparazione. E io ora sono troppo vecchio. Voglio solo cose verosimili. L’illusione che non mi convince è come una colossale menzogna, ed è proprio questa l’impressione che ho avuto dall’opera di questa sera quando ho visto il piccolo Barillo che, preso da un raptus, afferra fra le braccia la mastodontica Tetralani (anch’essa in preda al delirio) e le dice tutta la sua adorante passione».
Ancora una volta Ruth valutò quelle opinioni sulla scorta dei fatti esteriori e nel rispetto della fedeltà alle istituzioni. Era mai possibile che egli avesse ragione e che tutta la società colta avesse torto? Chi era lui? Quelle parole e quei pensieri non l’impressionarono. Era troppo profondamente radicata nella tradizione per provare alcuna simpatia per le idee rivoluzionarie. Aveva una lunga consuetudine con la musica ed aveva amato l’opera fin da bambina, come tutte le persone del suo ambiente. E allora che diritto aveva Martin Eden, che solo da poco era uscito dal mondo del ragtime e delle canzoni del popolino, di trinciare giudizi sulla grande musica? Era irritata con lui e, nel camminargli accanto, si sentiva vagamente offesa. Nei momenti migliori, negli slanci di benevolenza, considerava quelle opinioni il frutto di un’improvvisa bizzarria, di uno spirito estroso e beffardo. Ma quando alla porta egli la prese fra le braccia e le diede il bacio della buona notte con il calore dell’innamorato, lei dimenticò tutto nell’effondersi dell’amore che sentì per lui. E più tardi, incapace di prendere sonno, si chiese perplessa, come spesso aveva fatto di recente, perché volesse bene a un uomo così strano e nonostante la disapprovazione della famiglia.
Il giorno dopo Martin Eden mise da parte gli scritti di carattere commerciale e scrisse di getto in un momento di febbrile creatività un saggio cui diede il titolo di La filosofia dell’illusione, che partì subito con il viatico di un francobollo: era destinato a riceverne molti altri e a fare molti viaggi nei mesi che seguirono.
XXV
Maria Silva era povera e della miseria conosceva tutti gli aspetti, mentre a Ruth quella parola dava solo il senso di un’esistenza sgradevole. Era tutto quello che sapeva sull’argomento. Era consapevole della condizione di Martin e l’associava alla fanciullezza di Abramo Lincoln, del signor Butler e di tutti gli uomini che avevano avuto successo. Inoltre, pur cosciente che la povertà era tutt’altro che piacevole, aveva la sana concezione borghese secondo la quale essa era salutare, perché agiva da potente stimolo spingendo al successo tutti gli uomini che non si fossero ridotti ad essere animali da soma senza un briciolo di speranza. Per questo motivo il venire a sapere che Martin era così malridotto da essere costretto a impegnare l’orologio e il soprabito non la turbò. Giunse persino a pensare che fosse un fatto positivo che prima o poi lo avrebbe spinto a venire a patti con la realtà e ad abbandonare la letteratura.
Ruth non vide mai la fame nel viso di Martin, che affilandosi accentuava il leggero infossamento delle guance. Notò invece con soddisfazione quel cambiamento che sembrava averlo ingentilito attenuando la volgarità della carne e quel vigore animalesco che era per lei fonte di attrazione e di ripulsa. A volte, mentre si trovava con lui, osservava nei suoi occhi un’insolita luminosità, che ammirava, perché lo faceva sembrare un poeta e uno studioso, come egli avrebbe voluto essere e come lei avrebbe desiderato che lui fosse. Tuttavia Maria Silva leggeva un ben diverso racconto in quelle guance scavate e in quegli occhi febbrili, di cui seguiva di giorno in giorno il cambiamento, riflesso del mutevole andamento delle sue fortune. Lo vedeva uscire di casa con il soprabito e tornare senza, benché la giornata fosse umida e fredda, e subito dopo osservava il viso di lui diventare più pieno e lo sguardo perdere il languore della fame. Allo stesso modo aveva visto sparire la bicicletta e l’orologio e ogni volta rifiorire lo spento vigore del suo pensionante.
Osservava anche le fatiche notturne misurandole dalla quantità di petrolio che bruciava nella lampada. Quanto lavorava! Molto più di lei, anche se sapeva che faceva un mestiere diverso dal suo. Si accorse con sorpresa che meno cibo aveva più lavorava. Di tanto in tanto, e quasi con noncuranza, gli faceva avere una pagnotta appena uscita dal forno quando pensava che la fame fosse diventata insopportabile, e mascherava il gesto dicendogli scherzosamente che il suo pane era migliore di quello che cuoceva lui. In altre occasioni gli mandava uno dei bambini con una grande scodella di minestra calda, chiedendosi fino all’ultimo se le era lecito toglierla dalla bocca dei figlioletti. E Martin le era molto grato, ben sapendo per esperienza personale che cosa fosse la vita dei poveri e comprendendo che quella era vera carità.
Un giorno, dopo avere saziato la prole con ciò che era rimasto in casa, Maria investì gli ultimi quindici centesimi in un bottiglione di vino da quattro soldi. Martin, venuto in cucina per prendere acqua, fu invitato a sedere e a bere con lei. Egli brindò così alla sua salute e a sua volta Maria bevve alla salute di lui. Poi lei fece un brindisi al successo della sua opera ed egli espresse, alzando il bicchiere, l’augurio che James Grant venisse a pagarle i soldi del bucato. Costui, un carpentiere che lavorava a giornata e non sempre regolava i suoi conti, doveva a Maria tre dollari.
Bevvero a stomaco vuoto quel vino aspro e giovane che andò loro subito alla testa. Pur così diversi, soffrivano entrambi di una miseria che era accentuata dalla solitudine, un vincolo che, per quanto tacitamente ignorato nella conversazione, li univa strettamente. La donna rimase sorpresa nel venire a sapere che Martin era stato nelle Azzorre, dove ella era rimasta fino all’età di undici anni. E lo fu ancor più quando apprese che era stato nelle isole Hawaii, dove lei era emigrata dalle Azzorre con la famiglia. Ma la sua meraviglia fu senza limiti quando egli le disse di essere stato a Maui, l’isola dove lei era diventata donna e si era sposata. E a Kahului, dove aveva conosciuto il marito, lui, Martin, era stato due volte! Sì, Maria ricordava le navi che trasportavano lo zucchero, e pensare che lui ci era stato imbarcato, – eh, sì, come era piccolo il mondo! E Waikuku! Anche lì? Aveva conosciuto il capo della piantagione? Sì, e aveva bevuto un paio di bicchieri con lui.
E così, rammentando il passato, annegarono la fame nel vino aspro e forte. A Martin il futuro non sembrò più così incerto. Vedeva il successo balenargli davanti agli occhi. Gli sarebbe bastato allungare la mano per afferrarlo. Scrutò poi la faccia profondamente segnata della donna che gli stava davanti, ricordò le minestre e le pagnotte appena sfornate che gli aveva dato e si sentì sciogliere da un senso di gratitudine che lo portò a uno slancio di generosità.
«Maria», esclamò all’improvviso. «Che cosa vorresti ricevere?». Lei lo guardò perplessa. «Che cosa vorresti avere ora, proprio in questo momento, se potessi?».
«Scarpe, scarpe per bambini – sette paia de scarpe».
«Le avrai», disse Martin, mentre la donna annuiva con aria grave. «Ma voglio che tu esprima un desiderio grande, qualcosa di molto importante».
Negli occhi di Maria brillò uno sguardo divertito. Aveva deciso di scherzare con lei, di cui pochi allora osavano prendersi gioco.
«Pensa bene», l’ammonì lui proprio mentre lei si accingeva a rispondere.
«Beh», rispose la donna. «Pensato bene. Me piace la casa, questa casa… io voglio, niente affitto da pagare, sette dollari al mese».
«L’avrai», le concesse lui, magnanimo, «e fra breve. Ma ora formula un desiderio veramente grande. Fa’ finta che io sia Dio. Io ti dico che avrai tutto quello che vuoi. Pensaci e parla. Io ti ascolto».
Maria rifletté con aria solenne per qualche secondo. «Mica ci avrai paura?», chiese a mo’ di avvertimento.
«No, no», rise lui. «Non ho paura. Avanti».
«Guarda che questo è proprio forte», l’ammonì lei di nuovo.
«Benissimo. Spara».
«Beh, allora…». Fece un lungo sospiro come un bambino, raccogliendo tutte le forze per chiedere il massimo che desiderava dalla vita. «Voglio fattoria, e stalla per il latte. Tante mucche, tanta terra, tanta erba. Me piace vicino a San Leandro; ci sta mia sorella. Così vendo el latte a Oakland e faccio un sacco de soldi. Joe e Nick non devono stare appresso alle mucche. Vanno a scuola, fanno i meccanici, lavorano in ferrovia. Sì, me piace la fattoria».
Si fermò e guardò Martin con gli occhi che le brillavano.
«L’avrai», rispose lui prontamente.
Lei annuì e toccò con le labbra il bicchiere di vino, alzandolo verso chi le concedeva un dono che sapeva non sarebbe mai stato fatto. Ma era stato fatto col cuore e fra sé lei lo capì e gli fu grata, proprio come se quel desiderio fosse già realtà.
«No, Maria», proseguì Martin; «Nick e Joe non dovranno più sbattersi qua e là a vendere il latte e i bambini potranno andare a scuola e avere le scarpe per tutto l’anno. Sarà una fattoria di prim’ordine – completa di tutto. Ci sarà la casa colonica per viverci e la scuderia dei cavalli e naturalmente la stalla delle mucche. Ci saranno polli, maiali, ortaggi, alberi da frutta e tutto il resto; e ci saranno abbastanza mucche da pagare uno o due braccianti. Allora non avrai altro da fare che badare ai bambini. E poi se troverai un brav’uomo, potrai sposarti e prendertela con calma, perché penserà lui alla fattoria».
Rientrando nella realtà da un futuro così dovizioso, Martin uscì di casa per portare al banco dei pegni il suo unico vestito buono. Era un gesto disperato, perché lo escludeva da ogni contatto con Ruth. Non ne aveva nessun altro presentabile e benché potesse ancora andare dal macellaio e dal fornaio, e persino di tanto in tanto dalla sorella, era inimmaginabile entrare nella dimora dei Morse vestito in modo così disdicevole.
Continuò la lotta scoraggiato e quasi senza speranza. Cominciava a sospettare che anche quella battaglia fosse stata perduta e che sarebbe dovuto andare a lavorare. In tal modo avrebbe soddisfatto tutti – il droghiere, la sorella, Ruth e persino Maria, alla quale doveva un mese di affitto arretrato. Era in ritardo di due mesi nei pagamenti del noleggio della macchina per scrivere e l’agenzia sollecitava con insistenza il pagamento, o la restituzione della macchina. Al colmo della disperazione, non in segno di accettazione della sconfitta ma per avere un po’ di tregua nella guerra con il fato in attesa di momenti migliori, sostenne un pubblico esame per l’assunzione nel servizio postale ferroviario. Con sua grande sorpresa fu il primo in graduatoria. Il posto era assicurato, anche se non sapeva quando sarebbe venuta la chiamata.
Fu a quel punto, proprio nel momento più nero, che la perfetta macchina editoriale si inceppò. Un ingranaggio doveva aver funzionato male, oppure si era esaurito il lubrificante, perché una mattina il postino gli recapitò una busta piccola e sottile. Martin diede un’occhiata all’angolo sinistro in alto e lesse il nome e l’indirizzo del «Transcontinental Monthly». Ebbe un tuffo al cuore e improvvisamente si sentì mancare, avvertendo contemporaneamente uno strano tremito alle ginocchia. Entrò barcollando in camera sua e si sedette sul letto tenendo in mano la busta ancora chiusa, e in quel momento capì come si potesse restare fulminati ricevendo una bellissima notizia.
E quella era una buona notizia. Poiché in quella piccola busta non c’era alcun manoscritto, doveva trattarsi della notifica che un suo scritto era stato accettato. Si ricordava quale fosse il racconto mandato al «Transcontinental»: era Il suono delle campane, una delle sue novelle dell’orrore, ed era di cinquemila parole giuste. E siccome le riviste di prim’ordine pagavano sempre al momento dell’approvazione, c’era un assegno. Due centesimi per parola… venti dollari ogni mille parole: doveva essere di cento dollari. Cento dollari! Nell’aprire la busta la massa dei suoi debiti gli si affollò nel cervello: 3,85 al droghiere; macellaio 4 dollari netti; fornaio 2 dollari; fruttivendolo 5; in totale 14,85. C’era poi l’affitto della stanza, 2,50, e un altro mese anticipato, 2,50; due mesi di macchina per scrivere, 8 dollari, e un mese di noleggio anticipato 4 dollari; in totale 31,85. Doveva infine aggiungere le somme che aveva ricevuto dal banco dei pegni, più l’interesse: orologio 5,50; bicicletta 7,75; vestito 5,50 (con un interesse del 60, ma che importava?) – con un totale complessivo di 56,10. Vide davanti a sé sospeso nell’aria e scritto con cifre luminose l’intero importo, che sottratto da quello che riceveva dava un resto di 43,90. Saldato ogni debito, riscattato ogni oggetto impegnato, gli sarebbe rimasta a tintinnare nelle tasche la regale somma di 43,90. E come se ciò non bastasse l’affitto già pagato di un mese della camera e della macchina per scrivere.
Nel frattempo aveva tirato fuori il foglio dattiloscritto e l’aveva aperto. Non c’era alcun assegno. Scrutò nella busta, la sollevò alla luce e non volendo credere ai suoi occhi la squarciò. Non c’erano assegni. Lesse la lettera scorrendo le righe e, saltando gli elogi che il direttore faceva del racconto, arrivò al punto più importante, al motivo per cui non era stato inviato l’assegno. Non lo trovò ma ciò che vide fu come una mazzata. Gli cadde la lettera dalle mani, gli si appannarono gli occhi e ricadde supino sul letto tirandosi addosso le coperte fino al mento.
Cinque dollari per il Suono delle campane… cinque dollari per cinquemila parole! Un centesimo ogni dieci parole invece di due centesimi a parola! E il direttore l’aveva pure lodato. Inoltre avrebbe ricevuto l’assegno solo dopo la pubblicazione. Erano tutte frottole, dunque, quei discorsi sul compenso minimo di due centesimi la parola e sul pagamento al momento dell’accettazione. Erano bugie che lo avevano tratto in inganno. Se l’avesse saputo non avrebbe mai intrapreso quella carriera. Sarebbe andato a lavorare – a lavorare per Ruth. Tornò con la mente al primo giorno in cui aveva tentato di scrivere e fu atterrito da quell’enorme spreco di tempo – e tutto per un centesimo ogni dieci parole. Ed erano fandonie anche le altre cose che si dicevano sui favolosi compensi degli scrittori. Quelle idee di seconda mano che si era fatto sulla condizione degli autori erano pure illusioni, e ne aveva avuto la prova.
L’elegante e dignitosa copertina del «Transcontinental», che si vendeva a venticinque centesimi la copia, ne faceva una rivista di prim’ordine. Era un periodico serio e rispettabile, che si pubblicava regolarmente da molto tempo prima della nascita di Martin. Sul frontespizio recava stampata, in ogni numero, la citazione di un grande scrittore, le parole di un astro della letteratura mondiale che proclamavano la nobile missione del «Transcontinental», dalle cui pagine erano balenati i primi lampi del suo genio immortale. E invece questo «Transcontinental» così alto e nobile, questa rivista animata da propositi così puri pagava cinque dollari per cinquemila parole! Martin si ricordò che il grande scrittore citato in copertina era morto di recente all’estero in estrema povertà – il che non era affatto sorprendente considerando quale principesco trattamento fosse riservato agli autori.
Eh sì, aveva abboccato all’amo, aveva preso come oro colato le menzogne dei giornali sugli scrittori e su ciò che guadagnavano, e in tal modo aveva buttato via due anni. Ma ora avrebbe sputato quell’esca: non avrebbe più scritto neppure una riga. Avrebbe fatto ciò che voleva Ruth – ciò che tutti si aspettavano da lui: si sarebbe trovato un lavoro. Quel pensiero gli rammentò Joe, che vagabondava nel paese del dolce far niente, ed emise un profondo sospiro di invidia. Reagiva in tal modo violentemente ai giorni e giorni di impegno intensissimo. Ma Joe non era innamorato, non aveva nessuna delle responsabilità dell’amore, e poteva permettersi di bighellonare nella terra dell’ozio. Lui, Martin, aveva qualcosa per cui valeva la pena di lavorare, e avrebbe lavorato. Avrebbe cominciato la ricerca di un’occupazione l’indomani mattina, di buon’ora. E avrebbe fatto sapere a Ruth di aver fatto ammenda degli errori del passato e di essere pronto a entrare nell’ufficio del padre.
Cinque dollari per cinquemila parole, dieci parole a un centesimo, era quello il prezzo dell’arte. La delusione e l’indignazione per quell’infamia ossessionavano i suoi pensieri e chiudendo gli occhi vedeva, scritto a lettere di fuoco, l’importo di «tre dollari e ottantacinque centesimi» che doveva al droghiere. Rabbrividì e sentì che le ossa gli dolevano. Gli dolevano anche i fianchi. E gli doleva la testa, gli doleva la fronte, gli doleva la nuca, gli doleva il cervello fino a scoppiargli, gli dolevano in modo insopportabile le arcate degli occhi, al di sotto delle quali, indelebilmente incisi nello sguardo, apparivano spietati quei «tre dollari e ottantacinque centesimi». Per sfuggire all’incubo aprì gli occhi, ma la bianca luce della stanza parve bruciargli le pupille, costringendolo a richiudere le palpebre e ad affrontare di nuovo la visione di quel numero tremendo.
