venerdì 24 luglio 2020

Jack London / Martin Eden XI - XX

Martin Eden eBook by Jack London | Rakuten Kobo
Jack London
MARTIN EDEN

Martin tornò all’articolo sui pescatori di perle, che avrebbe finito prima se non fosse stato interrotto tanto spesso dai tentativi di scrivere poesie. Erano liriche d’amore ispirate da Ruth, ma non furono mai completate. Non poteva imparare in un giorno a cantare in versi elevati. Rima, prosodia e struttura erano di per se stesse questioni di grande difficoltà, ma egli sentiva che, al di là di questi aspetti, la grande poesia aveva un qualcosa di intangibile e sfuggente che non riusciva a cogliere e a infondere nei propri versi. Era in grado di percepire l’inafferrabile spirito della poesia, cercava di inseguirlo, ma non era capace di raggiungerlo. Gli guizzava davanti agli occhi come una lingua di nebbia luminosa e impalpabile sempre troppo lontana per le sue mani protese, anche se qualche volta riusciva ad acchiapparne un lembo e a tesserne frasi che gli echeggiavano nel cervello come note ossessive o che gli passavano fluttuando davanti agli occhi in vaghe visioni di arcana bellezza. Era sconcertato. Avvertiva un desiderio acuto di esprimere ciò che sentiva, ma poteva solo balbettarlo prosaicamente in parole banali e ordinarie. Rileggeva ad alta voce quei frammenti. La prosodia presentava una scansione perfetta, la rima risuonava in ritmi più ampi e ugualmente impeccabili, ma lo splendore e la nobiltà che sentiva nei grandi poeti erano assenti dai suoi versi. Non riusciva a comprenderne il perché e ogni volta tornava al suo articolo in preda a una rabbia impotente e disperata.
Dopo i Pescatori di perle, scrisse un articolo sulla carriera nella marina mercantile, un altro sulla cattura delle tartarughe e un terzo sugli alisei del nord-est. Avendo provato, in via sperimentale, a cimentarsi nel genere del racconto breve, ne fu così preso da comporne sei, uno dietro l’altro, che spedì alle diverse riviste. Lavorava con grande lena dalla mattina alla sera e fino a notte inoltrata, tranne quando si interrompeva per andare in biblioteca a prendere libri a prestito, o per passare a vedere Ruth. Era profondamente felice. Viveva intensamente, in un’attività febbrile e incessante. Aveva raggiunto la gioia della creazione, prerogativa che si ritiene appartenga agli dei. Tutto ciò che lo circondava – gli odori della verdura appassita e della lisciva, la figura trasandata della sorella e la faccia beffarda di Higginbotham – era un sogno. Il mondo reale era nella sua mente, e le storie che scriveva ne erano le prove tangibili.
Le giornate erano troppo corte. Erano tante le cose che voleva studiare! Ridusse le ore di sonno a cinque e si accorse che gli bastavano. Provò anche a dormire per sole quattro ore e mezzo, ma purtroppo fu costretto a tornare alle cinque. Sarebbe stato felicissimo di passare tutti i momenti di veglia impegnato in ciascuna delle diverse occupazioni. Era con rammarico che smetteva di scrivere per immergersi nello studio, che cessava di studiare per andare in biblioteca e che infine si allontanava anche da lì, dai libri in cui era delineata la geografia della cultura, e dalle riviste, meravigliosi mercati pieni dei segreti degli scrittori che erano riusciti a vendere la propria merce. Quando dopo essersi intrattenuto con Ruth si alzava per congedarsi, era come se gli si spezzassero le fibre del cuore; e copriva di corsa le buie strade verso casa, nell’ansia bruciante di tornare ai libri senza perdere un attimo di tempo. Ma il dolore più acuto era quando doveva chiudere il testo di algebra o di fisica, metter giù quaderno e matita, e chiudere al sonno gli occhi affaticati. Non sopportava il pensiero di arrestare la vita, sia pure per un periodo brevissimo, e la sua sola consolazione era di fissare la sveglia perché suonasse cinque ore dopo. Avrebbe perso solo cinque ore, prima che il rumore stridulo della suoneria lo facesse uscire dall’incoscienza aprendogli le porte alle diciannove ore di un’altra radiosa giornata.
Nel frattempo le settimane passavano, il denaro diminuiva e non ne arrivava altro. Un mese dopo la spedizione, «The Youth’s Companion» gli restituì le puntate del racconto di avventure destinato ai ragazzi. Il biglietto di rifiuto era formulato con tanta cortesia che provò simpatia per il direttore. Non ne sentì altrettanta per il responsabile editoriale del «San Francisco Examiner». Dopo un’attesa di due settimane Martin gli scrisse, e dopo un’altra settimana gli spedì una nuova lettera. Alla fine del mese andò a San Francisco con l’intenzione di presentarsi al direttore in persona, ma non poté incontrare questo nobile personaggio a causa di un cerbero che, sotto le sembianze di un giovane usciere con i capelli rossi, gli impedì di oltrepassare la soglia di entrata. Il manoscritto gli fu recapitato per posta al termine della quinta settimana, senza alcun biglietto di rifiuto, spiegazione o altro. Gli altri articoli rimasero bloccati nello stesso modo presso gli altri importanti giornali di San Francisco. Quando riuscì a riaverli li spedì a riviste dell’Est, che li restituirono con maggiore sollecitudine accompagnandoli sempre con biglietti stampati di rifiuto.
I racconti venivano respinti nello stesso modo. Rileggendoli più e più volte li trovava così belli da non riuscire a capacitarsene, finché un giorno lesse in un giornale che tutti i testi dovevano essere presentati dattiloscritti. Ora era chiaro! Naturalmente i direttori erano così impegnati che non potevano perdere tempo e fatica a decifrare pagine scritte a mano. Martin affittò una macchina per scrivere e impiegò una giornata per imparare a usarla. Ogni giorno batteva quello che componeva e i vecchi manoscritti che nel frattempo gli venivano restituiti. Ebbe però la sorpresa di vedere che anche i dattiloscritti gli venivano rispediti. La mascella gli divenne più quadrata, il mento più aggressivo, e riprese a spedire manoscritti a nuovi direttori.
Gli venne in mente di non essere un buon giudice della propria opera, e provò con Gertrude, cui lesse ad alta voce i racconti. La sorella lo guardò con occhi lucidi e un’espressione di orgoglio dicendogli:
«Sei proprio in gamba a scrivere queste cose».
«Sì, sì», chiese lui con impazienza. «Ma il racconto, ti è piaciuto?».
«È forte», fu la risposta. «Proprio forte, e anche commovente. Sono tutta sottosopra».
Vide che non aveva capito bene. C’era una forte perplessità sulla sua faccia bonaria. Aspettò.
«Ma, dimmi, Mart», disse la donna dopo una lunga pausa, «come è andata a finire? Quel giovanotto che parlava con tutti quei paroloni, è riuscito ad averla, la ragazza?».
E dopo che lui le ebbe spiegato la fine, che gli era parsa tanto artisticamente ovvia, lei disse:
«Era questo che volevo sapere. Ma perché non l’hai scritto nella storia?».
Quello che apparve chiaro dopo diverse letture era che le piacevano i racconti a lieto fine.
«Questa storia è proprio forte», dichiarava la sorella sollevandosi dalla tinozza del bucato con un sospiro di stanchezza e asciugandosi il sudore della fronte con la mano rossa e fumante; «ma mi ha fatto venire la malinconia. Ho voglia di piangere. Ci sono già tante cose brutte al mondo. Sono contenta, invece, se posso pensare a cose belle. Ora se lui avesse sposato lei, e… non ti dispiace se ti dico questo, Mart?», aggiunse con tono apprensivo. «Beh, forse sono così per via della stanchezza. Ma la storia era in gamba lo stesso, proprio in gamba. A chi la vendi?».
«Questa è un’altra faccenda», rispose lui ridendo.
«Ma se la vendi, quanto pensi che ne ricaverai?».
«Oh, un centinaio di dollari. È il minimo in questo campo».
«Cavolo! Spero proprio che la vendi!».
«Facile far soldi così, eh?». Poi aggiunse orgogliosamente: «L’ho scritta in due giorni. Sono cinquanta dollari al giorno».
Moriva dalla voglia di leggere a Ruth i suoi racconti, ma non osava. Decise che avrebbe aspettato che fossero pubblicati; lei allora avrebbe capito che cosa lo aveva impegnato intensamente per tanto tempo. Nel frattempo continuava a lavorare sodo. Mai lo spirito di avventura lo aveva affascinato come in questa straordinaria esplorazione nel regno dell’intelletto umano. Comprò testi di fisica e chimica, che, con quello di algebra, lo impegnarono in problemi e dimostrazioni. Accettava come dimostrate le prove di laboratorio, vedendo con gli acuti occhi della mente le reazioni chimiche più chiaramente di quanto lo studente ordinario non le vedesse nel laboratorio stesso. E si addentrava in quelle fitte pagine, sbalordito dai segreti che scopriva nella natura delle cose. Aveva accettato il mondo come tale, ma ora comprendeva come fosse organizzato e quale fosse l’interazione fra forza e materia. In tal modo vecchie questioni trovavano una spontanea spiegazione. Affascinato da leve e pulegge tornava con la mente ai verricelli, alle carrucole e agli argani usati in mare. La teoria della navigazione, che consentiva alle navi di coprire senza sbagliare un immenso oceano privo di sentieri, gli divenne chiara. Gli si rivelarono i misteri delle tempeste, delle piogge e delle maree, e l’origine degli alisei lo indusse a chiedersi se non avesse scritto troppo presto l’articolo sui venti del nord-est. In ogni caso adesso sapeva che poteva scriverlo meglio. Un pomeriggio andò con Arthur all’Università della California dove, con il fiato sospeso e un senso di rispetto religioso, passò per i laboratori, vide dimostrazioni e ascoltò le lezioni di un professore di fisica.
Ma non trascurava l’attività letteraria. I racconti gli fluivano facilmente dalla penna, mentre in campo poetico passò a composizioni più agevoli, del tipo che aveva visto pubblicato nelle riviste. Sprecò anche due settimane perdendo la testa su una tragedia in versi sciolti, il cui rifiuto da parte di una mezza dozzina di riviste lo stupì. Poi scoprì Henley e scrisse una serie di liriche di argomento marino sul modello degli Hospital Sketches. Erano poesie semplici, piene di luce e di colore, di fantasia e di avventura. Le intitolò Liriche del mare e le giudicò l’opera migliore che avesse mai fatto. Erano trenta e le completò in un mese, componendone una ogni giorno dopo un’intera giornata trascorsa a scrivere narrativa, con un carico di lavoro corrispondente a quello che gli scrittori di successo ripartivano normalmente nel corso di una settimana. Non avvertiva la stanchezza. Tutta quell’attività non gli costava fatica. Stava trovando il linguaggio, e tutta la bellezza e l’ammirazione che per anni erano rimaste sigillate da labbra inerti sgorgavano ora in un flusso potente e selvaggio.
Non mostrò a nessuno le Liriche del mare, neppure ai direttori dei giornali, di cui ora non si fidava più. Ma non era la diffidenza che gli impedì di inviare loro quelle composizioni. Gli sembravano così belle che sentiva di doverle conservare per dividerle con Ruth per quel lontano splendido giorno in cui avrebbe trovato il coraggio di leggerle ciò che aveva scritto. Nell’attesa le teneva con sé, le rileggeva, le declamava ad alta voce, fino a saperle a memoria.
Viveva intensamente ogni momento delle ore di veglia e durante le cinque ore di sonno tornava con la mente inquieta ai pensieri e agli eventi della giornata, che ricostruiva in combinazioni grottesche e impossibili. Di fatto non trovava mai riposo, e un fisico più debole o una mente meno equilibrata, avrebbero subìto un collasso. Le visite a Ruth del tardo pomeriggio erano adesso più rare, perché giugno era vicino, ed avrebbe finito l’università conseguendo la laurea. Dottore in lettere! Al pensiero di quella proclamazione, gli parve che la ragazza si allontanasse da lui diventando irraggiungibile.
Ruth gli concedeva una visita la settimana e arrivando tardi Martin si fermava di solito a cena e per l’ascolto della musica, che concludeva la serata. Erano quelli i suoi giorni di festa. L’atmosfera della casa, così contrastante con quella in cui viveva, e la semplice vicinanza di lei, lo rafforzavano ogni volta nella decisione di elevarsi fino a lei. Nonostante la bellezza che sentiva in sé e l’acuto desiderio di creare, era per lei che lottava. Era prima di tutto e sempre un uomo che amava, e ogni altra cosa era subordinata al suo amore. Quell’avventura dei sentimenti era per lui molto più importante di quella dell’intelletto. Il mondo stesso non era meraviglioso per gli atomi e le molecole che lo formavano combinandosi per l’attrazione di forze irresistibili; ciò che lo rendeva straordinario era il fatto che in esso vi fosse Ruth, la cosa più sublime che avesse conosciuto, sognato o intuito.
E tuttavia era sempre tormentato dall’abisso che lo separava dalla fanciulla. Era così distante che non sapeva come avvicinarla. Aveva avuto successo con le ragazze e le donne del suo ambiente, ma non ne aveva mai amata una, mentre amava lei, che per giunta non era neppure di un altro ceto perché il suo amore la sollevava al di sopra di tutte le classi. Era una creatura diversa e così remota che Martin non sapeva in che modo accostarla, come deve fare ogni innamorato. Le era meno lontano, era vero, a mano a mano che acquisiva abilità nel linguaggio, che allargava la propria cultura, che parlava il suo idioma, che scopriva di avere le stesse idee e di amare le medesime cose; ma tutto questo non appagava la sua brama di innamorato. La sua fantasia di amante ne aveva fatto qualcosa di troppo sacro, troppo divino, troppo spiritualizzato per pensare che potesse avere con lui contatti fisici. Era stato proprio l’amore a spingerla lontano da lui e a fargliela sembrare irraggiungibile. L’amore stesso gli negava l’unica cosa che desiderava.