Cinque dollari per cinquemila parole, dieci parole a un centesimo – non riusciva a togliersi dalla mente quel pensiero ossessionante, né a cancellare dalla vista la cifra di «3,85». Tuttora, davanti al suo sguardo pieno di meraviglia, questa sembrò trasformarsi in «2». Ah, pensò, questo è il fornaio. Gli apparve poi l’importo di «2,50». Rimase perplesso e cominciò a pensarci intensamente come se si trattasse di una questione di vita o di morte. Doveva due dollari e mezzo a qualcuno, questo era chiaro, ma a chi? Scoprirlo era il compito assegnatogli da un universo oppressivo e malevolo ed egli ripercorse gli infiniti meandri della mente aprendo ripostigli e bugigattoli pieni delle cianfrusaglie dei ricordi e dei brandelli della memoria, alla disperata ricerca della risposta. E dopo un tempo interminabile questa gli arrivò facile e senza sforzo: era la somma che doveva a Maria. Si volse sollevato verso i numeri, che continuavano a balenargli tormentosamente sotto le palpebre chiuse. Aveva trovato la soluzione, e adesso poteva riposare in pace. Ma no, ecco svanire i «2,50» e al loro posto fiammeggiare «8,00». E questo, che cos’era? Per scoprirlo doveva riprendere la tediosa esplorazione dei segreti del cervello.
Non seppe mai quanto fosse durato quel viaggio, ma dopo quello che gli parve un lasso di tempo enorme fu richiamato alla realtà dal rumore di qualcuno che bussava alla porta e da Maria che gli chiedeva se stesse bene. Rispose con un voce velata, che non riconobbe come la propria, che stava solo schiacciando un sonnellino. Rimase sorpreso nel notare che la stanza era piombata nel buio della notte. Aveva ricevuto la lettera alle due del pomeriggio e si accorse di star male.
Poi gli «8,00 dollari» ricominciarono ad ardergli sotto le palpebre, riducendolo di nuovo in schiavitù. Ma si era fatto furbo. Non era necessario percorrere le strade del cervello. Era stato uno sciocco. Tirò invece una leva con la quale la mente prese a girargli intorno, come una mostruosa ruota della fortuna, una giostra del ricordo, un’orbitante sfera della saggezza, in un vortice sempre più veloce che infine l’inghiottì, lanciandolo in un turbinoso volo nell’infinita tenebra del caos.
Quasi naturalmente si trovò davanti a un mangano nel quale immetteva polsini inamidati. Ma nel farlo notò che su di essi erano scritti alcuni numeri. Era un modo nuovo per riconoscere la biancheria, pensò, finché, avvicinandosi con lo sguardo, vide su uno di essi le cifre «3,85». Capì allora che era il conto del droghiere e che nel tamburo della macchina stavano girando i foglietti con l’indicazione dei suoi debiti. Gli venne un’idea geniale. Li avrebbe gettati a terra e così avrebbe evitato di pagarli. Detto fatto li buttò su un pavimento spaventosamente sporco stropicciandoli dispettosamente. E mentre il mucchio cresceva vide che i conti si moltiplicavano ma che recavano tutti la somma di due dollari e mezzo, la cifra che doveva pagare a Maria. Ciò voleva dire che Maria non avrebbe sollecitato il saldo e decise generosamente di dare i soldi solo a lei; e così cominciò a frugare disperatamente nel mucchio per tirare fuori il suo conto. Lo cercò disperatamente, per secoli, e non lo aveva ancora trovato quando entrò il direttore dell’albergo, il grasso olandese. Era rosso per la rabbia e gridò con una voce stentorea che echeggiò per tutto l’universo: «Ti dedurrò dal salario il costo di questi polsini!». Il mucchio diventò una montagna e Martin capì che avrebbe dovuto lavorare per mille anni per pagare il danno. E allora non gli rimase altro da fare che uccidere il direttore e incendiare la lavanderia. Ma l’enorme olandese gli sfuggì e anzi, afferratolo per il collo, si mise a scuoterlo avanti e indietro. Lo sbatteva sulle tavole per stirare, sulla caldaia, sui mangani e poi, entrando nella sala lavaggio, sulla centrifuga e sulla lavatrice. Martin si sentiva scuotere tanto che gli tremavano i denti e la testa gli faceva male. Era sorpreso dall’erculea forza dell’olandese.
E poi si ritrovò davanti al mangano, questa volta a tirar fuori i polsini; il direttore di una rivista, dall’altra parte, li rimetteva dentro. Ogni polsino era un assegno e Martin li esaminava tutti con ansia, ma erano tutti in bianco. Rimase lì un milione di anni, non lasciandone scappare nessuno per paura che gli sfuggisse quello compilato. Finalmente lo trovò. Con dita tremanti lo alzò contro luce. Era di cinque dollari. «Ah! Ah!», rideva il direttore all’altra parte del mangano. «E allora ti ammazzerò», disse Martin. Andò nella sala lavaggio a prendere l’accetta e trovò Joe che inamidava i manoscritti. Cercò di farlo smettere e quindi tentò di colpirlo con l’accetta. Ma l’arma gli rimase sospesa a mezz’aria e si ritrovò nella stireria in mezzo a una tormenta di neve. No, non erano falde di neve, ma assegni per grosse cifre, il più piccolo dei quali di mille dollari. Cominciò a raccoglierli e a metterli in ordine, riunendoli in mazzetti di cento che legava con una cordicella.
Alzò gli occhi da quel lavoro e vide Joe in piedi davanti a lui impegnato a lanciare in aria e a riprendere ferri da stiro, camicie inamidate e manoscritti. Di tanto in tanto allungava la mano per prendere un fascio di assegni che, unendosi agli altri oggetti, uscivano dal soffitto per entrare in un’orbita lunghissima. Martin cercò di colpirlo con l’ascia, ma Joe la prese e l’aggiunse all’enorme ruota delle cose che giravano. Poi afferrò Martin e fece volare anche lui. Oltrepassò il tetto tentando di prendere i manoscritti; quando tornò giù ne aveva le braccia piene, ma appena toccato il suolo risalì, e dopo il secondo giro ne fece un terzo e continuò a volare percorrendo infinite volte il cerchio completo. Sentiva in lontananza il gorgheggio di una voce infantile che cantava: «Un altro giro, Willie, un altro giro».
Recuperata l’accetta al centro di una Via Lattea di assegni, camicie inamidate e manoscritti si preparò, scendendo, a uccidere Joe. Ma non poté, perché alle due di notte Maria, avendo sentito gemiti attraverso il sottile muro divisorio, andò in camera sua a scaldarlo passandogli sul corpo ferri da stiro e a fargli impacchi di pezze umide sugli occhi indolenziti.
XXVI
Quella mattina Martin Eden non andò a cercare lavoro. Nel tardo pomeriggio, quando infine il delirio cessò, aprì gli occhi doloranti e li volse lentamente intorno alla stanza. La piccola Mary Silva, di otto anni, che aveva ricevuto dalla madre l’incarico di vegliarlo, lanciò un urlo non appena si accorse che aveva ripreso conoscenza. Maria, precipitatasi dalla cucina, gli appoggiò la mano callosa sulla fronte rovente e gli sentì il polso.
«Vuoi mangiare?», gli chiese.
Martin scosse la testa. Mangiare era l’ultimo dei suoi desideri e si stupì di aver mai provato fame in vita sua.
«Sto male, Maria», disse debolmente. «Che cosa ho? Lo sai?».
«Influenza», rispose la donna. «Fra due o tre giorni starai bene. Meglio non mangiare adesso. Presto mangiare, magari domani».
Martin ignorava cosa fosse l’infermità e quando Maria e la bambina lasciarono la stanza tentò di alzarsi e di vestirsi. Con un supremo sforzo di volontà, mentre la testa gli girava e gli occhi gli dolevano tanto da non riuscire a tenerli aperti, riuscì a scendere dal letto, ma poté solo restare appoggiato al tavolo in preda a un’indicibile spossatezza. Mezz’ora dopo riguadagnò il letto, dove si limitò a rimanere sdraiato con gli occhi chiusi e ad analizzare i vari dolori e le diverse sensazioni di debolezza che avvertiva. Maria entrò parecchie volte a cambiargli le pezze fredde sulla fronte. Per il resto lo lasciò tranquillo, intuendo che le chiacchiere lo avrebbero infastidito. Di ciò Martin le fu grato e mormorò fra sé: «Maria, avrai la fattoria, certo, certo».
Poi si ricordò degli avvenimenti del giorno prima, che gli parvero lontanissimi. Gli sembrò che fosse passato un secolo dal momento in cui aveva ricevuto la lettera del «Transcontinental», e da quello in cui aveva deciso di farla finita e di cominciare una nuova vita. Aveva tentato il colpo mettendocela tutta, e si ritrovava in quello stato. Se non fosse stato costretto alla fame non sarebbe stato colpito dall’influenza. Si era ridotto allo sfinimento e quindi non aveva avuto la forza sufficiente a combattere i germi dell’infezione che gli erano penetrati nell’organismo. Questa era la verità.
«A che pro scrivere tanti libri se ci si deve rovinare la vita?», si chiese parlando a voce alta. «Non sono adatto a questo ambiente. Mai più letteratura. Io sono fatto per un ufficio contabilità, per un libro mastro, per uno stipendio mensile e per una casetta insieme con Ruth».
Due giorni più tardi, dopo avere mangiato un uovo e due fette di pane tostato e bevuto una tazza di tè, chiese la posta, ma si accorse che gli occhi gli facevano ancora male a tal punto che gli era impossibile leggere.
«Guarda tu che cosa è scritto nelle lettere, Maria», disse. «Lascia perdere i plichi grandi. Buttali sotto il tavolo. Leggimi quelle nelle buste piccole».
«Non posso», rispose la donna. «Teresa sa. Lei andata a scuola».
E così Teresa Silva, di nove anni, aprì le lettere e gliele lesse. Ascoltò distrattamente una lunga filippica di quelli che gli avevano affittato la macchina per scrivere soffermandosi con la mente alle vie e alle procedure che avrebbe dovuto seguire per procurarsi un lavoro. Ma una frase che sentì lo richiamò bruscamente alla realtà.
«”Vi offriamo quaranta dollari per tutti i diritti di pubblicazione del vostro racconto”», leggeva Teresa compitando lentamente le parole, «”purché ci sia consentito di apportare le modifiche richieste”».
«Che rivista è?», urlò Martin. «Presto, fammi vedere!».
Ormai era in condizione di leggere e non si accorse del dolore. Era il «White Mouse» che gli offriva quaranta dollari, e la novella era Il gorgo, un altro dei suoi primi racconti dell’orrore. Rilesse più volte quel foglio. Il direttore gli diceva esplicitamente che il soggetto non era stato da lui trattato in modo adeguato, ma lo compravano perché era originale. Se avessero avuto l’autorizzazione a ridurlo di un terzo, l’avrebbero accettato e gli avrebbero fatto pervenire i quaranta dollari al ricevimento del consenso.
Chiese penna e inchiostro e scrisse al direttore che poteva tagliare anche i due terzi, se voleva, e di mandargli subito i quaranta dollari.
Spedita Teresa a impostare la lettera, Martin rimase sdraiato a riflettere. Allora era vero. Il «White Mouse» pagava all’accettazione del manoscritto. Nel Gorgo c’erano tremila parole. Tagliandone un terzo ne restavano duemila. Quaranta dollari volevano dire due centesimi la parola. Pagamento all’accettazione e il compenso era di due centesimi per parola: i giornali non avevano detto il falso. E pensare che aveva giudicato il «White Mouse» un periodico di terz’ordine! Era evidente che non conosceva le riviste. Infatti aveva un’alta opinione del «Transcontinental», che aveva la tariffa di un centesimo ogni dieci parole, e una pessima considerazione del «White Mouse» che dava compensi venti volte superiori e inoltre pagava all’accettazione.
Una cosa era certa: non appena si fosse rimesso non sarebbe andato a cercare un posto. Aveva in testa altri racconti validi quanto Il gorgo che, a quaranta dollari l’uno, gli avrebbero fruttato molto più di quello che poteva dargli qualunque impiego o professione. Proprio quando pensava di avere perso la battaglia, era arrivata la vittoria. Aveva superato l’iniziazione e adesso aveva la strada spianata. Al «White Mouse» avrebbe aggiunto altre riviste alla lista dei suoi datori di lavoro. Avrebbe accantonato i lavori commerciali, che d’altronde avevano rappresentato per lui una perdita di tempo perché non gli avevano fruttato neppure un dollaro. Si sarebbe dedicato al suo lavoro, al suo vero lavoro, e avrebbe tirato fuori il meglio che aveva dentro di sé. Avrebbe voluto che Ruth fosse con lui a condividere quella gioia e, nel prendere in mano le lettere rimaste sul letto, ne trovò una di lei. Gli rivolgeva un dolce rimprovero, chiedendogli che cosa mai lo avesse tenuto lontano da lei per un periodo così terribilmente lungo. Rilesse la lettera con animo adorante, accarezzando con gli occhi quella calligrafia e struggendosi d’amore per ogni tratto della penna, e alla fine baciò la firma.
Nella risposta le disse chiaro e tondo che non era andato a trovarla perché i suoi migliori vestiti erano al banco dei pegni. Le raccontò di essere stato malato ma di essere ormai guarito e aggiunse che nel giro di dieci giorni (il tempo occorrente a una lettera per arrivare fino a New York e tornare) avrebbe riscattato gli abiti e sarebbe stato da lei.
Ma Ruth non era disposta ad attendere dieci o quindici giorni. E poi il suo innamorato stava male. Il pomeriggio seguente, accompagnata da Arthur, arrivò con la carrozza dei Morse, provocando grande eccitazione fra i bambini Silva e tutti i monelli della via, e la costernazione di Maria. Prese a scappellotti i figli che si affollavano intorno ai visitatori nel minuscolo portico d’ingresso, ed esprimendosi in un linguaggio ancor più scorretto e impacciato del solito cercò di scusarsi del proprio aspetto. Le maniche arrotolate intorno alle braccia insaponate e un sacco di iuta bagnato alla vita rivelavano che cosa stesse facendo. Era così confusa che due giovani tanto importanti avessero chiesto del suo inquilino che si dimenticò di invitarli a sedere nel salotto buono. Per entrare nella camera di Martin attraversarono la cucina, piena del calore, dell’umidità e del vapore del grande bucato che stava lavando. In preda all’emozione, Maria incastrò una nell’altra la porta della stanza e quella dell’armadio a muro e per cinque minuti vampate di caldo impregnate di odore di detersivo e di sporco penetrarono nella camera del malato.
Piegandosi a destra, a sinistra e poi di nuovo a destra Ruth riuscì a percorrere lo strettissimo passaggio fra il tavolo e il letto e ad arrivare al capezzale di Martin, mentre Arthur allargò troppo provocando la fragorosa caduta delle pentole e dei tegami accatastati nell’angolo in cui Martin cucinava. Il fratello non rimase a lungo. Poiché l’unica sedia era occupata da Ruth egli, compiuto il suo dovere, uscì di casa e si fermò in piedi accanto alla porta d’ingresso, al centro dell’ammirazione dei sette giovanissimi Silva che lo scrutavano con la curiosità con cui avrebbero osservato un fenomeno da baraccone. Intorno alla carrozza si erano radunati i bambini di una dozzina di isolati in ansiosa attesa di una conclusione tragica e terribile. Le carrozze facevano infatti la comparsa nella via solo in occasione di nozze e di funerali e poiché non c’era stato né un matrimonio né un decesso doveva trattarsi di un evento del tutto nuovo per la loro esperienza, di cui volevano vedere la fine.
Martin moriva dalla voglia di vedere Ruth. Aveva una natura essenzialmente portata all’amore e un bisogno superiore al normale di essere amato e capito. Vedeva nella comprensione fra due persone un incontro fra due menti, non si era ancora accorto che l’affetto di Ruth era frutto del suo carattere riservato e gentile e che nasceva dalla dolcezza della sua natura più che dall’avere capito l’oggetto dei propri sentimenti. Così avvenne che mentre Martin, tenendole la mano, le parlava al colmo della felicità, l’amore che lei provava per lui la spinse a ricambiare la stretta e gli occhi le diventarono umidi e lucidi al pensiero che egli fosse così indifeso e alla vista dei segni della sofferenza scritti sul viso dell’innamorato.
Ma non lo seguì mentre lui le raccontava delle due opere accettate, della disperazione nel ricevere la comunicazione del «Transcontinental» e della felicità alla lettura di quella del «White Mouse». Udiva le parole che egli diceva e ne comprendeva il significato letterale, ma non partecipava a quella disperazione e a quella felicità. Non era capace di uscire da se stessa. Vendere racconti alle riviste non contava nulla per lei. Le importava solo il matrimonio. E tuttavia non ne era cosciente; come non lo era del fatto che la sua aspirazione che Martin si facesse una posizione nasceva dall’istinto della maternità, di cui era la premessa. Avrebbe arrossito se ciò le fosse stato detto in chiare lettere e avrebbe risposto indignata che il suo solo interesse era nell’uomo che amava e nel desiderio che si affermasse. E così mentre Martin le apriva tutto il suo cuore, inebriato dal primo successo conseguito nel lavoro che aveva scelto, Ruth ne percepiva solo il senso superficiale, inorridita dallo spettacolo che quella stanza le presentava.