Poi un giorno, senza che nulla lo lasciasse presagire, l’abisso che era fra loro fu colmato, e in seguito divenne sempre meno profondo, pur non scomparendo del tutto. Avevano mangiato ciliege – grandi, saporite, nere e ricche di un succo scuro come il vino rosso. E più tardi, mentre lei gli leggeva The Princess, Martin notò casualmente la macchia che le era rimasta sul labbro. Per un momento la sua natura divina ne fu distrutta. Il corpo di lei era di argilla, dopo tutto, soggetto alla stessa legge cui obbediva il corpo di lui e quello di tutti gli uomini. Le labbra di lei erano fatte di carne, come quelle di lui, e come quelle di lui si potevano macchiare con il succo delle ciliege. E come per le labbra era per tutto il resto. Ruth era una donna, lo era in ogni sua parte, come qualunque altra donna. Questa rivelazione gli arrivò all’improvviso, lasciandolo sbigottito. Era come se avesse visto il sole precipitare dal cielo, o la profanazione della purezza divina.
Quando capì il senso di quell’episodio, il cuore cominciò a battergli forte, spingendolo a comportarsi da innamorato con quella donna, che non era uno spirito arrivato da un altro mondo, ma una semplice creatura le cui labbra potevano essere macchiate dalle ciliege. Tremava per l’audacia di quel pensiero, ma tutto ciò che l’anima sua sentiva e celebrava in un peana trionfante lo assicurava che aveva ragione. Qualcosa di questo mutamento avvenuto in lui dovette essere percepito dalla ragazza, che smise di leggere, lo fissò e sorrise. Egli abbassò lo sguardo dagli occhi azzurri alle labbra di lei, e la vista della macchia lo fece impazzire. Stava per stringerla fra le braccia, come aveva fatto tante volte nel corso della sua vecchia vita spensierata. Lei parve avvicinarsi a lui in attesa, Martin fece uno sforzo sovrumano per trattenersi.
«Non ha ascoltato una sola parola», gli disse con l’aria imbronciata.
E quindi rise, felice dell’imbarazzo di lui, mentre Martin, guardandola negli occhi limpidi, si accorse che non aveva intuito nulla di quello che lui aveva provato e ne fu confuso. Era andato troppo in là col pensiero. Tutte le donne che aveva conosciuto avrebbero intuito, tranne lei. Lei no. Quella era la differenza. Lei era diversa. Era inorridito dalla propria rozzezza e muto di fronte alla cristallina innocenza di lei, e la fissò di nuovo dall’altra parte dell’abisso. Il ponte era crollato.
E tuttavia quell’episodio lo aveva avvicinato a lei. Ora lo riviveva nei ricordi, e nei momenti in cui più era abbattuto vi tornava con ardore. L’abisso non fu mai profondo come era stato in precedenza. Martin aveva coperto una distanza molto maggiore di quella che lo separava dalla laurea, da una dozzina di lauree. Lei era pura, era vero, di una purezza che egli non avrebbe mai potuto immaginare, ma le sue labbra erano macchiate dalle ciliege. Era soggetta alle leggi dell’universo non meno inesorabilmente di lui. Per vivere doveva mangiare e quando aveva i piedi bagnati le veniva il raffreddore. Ma soprattutto ciò significava un’altra cosa. Se sentiva la fame e la sete, il caldo e il freddo, poteva sentire anche l’amore – l’amore per un uomo. Beh, lui era un uomo. Perché non poteva essere lui quell’uomo? «Spetta a me fare in modo che ciò avvenga», mormorava fra sé con fervore. «Io sarò quell’uomo. Farò di me quell’uomo. Ci riuscirò».
XII
Durante le prime ore della sera, mentre era alle prese con un sonetto cui non riusciva a dare tutta la bellezza e la profondità che palpitavano e risplendevano invece nel suo cervello, Martin fu chiamato al telefono.
«È la voce di una signora, di una signora fine», gli disse con tono beffardo Higginbotham, che era venuto a chiamarlo.
Martin andò al telefono all’angolo della stanza e si sentì investire da un’ondata di calore nell’ascoltare la voce di Ruth. Nella lotta con il sonetto aveva dimenticato l’esistenza di lei, e a quegli accenti il suo amore lo colpì come una mazzata. E quale voce! – dolce e delicata come una musica udita appena in lontananza, o meglio perfetta e purissima come il rintocco di una campana d’argento. Nessuna donna aveva una voce come quella. In essa c’era qualcosa di celestiale, che veniva da altri mondi. Non riusciva quasi a capire che cosa dicesse, tanto ne era rapito, anche se tentava di controllare l’espressione del viso, perché sapeva che gli occhi da furetto di Higginbotham erano fissati su di lui.
Non era molto quello che Ruth voleva dirgli: semplicemente che Norman avrebbe dovuto portarla a una conferenza quella sera ma aveva il mal di capo, e che lei era così delusa e che aveva già i biglietti; se Martin non aveva altri impegni per quella sera, sarebbe stato così gentile da accompagnarla?
Sarebbe stato così gentile! Fece uno sforzo immenso per non far trasparire l’entusiasmo della voce. L’aveva sempre vista in casa, non avendo mai osato invitarla ad andare in qualche posto con lui. Assurdamente, mentre era ancora al telefono, sentì un prepotente desiderio di morire per lei, e visioni di eroici sacrifici apparivano e sparivano nel suo cervello in tumulto. Il suo amore era così forte, così terribile, così disperato! E in quel momento di folle felicità per il fatto che uscisse con lui, che andasse a una conferenza con lui – con lui, Martin Eden – Ruth si librò così in alto che non gli parve vi fosse altro da fare se non morire per lei. Era il solo modo per esprimere la nobile e intensa commozione che sentiva. Era il sublime spirito di sacrificio del vero amore che prende tutti gli amanti, e che lo attanagliò proprio in quel momento, al telefono, in un turbine di passione e di beatitudine; e capiva che morire per lei era la degna conclusione dell’aver ben vissuto e amato. Aveva ventun anni e non era mai stato innamorato prima di allora.
Riattaccò il ricevitore con mani tremanti e si sentì debole per quella voce che lo aveva sconvolto. Aveva gli occhi raggianti come quelli di un angelo, e il viso, trasfigurato di ogni residuo terreno, era di una purezza celeste.
«Hai un appuntamento fuori, eh?», osservò il cognato sogghignando. «Sai che cosa ti può capitare. Puoi finire negli uffici della polizia».
Ma Martin non riuscì a ripiombare a terra. Neppure la volgarità di quell’allusione fu sufficiente a toglierlo dall’empireo in cui si trovava. Era superiore all’ira e alla provocazione. Aveva avuto una grande visione ed era come un dio, che avvertiva solo una grande e profonda pena per il verme che strisciava al suolo. Non lo guardò e sebbene rivolgesse gli occhi verso di lui non lo vide mentre gli passava davanti per andare a cambiarsi. E fu solo mentre in camera sua si annodava la cravatta che percepì un suono sgradevole all’udito. Aguzzate le orecchie, lo identificò come l’ultimo sarcasmo di Bernard Higginbotham, che fino ad allora non aveva percepito.
Quando il portone della casa di Ruth si chiuse alle loro spalle ed egli scese gli scalini con lei si sentì molto turbato. Accompagnarla alla conferenza non era solo fonte di gioia per lui, perché non sapeva che fare. Aveva visto che nelle strade le donne della sua classe sociale prendevano il braccio dell’uomo, ma qualche volta non lo facevano, e si chiedeva se ciò avvenisse solo la sera, o solo fra marito e moglie o fra congiunti.
Poco prima di arrivare al marciapiede si ricordò di Minnie, che era sempre stata attenta a queste cose. La seconda volta che erano usciti insieme lo aveva rimproverato perché le si era messo al fianco dalla parte interna della strada, mentre secondo lei le regole imponevano al gentiluomo di camminare sul lato esterno quando si trovava con una signora. E Minnie aveva l’abitudine di allungargli un calcio quando si trasferivano da una parte all’altra di una via per ricordargli che doveva passare alla parte esterna. Si chiedeva dove avesse scovato quella regola di etichetta e se fosse arrivata a lei dal bel mondo e quindi fosse corretta.
Decise che quando fossero giunti al marciapiede avrebbe anche potuto metterla alla prova; passò quindi dietro Ruth e le si portò all’esterno. Poi gli si presentò l’altro problema. Avrebbe dovuto offrirle il braccio? In vita sua non lo aveva mai fatto. Le ragazze che aveva conosciuto non prendevano mai il braccio dell’uomo. Con loro la prima volta che si usciva si camminava a fianco a fianco senza toccarsi, poi veniva il momento delle braccia allacciate alla vita e della testa appoggiata alla spalla quando le strade erano poco illuminate. Ma questo caso era diverso. Lei non era quel tipo di ragazza. Doveva fare qualcosa.
Standole accanto piegò il braccio: lo fece impercettibilmente, non volendo far vedere che la stava invitando, ma in modo casuale, come se fosse abituato a camminare in quel modo. Ed ecco avvenire il miracolo. Sentì sul braccio la mano di lei. A quel contatto fu percorso da brividi di felicità e per alcuni attimi dolcissimi gli parve di aver lasciato la solida terra e di librarsi con lei nell’aria. Ma subito tornò al suolo turbato da una nuova complicazione. Poiché stavano traversando la strada si sarebbe trovato sul lato interno invece che sull’esterno. Doveva lasciarle il braccio e passare dall’altra parte? E se lo avesse fatto, avrebbe dovuto ripetere l’operazione ogni volta che fosse richiesto? E ad ogni attraversamento? C’era qualcosa che non funzionava, e decise che non era il caso di continuare a passare da una parte all’altra come un burattino. E tuttavia questa soluzione non lo soddisfaceva, e quando si trovò dal lato sbagliato si mise a parlare intensamente e con animazione, facendo apparire di essere così trascinato dalla foga del discorso che l’eventuale errore per non essersi trasferito dalla parte giusta fosse dovuto a quell’eccessivo entusiasmo.
Mentre passavano per Broadway, si trovò di fronte a un nuovo problema. Nel bagliore delle lampade elettriche vide Lizzie Connolly con la sua amica che rideva sempre. Ebbe un solo attimo di esitazione, prima di portare la mano alla testa e di togliersi il cappello. Non poteva essere sleale verso il suo ceto, e non era alla sola Lizzie Connolly che andava il suo saluto. Lei gli rivolse un cenno di saluto col capo e lo guardò apertamente, non con dolce gentilezza come Ruth, ma con occhi duri e splendenti che dopo averlo sfiorato si posarono sulla sua accompagnatrice analizzandone il viso, l’abito e la posizione sociale. Si accorse che anche Ruth osservava rapidamente con occhi timidi e miti come quelli di una colomba, che avvolsero, in un rapido sguardo fuggevole, la giovane operaia con i suoi fronzoli a buon mercato e quello strano cappello che tutte le ragazze della sua classe allora portavano.
«Che bella ragazza!», disse Ruth un attimo dopo.
Martin l’avrebbe abbracciata, ma rispose:
«Non saprei. Immagino che i gusti siano una questione molto personale, ma non la vedo come particolarmente bella».
«Però non esiste una donna su diecimila che abbia lineamenti regolari come i suoi. Sono splendidi. Il viso sembra un cammeo. E gli occhi sono bellissimi».
«Crede?», chiese Martin distrattamente, perché per lui c’era al mondo una sola donna bella, che si trovava al suo fianco e gli teneva la mano sul braccio.
«Se lo credo? Certo. Se quella ragazza avesse la possibilità di vestirsi in modo adeguato, signor Eden, e se le insegnassero il portamento, lei ne rimarrebbe abbagliato, come tutti gli altri uomini».
«Dovrebbe anche imparare a parlare», osservò «altrimenti la maggior parte degli uomini non capirebbe un quarto di ciò che dice nel suo linguaggio normale».
«Sciocchezze! Lei è cattivo come Arthur quando sostiene il suo punto di vista».
«Lei dimentica come parlavo io quando ci siamo conosciuti. Dopo di allora ho imparato una nuova lingua, ma in quel periodo mi esprimevo come quella ragazza. Adesso so parlare a sufficienza la sua lingua da poterle assicurare che lei non conosce l’idioma di quella ragazza. E sa perché ha quel portamento? Ora rifletto su queste cose, anche se una volta non lo facevo, e comincio a capire… molto».
«Perché?».
«Da anni lavora per molte ore alle macchine. Quando si è giovani il corpo è flessibile, e la fatica lo modella come creta facendogli assumere le forme del mestiere. Potrei dirle a prima vista che lavoro fanno molti operai che incontriamo in strada. Guardi me. Perché cammino dondolando? Per gli anni che ho trascorso in mare. Se avessi impiegato lo stesso periodo, quando il corpo era giovane e malleabile, a marchiare il bestiame, adesso non dondolerei ma avrei le gambe arcuate. E così è per quella ragazza. Avrà notato che aveva occhi che si potrebbero dire duri. Non ha mai avuto protezioni. Ha dovuto provvedere a se stessa e nessuna ragazza può farlo mantenendo uno sguardo dolce e gentile – come il suo per esempio».
«Penso che lei abbia ragione», disse Ruth a bassa voce. «Ed è un vero peccato. Una ragazza così bella».
Guardandola le vide negli occhi un velo di tristezza. E allora si ricordò che l’amava e rifletté sulla fortuna che gli aveva permesso di amarla e di accompagnarla a una conferenza al suo braccio.