Per la prima volta vedeva la sordida faccia della povertà. I poveri amanti le erano sempre parsi romantici, ma non aveva la più pallida idea di come vivessero quei poveri amanti. Non aveva immaginato che potesse essere così. Gli occhi le andavano in continuazione dal volto di lui alla camera. L’umido sentore dei panni sporchi, che era entrato dalla cucina insieme con lei, era disgustoso. Martin doveva esserne impregnato se quella tremenda donna faceva il bucato tanto spesso. La degradazione era contagiosa e nel volgere lo sguardo su Martin le parve di vedere su di lui l’impronta di quell’ambiente. Non lo aveva mai visto non perfettamente rasato e la barba di tre giorni le faceva provare repulsione per quel viso, perché non solo gli dava lo stesso aspetto sporco e scuro che vedeva nel volto dei Silva, ma accentuava anche quella sua forza animalesca che tanto detestava. Ed eccolo qui, incoraggiato nella sua follia da quelle due opere accettate di cui le parlava con tanto orgoglio. E pensare che sarebbe bastato ancora un breve lasso di tempo perché lui si arrendesse e si cercasse un lavoro. Ora invece avrebbe continuato a scrivere e a fare la fame ancora per parecchi mesi.
«Che cos’è questa puzza?», chiese all’improvviso Ruth.
«È il bucato di Maria, suppongo», rispose lui. «Io mi ci sto abituando».
«No, no, non intendo questo. È qualcos’altro. Un odore stantio e sgradevole».
Martin annusò l’aria per qualche secondo. «Non sento niente altro, a parte il ristagno del tabacco», esclamò.
«Proprio questo. È terribile. Perché fumi tanto, Martin?».
«Non lo so, tranne che fumo più del consueto quando sono solo. È da tanto tempo che lo faccio. Ho cominciato quando ero ancora un ragazzino».
«È un brutto vizio. Lascia cattivo odore dappertutto».
«È colpa del tabacco che uso. Posso permettermi solo quello più a buon mercato. Ma abbi pazienza fino a quando avrò ricevuto questo assegno di quaranta dollari. Allora prenderò una marca con un aroma che piace anche agli angeli del cielo. Non è andata male con due accettazioni in tre giorni, non ti pare? Con questi quarantacinque dollari pagherò quasi tutti i debiti».
«Ma sono due anni di lavoro».
«No, meno di una settimana. Per favore, passami quell’agenda sull’angolo lontano del tavolo, il libro dei conti con la copertina grigia». L’aprì e cominciò a girare le pagine rapidamente. «Sì, avevo ragione. Quattro giorni per Il suono delle campane e due giorni per Il gorgo. Il che fa quarantacinque dollari per una settimana di lavoro e centottanta dollari per un mese. È più di qualunque stipendio che io possa ottenere. Aggiungi che sono soltanto all’inizio. Mille dollari al mese sono il minimo che vorrei per poterti comprare tutto ciò che desidero tu abbia. Una paga di cinquecento dollari il mese sarebbe troppo modesta. Questi quarantacinque dollari sono appena il primo passo. Aspetta che mi metta in moto e mi vedrai: sarò come una vaporiera».
Lei fraintese quell’immagine e tornò a parlare di sigarette.
«Adesso fumi già più del dovuto, e la marca di tabacco non c’entra. È il fumare in se stesso che non è bello, qualunque sia la marca che usi. Sei una ciminiera, un vulcano, una caldaia ambulante, e questa è una cosa bruttissima, Martin, tesoro, e lo sai benissimo anche tu».
Ruth si chinò verso di lui con lo sguardo supplichevole e nel fissare quel viso delicato e quegli occhi limpidi e puri, Martin fu colpito, come già in passato, dalla propria inadeguatezza.
«Vorrei che tu non fumassi più», sussurrò lei. «Ti prego… fallo per me».
«Va bene», esclamò lui. «Faccio tutto quello che mi chiedi, amore, lo sai».
Lei fu presa da una grande tentazione. Ripetutamente aveva avuto modo di vedere quanto egli fosse generoso e accomodante, ed era sicura che se gli avesse chiesto di rinunciare a scrivere lo avrebbe ottenuto. Per un istante quelle parole furono sul punto di uscirle dalle labbra, ma non le pronunciò. Non ne ebbe il coraggio; non osò. Si piegò invece verso di lui e fra le sue braccia mormorò:
«E poi non è tanto per me che lo devi fare, Martin, quanto per te stesso. Sono sicura che il fumo ti fa male; inoltre non è bello essere schiavi di qualche cosa, soprattutto se è una droga».
«Di te sarò sempre schiavo», rispose lui sorridendo.
«In questo caso ascolta quello che ti ordino».
Lo guardò con aria maliziosa, anche se in cuor suo si pentiva di non avere avuto l’animo di chiedergli ciò che veramente le stava a cuore.
«Non vivo che per obbedire a Vostra Maestà».
«Ecco allora il mio Primo comandamento: Non dimenticare di raderti ogni giorno. Guarda come mi hai graffiato la guancia».
Tutto terminò in moine, risate e carezze. Ma Ruth aveva segnato un punto a suo favore e non poteva pretendere di ottenere subito una seconda vittoria. Come donna si sentì fiera di essere riuscita a farlo smettere di fumare. Un’altra volta lo avrebbe convinto a trovare un posto di lavoro: non le aveva forse detto che avrebbe fatto tutto ciò che lei gli avesse domandato?
Si alzò dal capezzale del letto per esplorare la stanza: esaminò il filo della biancheria steso in alto da cui pendevano i fogli di appunti, apprese il mistero del paranco usato per appendere la bicicletta al soffitto ed osservò con tristezza il mucchio dei manoscritti sotto il tavolo, che le ricordavano tutto il tempo perso da Martin in attività inutili. Ammirò il fornello a petrolio, ma si accorse che gli scaffali delle provviste erano vuoti.
«Non hai niente da mangiare, povero caro», osservò tenera e commossa. «Chissà che fame hai».
«Tengo le provviste nell’armadio e nella dispensa di Maria», mentì lui. «Così si mantengono meglio. Non temere, non soffro di fame. Guardami».
Tornata presso di lui gli vide piegare il braccio con il pugno stretto per tendere il bicipite, che si gonfiò sotto la manica della camicia in un ammasso muscoloso duro e possente. Quella vista le riuscì sgradita. I suoi sentimenti la rifiutavano. Ma i sensi, il sangue, ogni fibra, ne erano sconvolti e attratti, e, come già era avvenuto in passato, gli si appoggiò contro invece di ritrarsi. E mentre lui la stringeva forte fra le braccia che la stritolavano, la mente di lei, oppressa da preoccupazioni meschine, voleva resistergli, mentre il cuore della donna che batteva al ritmo della vita stessa, esultava per la felicità. In quegli attimi supremi capiva l’immensità del suo amore per Martin; sentire quelle forti braccia intorno a sé che la tenevano così stretta, che la soffocavano quasi con la violenza dell’ardore, le dava un’emozione così intensa che credeva di svenire. In momenti come quello giustificava il tradimento commesso nei confronti dei suoi modelli di vita, la violazione dei propri ideali e, soprattutto, la disobbedienza al padre e alla madre, i quali non volevano che sposasse quell’uomo. Il pensiero che la figlia amasse un uomo simile li sconvolgeva, come a volte sconvolgeva lei stessa, quando era lontana da lui e ragionava a mente fredda. Ma quando si trovava con lui l’amava – l’amava in mezzo ai tormenti e ai turbamenti, era vero; ma era pur sempre amore, ed era più forte di lei.
«Questa influenza non è nulla», le stava dicendo Martin. «Dà un po’ di disturbi e lascia un brutto mal di capo, ma è uno scherzo al confronto con la febbre tropicale».
«Hai avuto anche quella?», gli chiese lei distrattamente, rassicurata nelle sue perplessità dalla gioia che provava fra le braccia di lui.
Continuò a fargli domande oziose e a seguire languidamente quella conversazione finché una sua risposta la fece trasalire.
Aveva avuto quella febbre in una colonia segregata di trenta lebbrosi in una delle isole Hawaii.
«Ma perché ci sei andato?». Un’indifferenza così totale per la propria salute le sembrava criminale.
«Perché non lo sapevo. Non immaginavo che ci fossero i lebbrosi. Quando disertai dalla goletta mi diressi verso l’interno per nascondermi. Per tre giorni mi nutrii dei frutti che crescevano spontanei nella giungla, bacche di mirto tropicale, ohias e banane. Il quarto giorno trovai la pista – un semplice tratturo che saliva e si addentrava nell’interno. Era proprio quello che cercavo, e mostrava i segni di un passaggio recente. A un certo punto arrivava a uno sperone di roccia che era come una lama di coltello. In cima, il sentiero era largo appena qualche palmo e correva fra due precipizi di parecchie centinaia di metri. Un uomo con una buona scorta di munizioni sarebbe riuscito a difenderlo da solo anche contro centomila nemici.
«Era l’unica via per giungere al nascondiglio. Tre ore dopo aver trovato il tratturo arrivai infatti a una piccola valle di montagna incastrata fra picchi di lava. Tutta la zona era terrazzata a coltivazioni di colocasie e di alberi da frutto, e c’erano anche otto o dieci capanne di paglia. Ma non appena vidi gli abitanti capii dove ero capitato. Mi bastò un’occhiata».
«E tu che cosa hai fatto?», chiese Ruth con un filo di voce, affascinata e atterrita come Desdemona al racconto delle avventure di Otello.
«Non c’era nulla da fare. Il capo era un vecchio molto gentile e un po’ fuori di testa, ma comandava ancora come un re. Aveva scoperto la valletta e ci aveva fondato la colonia – il che è illegale. Però aveva armi e munizioni abbondanti, e quegli indigeni, abituati a sparare ai bovini e ai maiali selvatici, avevano una mira infallibile. No, non c’era via di scampo per Martin Eden. Ci rimasi per tre mesi».
«Come sei riuscito a fuggire?».
«Sarei ancora lì se non avessi conosciuto una ragazza del posto, per metà cinese, per un quarto bianca e per un quarto hawaiana. Era bella, poverina, e aveva anche una buona istruzione. La madre, che stava a Honolulu, era ricchissima. Fu grazie a lei che potei finalmente scappare. Non aveva paura di essere punita per avermi fatto fuggire perché era la madre che finanziava la colonia. Ma prima mi fece giurare di non rivelare mai l’esistenza di quel posto segreto; e io ho mantenuto la promessa. Infatti prima di ora non l’ho mai detto a nessuno. La ragazza aveva solo le prime tracce di lebbra. Aveva le dita della mano destra leggermente contorte e una macchiolina sul braccio. Tutto qui. Immagino che ormai sia morta».
«Ma non avevi paura? E non sei stato contento di venir via senza aver preso questo terribile male?».
«All’inizio ne ero terrorizzato», confessò Martin, «ma con il passare del tempo mi ci sono abituato. Ero così dispiaciuto per quella povera ragazza che quasi non sentivo la paura. Era di animo nobile, oltre che bellissima di aspetto, e i segni della malattia si vedevano appena; e tuttavia era condannata a restare lì e a condurre un’esistenza primitiva consumandosi lentamente. La lebbra è molto più terribile di quanto si possa immaginare».
«Poveretta», mormorò dolcemente Ruth. «È un miracolo che ti abbia lasciato andar via».
«Che vuoi dire?», chiese ingenuamente Martin.
«Deve averti amato», disse Ruth, sempre con grande dolcezza. «Non è vero? Sii sincero».
La forte abbronzatura di Martin si era attenuata con il periodo passato nella lavanderia e la vita segregata che aveva condotto prima che la fame e la malattia dessero al viso un pallore ancora più intenso; un’ondata di rosso colorò lentamente la sua pelle diventata chiara. Stava per parlare quando Ruth l’interruppe.
«Non importa, non rispondere; non è necessario», disse ridendo.
Ma a lui sembrò di sentire un suono metallico in quella risata e di scorgere nello sguardo una luce gelida, che in quel momento gli rammentò una tempesta incontrata nel Pacifico settentrionale. Se la vide sorgere improvvisa davanti agli occhi – una burrasca notturna sotto il cielo sereno illuminato dalla luna piena, con le enormi ondate che scintillavano fredde alla luce lunare. Poi gli apparve la ragazza nel rifugio dei lebbrosi e si ricordò che era stato per amore che lo avevo lasciato andare.
«Aveva un animo nobile», rispose semplicemente. «Mi ha dato la vita».
Fu tutto quello che disse di quella vicenda, ma sentì Ruth soffocare in gola un singhiozzo e vide che volgeva il viso per guardare fuori dalla finestra. Quando si girò di nuovo verso di lui il volto aveva un’espressione composta e dagli occhi era scomparso ogni segno di tempesta.
«Sono una sciocca», disse in tono lamentoso, «ma non posso farci nulla. Ti amo tanto, Martin, ti amo, ti amo. Con il tempo diventerò più tollerante, ma ora non posso fare a meno di essere gelosa di questi fantasmi del tempo andato, e sai bene che il tuo passato ne è pieno.
«È inevitabile», aggiunse prevenendo le proteste di lui. «Non potrebbe essere altrimenti. Vedo il povero Arthur che mi fa segno di andare. È stanco di aspettare. Ciao, caro».
«C’è un preparato venduto in farmacia per chi vuole smettere di fumare», esclamò quand’era già sulla porta, «te lo mando».
La porta, appena chiusa, si riaprì un attimo.
«Ti amo, ti amo», gli sussurrò; e questa volta se ne andò davvero.
Maria l’accompagnò fino alla carrozza seguendola con occhi adoranti ma pronti a notare il tessuto e il taglio dei vestiti di Ruth (un taglio insolito che produceva effetti di una bellezza misteriosa). La folla dei ragazzini delusi seguì con lo sguardo la carrozza fino a quando non scomparve alla vista, trasferendo poi l’attenzione su Maria, di colpo diventata la persona più importante della via. Fu uno dei figli a distruggerne il prestigio osservando che quei visitatori straordinari erano venuti per il suo pensionante, e non per lei. Dopo questo episodio Maria ripiombò nella mediocrità mentre Martin cominciò a notare di essere tenuto in rispetto e considerazione dalle bande dei bambini del quartiere. Egli salì anche molto nella stima di Maria e avrebbe potuto raddoppiare il proprio credito presso il droghiere portoghese se questi avesse visto quell’arrivo in carrozza.
XXVII
Finalmente Martin fu baciato dalla buona sorte. Il giorno successivo alla visita di Ruth ricevette un assegno di tre dollari da una rivista scandalistica di New York a pagamento di tre strofette. Due giorni dopo un giornale di Chicago accettò il suo Cercatori del tesoro con la promessa di un pagamento di dieci dollari alla pubblicazione. Era un compenso modesto, ma si trattava del primo articolo che aveva scritto, anzi del primo tentativo di tradurre su una pagina i propri pensieri. A coronamento di quel periodo felice il racconto avventuroso a puntate per ragazzi, sua seconda composizione, fu accettato prima della fine della settimana da un mensile per i giovani intitolato «Youth and Age». A dire il vero gli offrivano sedici dollari alla pubblicazione dell’opera, che era costituita da ventunmila parole, con un compenso di settantacinque centesimi ogni mille parole, ma era pur sempre il suo secondo esperimento in campo letterario ed egli stesso era consapevole di quanto fosse rozzo e ingenuo.
E tuttavia neppure quei primi tentativi erano contrassegnati dal marchio della mediocrità. Soffrivano, caso mai, delle tipiche esagerazioni del principiante, che usa il maglio per schiacciare una mosca e il coltello da macellaio per cesellare un cammeo. Per questo motivo Martin fu contento di vendere per un pezzo di pane quegli scritti immaturi. Sapeva quello che valevano, e non aveva neppure impiegato troppo tempo ad accorgersene. Aveva invece grande fiducia nelle sue opere posteriori. Si era sforzato di essere qualcosa di più di un semplice scrittore di novelle per i settimanali. Aveva cercato di acquisire gli strumenti più raffinati dell’arte senza comprimere lo slancio istintivo. Si era consciamente proposto di disciplinare la propria esuberanza evitando gli eccessi ma senza tradire il suo amore per la realtà, e la sua opera era rimasta realista nonostante lo sforzo per trasfondervi le immagini e le visioni della fantasia. Aspirava a un realismo appassionato, pieno di fede e di calore umano. Voleva descrivere la vita com’era, con tutto il suo residuo di irrequietezza e di spiritualità.
Dall’esperienza delle letture fatte aveva tratto la conclusione che esistevano due scuole narrative. L’una considerava l’uomo un dio ignorandone l’aspetto materiale; l’altra lo trattava come sostanza inerte priva di sogni e di afflato divino. Per Martin erravano gli uni e gli altri nella rigidità e nella limitatezza delle loro posizioni. C’era la possibilità di accostarsi alla verità con un compromesso, che però non era lusinghiero per i propugnatori della divinità dell’uomo e contestava la bruta ferocia della scuola che sosteneva la sua materialità. Nel racconto Avventura, accolto con disgusto da Ruth, Martin pensava di aver raggiunto in campo narrativo questo ideale di verità, che aveva esposto teoricamente nel saggio Dio e la zolla.