Chi sei, Martin Eden? chiese all’immagine riflessa nello specchio quella sera tornando in camera sua. Si osservò a lungo e con curiosità. Chi sei tu? Che cosa sei? Qual è il tuo posto? Appartieni legittimamente a ragazze come Lizzie Connolly. Sei uno dei moltissimi per i quali la vita è fatta di fatica e tutto è ignobile, volgare e privo di bellezza. Il tuo posto è vicino ai buoi e alle bestie da soma, in luoghi sporchi e pieni di puzza e di odori cattivi. Senti il lezzo della verdura marcia ora? Queste patate stanno andando a male. Annusa bene, accidenti a te! E tuttavia osi aprire i libri, ascoltare la bella musica, amare i bei quadri, parlare in un linguaggio corretto, avere pensieri diversissimi da quelli della gente come te, strapparti dalla compagnia dei buoi e delle Lizzie Connolly e amare uno spirito esangue, una donna che è lontanissima da te e che vive fra le stelle! Chi sei tu? Che cosa sei? Accidenti a te! Farai qualcosa di buono?
Agitò il pugno contro la figura che lo guardava dallo specchio e per qualche tempo si sedette sul bordo del letto a sognare a occhi aperti. Poi estrasse il quaderno e il testo di algebra e si smarrì in equazioni quadratiche, mentre le ore scivolavano via, le stelle impallidivano e il grigio dell’alba inondava la finestra.
XIII
Fece la grande scoperta grazie a quel gruppo di verbosi socialisti e filosofi proletari che si radunavano nei caldi pomeriggi nel City Hall Park. Una volta o due al mese percorrendo il parco diretto alla biblioteca, Martin scendeva dalla bicicletta per ascoltare le discussioni, e ogni volta se ne allontanava con riluttanza. Il tono dei discorsi era molto meno elevato che alla tavola del signor Morse. Non erano uomini gravi e dignitosi. Non di rado perdevano le staffe e si insultavano, mentre spesso dalle loro labbra uscivano imprecazioni e oscenità. Una o due volte li aveva visti venire alle mani. E tuttavia, senza che riuscisse a spiegarsene il motivo, gli sembrava che ci fosse qualcosa di valido in quelle argomentazioni. Le loro dispute verbali erano per il suo cervello molto più stimolanti del dogmatismo quieto e riservato del signor Morse. Quegli uomini, che si esprimevano in un linguaggio abominevole, gesticolavano come pazzi e combattevano in modo primitivo le idee degli interlocutori, gli parevano per alcuni aspetti più vivi del signor Morse e del suo amico, il signor Butler.
Durante quelle discussioni Martin aveva sentito citare più volte Herbert Spencer, ma un giorno comparve un discepolo del pensatore, un vagabondo male in arnese con una sudicia giacca abbottonata fino al collo per nascondere la mancanza della camicia. Si scatenò un’epica battaglia, tra il fumo di molte sigarette e gli sputi di una grande quantità di tabacco da masticare, nella quale il vagabondo tenne bene il campo anche quando un operaio socialista disse in tono di scherno: «Non c’è altro Dio al di fuori dell’Inconoscibile, e Herbert Spencer è il suo profeta». Martin rimase perplesso sulla natura del dibattito, ma quando proseguì per la biblioteca portò con sé un nuovo interesse per Herbert Spencer, e prelevò una copia dei Primi principi per la frequenza con cui il vagabondo li aveva nominati.
Cominciò così la grande scoperta. Già in passato aveva tentato di leggere Spencer, ma avendo cominciato con i Principi di psicologia aveva fallito totalmente, non diversamente da ciò che gli era capitato con le opere di Madame Blavatsky. Non era riuscito a capire nulla del libro, che aveva restituito senza leggere. Ma quella sera dopo l’algebra e la fisica, e un tentativo con un sonetto, andando a letto aprì i Primi principi. La mattina lo sorprese ancora impegnato a leggere. Non era riuscito a dormire. Quel giorno non scrisse nulla. Rimase sdraiato a letto fino a quando il corpo lo sopportò, e in seguito provò a distendersi sul duro pavimento, continuando a leggere dal volume che teneva alzato sopra la faccia, oppure girandosi ora su un fianco ora sull’altro. La notte successiva dormì e la mattina seguente scrisse finché non fu di nuovo tentato da quell’opera, che rimase a leggere per tutto il pomeriggio, dimentico di tutto e persino del fatto che quello era il pomeriggio concessogli da Ruth. Ebbe la prima consapevolezza del mondo che si trovava intorno a lui quando Bernard Higginbotham aprì bruscamente la porta per chiedergli se pensava di essere in un albergo.
Per tutta la vita Martin Eden era stato spinto dalla curiosità. Voleva sapere, ed era stato questo desiderio a fargli cercare l’avventura nelle varie parti del mondo. Tuttavia Spencer gli insegnava ora che non aveva appreso nulla, che non avrebbe mai potuto imparare nulla se avesse continuato per sempre a navigare e a girare. Aveva solo sfiorato la superficie delle cose, osservando fenomeni staccati, accumulando frammenti di fatti, traendo conclusioni superficiali – il tutto in modo slegato, in un universo arbitrario dominato dal disordine e dalla casualità. Aveva osservato il meccanismo del volo degli uccelli, facendone oggetto di attenta riflessione; ma non gli era mai venuto in mente di cercare di spiegare il processo attraverso il quale queste creature si erano evolute in perfette macchine volanti. Non aveva mai neppure immaginato che un processo di questo genere potesse esistere. Era inconcepibile che gli uccelli avessero avuto un’origine. C’erano sempre stati; erano parte dell’esistente.
E come per gli uccelli era stato per tutto il resto. I suoi sciocchi e velleitari tentativi nel campo della filosofia non avevano prodotto frutto. La metafisica medievale di Kant non gli aveva fornito la chiave di nulla, ed era solo servita a fargli nascere qualche dubbio sulle proprie capacità intellettuali. Analogamente il tentativo di studiare l’evoluzionismo non era andato più in là di un’opera aridamente tecnica di Romanes. Non aveva capito nulla e la sola idea che ne aveva ricavato era che l’evoluzionismo era una teoria priva d’anima proposta da uomini di statura modesta ma in possesso di un vocabolario vasto e incomprensibile. Ora invece aveva appreso che l’evoluzione non era una semplice teoria, ma un processo dello sviluppo ormai comunemente accettato dagli scienziati, le cui sole differenze riguardavano il metodo.
Ed ecco arrivare questo Spencer, che gli organizzava tutte le conoscenze, che riduceva tutto all’unità, che elaborava le realtà ultime e che presentava al suo sguardo sbalordito un universo realizzato con tanta concretezza da renderlo simile a quei modellini di nave che i marinai costruiscono all’interno delle bottiglie. Non c’era arbitrio o casualità. Tutto era legge. Era in ottemperanza alla legge che l’uccello volava, che il fermento del fango si era trasformato in torsione e palpito, che aveva messo zampe e ali ed era diventato uccello.
Martin aveva salito tutti i gradini dell’esistenza intellettuale e adesso era al livello più alto che avesse mai raggiunto. Tutte le cose nascoste gli svelavano i loro segreti e quelle scoperte lo mettevano in uno stato di esaltazione. La notte, nel sonno, viveva accanto agli dei in visioni di incubo; di giorno, durante la veglia, girava come un sonnambulo, fissando con lo sguardo assente il mondo che aveva appena scoperto. A tavola non seguiva gli argomenti futili o elevati che erano oggetto di conversazione, ma cercava di scorgere in tutto ciò che si trovava davanti agli occhi processi di causa ed effetto. Nella carne che gli stava sul piatto vedeva i raggi del sole, la cui energia, attraverso infinite trasformazioni, era giunta fino a lì da una fonte a qualche centinaio di milioni di chilometri di distanza, ed era presente anche nel movimento dei muscoli che gli consentivano di tagliare la carne, o nel lavorio del cervello attraverso il quale impartiva gli ordini ai muscoli, finché rivolgendo lo sguardo dentro di sé, lo rivedeva splendere nella luce della mente. Era così preso da quella illuminazione che non sentì Jim mormorare «Gabbia di matti», né vide l’ansietà dipinta sul viso della sorella, né notò il movimento circolare del dito con cui Bernard Higginbotham indicava che nel cervello del cognato c’era qualche rotella che girava storta.
Ciò che, in un certo senso, più colpì Martin fu il rapporto che esisteva fra tutte quelle conoscenze – fra tutti gli aspetti della cultura. Aveva sempre avuto una grande curiosità di sapere, e tutto ciò che apprendeva era da lui incasellato in una diversa celletta della memoria nel cervello. Così sul tema della navigazione aveva un’immensa quantità di informazioni, mentre sulla donna ne aveva un buon numero. Ma questi due campi erano rimasti privi di collegamenti. Fra le due cellette non c’era stato alcun rapporto. Che dal punto di vista della struttura culturale vi potesse essere un legame fra l’isteria di una donna e una nave con il timone sopra vento o messa alla cappa nella tempesta lo avrebbe colpito come ridicolo e impossibile. Ma Herbert Spencer gli aveva dimostrato non solo che non era ridicolo, ma anche che era impossibile che non vi fosse alcuna relazione. Ogni cosa era connessa a ogni altra della più remota stella negli spazi sterminati del cielo alle miriadi di atomi dei granelli di sabbia sotto i nostri piedi. Questa nuova idea era motivo di sbalordimento continuo per Martin, che era incessantemente impegnato a tracciare i rapporti fra ciò che si trovava sotto il sole e ciò che era al di là del sole. Preparò elenchi delle cose più incongrue e non fu soddisfatto fino a che non riuscì a stabilire una parentela fra tutte – amore, poesia, terremoti, fuoco, serpenti a sonagli, arcobaleni, pietre preziose, mostri, tramonti, il ruggito dei leoni, il gas illuminante, il cannibalismo, la bellezza, il delitto, gli innamorati, le leve e il tabacco. Unificato in tal modo l’universo, lo guardava tenendolo sollevato, o ne percorreva le vie, le tracce e le giungle, non come l’atterrito viaggiatore che cerca una meta sconosciuta in mezzo a misteri impenetrabili, ma osservando, annotando tutto, familiarizzandosi con ciò che era degno di essere appreso. E più capiva, più ammirava la vita dell’universo e la propria vita al centro di tutto.
«Stupido!» esclamò rivolto all’immagine di se stesso nello specchio. «Volevi scrivere e ci hai provato, ma in te non c’era nulla di cui scrivere. Che avevi dentro di te?… Qualche nozione puerile, sentimenti immaturi, un mal formato senso del bello, una grande e profonda ignoranza, un cuore pieno d’amore fino a scoppiare e un’ambizione smisurata come il tuo amore e vacua come la tua ignoranza. E volevi scrivere! Ma via… solo adesso cominci ad avere in te qualcosa di cui valga la pena scrivere. Volevi creare bellezza, ma come potevi farlo quando non sapevi nulla della natura della bellezza? Volevi scrivere della vita quando non sapevi nulla delle caratteristiche essenziali della vita. Volevi scrivere del mondo e del disegno dell’esistenza, quando il mondo non era altro per te che un rompicapo cinese, e tutto quello che avresti potuto scrivere sarebbe stato sul disegno dell’esistenza, che non conoscevi. Ma fatti coraggio Martin, ragazzo mio. Scriverai, tuttavia. È poco ciò che sai, è pochissimo, ma sei sulla strada giusta per imparare. E un giorno, se avrai fortuna, arriverai quasi a conoscere tutto ciò che è possibile conoscere. Allora scriverai».
Portò a Ruth questa grande scoperta, facendola partecipe di tutta la gioia e lo stupore che aveva provocato in lui, ma lei non ne sembrò così entusiasta. L’accettava tacitamente e, in una certa misura, pareva esserne venuta al corrente durante il corso di studi che aveva seguito, ma non la colpiva profondamente come era avvenuto per lui, tanto che egli ne sarebbe stato sorpreso se non avesse pensato che per lei non aveva avuto quei caratteri di novità assoluta e sconvolgente che aveva per lui. Scoprì che Arthur e Norman credevano nell’evoluzione e avevano letto Spencer, anche se la sua opera non sembrava aver fatto loro grande impressione, mentre il giovanotto con gli occhiali e la gran massa di capelli, Will Olney, assunse nei confronti del filosofo un’aria di scherno e disprezzo e ripeté l’epigramma: «Non c’è altro Dio che l’Inconoscibile, e Herbert Spencer è il suo profeta».
Tuttavia ciò gli fu perdonato, perché Martin si accorse che non era innamorato di Ruth. Più tardi rimase sbalordito nell’apprendere da diversi piccoli episodi che Olney non solo era indifferente a Ruth, ma che addirittura nutriva per lei una certa antipatia. Questo Martin non lo capiva. Era un tipo di manifestazione che non riusciva a collegare con gli altri fenomeni dell’universo. Ciò nonostante provò compassione per quel giovane cui una qualche menomazione caratteriale impediva di apprezzare in modo adeguato la finezza e la bellezza di Ruth. Diverse volte la domenica andarono sulle colline con la bicicletta e Martin ebbe molte occasioni per osservare la tregua armata fra la ragazza e Olney. Quest’ultimo stava più volentieri con Norman, lasciando Ruth alla compagnia degli altri due, e di ciò Martin gli fu molto grato.
Quelle domeniche erano per Martin giornate meravigliose, soprattutto perché era con Ruth, ma anche perché lo mettevano su un livello di maggiore uguaglianza con i giovani del ceto sociale di lei. Benché l’istruzione che avevano ricevuto fosse il risultato di una preparazione durata molti anni, egli non si sentiva inferiore a loro sul piano intellettuale, e quelle ore trascorse in conversazione gli consentivano di servirsi della grammatica che aveva studiato così intensamente. Aveva abbandonato i libri di buone maniere, affidandosi all’osservazione per sapere quale fosse la condotta corretta. Tranne quando si lasciava trasportare dall’entusiasmo era sempre controllato e prestava una grande attenzione alle piccole cortesie e alle raffinatezze del comportamento.