Tuttavia Avventura e tutte quelle che considerava la sue cose migliori non avevano ancora superato il giudizio severo dei direttori; d’altro canto, pur avendone vendute due, non giudicava le novelle dell’orrore opere di alto livello o fra le sue più riuscite. Scopriva adesso in loro un eccesso di immaginazione, pur temperato dalla concretezza della realtà grazie alla quale avevano acquistato spessore. Questo insinuarsi di elementi di realismo in narrazioni grottesche e fantastiche era per lui un trucco o, nel migliore dei casi, un abile espediente. La grande letteratura era lontana. C’era grande bravura, ma non vera arte nell’assenza degli autentici valori dell’uomo. Aveva avuto l’abilità di unire alla tecnica letteraria una parvenza di contenuto umano, e il gioco gli era riuscito nella mezza dozzina di racconti etichettati come novelle dell’orrore che aveva scritto prima di giungere ai vertici di AvventuraGioiaIl vaso e Il vino della vita.
Usò i tre dollari ricevuti per le strofette per sopravvivere precariamente in attesa che arrivasse il denaro del «White Mouse». Diede il primo assegno al sospettoso droghiere portoghese che dopo avere ricevuto un dollaro come acconto del proprio debito gliene restituì due, equamente divisi da Martin fra il fornaio e il fruttivendolo. Non era ancora abbastanza ricco da potersi permettere acquisti di carne e quando venne il secondo assegno stava di nuovo riducendosi al lumicino. Era indeciso su come incassarlo. Non era mai stato in banca in vita sua, tanto meno per effettuarvi operazioni, ed aveva una gran voglia di entrare in uno dei grandi istituti di Oakland e di presentare allo sportello l’assegno da lui firmato in cambio di quaranta dollari in contanti. Un elementare buon senso gli suggeriva però di incassarlo presso il droghiere per impressionarlo e indurlo in seguito a concedergli un credito maggiore. Pur malvolentieri, Martin si convinse che questa era l’alternativa migliore: saldò quindi completamente il debito che aveva con lui e ne ebbe inoltre un bel mucchio di monete sonanti. Poté in tal modo pagare fino all’ultimo centesimo gli altri commercianti, riscattare il vestito e la bicicletta, versare un mese per il noleggio della macchina per scrivere e dare a Maria sia i soldi dell’affitto arretrato sia quelli del mese di anticipo. Dopo di ciò gli rimasero in tasca quasi tre dollari, che gli sarebbero serviti come riserva per i casi di emergenza.
Con questa piccola somma gli sembrava di essere immensamente ricco. Subito dopo avere recuperato l’abito era andato a trovare Ruth e lungo la strada non poté trattenersi dal far tintinnare il mucchietto di monete d’argento che teneva in tasca. Era rimasto tanto tempo senza soldi che non era capace di tenere le mani lontano da quel denaro, come un naufrago rimasto senza cibo che dopo il salvataggio non riesce a distogliere lo sguardo dalle provviste. Non era né avaro né pitocco, ma quei dollari e quei centesimi avevano per lui un valore particolare: significavano il successo, e le aquile impresse sul metallo erano per lui come simboli di vittoria.
A poco a poco cominciò a pensare che quello era il migliore dei mondi possibili. Certamente gli sembrava più bello di prima. Dopo che per settimane lo aveva visto triste e cupo, adesso, con quasi tutti i debiti pagati, tre dollari che gli ballavano in tasca e la sensazione di avere raggiunto il successo, era spuntato un sole caldo e luminoso, e persino un improvviso acquazzone che aveva sorpreso i passanti gli era parso un evento felice. Quando non mangiava il pensiero gli andava spesso alle migliaia di esseri umani che in tutto il mondo si trovavano nella sua stessa condizione; ora, con la pancia piena, la fame nel mondo non gli appariva più con la pregnanza di un tempo. Si dimenticò degli indigenti ed essendo innamorato gli vennero invece alla mente tutti coloro che erano investiti dal sentimento di amore. Pur senza volerlo, motivi di poesie amorose presero a turbinargli nel cervello. Distratto da quell’impulso creativo non si accorse della fermata e scese dal tram due isolati dopo l’incrocio.
A casa dei Morse trovò diverse persone. C’erano due cugine di San Rafael in visita a Ruth e altri che la signora aveva invitato con lo scopo dichiarato di intrattenerli ma con il fine segreto di mettere la figlia in contatto con molti giovani. Quel disegno era stato elaborato e intrapreso durante la forzata lontananza di Martin ed era ormai in piena attuazione. Si era preoccupata di invitare in casa uomini impegnati in attività ben definite. Così, oltre alle cugine Dorothy e Florence, Martin conobbe due professori universitari, uno di latino e l’altro di inglese; un giovane ufficiale appena tornato dalle Filippine che era stato compagno di scuola di Ruth; un giovane di nome Melville, segretario privato di Joseph Perkins, presidente della San Francisco Trust Company; e infine un cassiere di banca in carne e ossa, Charles Hapgood, un trentacinquenne di aspetto giovanile, laureato all’Università di Stanford, socio del Nile Club e dello Unity Club, politicamente conservatore e impegnato come portavoce del partito repubblicano durante le campagne elettorali – per farla breve, un giovane emergente sotto tutti gli aspetti. Fra le donne c’erano una pittrice specializzata in ritrattistica, una musicista professionista e un’altra che aveva conseguito il dottorato di ricerca in sociologia e godeva di una certa notorietà locale per la sua opera di organizzazione sociale nei quartieri poveri di San Francisco. Tuttavia le donne non avevano una parte importante nel piano della signora Morse. Avevano al massimo la funzione di utili accessori. Sua suprema preoccupazione era però che la casa fosse frequentata da uomini impegnati in attività professionali.
«Non ti scaldare durante la conversazione», ricordò Ruth a Martin prima che cominciasse il cimento delle presentazioni.
All’inizio egli era un po’ imbarazzato per l’opprimente consapevolezza della propria goffaggine, soprattutto nel portamento delle spalle, che erano ricadute nel vecchio vizio di pencolare pericolosamente verso gli arredi e i soprammobili. La sua confusione era inoltre accentuata dalla compagnia. Non era mai stato in contatto con tante persone di livello così elevato. Rimase affascinato da Hapgood, il cassiere di banca, e decise di sondarlo alla prima occasione. Sotto l’impaccio superficiale Martin nascondeva una forte personalità, e sentiva il bisogno di misurarsi con quegli uomini e con quelle donne per scoprire che cosa avessero appreso dagli studi e dal tipo di vita da cui lui era stato escluso.
Ruth andava spesso con lo sguardo verso di lui per controllare come si comportasse ed ebbe la lieta sorpresa di vedere che aveva stabilito rapporti cordiali con le cugine. Certamente non era preda dell’eccitazione e il fatto di essere seduto gli toglieva il problema del movimento delle spalle. Poiché le conosceva come ragazze sveglie e brillanti, sia pure in modo superficiale, Ruth non riuscì a capire le lodi che profusero nei confronti di Martin quella sera al momento di andare a letto. Il fatto era che quell’uomo, che aveva la fama di persona brillante e spiritosa presso quelli del proprio ceto sociale e che era l’anima delle compagnie che si riunivano per i balli e i picnic domenicali, non aveva trovato difficoltà in quell’ambiente grazie alle sue battute e alla sua gaiezza. Quella serata fu per lui un successo, che lo incoraggiò a seguire le sue naturali inclinazioni e lo confermò nell’impressione che poteva continuare senza paura nelle sue arguzie e nei suoi scherzi.
Più tardi le preoccupazioni di Ruth si dimostrarono giustificate. Martin si era messo a conversare con il professor Caldwell in un angolo bene illuminato e l’occhio severo di Ruth notò che, pur avendo smesso di tagliare l’aria con le mani, continuava a lanciare sguardi di fuoco, a parlare con troppa rapidità e troppo calore, ad animarsi esageratamente e ad arrossire in modo eccessivo nella foga della discussione. Mancava di decoro e di controllo e si comportava in modo del tutto diverso dal giovane docente d’inglese con cui discorreva.
Tuttavia Martin non si preoccupava delle apparenze. Aveva notato subito la prontezza intellettuale del suo interlocutore e ne ammirava la cultura. Per fortuna il professore ignorava quale opinione Martin avesse della maggioranza dei suoi colleghi. Martin voleva indurre l’altro a parlare del lavoro che faceva e ci riuscì dopo aver superato qualche resistenza. Egli non capiva perché parlare delle attività professionali fosse considerato sconveniente nelle conversazioni mondane.
«È assurda e ingiusta», aveva detto a Ruth qualche settimana prima, «questa avversione a parlare di lavoro. Perché mai gli uomini e le donne si riuniscono se non per scambiarsi quanto di meglio è in loro? E le cose migliori che hanno sono quelle che loro interessano, quelle con cui si guadagnano da vivere, quelle nelle quali si sono specializzati studiandole giorno e notte e vivendole persino nei sogni. Pensa che cosa succederebbe se il signor Butler, per rispettare questa convenzione sociale, ci venisse a dire le sue opinioni su Paul Verlaine, sul teatro tedesco o sui romanzi di D’Annunzio. Ci farebbe morire di noia. Da parte mia, se proprio devo ascoltarlo, preferisco sentirlo parlare di legge. È la cosa che sa meglio, e la vita è così breve che desidero il meglio da ogni uomo e da ogni donna che conosco».
«Ma ci sono argomenti di interesse generale che vanno bene per tutti», aveva obiettato Ruth.
«È qui che ti sbagli», aveva ripreso lui. «Tutte le persone che si trovano nella società e tutti i gruppi sociali – o piuttosto quasi tutte le persone e quasi tutti i gruppi sociali – imitano quelli che considerano i migliori fra loro. E chi sarebbero questi modelli perfetti? Quelli che non hanno nulla da fare, i ricchi oziosi. Normalmente costoro non sanno le cose conosciute da quelli che svolgono un’attività. Poiché l’ascolto di conversazioni basate su queste cose li annoierebbe, questi sfaccendati sostengono che discutere di queste cose significa parlare di “bottega”, e che ciò è sconveniente. Stabiliscono anche quali siano gli argomenti leciti: l’ultima opera lirica, i romanzi più recenti, le carte, il biliardo, i cocktail, le automobili, i concorsi ippici, la pesca alla trota, la pesca d’altura, la caccia grossa, le crociere sui panfili eccetera – e bada bene che su questi argomenti hanno una grande competenza. In sostanza questo è il parlar di «bottega» dei nullafacenti. E la cosa più strana è che molte persone intelligenti, e tutte quelle che passano per esserlo, permettono agli sfaccendati di imporre la loro volontà. Quanto a me voglio avere il meglio che ognuno ha in se stesso, anche se per te parlare di lavoro è segno di volgarità».
Ruth non aveva capito. Questo suo attacco alle tradizioni le era sembrato frutto di ostinazione.
Martin aveva dunque contagiato con le sue idee il professor Caldwell, invitandolo a dire con franchezza ciò che pensava. Nel passare vicino a loro Ruth sentì Martin che diceva:
«Certamente non sosterrà queste eresie all’Università della California?».
Il docente si strinse nelle spalle. «Dobbiamo tener conto dei contribuenti e dei politici, capisce. Lo stanziamento dei fondi si decide a Sacramento e quindi dobbiamo aver buoni rapporti con la capitale dello stato, il Consiglio di amministrazione dell’ateneo, la stampa del partito di maggioranza, e magari anche quella di opposizione».
«Questo mi è chiaro; ma lei personalmente?», insistette Martin. «Si sentirà un pesce fuor d’acqua».
«Penso di non riscuotere molte simpatie nella palude universitaria. Qualche volta ho la netta sensazione che quello non sia il mio ambiente e che mi troverei molto meglio a Parigi, fra i letterati dei bassifondi, in una grotta d’eremita, oppure in qualche gruppo molto bohémien a bere vino rosso – «nero come il vino dei terroni», dicono a San Francisco – a cenare nelle trattorie a poco prezzo del Quartiere latino e a sostenere a gran voce idee estremiste su tutti gli aspetti dell’esistenza. Spesso ho quasi la sicurezza di essere potenzialmente un radicale in tutto. Tuttavia ci sono tante questioni su cui ho dubbi e di fronte alla fragilità umana mi sorgono perplessità che mi impediscono di cogliere tutti gli aspetti del problema – e si tratta di problemi umani di grande importanza».
Mentre parlava a Martin salirono alle labbra le parole della Canzone dell’aliseo:
Sono fortissimo alla mezza,
Ma alla luce della luna
Gonfio il grembo alla vela.
Era quasi sul punto di canticchiare quelle parole; pensò che l’altro assomigliasse agli alisei, ai forti, freschi e costanti venti di nord-est. Era una persona equilibrata che ispirava fiducia, ma in un certo senso deludeva. Martin ebbe l’impressione che non dicesse mai interamente ciò che pensava, simile in questo agli alisei che davano spesso la sensazione di non dispiegare mai pienamente la loro forza quando soffiavano, ma di avere sempre riserve di potenzialità che non sarebbero mai state sfruttate. Martin esercitava con la massima intensità le proprie capacità visionarie. Il suo cervello era un magazzino di fatti e di fantasie di facile accesso, perfettamente ordinati e disposti. Tutto ciò che si verificava nella realtà rivelava per associazione antitesi o somiglianze, le quali generalmente assumevano la forma di visioni, in un processo automatico che accompagnava gli eventi concreti. Come il viso di Ruth in un momento di gelosia gli aveva fatto tornare alla mente una dimenticata tempesta scatenatasi alla luce lunare, e come il professor Caldwell gli faceva rivedere il vento del nord-est che spingeva i pennacchi bianchi delle onde su un mare violaceo, così, di volta in volta, accostamenti che lungi dall’essere sconcertanti nascevano dall’ansia del riconoscimento e della classificazione, evocavano nuove visioni che sfilavano davanti ai suoi occhi o venivano proiettate sullo schermo della sua coscienza. Queste immagini sorgevano dalle azioni e dalle sensazioni del passato, dai fatti e dalle impressioni di libri letti il giorno prima o qualche settimana fa – un’interminabile moltitudine di apparizioni che, nel sonno o durante la veglia, gli affollavano la mente.
E così, ascoltando le parole che fluivano facili e leggere dal professor Caldwell – la conversazione di un uomo colto e intelligente – Martin si rivide come era stato nel passato, quando era un bullo di periferia con cappello dalla tesa larga e rigida e giacca a doppio petto a taglio squadrato, e camminava con andatura di sfida dondolando le spalle, avendo come aspirazione suprema quella di fare il «duro» fino a dove i poliziotti lo permettevano. Non cercò di rimuovere questo ricordo o di trovare giustificazioni. In un certo periodo della sua vita era stato un duro di quartiere, capo di una banda che creava grattacapi alla polizia e terrorizzava i cittadini onesti e lavoratori. Ma i suoi ideali erano cambiati. Mentre osservava intorno a sé uomini e donne educati e ben vestiti, e respirava a pieni polmoni l’atmosfera di cultura e di raffinatezza che lo circondava, scorse quel fantasma della prima gioventù traversare la sala a larghi passi, con la sua tesa rigida e il taglio squadrato del vestito, l’aria di sfida e la faccia grintosa. E vide questa figura, questo teppista, arrivare fino al vero Martin, seduto a conversare con un professore di università, a lui sovrapporsi e in lui dissolversi.
Giacché, in fondo, non aveva mai trovato la sua vera collocazione. Si era adattato a tutti i luoghi in cui era capitato, ed era sempre piaciuto, perché sapeva il fatto suo nel lavoro come nello svago, era capace di far valere i propri diritti e incuteva rispetto. Ma non aveva mai messo radici. Si era adeguato a ogni circostanza in misura sufficiente a soddisfare chi gli stava vicino, ma non si era mai accontentato. Era sempre stato percorso da un senso di irrequietezza, aveva sempre sentito il richiamo di qualcosa che veniva da lontano e aveva continuato a viaggiare e a cercarlo fino a quando non aveva trovato i libri, l’arte e l’amore. Ed eccolo arrivato dove si trovava ora, il solo fra tutti i compagni di tante avventure che fosse riuscito a farsi accettare nella casa dei Morse.
Tuttavia quei pensieri e quelle visioni non gli impedivano di seguire attentamente i discorsi del professor Caldwell, indici di una cultura vasta e profonda che Martin accettava con interesse, ma non passivamente. Di tanto in tanto quella conversazione gli rivelava regioni e territori dello scibile che gli erano del tutto ignoti. Ciò nonostante, grazie alla lezione di Spencer, si accorgeva di possedere i presupposti di ogni conoscenza. Con il tempo avrebbe potuto scorgere le linee di quelle coste invisibili. E allora: «Terra in vista! Attenti alle secche!». Gli pareva di essere seduto ai piedi del cattedratico in un’attenzione tesa e reverente; ma ascoltando cominciò a scoprire una debolezza in quei giudizi – una debolezza così impalpabile e sfuggente che non se ne sarebbe neppure accorto se non fosse stata presente in ogni ragionamento. E quando infine capì di che cosa si trattava si sentì subito all’altezza del suo interlocutore.
Ruth arrivò accanto a loro proprio nel momento in cui Martin cominciava a parlare.
«Le dirò dove sbaglia, o meglio qual è il punto debole della sua posizione. Trascura l’aspetto biologico, che non ha alcuna parte nel sistema con cui lei spiega la realtà. Mi riferisco a un’interpretazione biologica delle cose che parta dalle fondamenta dell’esistenza – dal laboratorio, dalla provetta e dalla formazione della vita a partire dalla materia inorganica fino alle generalizzazioni più ampie di natura estetica e sociologica».
Ruth rimase sbigottita. Aveva seguito due corsi interi tenuti dal professor Caldwell e lo considerava il depositario di tutta la cultura universale.
«Non riesco a seguirla bene», disse Caldwell, perplesso.
Martin era sicurissimo di quello che gli aveva sentito dire.
«Cercherò di spiegarglielo», disse. «Ricordo di aver letto nella storia dell’Egitto l’affermazione secondo la quale non si poteva capire l’arte egizia senza prima avere studiato il paese».
«Giustissimo», disse il professore.
«E mi sembra», proseguì Martin, «che la conoscenza del paese, come di ogni altra questione, non si può avere se non si sa come vi è organizzata la vita e da che cosa è composta. Come possiamo comprendere leggi e istituzioni, religioni e costumi, senza avere un’idea non solo della natura degli esseri umani che li hanno creati, ma anche della materia di cui essi sono fatti? La letteratura ha forse un contenuto umano minore della scultura e dell’architettura egizie? C’è qualcosa nell’universo a noi noto che non sia soggetta alla legge dell’evoluzione? Oh, so che si è tracciato uno sviluppo delle diverse arti, ma mi sembra troppo meccanico. L’uomo ne è escluso. L’evoluzione degli utensili, dell’arpa, della musica, del canto e della danza è stata delineata in modo brillante; ma che si è fatto per descrivere l’evoluzione dell’essere umano stesso e lo sviluppo degli elementi fondamentali e intrinseci che erano in lui prima che costruisse il primo utensile o articolasse la prima nenia? Quella che io chiamo biologia è questo fattore, di cui lei non tiene conto. È la biologia nella sua accezione più ampia.
«So di avere fatto un’esposizione incoerente, ma ho cercato di dare un abbozzo dell’idea. Mi è balenata alla mente mentre lei parlava, ed è per questo che l’ho formulata in modo un po’ confuso. Lei stesso ha parlato della fragilità umana che impedisce a chi parla di prendere in considerazione tutti i fattori. In questo caso lei ignora – almeno così mi pare – il fattore biologico, proprio quello da cui sono nate tutte le arti, l’elemento determinante di tutte le azioni e di tutti i progressi dell’uomo».
Con grande sorpresa di Ruth, Martin non venne incenerito immediatamente dalla risposta del cattedratico, il quale invece reagì con un comportamento che le sembrò di grande indulgenza per la giovane età del suo oppositore. Il professor Caldwell rimase fermo e silenzioso per un buon minuto, durante il quale si limitò a giocherellare con la catena dell’orologio.
«Sa», disse infine, «che la stessa critica mi è già stata rivolta? Mi è stata fatta da un grand’uomo, Joseph Le Conte, uno scienziato evoluzionista. Ora è morto e pensavo di riuscire a scappare inosservato; e invece arriva lei e mi denuncia! Scherzi a parte, devo confessare in tutta serietà che forse c’è del vero nella sua affermazione – anzi ci sono elementi di grande interesse. Io ho un’impostazione troppo classica e non sono sufficientemente aggiornato nell’interpretare i vari settori della conoscenza scientifica: posso solo invocare a mia giustificazione il tipo di formazione che ho ricevuto e una certa indolenza che mi impedisce di addentrarmi in questa direzione. Mi crede se le dico che non sono mai stato in un laboratorio di fisica o di chimica? Proprio così. Le Conte aveva ragione, come lei signor Eden, almeno in una qualche misura che ancora non sono in grado di precisare».
Ruth si allontanò con Martin con un pretesto, e subito gli bisbigliò: «Non avresti dovuto monopolizzare in questo modo il professor Caldwell. Forse ci sono altri che vogliono conversare con lui».
«Ho sbagliato», ammise Martin con espressione contrita. «Ma ero riuscito a farlo parlare, e discuteva di argomenti così interessanti che non mi è venuto in mente. Sai che è l’uomo intellettualmente più brillante con cui abbia mai parlato? E ti dirò un’altra cosa. Una volta pensavo che tutti quelli che andavano all’università o che occupavano posti elevati in società fossero intelligenti e colti come lui».
«Lui è un’eccezione».
«Lo credo bene. Con chi vuoi che parli adesso? Ti prego, portami da quel tipo che fa il cassiere».
Martin conversò con lui per un quarto d’ora e Ruth non avrebbe potuto desiderare un comportamento migliore da parte del suo innamorato. Non una volta lo vide arrossire o lanciare occhiate infuocate; fu anzi sorpresa dalla calma e dall’equilibrio con cui discorreva. Tuttavia l’intera categoria dei bancari crollò nella stima di Martin, il quale per tutta la sera rimase sotto l’impressione che lavoro in banca e conversazione banale fossero intimamente legati. Trovò che l’ufficiale era un giovane semplice, sano e tranquillo, soddisfatto di avere raggiunto la posizione alla quale era arrivato grazie alla nascita e alla fortuna. Apprendendo che aveva completato il primo biennio di studi universitari, Martin si chiese dove fossero finite le cose che aveva imparato. Ciò nonostante preferiva ascoltare quell’uomo che i discorsi insulsi del bancario.
«Non ho nulla contro i luoghi comuni», disse più tardi a Ruth, «ma mi innervosisce il tono di presuntuosa superiorità e di magniloquenza con cui vengono detti, e la prolissità che li accompagna. Avrei potuto esporre a quel tale tutta la storia della Riforma nel tempo che ha impiegato e dirmi che il Partito laborista-unionista era confluito nei Democratici. Sceglie le parole con una lentezza che mi ricorda i giocatori di poker quando scoprono a poco a poco le carte che hanno in mano. Un giorno o l’altro ti dimostrerò quello che voglio dire».
«Peccato che non ti piaccia», rispose Ruth. «Il signor Butler ha una grande stima di lui. Dice che è onesto e fidato e che è come Pietro, sul quale si può costruire qualunque nuova banca».
«Non ne dubito, dal poco che ho visto e da quelle due o tre cose che gli ho sentito dire… Non mi sono fatto una grande opinione delle banche. Ti dispiace se ti parlo con franchezza, cara?».
«No, anzi mi interessa».
«Sì», proseguì Martin con sincerità, «non sono altro che un barbaro a contatto per la prima volta con la civiltà. E le mie impressioni forse suscitano la curiosità divertita delle persone istruite e civili».
«Che cosa pensi delle mie cugine?», chiese Ruth.
«Mi sono piaciute più delle altre donne. Sono ragazze spiritose e non si danno arie».
«Ma ti sono piaciute le altre donne?».
Martin scosse la testa.
«Quella specie di organizzatrice dei quartieri urbani ripete come un pappagallo le frasi fatte dei testi sociologici. Sono sicuro che se le aprissimo la testa non le troveremmo un solo pensiero originale. La pittrice di ritratti, poi, era noiosa come il mal di pancia! Sarebbe una moglie perfetta per il bancario. E quella musicista! Avrà una grande agilità delle dita, una tecnica perfetta e una grande espressività, ma non capisce niente di musica».
«Suona in modo straordinario», protestò Ruth.
«Sì, ha indubbiamente una grande competenza negli aspetti esteriori della musica, ma ne ignora l’intima essenza. Le ho chiesto che cosa significasse per lei (come sai questa è una cosa che mi interessa molto) e mi ha risposto che non lo sapeva, ma che l’adorava, che era la più grande di tutte le arti e che per lei era più che la vita stessa».
«Le hai spinte tu a parlare di lavoro», gli disse Ruth in tono accusatorio.
«Lo confesso. E se erano un disastro discorrendo della loro professione, chissà che cosa avrebbero detto su altri argomenti. Prima pensavo che in un ambiente come questo, in cui si hanno tutti i vantaggi della cultura…». Si arrestò per un istante, rivedendo la propria immagine con il cappello rigido e la giacca squadrata entrare dalla porta e attraversare la sala con passo tracotante. «Come dicevo, avevo sempre pensato che gli uomini e le donne del vostro ceto fossero colti, brillanti e intelligenti. Ma ora, da quel poco che ho potuto vedere, mi sembrano, nella maggioranza dei casi, un branco di nullità; e i rimanenti sono quasi tutti di una noia infinita. Solo il professor Caldwell è diverso. È un uomo di qualità superiore e ha un cervello straordinario».
Ruth si illuminò.
«Parlami di lui», disse impaziente. «Non degli aspetti più vistosi ed evidenti – conosco le sue doti – ma di quello che secondo te è negativo. Sono ansiosa di sentirlo».
«Forse mi metto in un brutto pasticcio». Martin finse scherzosamente di essere in imbarazzo. «Dimmi prima le tue opinioni. Magari tu vedi in lui solo quello che è bello».
«Ho seguito due corsi con lui e lo conosco da due anni; ecco perché muoio dalla voglia di conoscere qual è la tua prima impressione».
«Pensi che ne abbia una cattiva opinione? Ti dirò tutto. Ha ogni qualità che tu immagino gli attribuisci. Perlomeno è il miglior esemplare di intellettuale che io abbia conosciuto. Tuttavia ha una colpa inconfessata.
«Oh, no, no!», si affrettò ad aggiungere. «Nulla di meschino o di volgare. Voglio dire che mi dà l’impressione di essere andato al fondo delle cose e di esserne rimasto così terrorizzato che adesso cerca di convincersi di non avere visto nulla. Ma posso servirmi di una metafora più chiara. È un uomo che ha trovato la strada per giungere al tempio nascosto ma non l’ha seguita; forse ha scorto il tempio, ma in seguito si è sforzato di persuadere se stesso che era solo un’illusione ottica creata dalle foglie. Posso ricorrere a un’altra immagine. Non si è cimentato in cose in cui sarebbe potuto riuscire perché aveva attribuito loro scarso valore, e adesso se ne è pentito; e dopo essersi burlato delle soddisfazioni che ne avrebbe tratte si rammarica di avervi rinunciato».
«Io non lo vedo in questo modo», disse lei. «Fra l’altro non capisco che cosa tu voglia dire esattamente».
«Ho solo questa vaga sensazione», precisò Martin. «Non sono in grado di provarlo. È solo un’impressione, probabilmente sbagliata. Certamente tu lo conosci meglio di me».
Da quella serata in casa di Ruth Martin ricavò sentimenti confusi e contrastanti. Era rimasto deluso nelle sue aspettative delle persone che desiderava conoscere, ma contemporaneamente aveva riportato un successo incoraggiante. L’ascesa sociale era stata più facile di quanto non credesse. Aveva le qualità per emergere e inoltre (lo ammise senza falsa modestia) aveva doti superiori a quelle di coloro che aveva trovato in quella cerchia così elevata, con la sola eccezione, naturalmente, del professor Caldwell. Aveva un’esperienza della vita e dei libri migliore della loro e si chiedeva in quali fessure della loro personalità avessero smarrito l’istruzione che avevano ricevuto. Non sapeva però che quel paragone era assurdo, perché se da una parte egli aveva un vigore intellettuale raro, di cui non era ancora pienamente consapevole, dall’altra coloro che si dedicavano a sondare gli abissi dell’esistenza e a produrre pensieri profondi non frequentavano i salotti come quello dei Morse. Non si era reso conto che queste persone erano creature solitarie come le aquile che veleggiavano nell’alto dei cieli, molto al di sopra della terra e dei suoi formicai di vita associata.
XXVIII
Ma il successo aveva smarrito l’indirizzo di Martin e i suoi messaggeri non arrivavano più. Per venticinque giorni, comprese le domeniche e le giornate festive, lavorò senza sosta a La vergogna del sole, un lungo saggio di circa trentamila parole. Era un esplicito attacco al misticismo della scuola di Maeterlinck, diretto contro gli adoratori dei sogni dalla cittadella della scienza positiva, non privo per altro di una certa bellezza trasognata compatibile con la concretezza dei fatti accertati. Un po’ più tardi diede un seguito a questa offensiva con due scritti brevi, Gli adoratori dei sogni e La misura dell’io. E su questi saggi, lunghi e brevi, cominciò a pagare le spese di viaggio da una rivista all’altra.
Durante quei venticinque giorni vendette alcune composizioni commerciali per un compenso complessivo di sei dollari e cinquanta centesimi. Una storiella buffa gli aveva fruttato cinquanta centesimi e una seconda, indirizzata a un settimanale umoristico di grande prestigio, gli aveva portato un dollaro. Poi due poesie comiche gli avevano fatto guadagnare rispettivamente due e tre dollari. In conseguenza di ciò, avendo raggiunto il tetto massimo del credito presso i diversi negozianti (sebbene quello del droghiere fosse stato aumentato a cinque dollari), fu costretto a far rifare alla bicicletta e al vestito la strada del banco di pegni. Quelli della macchina per scrivere ripresero a sollecitare il pagamento e a far notare che il contratto di noleggio prevedeva versamenti anticipati.
Incoraggiato dalla buona accoglienza fatta ai suoi scritti minori, Martin ricominciò a dedicarsi alle opere di carattere commerciale. Forse poteva guadagnarsi da vivere in quel modo, dopo tutto. Ammucchiate sotto il tavolo c’erano ancora le venti novelle respinte dall’agenzia che forniva questo tipo di materiale ai giornali. Le rilesse per capire come non avrebbe dovuto scriverle e in tal modo riuscì ad elaborare una formula perfetta. Scoprì che la novella destinata ai quotidiani non doveva mai essere tragica, non doveva mai avere una conclusione infelice e non doveva mai contenere raffinatezze linguistiche, sottigliezze concettuali e autentica delicatezza di affetti. Doveva però avere, in grande quantità, sentimenti puri e nobili come quelli che, quando era giovanissimo, suscitavano uragani di applausi dal loggione – del tipo «Per Dio, per la Patria e per lo Zar» e «Sono povero ma onesto».
Prese queste precauzioni, Martin consultò una rubrica intitolata «The Duchess» per acquisire il tono giusto e cominciò a rimescolare i vari elementi seguendo la formula. Questa era costituita da tre parti: (1) due innamorati vengono separati; (2) si ritrovano grazie a un qualche evento; (3) rintocchi di campane per le nozze. Mentre la terza parte aveva caratteristiche fisse, la prima e la seconda consentivano un numero infinito di variazioni. Per esempio gli innamorati potevano essere separati per un equivoco, per una fatalità, per opera di rivali gelosi, per l’intervento di genitori severi, per l’astuzia dei loro tutori, per la malizia di parenti interessati eccetera; potevano ritrovarsi grazie al coraggio dell’uomo, al coraggio della donna, alla resipiscenza dell’uno o dell’altra, alla forzata confessione del tutore astuto, del parente maligno, del rivale geloso, alla confessione spontanea da parte degli stessi, alla scoperta di qualche inatteso segreto, all’appassionata perorazione dell’innamorato, al suo nobile sacrificio eccetera eccetera. Un trucco di grande efficacia era far sì che fosse la ragazza a proporre all’amato di sposarsi durante la scena del ritrovamento, e a poco a poco Martin scoprì altri stratagemmi scaltri e avvincenti. La scena finale con le campane nuziali era invece l’unica nella quale non erano consentite licenze: dovevano inevitabilmente squillare qualunque cosa avvenisse. La formula prescriveva infine una lunghezza minima di milleduecento parole e una massima di millecinquecento.
Prima di passare alla fase esecutiva, Martin elaborò una mezza dozzina di schemi di base che consultava sempre prima della composizione di una novella. Si trattava di tabelle simili ai prontuari usati dai matematici che potevano essere consultati dall’alto, dal basso, da destra e da sinistra ed erano costituite da serie orizzontali e verticali da cui si potevano trarre immediatamente migliaia di conclusioni diverse, tutte assolutamente esatte. In mezz’ora di lavoro con le tabelle Martin poteva quindi impostare una dozzina di queste novelle, che potevano poi essere messe da parte e completate con comodo. Scoprì che in questo modo poteva portare a termine una novella alla fine di una giornata di lavoro serio e impegnato in circa un’ora, prima di coricarsi. Come in seguito confessò a Ruth, era quasi in grado di farlo durante il sonno, perché il lavoro vero e proprio era costituito dalla elaborazione degli schemi; il resto era meccanico.
Non aveva alcun dubbio sull’efficacia di questa formula e una volta tanto capì di aver visto giusto nel mondo editoriale quando ebbe la certezza che le prime due che mandò sarebbero state accettate. Ed effettivamente, nel giro di dodici giorni, gli arrivarono due assegni, ciascuno dell’importo di quattro dollari.
Nel frattempo faceva nuove e allarmanti scoperte sulle riviste. Nonostante la pubblicazione sul «Transcontinental», l’assegno relativo al Suono delle campane non arrivava. Martin ne aveva bisogno e spedì un sollecito. Ricevette solo una lettera evasiva con l’invito a mandare altri lavori. In attesa di questo pagamento aveva saltato i pasti per due giorni fino a che non fu costretto ad impegnare nuovamente la bicicletta. Cominciò a scrivere regolarmente al «Transcontinental» due volte la settimana perché gli fossero mandati i suoi cinque dollari, ma solo di tanto in tanto gli arrivava qualche biglietto di risposta. Non sapeva che quella rivista, che conduceva da anni un’esistenza precaria, era una pubblicazione di quarto o di decimo ordine, priva di prestigio, con una diffusione incerta ottenuta in parte con richieste insistenti e fastidiose e in parte con appelli patetici, e con inserzioni pubblicitarie concesse in pratica a titolo di beneficenza. Ignorava anche che il «Transcontinental» era la sola fonte di sostentamento del responsabile editoriale e del direttore amministrativo, i quali riuscivano a sopravvivere cambiando continuamente sede per evitare di pagare l’affitto e saldando solo i conti a cui era impossibile sfuggire. Non avrebbe mai immaginato che i cinque dollari che gli spettavano erano stati presi dal direttore amministrativo per le spese di verniciatura della propria casa di Alameda, operazione eseguita da lui stesso in alcune sedute pomeridiane al termine del lavoro, perché non poteva permettersi di pagare i compensi minimi sindacali, e l’operaio che aveva assunto, un imbianchino che aveva accettato un salario inferiore a quello ufficiale, era caduto dalla scala procurandosi una frattura alla clavicola.