Il fatto che Spencer fosse pochissimo letto fu per qualche tempo fonte di grande sorpresa per Martin. «Herbert Spencer», disse l’impiegato della biblioteca, «ah, sì, una grande mente». E tuttavia non sembrava conoscere nulla di ciò che era uscito da quella grande mente. Una sera durante una cena a cui era stato invitato anche il signor Butler, Martin volse la conversazione su Spencer. Il signor Morse attaccò con durezza l’agnosticismo del filosofo inglese, ma confessò di non avere letto i Primi principi, mentre il signor Butler dichiarò di non avere pazienza sufficiente per quel pensatore, di non averne mai letto una riga e di vivere benissimo lo stesso. Martin fu assalito da dubbi e se non avesse avuto una forte personalità avrebbe accettato l’opinione generale e lasciato Spencer al suo destino. E tuttavia trovava che quel filosofo spiegava la realtà in modo convincente e che abbandonarlo voleva dire, questa era l’immagine di cui si serviva, comportarsi come il navigatore che butta a mare bussola e cronometro. E così continuò a studiare intensamente l’evoluzione diventando sempre più esperto in quel campo e trovando conferme nelle posizioni autonome di molti altri autori. Più esplorava, più scorgeva campi di indagine ancora sconosciuti, e il rammarico che i giorni durassero solo ventiquattr’ore divenne per lui quasi un’ossessione.
A un certo punto, a causa della brevità delle giornate, decise di rinunciare all’algebra e alla geometria, oltre che alla trigonometria che non aveva mai neppure cominciato. Tolse quindi dalle materie di studio anche la chimica, e mantenne solo la fisica.
«Non sono uno specialista», disse a Ruth per giustificarsi. «Né lo sarò mai. I settori di specializzazione sono tanti, che un uomo, nel corso della vita, non riesce che a dominarne una piccola parte. Devo perseguire una cultura generale e quando avrò bisogno dell’opera di specialisti consulterò i loro testi».
«Non è come conoscere queste cose di prima mano», protestò Ruth.
«Sono conoscenze per noi inutili, perché possiamo ricorrere a quelli che se ne sono occupati in modo specifico. Quando sono arrivato ho notato all’opera gli spazzacamini. Si tratta di specialisti che ci consentono, finito il lavoro, di godere dei vantaggi del camino pulito senza dover necessariamente conoscere nulla della struttura delle canne fumarie».
«Mi sembra un paragone un po’ forzato».
Lo guardò con aria interrogativa, ed egli avvertì un tono di rimprovero in quell’espressione, ma era convinto che la propria posizione fosse giusta.
«Tutti coloro che costruiscono grandi sistemi filosofici, le menti più elette del mondo, si affidano a specialisti. Lo ha fatto anche Herbert Spencer, che ha ricavato conclusioni di carattere generale dalle scoperte di migliaia di ricercatori. Per ottenere lo stesso risultato con le sue sole forze sarebbe dovuto vivere mille volte di più. Di Darwin si può dire lo stesso. Si servì di ciò che avevano imparato i floricoltori e gli allevatori di bestiame».
«Hai ragione Martin», disse Olney. «Tu sai quello che ti occorre e Ruth no. Non sa neppure quello che servirebbe a lei stessa».
«… Oh, proprio così», proseguì il giovane prevenendo le obiezioni della ragazza, «so che cosa intendi per cultura generale, ma questa si può conseguire in molti modi. Puoi studiare francese, o tedesco, o lasciarli entrambi e rivolgerti all’esperanto, e perseguire ugualmente un obiettivo di cultura. Oppure puoi studiare allo stesso fine il latino o il greco, anche se non ti serviranno mai. È tutto cultura. Del resto Ruth ha studiato l’inglese medievale, ed era diventata bravissima due anni fa – e ora tutto quello che ricorda è “Whaen that sweet Aprile with his schowers soote” – non era così che faceva?».
«Ma ti ha dato lo stesso il tono culturale», aggiunse ridendo e prevenendo nuovamente le obiezioni di lei. «Lo so. Eravamo nello stesso corso».
«Ma tu parli di cultura come di un mezzo per arrivare a qualcosa», esclamò Ruth con gli occhi fiammeggianti e le gote chiazzate di rosso, «mentre è fine a se stessa».
«Ma non è quello che vuole Martin».
«Come lo sai?».
«Che cosa vuoi, Martin?», chiese Olney rivolgendosi esplicitamente verso di lui.
Martin si sentiva a disagio e lanciò a Ruth uno sguardo supplichevole.
«Sì, che cosa vuole?», domandò la ragazza. «Così taglieremo corto a tutte le discussioni».
«Sì, naturalmente, voglio la cultura», rispose Martin balbettando. «Amo la bellezza e la cultura mi consente di apprezzarla in modo più completo e razionale».
Ruth fece ampi cenni di approvazione e assunse un’aria trionfante.
«Sono sciocchezze, e tu lo sai», commentò Olney. «Martin persegue la carriera, non la cultura. Solo che nel suo caso la cultura è uno strumento di lavoro nel campo che ha scelto. Se avesse deciso di dedicarsi alla chimica la cultura non gli servirebbe. Martin vuole scrivere, ma ha paura di dirlo perché non vuole smentirti».
«E perché vuole scrivere?», proseguì. «Perché non nuota nell’oro. Perché tu ti rimpinzi la testa di inglese medievale e di cultura? Perché non devi farti strada nel mondo. C’è tuo padre che provvede. Ti compra i vestiti e tutto il resto. A che diavolo serve l’istruzione che abbiamo ricevuto… io, tu, Arthur e Norman? Ne siamo immersi fino alla radice dei capelli, ma se paparino facesse fallimento oggi, domani non riusciremmo neppure a superare gli esami per diventare insegnanti. Il posto migliore che tu, Ruth, sapresti trovare sarebbe in un collegio di provincia, oppure come maestra di musica in un pensionato femminile».
«E tu, di grazia, che cosa credi riusciresti a trovare?».
«Un bel niente. Potrei guadagnare un dollaro e mezzo al giorno come manovale, o potrei – guarda che ho detto «potrei» – diventare istruttore nei corsi accelerati di Hanley ed essere buttato fuori dopo una settimana per incapacità».
Martin seguiva con attenzione la discussione e, pur convinto che Olney aveva ragione, mal tollerava il tono aggressivo che questi aveva adottato nei confronti di Ruth. Ascoltando quei discorsi si era formata in lui una nuova concezione dell’amore, del tutto indipendente dalla razionalità. Non importava che la donna amata ragionasse in modo corretto o scorretto perché l’amore era al di là della ragione. La circostanza per cui Ruth non si rendeva perfettamente conto della sua necessità di costruirsi una carriera non la rendeva meno degna di essere amata. Lo era in tutto e per tutto, invece, e le sue convinzioni non avevano nulla a che fare con l’amore.
«Come hai detto?», disse in risposta a una domanda di Olney che aveva interrotto quelle considerazioni.
«Dicevo che speravo proprio tu non fossi così incosciente da dedicarti allo studio del latino».
«Ma il latino è più che cultura», interruppe Ruth. «È uno strumento indispensabile di conoscenza».
«Allora, lo comincerai?», insistette Olney.
Martin era in grave imbarazzo. Vedeva che Ruth aspettava ansiosamente la risposta.
«Temo che non ne avrò il tempo», disse infine. «Mi piacerebbe, ma non ne avrò il tempo».