Non gli vennero pagati neppure i dieci dollari che gli spettavano per la vendita dei Cercatori del tesoro a un giornale di Chicago. L’articolo era stato pubblicato, come aveva accertato consultando lo schedario della biblioteca, senza esserne neppure informato dal direttore. Le sue lettere rimasero inevase. Per avere la certezza che erano state ricevute, inviò diverse raccomandate. Concluse che era stato vittima di un vero e proprio furto, di un ladrocinio commesso a sangue freddo: mentre lui soffriva la fame, gli veniva rubata la merce di cui disponeva, la cui vendita era il solo modo che aveva per guadagnarsi il pane quotidiano.
Il settimanale «Youth and Age» aveva pubblicato i due terzi del suo racconto a puntate di ventunomila parole quando cessò le pubblicazioni. Svanirono in tal modo le speranze di guadagnare i sedici dollari promessi.
A colmare la misura Il vaso, che considerava una delle cose migliori che avesse scritto, divenne inutilizzabile. Nella ricerca disperata di una rivista disposta ad accettarlo l’aveva mandato a «The Billow», un settimanale mondano di San Francisco. Il motivo principale che l’aveva spinto ad offrirlo a questo periodico era che avrebbe conosciuto subito l’esito della sua richiesta data la vicinanza della città con Oakland. Due settimane più tardi vide con grande gioia che l’ultimo numero, in vendita nelle edicole, conteneva il testo integrale del racconto, che era accompagnato da illustrazioni e collocato al posto d’onore. Tornò a casa con il cuore che gli batteva a mille e con l’ansia di sapere quanto gli avrebbero dato per una delle opere migliori che avesse mai scritto. La rapidità con cui era stato accettato e pubblicato era un ulteriore motivo di compiacimento. Il fatto che il direttore non l’avesse informato dell’accettazione aumentava la sorpresa. Dopo aver atteso per una settimana, per due settimane, per due settimane e mezzo, la disperazione ebbe la meglio dell’imbarazzo e scrisse al direttore di «The Billow» per comunicargli che l’ufficio amministrativo, probabilmente a causa di una svista, non aveva ancora provveduto a saldare le sue competenze.
Anche se non sono che cinque dollari, pensava Martin, mi permetteranno di comprare fagioli e zuppa di piselli in quantità tale da darmi la possibilità di scrivere cinque o sei racconti, magari altrettanto belli.
Immediata fu la replica del direttore, che Martin non poté fare a meno di ammirare.
«La ringraziamo», diceva, «del suo splendido contributo. Tutti i membri della redazione ne sono rimasti molto impressionati e, come ha visto, abbiamo deciso di pubblicarlo immediatamente al posto d’onore della rivista. Ci auguriamo di cuore che le illustrazioni siano state di suo gradimento.
«Nel rileggere la lettera ci è parso di capire che lei sia caduto nell’equivoco di ritenere che abbiamo l’abitudine di pagare i manoscritti non esplicitamente commissionati. Eravamo convinti, ricevendo il suo racconto, che questa prassi le fosse nota. Non possiamo che esprimere il nostro vivo rincrescimento per questo deprecabile malinteso e le confermiamo i sensi della nostra profonda stima. Ringraziandola ancora una volta per la sua cortese collaborazione e nella speranza di ricevere altri scritti in futuro, le inviamo ecc. ecc.».
C’era anche un poscritto nel quale si precisava che benché «The Billow» non fosse di regola inviato in omaggio, erano lieti di concedergli un abbonamento gratuito alla rivista per l’anno seguente.
Dopo quell’esperienza Martin scrisse a macchina in testa ad ogni manoscritto: «Per la pubblicazione secondo le vostre tariffe consuete».
Si consolò al pensiero che un giorno o l’altro quelle opere sarebbero state fornite alle condizioni da lui stabilite.
Gli era venuta in questo periodo la passione del perfezionismo, che lo spinse a riscrivere e a ritoccare La strada della lottaIl vino della vitaGioia, le Liriche del mare e altre opere giovanili. Come sempre, diciannove ore di lavoro giornaliero erano appena sufficienti a soddisfarlo. Scriveva a un ritmo prodigioso e leggeva a un ritmo altrettanto prodigioso, dimenticando nella frenesia di quell’attività le pene causategli dalla rinuncia al tabacco. Il prodotto che Ruth gli aveva fornito per combattere il vizio del fumo era stato accantonato, con la sua vistosa etichetta, nell’angolo più inaccessibile della credenza. Specialmente durante i lunghi periodi di fame soffrì per la mancanza di sigarette; e per quanto cercasse di reprimerla, la voglia era più intensa che mai. Considerava quello sforzo come il più arduo che avesse sostenuto, ma per Ruth non faceva altro che il suo dovere. Gli aveva portato il prodotto che gli avrebbe tolto il desiderio di fumare, comprato con i propri soldi, e dopo pochi giorni se ne dimenticò del tutto.
Le disprezzate e derise novelle che confezionava in serie ebbero però successo. Grazie a loro poté riscattare tutti gli oggetti portati al banco dei pegni, pagare buona parte dei conti e comprare pneumatici nuovi per la bicicletta. Con quei soldi poteva almeno mangiare e avere il tempo per dedicarsi alle opere più ambiziose; ma ciò che veramente lo confortava era l’assegno di quaranta dollari del «White Mouse». Con quel precedente confidava che le riviste più prestigiose facessero a uno scrittore sconosciuto come lui condizioni uguali, se non superiori. Il difficile era riuscire a entrare in queste riviste. Le sue cose migliori nel campo del racconto, del saggio e della poesia peregrinavano invano da una redazione all’altra, anche se ogni mese gli capitava di leggere, fra ciò che si pubblicava, pagine e pagine piatte, grigie e monotone. Se qualche direttore si fosse degnato almeno una volta di scendere dall’alto trono della sua superiorità, pensava Martin, per spedirmi una riga di incoraggiamento! Per quanto le mie opere siano insolite, per quanto non sia consigliabile, per motivi di prudenza, stamparle in quei periodici, non potevano non avere, a momenti, sprazzi di luce che non potessero essere notati. Spinto da queste riflessioni riprendeva in mano qualcuno dei suoi manoscritti, come Avventura, e lo rileggeva più volte nel vano tentativo di trovare una spiegazione a quel silenzio.
All’arrivo della dolce primavera californiana, il suo periodo di abbondanza giunse alla fine. Era preoccupato perché da parecchie settimane non aveva notizie dell’agenzia che forniva le novelle ai giornali. Quindi, un giorno, si vide restituire, attraverso la posta, dieci di quelle composizioni, accompagnate da una breve lettera nella quale si precisava che, a causa di un accumulo di materiale, l’organizzazione non avrebbe accettato nuovi manoscritti prima di qualche mese. Contando su quei dieci raccontini Martin aveva persino fatto qualche spesa straordinaria: negli ultimi tempi infatti l’agenzia gli aveva pagato cinque dollari per ciascuna opera e gliele aveva accettate tutte. Egli aveva dunque considerato quei dieci come già venduti e si era comportato come se avesse già in tasca cinquanta dollari. E invece all’improvviso era arrivata la crisi, durante la quale continuò a vendere i suoi primi scritti a pubblicazioni che li stampavano ma non pagavano, e a sottomettere le opere più mature a riviste che non erano disposte ad accettarle. Riprese anche i viaggi a Oakland fino al banco dei pegni. Alcune storielle e qualche poesia comica, finite in settimanali di New York, gli consentirono di tirare avanti in qualche modo. In questo stesso periodo apprese dai grandi periodici mensili e trimestrali, cui si era rivolto per informazioni, che raramente prendevano in considerazione il materiale non sollecitato; inoltre ciò che pubblicavano era per lo più scritto su commissione da specialisti che erano autorità nelle loro discipline.
XXIX
Fu un’estate difficile per Martin. I direttori editoriali e i lettori di manoscritti erano in ferie e le riviste, che di solito facevano avere una risposta nel giro di tre settimane, non diedero segni di vita per almeno tre mesi. L’aspetto positivo di questa stasi fu che poté risparmiare qualcosa sulle spese postali. Solo le pubblicazioni-pirata sembravano essere rimaste attive e a loro Martin indirizzò i suoi primi tentativi letterari quali I pescatori di perleLa carriera nella marina mercantileLa pesca delle tartarughe e I venti del nord-est. Per queste collaborazioni non ricevette mai un soldo. Riuscì però, grazie a un carteggio prolungatosi per sei mesi, ad arrivare a un compromesso, grazie al quale ricevette un rasoio di sicurezza come compenso della Pesca della tartarughe, mentre «The Acropolis», che aveva accettato di pagargli cinque dollari in contanti e il resto sotto forma di cinque abbonamenti annuali alla rivista, rispettò soltanto la seconda parte dell’accordo.
Per un sonetto su Stevenson ottenne due dollari da un editore di Boston che dirigeva una rivista nello stile di Matthew Arnold ma con scarsissimi mezzi. La peri e la perla, un’abile parodia poetica di duecento versi, appena terminata, incontrò subito il favore del direttore di un periodico di San Francisco che sosteneva gli interessi di una grande compagnia ferroviaria. Alla lettera di questi, che gli offriva in pagamento biglietti gratuiti sui treni della società, Martin rispose per chiedergli se potevano essere ceduti a terzi. Poiché tale cessione era impossibile, Martin chiese la restituzione della poesia, che gli fu rimandata con il rincrescimento del direttore. Fu immediatamente rispedita a un’altra rivista di San Francisco, «The Hornet», un pretenzioso mensile che era stato lanciato nell’orbita dei periodici di prima grandezza dal brillante giornalista che l’aveva fondato. Purtroppo tanta luce aveva cominciato ad affievolirsi molto tempo primo della nascita di Martin. Il direttore gli promise quindici dollari per la poesia, ma dopo che essa fu pubblicata parve dimenticarsene. Dopo che parecchi solleciti erano stati ignorati, Martin gli scrisse una lettera fortemente risentita, e finalmente ebbe una risposta; era firmata dal nuovo responsabile editoriale, il quale lo informava freddamente di non ritenersi responsabile degli errori del suo predecessore, e di non avere comunque una grande opinione di La peri e la perla.
Fu però «The Globe», una rivista di Chicago, quella che riservò a Martin il trattamento più crudele. Aveva evitato di offrire per la pubblicazione le Liriche del mare finché non vi fu costretto dalla fame. Dopo essere state rifiutate da una dozzina di riviste esse erano finite nella redazione del «Globe». La raccolta era composta da trenta liriche, che sarebbero state pagate un dollaro l’una. Il primo mese ne furono stampate quattro e gli fu regolarmente recapitato un assegno di quattro dollari; ma dando loro una scorsa si accorse con terrore che erano state massacrate. In alcuni casi erano stati modificati i titoli: per esempio Fine era diventato La finitura e Il canto della barriera lontana era stato trasformato in Il canto della barriera corallina. Un titolo era stato rimpiazzato da un altro del tutto diverso e senza alcun rapporto con la poesia in questione: Le luci della medusa era stato infatti cambiato in La via del ritorno. Ma lo scempio era soprattutto grave nel testo delle composizioni. Leggendole, Martin fu preso da un profondo sconforto: soffriva, gemeva e si metteva le mani nei capelli. Frasi, versi e strofe intere erano stati sostituiti. Non poteva credere che un direttore nel pieno possesso delle sue facoltà mentali potesse essersi reso personalmente colpevole di azioni così criminali: l’ipotesi più credibile era che le sue liriche fossero state affidate per tale operazione a un fattorino o a uno stenografo. Martin scrisse immediatamente al direttore, pregandolo di cessare la pubblicazione dei suoi versi, di cui chiese la restituzione. Inviò diverse lettere, umili, supplichevoli, minacciose, ma non ricevette risposta. Ogni mese il massacro continuava finché le trenta poesie non furono tutte pubblicate, e ogni mese gli perveniva un assegno relativo a quelle comparse nel numero corrente.
Nonostante le varie disavventure, il ricordo dei quaranta dollari del «White Mouse» lo incoraggiava a continuare, anche se fu costretto sempre più a comporre scritti di carattere commerciale. Scoprì un filone redditizio nei settimanali per gli agricoltori e nelle riviste di categoria, anche se scoprì che con i periodici religiosi sarebbe morto di fame. In un momento di crisi nera, con il vestito buono al banco dei pegni, ebbe un colpo di fortuna – o almeno così gli parve – in un concorso a premi indetto dal comitato provinciale del Partito repubblicano. Era diviso in tre sezioni, ed egli partecipò a tutte e tre, ridendo amaramente di essersi ridotto a tali espedienti per vivere. La sua poesia vinse un primo premio di dieci dollari, il testo della canzone per la campagna elettorale un secondo premio di cinque dollari e il saggio sui principi del Partito un primo premio di venticinque dollari. Ne fu molto soddisfatto, ma le cose cambiarono quando si trattò di incassare. Qualcosa era andato storto nel comitato provinciale e il denaro non arrivava, benché fra i membri vi fossero un senatore dello stato e un ricco banchiere. Mentre la questione era ancora in sospeso dimostrò la sua affinità con i principi del Partito democratico vincendo il primo premio per un saggio in una competizione analoga. Ricevette anche il compenso relativo di venticinque dollari, ma non ebbe mai i quaranta del primo concorso.
Costretto a ricorrere ad espedienti per vedere Ruth e avendo deciso che la lunga camminata da North Oakland alla casa della ragazza e ritorno gli facevano perdere troppo tempo, lasciò in pegno l’abito scuro al posto della bicicletta. Quest’ultima gli consentiva di fare del moto, gli faceva risparmiare ore preziose per il suo lavoro e gli permetteva ugualmente di vedere Ruth. Un paio di calzoni alla zuava e un vecchio maglione erano un accettabile costume da ciclista e questo gli dava la possibilità di fare con Ruth passeggiate pomeridiane in bicicletta. Inoltre non aveva più molte occasioni per incontrarla a casa sua, perché la signora Morse continuava la sua intensa campagna di ricevimenti. Le creature sublimi che vi aveva conosciute, e che solo poco tempo prima aveva vagheggiato, ora lo annoiavano. Avevano perso la loro superiorità. Le difficoltà di quel periodo, le delusioni e l’intensa applicazione nel lavoro lo avevano reso nervoso e irritabile e la conversazione di quegli individui lo esasperava. Non era eccessivamente egocentrico, ma non poteva evitare di confrontare la grettezza dei loro cervelli con la statura intellettuale degli autori dei libri che leggeva. A casa di Ruth non aveva mai conosciuto menti elevate, con l’eccezione del professor Caldwell, che però non aveva più rivisto. Quanto agli altri, erano limitati, insipienti, superficiali, dogmatici e ignoranti. Era soprattutto la loro ignoranza che lo sbalordiva. Che cosa era successo a quella gente? Che ne avevano fatto dell’istruzione ricevuta? Avevano avuto accesso agli stessi libri cui si era accostato lui. Come mai non avevano saputo trarne nulla?
Eppure sapeva che esistevano persone di grande intelligenza e di eccelso pensiero. Ne aveva avuto la prova dalle letture, letture che gli avevano dato una cultura molto più profonda di quella dei Morse. E sapeva anche che al mondo c’erano intelletti più alti di quelli che si incontravano in quella casa. Leggeva romanzi sulla società inglese in cui si trovavano uomini e donne in grado di conversare di politica e di filosofia. Leggeva di salotti delle grandi città, persino negli Stati Uniti, in cui si radunavano artisti e intellettuali. Aveva scioccamente creduto, in passato, che tutte le persone ben vestite di ceto superiore a quello operaio avessero cervello fine e sensibilità alla bellezza. Istruzione e classe sociale erano state per lui strettamente collegate ed era stato erroneamente indotto a credere che avere ricevuto una cultura all’università significasse averla fatta propria.
Avrebbe continuato ad elevarsi e sarebbe salito al di sopra di quel mondo. E in questa ascesa avrebbe trascinato con sé Ruth. L’amava intensamente ed era certo che lei avrebbe brillato dovunque. Come in precedenza si era accorto di avere incontrato grossi ostacoli nel proprio ambiente familiare, così ora capiva che anche lei era stata danneggiata dal suo. Non aveva avuto la possibilità di crescere intellettualmente. I libri nella biblioteca del padre, i quadri alle pareti, gli spartiti sul pianoforte erano un’ipocrita esibizione. Per la vera letteratura, la vera pittura, la vera musica, i Morse e quelli della loro specie erano morti. E più grande di queste arti era la vita stessa, di cui avevano un’ignoranza assoluta e irreparabile. Nonostante le tendenze unitarie e la maschera di conservatorismo illuminato, erano in ritardo di cinquant’anni nella scienza interpretativa: i loro processi mentali erano medievali e le loro idee sulle realtà ultime della vita e dell’universo lo avevano colpito perché impregnate dello stesso spirito metafisico che si trova nelle razze umane più ingenue e primitive come nella mente arcaica dell’uomo delle caverne – lo stesso che spinse il primo uomo-scimmia pleistocenico ad aver paura del buio; che spinse il primo frettoloso selvaggio ebreo a concepire la nascita di Eva dalla costola di Adamo; che spinse Cartesio a costruire un sistema idealistico dell’universo dalle proiezioni del proprio minuscolo io; e che spinse il famoso ecclesiastico britannico ad attaccare l’evoluzionismo in una satira così velenosa che gli conquistò un facile applauso, ma pose sul suo nome una macchia infamante nelle pagine della storia.
Così pensava Martin, e proseguendo nelle riflessioni gli venne in mente che la differenza fra quegli avvocati, ufficiali, uomini d’affari e impiegati di banca e i membri della classe operaia che aveva conosciuto stava solo nei cibi che mangiavano, negli abiti che indossavano e nei quartieri in cui vivevano. Certamente agli uni e agli altri mancava quel qualcosa in più che lui aveva trovato in se stesso e nei libri. I Morse gli avevano mostrato il meglio che quella cerchia sociale era in grado di produrre, e non ne era rimasto impressionato. Per quanto poverissimo, per quanto schiavo dello strozzino, sapeva di essere superiore a coloro che incontrava in quella casa; e quando l’unico abito buono non era impegnato si muoveva fra loro con l’incedere del vero signore, fremendo della stessa indignazione che proverebbe un principe costretto a vivere gomito a gomito con mandriani di capre.
«Lei odia e teme i socialisti», disse una sera al signor Morse durante la cena; «ma perché? Non sa nulla né di loro né delle dottrine che professano».
La conversazione aveva preso quella piega a causa della signora Morse, che si era lanciata in lodi sperticate del signor Hapgood. Il bancario era la bestia nera di Martin, i cui nervi venivano sempre messi alla prova quando si parlava di quella fucina di banalità.
«Sì», aveva detto, «Charley Hapgood è ciò che si dice un giovane emergente – così mi è stato detto. Ed è vero. Arriverà alla poltrona di Governatore prima di morire, e magari, perché no?, anche al Senato degli Stati Uniti».
«Che cosa glielo fa pensare?», aveva chiesto la signora Morse.
«L’ho sentito in un discorso elettorale. Diceva con tale abilità sciocchezze e luoghi comuni, ed era così convincente che i leader del partito non potranno che considerarlo un uomo sicuro e fidato, mentre le sue banalità sono così affini a quelle dell’elettore medio che… oh, si sa che chiunque è grato a chi gli presenta i suoi pensieri in forma gradevole e rivestiti di belle parole».
«Credo davvero che tu sia geloso del signor Hapgood», aveva cinguettato Ruth.
«Per carità!».
Lo sguardo inorridito sul viso di Martin aveva suscitato l’aggressività della signora Morse.
«Non vorrà dirmi che il signor Hapgood è uno stupido?», chiese in tono gelido.
«Non più del repubblicano medio», ribatté lui, «o del democratico medio, d’altronde. Sono tutti stupidi quando non sono scaltri, e pochi lo sono. I soli repubblicani saggi sono i milionari e quelli che consapevolmente li sostengono. Sanno da che parte sta il loro interesse e sono quindi coscienti delle scelte che hanno fatto».
«Io sono un repubblicano», disse il signor Morse in tono scherzoso. «Di grazia, come mi definirebbe?».
«Oh, lei è un naturale sostenitore del partito».
«Un sostenitore naturale?».
«Sì. Lei lavora con le imprese. Il suo reddito non è legato a uomini che maltrattano le mogli o a borseggiatori. Lei si guadagna da vivere con i padroni di questa società, e chiunque ci dia da mangiare diventa il nostro padrone. Sì, lei è un loro sostenitore naturale. Lei è interessato a promuovere gli interessi dei gruppi finanziari dei quali è al servizio».
Il volto del signor Morse era leggermente arrossito.
«Le confesso, signore, che lei parla come un gaglioffo socialista».
Fu allora che Martin fece quell’osservazione:
«Lei odia e teme i socialisti; ma perché? Non sa nulla né di loro né delle dottrine che professano».
«Le sue idee sembrano proprio socialiste», rispose il signor Morse, mentre Ruth lanciava occhiate ansiose ora all’uno ora all’altro e la signora Morse era raggiante per l’occasione che le si offriva di suscitare l’ostilità del suo signore e padrone.
«Dire che i repubblicani sono stupidi e sostenere che libertà, uguaglianza e fraternità sono miti privi di consistenza non fa di me un socialista», disse Martin con un sorriso. «Contestare Jefferson e gli utopisti francesi che ne hanno formato la mente non fa di me un socialista. Mi creda, signor Morse, lei è molto più vicino al socialismo di me, che ne sono nemico dichiarato».
«Ora lei si compiace di scherzare», fu tutto ciò che l’altro riuscì a dire.
«Niente affatto. Parlo molto seriamente. Lei crede nell’uguaglianza, e tuttavia lavora per le imprese, le quali ogni giorno non fanno altro che operare per seppellirla. Eppure lei mi definisce socialista perché nego l’uguaglianza e perché affermo proprio ciò che lei fa nella pratica. I repubblicani sono nemici dell’uguaglianza, anche se la maggioranza di loro combatte contro di essa servendosi di questa parola come slogan. Essi distruggono l’uguaglianza in nome dell’uguaglianza. Ecco perché ho detto che sono stupidi. Quanto a me sono un individualista. Credo che nella corsa vincano i più veloci e nella battaglia i più forti. Questa è la lezione che ho imparato dalla biologia, o che almeno credo di avere imparato. Come dicevo sono un individualista e l’individualismo è il nemico tradizionale ed eterno del socialismo».
«Ma lei frequenta le riunioni socialiste», obiettò il signor Morse.
«Certo, come una spia che osserva il campo avverso. Come si possono altrimenti seguire i movimenti del nemico? Inoltre in queste assemblee mi trovo bene. Che abbiano ragione o torto, sono splendidi combattenti e hanno letto i libri giusti. Ognuno di loro conosce la sociologia e tutte le altre scienze umane molto più di un normale capitano d’industria. Sì, sono stato a cinque o a sei delle loro riunioni, ma ciò non fa di me un socialista più di quanto l’aver ascoltato i comizi di Charley Hapgood abbia fatto di me un repubblicano».
«Non posso impedirmi di credere», disse il signor Morse debolmente, «che lei penda da quella parte».
Accidenti, pensò Martin, non ha capito nulla di quello che ho detto. Non ha compreso una parola. Dove sarà finita tutta l’istruzione che ha ricevuto?
E così, nel corso del suo sviluppo, Martin si trovò a faccia a faccia con la morale economica, ossia con quella di classe; e ben presto questa divenne per lui un mostro raccapricciante. Personalmente era un moralista intellettuale, e per lui più offensiva della pomposità dei luoghi comuni era la morale di quelli che lo circondavano, una morale che era un curioso pasticcio di economia, metafisica, sentimentalismo e spirito di emulazione.
In un ambiente più vicino al suo scoprì un saggio di questo strano e confuso pasticcio. Sua sorella Marian usciva con un giovane e industrioso meccanico di origine tedesca, il quale, dopo avere imparato bene il mestiere, aveva aperto una propria officina di riparazioni per i ciclisti. Aveva anche raggiunto una certa prosperità grazie alla rappresentanza di una marca minore di biciclette. La sorella era venuta a trovare Martin poco tempo prima per annunciargli il fidanzamento, e soffermandosi per qualche minuto gli aveva scherzosamente esaminato la mano per predirgli la fortuna. La volta successiva aveva portato con sé Hermann von Schmidt. Martin li accolse con tutti gli onori e si congratulò con loro in termini così semplici e cortesi da colpire sfavorevolmente la rozza mentalità del giovanotto. Questa cattiva impressione fu accentuata dalla lettura ad alta voce da parte di Martin della poesia con cui aveva commemorato la precedente visita di Marian. Erano versi di società, leggeri e delicati, cui egli aveva dato il titolo di La chiromante. Fu sorpreso, quando ebbe finito la lettura, di notare che sul viso della sorella non c’era alcuna espressione di piacere. I suoi occhi erano invece fissi ansiosamente sul fidanzato e Martin, seguendo quello sguardo, vide sulle fattezze irregolari del degno giovane solo una forte e profonda disapprovazione. Superato l’incidente i due presero rapidamente congedo e Martin si dimenticò dell’episodio, quantunque in quel momento fosse rimasto sorpreso che una donna, sia pure di ceto operaio, non fosse stata felice e lusingata dal fatto che su di lei era stata scritta una poesia.
Diverse sere dopo Marian tornò a trovare il fratello, questa volta da sola. Non perse tempo in preamboli e arrivò subito al punto, rimproverandolo con parole dolenti per quello che aveva fatto.
«Ma… cara», protestò lui, «parli come se ti vergognassi dei tuoi parenti, o almeno di tuo fratello».
«È proprio così», sbottò lei.
Martin fu sbalordito dalle lacrime di mortificazione che le vide negli occhi. Qualunque ne fosse la causa, era un dispiacere sincero.
«Marian, perché Hermann dovrebbe essere geloso del fatto che ho scritto una poesia su mia sorella?».
«Non è geloso», rispose fra i sighiozzi. «Dice che era una cosa indecente… oscena».
Martin emise un fischio di incredulità lungo e basso, e procedette a recuperare la copia in carta carbone della Chiromante per rileggerla.
«Non capisco», disse infine porgendole il manoscritto. «Leggila anche tu e indicami i punti in cui ti sembra oscena – è questa la parola che hai usato, non è vero?».
«Così ha detto lui, e se lo ha detto lui…», rispose Marian allontanando con un gesto il foglio, cui lanciò uno sguardo inorridito. «Dice che lo devi strappare. Dice che non vuole che su sua moglie ci siano delle cose scritte che tutti possono leggere. Dice che è una vergogna e che lui non vuole questa cosa qui».
«Ascolta, Marian, queste sono sciocchezze», cominciò Martin, ma improvvisamente si fermò. Davanti a lui c’era una ragazza infelice e vista l’inutilità di convincere lei o il marito, decise di cedere, anche se quella situazione era ridicola e assurda.
«Bene», esclamò, lacerando il manoscritto in diversi pezzi e gettandolo nel cestino. Era rassicurato dalla certezza che in quel momento il dattiloscritto originale si trovava nella redazione di una rivista di New York. Marian e il marito non l’avrebbero mai saputo e nessuno avrebbe subìto alcun danno da un’eventuale pubblicazione di quella graziosa e innocente lirica.
Marian allungò la mano verso il cestino ma si arrestò.
«Posso?», chiese umilmente.
Lui annuì, osservandola pensosamente mentre raccoglieva i frammenti del manoscritto e se li ficcava nella tasca della giacca – prova palpabile del successo della missione. Gli ricordava Lizzie Connolly, benché la sorella possedesse meno ardore e meno prorompente ostentazione di quella operaia, che Martin aveva visto due volte. E tuttavia si somigliavano molto nel vestire e nel portamento ed egli rise divertito al pensiero di che cosa sarebbe potuto avvenire se una di loro fosse comparsa nel salotto della signora Morse. Ma il sorriso gli svanì, ed egli si accorse di essere immerso in una grande solitudine. La sorella e la casa dei Morse erano pietre miliari nella strada che aveva percorso: le aveva distanziate entrambe. Si guardò intorno soffermandosi affettuosamente sui pochi libri che lo circondavano, i soli compagni che gli erano rimasti.
«Che cosa hai detto?», chiese riscuotendosi alla sorella, che aveva parlato.
Marian ripeté la domanda.
«Perché non mi metto a lavorare?», rispose usando le stesse parole di lei. Scoppiò in una risata un po’ forzata. «Che cosa ti ha detto di me quel tuo Hermann?».
Marian scosse la testa.
«Non mentire», le disse il fratello in tono imperioso. Lei annuì confermando in tal modo l’accusa.
«Bene. Di’ a questo tuo Hermann di badare agli affari suoi; il fatto che io scriva una poesia sulla ragazza che esce con lui è una faccenda che lo riguarda, ma su tutto il resto non deve mettere il becco. Chiaro?».
«E così tu non pensi che avrò successo come scrittore, vero?», continuò. «E credi che io non stia combinando niente di buono… e che sono caduto in basso, e che sono una vergogna per la famiglia, non è così?».
«Penso che è molto meglio se ti trovi un lavoro», disse lei in tono fermo, ed egli capì che era sincera. «Hermann dice…».
«Al diavolo Hermann!», esplose lui senza malanimo. «Voglio solo sapere quando ti sposerai. Cerca di chiedergli se si degnerà di permetterti di accettare un regalo da me».
Dopo che se ne fu andata rifletté su quell’episodio e un paio di volte rise amaramente al pensiero che la sorella e la fidanzata, i membri del proprio ceto e quelli del mondo di Ruth, improntavano la loro esistenza angusta e meschina a formule anguste e meschine – pecore che amavano il gregge e si conformavano alle regole di condotta che reciprocamente si davano, incapaci di essere se stessi e di vivere una vita autentica a causa delle norme puerili di cui si erano resi schiavi. Li chiamò a raccolta davanti a sé in un ideale corteo – Bernard Higginbotham a braccetto con il signor Butler, Hermann von Schmidt a fianco di Charley Hapgood – valutandoli e giudicandoli, singolarmente o a coppie, con i criteri morali e intellettuali appresi nei libri. Vanamente si chiedeva dove fossero le grandi anime, gli uomini e le donne superiori. Non ne trovava fra le menti superficiali, stupide e volgari che, evocate dalla visione, arrivavano fino alla stanzetta. Provò per loro un disgusto come quello che doveva aver sentito Circe per i suoi porci. E quando ebbe liquidato l’ultimo, e già pensava di essere rimasto solo, giunse un ritardatario inatteso che non era stato invitato. Martin lo guardò e vide il cappello con la tesa rigida, il taglio squadrato, la giacca a doppio petto e l’andatura tracotante del giovane teppista che ben conosceva.
«Eri come tutti gli altri, giovanotto», gli disse Martin in tono di scherno. «Avevi la loro stessa moralità e la loro stessa cultura. Non pensavi né agivi in modo autonomo. Le tue idee erano già confezionate, come gli abiti che indossavi; le tue azioni determinate dall’approvazione della massa. Eri il caporione del gruppo perché gli altri ti ammiravano come uno in gamba davvero. Tu facevi a botte e dominavi la banda non perché ti piacesse – in realtà la disprezzavi – ma perché gli altri ti approvavano. Le hai date a Faccia-di-Cacio perché non volevi cedere, e non volevi cedere in parte perché eri un selvaggio, in parte perché credevi ciò che tutti quelli intorno a te credevano: che la virilità si misura dalla furia spietata nel malmenare e ferire le altre creature. Animale che non sei altro, hai persino portato via le ragazze ai compagni, non perché le desiderassi, ma perché l’istinto di coloro che ti circondavano e foggiavano la tua moralità era quello del cavallo brado e del tricheco. Bene, dopo tanti anni che cosa ne pensi adesso?».
Come in risposta a questa domanda la visione subì una rapida metamorfosi. Svanirono la falda rigida e il taglio squadrato, sostituiti da vestiti più sobri; la grinta sparì dalla faccia, la durezza dagli occhi; il volto, addolcito e affinato, rifletteva una vita interiore in intima comunione con la bellezza e la cultura. Quell’apparizione era molto simile alla sua figura e nel riguardarla notò la lampada da studio che l’illuminava e il libro su cui era chino. Diede un’occhiata al titolo e lesse, La scienza estetica. Si sovrappose a quella visione, regolò il lume e riprese a leggere.
XXX
Un bel giorno d’autunno, una giornata dell’estate di San Martino simile a quella che li aveva visti dichiararsi l’amore l’anno precedente, Martin lesse a Ruth il Ciclo d’amore. Era pomeriggio e, come allora, erano saliti sulla loro altura preferita in mezzo alle colline. Di tanto in tanto lei lo aveva interrotto con esclamazioni di piacere; ora, dopo avere messo l’ultimo foglio del manoscritto accanto agli altri, egli attendeva il giudizio di lei.
Ruth non parlò subito, e alla fine lo fece con voce incerta perché esitava nell’esprimere la propria disapprovazione.
«Le trovo belle, molto belle», disse, «ma non riesci a venderle, vero? Capisci quello che voglio dire», aggiunse quasi scusandosi. «Questo lavoro letterario non rende. C’è qualcosa… forse il mercato è fatto così… che non ti consente di guadagnarti da vivere in questo modo. Per favore, caro, non fraintendermi. Sono lusingata, orgogliosa, felice che tu abbia scritto per me queste poesie – non sarei una vera donna se non lo fossi. Ma non rendono possibile il nostro matrimonio. Non capisci, Martin? Non credermi interessata. È l’amore, è il pensiero del nostro futuro che mi tormenta. È passato un anno intero da quando abbiamo capito che ci amavamo, e il giorno delle nozze non si è affatto avvicinato. Non giudicarmi sfacciata se parlo così di queste cose, perché ne va del mio cuore, di tutta me stessa. Perché non cerchi di trovare lavoro in un giornale, se sei così deciso a scrivere? Perché non diventare cronista… almeno per un po’?».
«Mi rovinerebbe lo stile», rispose lui con voce bassa e monotona. «Non immagini quanto abbia faticato per crearmene uno».
«Ma quelle novellette per i giornali», obiettò lei. «Hai detto anche tu che erano opere commerciali. Ne hai scritte molte, eppure non ti hanno rovinato lo stile».
«È una cosa diversa. Le buttavo giù in qualche modo al termine di un’intensa giornata consacrata allo studio dello stile. Ma il lavoro del giornalista è tutto di questo tipo dall’alba al tramonto, ed è l’unico che conti. È una vita turbinosa, legata al presente, senza passato e senza futuro e certamente priva di altre preoccupazioni che non siano il rispetto della forma giornalistica, che certamente non è letteratura. Diventare cronista adesso, proprio nel momento in cui il mio stile sta prendendo forma, si sta cristallizzando, equivarrebbe a un suicidio letterario. Quanto alle novellette, ognuna di loro, ogni parola che contenevano erano un insulto a me, al mio amor proprio, al mio rispetto per la bellezza. Ti assicuro che soffrivo. Ammetto il mio peccato. E in cuor mio sono stato contento quando quel filone si è chiuso, anche se in tal modo ho dovuto impegnare i vestiti. Ma che gioia provavo nello scrivere il Ciclo d’amore! Era la gioia della creazione nella sua forma più alta! E mi compensava di tutto».
Martin non sapeva che Ruth non capiva nulla della gioia della creazione. Era un’espressione che usava – era infatti da lei che l’aveva sentita la prima volta – e che aveva imparato all’università, ma personalmente la ragazza mancava di originalità e di creatività, e tutto lo sfoggio di cultura che faceva non era che la semplice ripetizione di cose che aveva sentito da altri.
«Non potrebbe aver avuto ragione la redazione nel modificare le tue Liriche del mare?», chiese. «Ricordati che un direttore deve avere una comprovata esperienza per ricoprire l’incarico».
«È così che non si cambia mai nulla», esclamò Martin, sopraffatto dall’irritazione che lo prendeva ogni volta che si parlava di quella categoria. «Ciò che esiste non è solo giusto, ma anche il meglio possibile. Le cose trovano la loro legittimazione nel semplice fatto di essere – di essere, bada bene, non soltanto nella situazione attuale, ma in qualunque condizione, come inconsciamente pensa la maggioranza delle persone. Naturalmente è l’ignoranza che li spinge a credere simili sciocchezze – un’ignoranza che equivale al processo mentale enidico descritto da Weininger. Pensano di pensare, queste creature con la mente vuota, e sono arbitri della vita dei pochi che veramente pensano».
Si fermò, nella fastidiosa consapevolezza di avere espresso concetti troppo difficili per la comprensione di Ruth.
«Non so proprio chi sia questo Weininger», ribatté lei. «E tu parli in modo così generico che non riesco a seguirti. Stavo dicendo che l’esperienza dei direttori…».
«E io ti dico», l’interruppe lui, «che l’esperienza più comune del novantanove per cento dei direttori è il fallimento. Come scrittori non hanno avuto successo. Non credere che preferiscano la fatica del lavoro d’ufficio, l’ossessione del numero di copie vendute e la tirannia del direttore amministrativo alla gioia dello scrivere. Ci hanno provato, ma hanno fatto fiasco. Ed è qui il paradosso di questo ambiente. In campo letterario ogni porta che apre la via al successo è custodita da questi cani da guardia, che sono autori mancati. La maggior parte dei direttori, dei vicedirettori, dei capiservizio dei periodici, e quasi tutti i lettori di manoscritti nelle riviste e nelle case editrici sono uomini che volevano scrivere e hanno fallito. E tuttavia proprio loro, i meno adatti al mondo a svolgere questa attività, sono quelli che decidono che cosa possa e che cosa non possa essere stampato – loro, che hanno dimostrato di non avere talento e di essere privi del fuoco divino, si ergono a giudici dell’originalità e del genio. E dopo di loro vengono i recensori, altri esempi di insuccesso. Non dirmi che non hanno mai nutrito il sogno della creazione e che non hanno mai fatto tentativi poetici o narrativi; ma non ci sono riusciti. Accidenti, le normali recensioni sono più nauseanti dell’olio di fegato di merluzzo. Sai già che cosa penso dei recensori e dei presunti critici. Esistono grandi critici, ma sono rari come le comete. Se non sfonderò come scrittore mi sarò preparato adeguatamente alla carriera di direttore editoriale. Almeno lì c’è il pane, e anche il companatico».
Ruth aveva seguito attentamente quel discorso e l’ostilità per le idee dell’innamorato fu rafforzata da una contraddizione che aveva scoperto nel suo ragionamento.
«Ma se le cose stanno così, Martin, se tutte le porte sono chiuse, come hai dimostrato in modo così convincente, come sono giunti al successo i grandi scrittori?».
«Sono riusciti nell’impossibile», rispose lui. «Hanno composto opere così ardenti e folgoranti da incenerire tutti gli oppositori. Ci sono arrivati compiendo un miracolo, vincendo una scommessa a mille contro uno. Ci sono arrivati perché erano gli indomabili giganti segnati dalle cicatrici della battaglia di cui parla Carlyle. Questo è ciò che devo fare io: riuscire nell’impossibile».
«E se fallisci? Devi considerare anche me, Martin».
«Se fallisco?». La fissò per un istante come se ciò che aveva detto fosse inconcepibile. Poi s’illuminò di uno sguardo acuto e divertito. «Se fallirò diventerò direttore editoriale, e tu sarai la moglie di un direttore editoriale».
Ruth si accigliò a quella facezia assumendo un’espressione deliziosamente corrucciata che lo spinse a passarle un braccio intorno alle spalle per rasserenarla con un bacio.
«Su, basta», protestò, sottraendosi con uno sforzo di volontà al fascino della forza che emanava da lui. «Ne ho parlato con papà e mamma con una determinazione che non avevo mai avuto nelle discussioni con loro. Ho imposto che mi ascoltassero. Sono stata molto disubbidiente. Ti sono ostili, come sai, ma ho ripetuto loro infinite volte che nutro per te un amore incrollabile, e alla fine il papà ha concesso che, se lo vuoi, puoi cominciare a lavorare subito nel suo ufficio. E ha poi aggiunto, di sua spontanea iniziativa, che ti darebbe, sin dall’inizio, una buona paga, sufficiente per sposarci e per prendere una villetta in cui abitare. È stato molto generoso, non ti pare?».
Oppresso da una sorda disperazione Martin emise un grugnito, facendo contemporaneamente il gesto meccanico di prendere tabacco e cartina (che non aveva più con sé) per arrotolarsi una sigaretta, mentre Ruth continuava:
«A dirla schietta – e non vorrei che ci rimanessi male – devo confessarti che opinione si è fatto in complesso di te: non gli piacciono le tue idee estremistiche, e pensa anche che tu sia pigro. Naturalmente io so che non è vero e che tu lavori moltissimo».
Neppure tu sai quanto, pensò Martin.
«E tu che ne dici delle mie idee? Pensi che siano così estremistiche?», chiese.
La fissò negli occhi in attesa della risposta.
«Le considero, come dire, sconcertanti», disse lei.
Era una frase eloquente ed egli si sentì così oppresso dalla tetraggine della vita che dimenticò quel sondaggio riguardante il lavoro nell’ufficio del padre. Mentre lei, dopo avere lanciato la proposta, rimaneva in attesa dell’occasione propizia per rinnovarla.
Non dovette aspettare a lungo. A sua volta, Martin voleva accertare quanta fede Ruth avesse in lui e, nel giro di una settimana, entrambi gli interrogativi ricevettero una risposta. Martin fece precipitare la situazione leggendole La vergogna del sole.
«Perché non fai il giornalista?», gli chiese alla fine Ruth. «Scrivere ti piace tanto, e sono certa che riusciresti. In questo campo potresti emergere e farti un nome. Ci sono diversi inviati speciali, che guadagnano molto e girano il mondo. Li mandano dappertutto, nel cuore dell’Africa, come Stanley, o a intervistare il Papa, o a esplorare il Tibet sconosciuto».
«Allora il mio saggio non ti è piaciuto?», ribattè lui. «Credi che abbia qualche possibilità nel giornalismo ma nessuna in letteratura?».
«No, no, mi è piaciuto. Si legge bene, ma credo che sia troppo difficile per i lettori. Almeno lo è stato per me. Sembra bellissimo, ma io non lo comprendo. Ha un gergo scientifico che è al di fuori delle mie possibilità. Sei troppo rigoroso, caro, devi convincertene, e quello che forse è intelligibile per te può non esserlo per tutti noi».
«Immagino che tu sia rimasta perplessa di fronte alla terminologia filosofica», fu tutto ciò che egli riuscì a dire.
Era ancora tutto eccitato dalla lettura di uno scritto che esprimeva le sue idee più mature e quel verdetto lo sbalordiva.
«Non importa se è stato formulato in modo insoddisfacente», insisté, «ma non ci hai trovato proprio niente… intendo, nei pensieri che conteneva?».
Lei scosse la testa.
«È così diverso da ogni cosa che ho visto finora. Leggo Maeterlinck e lo capisco…».
«Vuoi dire che capisci il suo misticismo?», esplose lui.
«Sì, e questo articolo, questo attacco che gli porti, non lo comprendo. Naturalmente se si vuole essere originali a tutti i costi…».
La fermò con un gesto di impazienza, senza però dire nulla. Poi improvvisamente si rese conto che Ruth stava parlando da qualche tempo.
«Dopo tutto lo scrivere per te è stato un trastullo», stava dicendo. «Ti sei divertito abbastanza ormai ed è ora che tu prenda la vita seriamente – la nostra vita, Martin. Finora hai vissuto solo per te stesso».
«Vuoi che mi metta a lavorare?», chiese.
«Sì. Il papà ti ha offerto…».
«L’ho capito», l’interruppe lui; «ma quello che voglio sapere è se tu hai perso la fiducia in me».
Lei gli strinse la mano senza parlare, con gli occhi velati di lacrime.
«Non in te, ma in quello che scrivi, caro», ammise con un filo di voce.
«Hai letto molte cose mie», proseguì Martin con brutalità. «Che cosa ne pensi? È roba da buttar via? Hai provato a confrontarle con le opere di altri?».
«Ma loro vendono, e tu… no».
«Questa non è una risposta. Credi che la letteratura non sia il mio mestiere?».
«Risponderò con franchezza». Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio. «Non penso che tu sia nato per fare lo scrittore. Perdonami, caro. Hai voluto tu che te lo dicessi; e sai che conosco la letteratura più di te».
«Sì, hai una laurea in lettere», disse lui meditabondo, «e te ne dovresti intendere».
«Ma non è tutto qui», continuò dopo una pausa penosa per entrambi. «Solo io so che cosa ho dentro di me, e so che ce la farò. Non posso reprimere quello che sento di dover dire nella poesia, nella narrativa e nella saggistica. Ora non ti chiedo di avere fede nelle mie opere. Non ti chiedo di avere fede in me e in ciò che scrivo. Ti chiedo solo di amarmi e di avere fede nell’amore.
«Un anno fa ti ho pregato di aspettare due anni. Ne rimane ancora uno e giuro, sul mio onore e sull’anima mia, che prima che sia passato sarò arrivato al successo. Ricordi che cosa mi dicesti allora, sul fatto che dovevo seguire il mio apprendistato di scrittore? L’ho fatto, fino alla nausea, con il pensiero sempre fisso a te che mi aspettavi. Non mi sono mai tirato indietro. Sai che ho dimenticato che cosa significhi abbandonarsi al sonno con il cuore in pace? Milioni di anni fa mi addormentavo quando ne avevo voglia e mi svegliavo quando mi ero riposato a sufficienza, ma ora sobbalzo al suono della sveglia. E se mi accorgo che mi si chiudono gli occhi fisso la suoneria dopo poche ore, anche se una sosta così breve non basta a soddisfarmi; segnare l’ora del risveglio e spegnere la luce sono le ultime azioni che compio consapevolmente nel corso della giornata.
«Quando comincio ad avere le palpebre pesanti sostituisco il libro che sto leggendo con uno più leggero e quando sento che sto per assopirmi anche con questo mi batto la testa con i pugni per restare sveglio. Ho letto da qualche parte, in un racconto di Kipling, di un uomo che avendo paura di addormentarsi aveva sistemato vicino al proprio corpo nudo uno sperone, che lo ridestava di colpo quando ci cascava addosso sopraffatto dal sonno. Io faccio lo stesso. Guardo l’ora e decido di non togliere quel pungolo di ferro fino a mezzanotte, o all’una, o alle due, o alle tre. E così sono costretto a continuare fino all’ora stabilita. Per mesi questo sperone mi è stato compagno di letto. Sono arrivato a tal punto di disperazione che un riposo di cinque ore e mezzo mi sembra un lusso inammissibile, e l’ho ridotto a quattro. Soffro terribilmente per la mancanza di sonno. Ci sono volte in cui mi vengono giramenti di capo, altre in cui la morte, parente prossima della pausa notturna, ha per me un fascino irresistibile, altre ancora in cui sono ossessionato dai versi di Longfellow:
Fermo è il profondo mare;
Ogni cosa dorme lì sotto;
Un passo e tutto è finito,
Un salto, un tonfo e nulla più.
«Naturalmente ciò è assurdo, è il risultato del nervosismo e dell’eccesso di lavoro. Ma mi chiedo: perché l’ho fatto? L’ho fatto per te. Per accelerare l’apprendistato e arrivare prima al successo. Ora questa fase è terminata e so qual’è il mio bagaglio culturale. Giuro che imparo più io in un mese che un normale studente universitario in un anno. Te lo posso garantire. Non ti avrei confessato questo se non avessi avuto un bisogno così disperato di farti capire. Non lo dico per vantarmi. Lo si può misurare dal numero dei libri letti. Oggi i tuoi fratelli sono poveri ragazzini ignoranti al mio confronto, e sono arrivato a questo risultato lavorando come un mulo mentre loro dormivano. Molto tempo fa volevo diventare famoso, ma ora la gloria m’importa assai poco. Tutto quello che voglio sei tu. Ti bramo più del cibo, più dei vestiti, più della celebrità. Sogno di posarti il capo sul petto e di dormire per un miliardo di anni, e fra un anno questa visione diventerà realtà».
L’investiva con forza, un’ondata dopo l’altra, e proprio quando le due volontà cozzavano con più violenza lei si sentiva irresistibilmente attratta verso di lui. Quel magico flusso che era sempre emanato dalla sua persona fluiva ora dalla voce appassionata, dagli occhi lampeggianti e dal vigore vitale e intellettuale che ribolliva in lui. E in quel momento, per un istante, Ruth si accorse che la propria certezza si era spaccata, aprendo un varco attraverso il quale scorse il vero Martin Eden, splendido e invitto e, come un domatore di fronte a un animale indomabile, dubitò per un attimo di riuscir mai a piegare ai propri poteri il selvaggio spirito di quell’uomo.
«Ancora una cosa», proseguì lui implacabile. «Tu mi ami. Ma perché? La stessa cosa che mi spinge a scrivere è quella che ti attrae a me. Mi ami perché sono molto diverso dagli uomini che hai conosciuto e che avresti potuto amare. Non sono nato per la scrivania dell’ufficio contabilità, per le meschine lotte aziendali e per le diatribe legali. Se mi farai fare cose di questo tipo, se mi renderai come gli altri uomini, se mi costringerai a fare il loro lavoro, a respirare la loro aria, ad assumere una mentalità come la loro, avrai distrutto ciò che mi distingue, avrai distrutto me, avrai distrutto la persona che ami. Il desiderio di scrivere è ciò che in me è più vitale. Fossi stato una creatura banale non avrei avuto la voglia di scrivere, ma tu non mi avresti desiderato per marito».
«Ma tu dimentichi», l’interruppe lei scorgendo immediatamente in quelle parole l’occasione per fare un’osservazione a sostegno della sua tesi, «che ci sono stati strambi inventori che facevano morire di fame la famiglia inseguendo impossibili chimere come il moto perpetuo. Non c’è dubbio che le mogli li amavano e soffrivano con loro e per loro, ma non in virtù della loro passione per il moto perpetuo, bensì a dispetto di essa».
«È vero», rispose lui. «Ma ci sono stati anche inventori tutt’altro che eccentrici che hanno sofferto la fame cercando di realizzare cose pratiche, e la storia ci dice che qualche volta ci sono riusciti. Io certamente non voglio la luna…».
«Hai detto tu stesso che volevi “riuscire nell’impossibile”», intervenne lei.
«Ho parlato in modo figurato. Cerco di fare le stesse cose che sono riuscite ad altri prima di me: scrivere e vivere del mio lavoro di scrittore».
Il silenzio di lei lo spinse a continuare.
«Per te, dunque, il mio obiettivo è chimerico come quello del moto perpetuo?», chiese.
Lesse la risposta nel modo in cui lei gli stringeva la mano – la stessa amorevole pressione delle dita materne al bambino che si è fatto male. Per lei in quel momento egli era il figlio malato, l’uomo che aspirava a raggiungere l’impossibile.
Verso la fine del colloquio gli ricordò ancora l’avversione del padre e della madre.
«Ma tu mi ami?», le chiese lui.
«Sì! Sì!», gridò lei.
«E io amo te, non loro, e nulla di ciò che possono fare mi fermerà». Aveva un suono di trionfo nella voce. «Poiché ho fede nel tuo amore, non temo la loro ostilità. Tutto può andare storto in questo mondo, ma non l’amore. Esso andrà dritto alla meta se avrà la forza di proseguire e di non cadere lungo il cammino».


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