«Vedi? Martin non cerca la cultura», disse Olney esultante. «Cerca di farsi strada, di arrivare da qualche parte».
«Ma è una ginnastica mentale. È una disciplina per il cervello, è quello che ci vuole per preparare la mente». Ruth guardò Martin con aria di speranza, come se si aspettasse una modifica del precedente giudizio. «Anche i giocatori di football devono allenarsi prima delle gare. E questa è la funzione del latino. Abitua a ragionare».
«Solenni sciocchezze! Questo è quello che ci hanno detto quando eravamo ragazzini. Ma c’è una cosa che allora non ci hanno detto, lasciando che l’imparassimo da soli in seguito». Olney fece una pausa per aumentare l’effetto e quindi aggiunse: «Quello che non ci hanno detto è che il vero gentiluomo deve studiare il latino, ma non è necessario che lo conosca».
«Questo non è giusto», esclamò Ruth. «Sapevo che avresti stravolto la conversazione in modo da cambiare le carte in tavola».
«L’ho fatto apposta, è vero», fu la risposta, «ma ho ragione io. I soli uomini che conoscano il latino sono i farmacisti, gli avvocati e i professori di latino. E se Martin vuole diventare uno di loro significa che ho sbagliato tutti i miei calcoli su di lui. E comunque che rapporto c’è fra tutto ciò e Herber Spencer? Martin ha appena scoperto Spencer e ne è entusiasta. Perché? Perché gli indica una direzione nuova in cui muoversi, mentre non dice nulla né a me né a te. Noi non abbiamo una carriera da seguire. Tu un giorno ti sposerai, e io non dovrò far altro che tener d’occhio gli avvocati e gli amministratori cui sarà affidato il denaro che mi lascerà mio padre».
Olney si alzò per andarsene, ma alla porta si girò per lanciare un’ultima frecciata.
«Lascia in pace Martin, Ruth. Sa che cosa gli occorre. Guarda quante cose è già riuscito a fare. Qualche volta mi sbalordisce, e mi fa anche provare vergogna per me stesso. Del mondo, della vita, della posizione dell’uomo e di tutto il resto ne sa ora più di Arthur, di Norman, di me e anche di te, nonostante tutto il nostro latino, il nostro francese, il nostro inglese medievale e la nostra cultura».
«Ma Ruth è la mia maestra», rispose Martin con galanteria. «Devo a lei quel poco che ho imparato».
«Stupidaggini!», intervenne Olney guardando la ragazza con espressione maliziosa. «Immagino che ora mi racconterai di aver letto Spencer su suo suggerimento… Ma le cose non stanno così. Di Darwin e dell’evoluzione lei non ne sa più di quanto ne sappia io delle miniere di re Salomone. Com’è quella straordinaria definizione su qualcosa di Spencer che ci hai tirato fuori l’altro giorno… quella storia dell’indefinita, incoerente omogeneità? Buttagliela un po’ addosso, e vediamo se ci capisce qualcosa. Questa non è “cultura”, capisci. Beh, facciamola finita. Ma se tu attacchi con il latino, Martin, non ti guardo più in faccia».
In tutto quel tempo, per quanto attratto dalla discussione, Martin ne era stato infastidito. Benché vertesse sulle materie di studio, sulle lezioni e sui rudimenti della cultura, il suo tono scolastico contrastava con le grandi cose che sentiva fremere in sé – con la presa sulla vita che già gli aveva trasformato le dita in artigli di leone, con l’ansia cosmica che gli vibrava dentro fino a fargli male, con la confusa consapevolezza di essere in grado di dominare tutto ciò. Si paragonava a un poeta che, naufragato sulle rive di una terra sconosciuta nel pieno della propria capacità di esprimere bellezza, si muovesse incerto e balbettante negli oscuri meandri dell’idioma rozzo e barbaro della sua nuova patria. Proprio come lui, che era consapevole, dolorosamente consapevole, dei grandi temi dell’universo, ma si trovava costretto a brancolare e annaspare in mezzo a questioni puerili, e a discutere se dovesse studiare il latino o no.
«Che diavolo c’entra il latino?», chiese quella notte alla propria immagine riflessa nello specchio. «Vorrei che i morti restassero nelle tombe. Perché tutta la bellezza che è in me deve obbedire a regole da loro fissate? Essa è viva e perenne, mentre le lingue nascono e muoiono. Sono la cenere dei trapassati».
Si accorse di avere formulato le proprie idee con grande efficacia, e andò a letto domandandosi perché non gli riuscisse di parlare nello stesso modo quando era davanti a Ruth. In sua presenza era solo un timido scolaretto che si esprimeva in modo impacciato.
«Datemi tempo», disse forte. «Ho solo bisogno di tempo».
Tempo! Tempo! Tempo! era il suo lamento incessante.
XIV
Nonostante Ruth e l’amore che le portava decise infine di non intraprendere lo studio del latino. Giunse a questa conclusione non tanto per le argomentazioni di Olney, quanto per il fatto che questo nuovo impegno avrebbe significato per lui una perdita di tempo e di denaro, e c’erano tante altre cose più importanti di quella lingua, tanti campi di studio che lo reclamavano imperiosamente. Doveva scrivere per guadagnare. Nulla di suo era ancora stato accettato, e una quarantina di manoscritti andavano e venivano senza un attimo di sosta dalle redazioni delle riviste. Come facevano gli altri autori? Passava lunghe ore nella sala di lettura ad esaminare ciò che avevano scritto, studiandone il lavoro con grande attenzione, confrontandolo con il proprio e continuando a chiedersi incessantemente quale trucco segreto avessero scoperto per riuscire a vendere il prodotto del loro lavoro.
Rimase sbalordito dall’enorme quantità di materiale inerte e spento che veniva pubblicato. Era roba priva di luce, di movimento e di colore. Benché non avesse alcun soffio di vita si vendeva a due centesimi la parola, a venti dollari ogni mille parole, come aveva letto in quel ritaglio di giornale. Rimase perplesso davanti a parecchi racconti, scritti con leggerezza e abilità senza dubbio, ma senza vitalità e senso del reale. L’esistenza era così strana e meravigliosa, aveva una tale varietà di problemi, di sogni e di sforzi eroici che era sorprendente come quelle novelle si soffermassero sulle banalità. Egli sentiva quali fossero le tensioni e i palpiti della vita, i suoi deliri, i suoi sudori, i suoi soprassalti selvaggi: queste erano le cose di cui scrivere! Voleva cantare la grandezza di chi perseguiva le cause senza speranza, degli amanti folli, dei giganti che lottavano in preda alle incertezze e alle emozioni, tra terrori e tragedie, facendo gemere il mondo sotto il peso delle loro epiche imprese. E tuttavia i racconti che comparivano sulle riviste sembravano proporsi l’esaltazione di uomini come il signor Butler, dei sordidi cacciatori di dollari, e di scontate storie d’amore di uomini e donne insignificanti e meschini. Forse perché anche i direttori di questi periodici erano insignificanti e meschini? si chiese. O avevano paura della vita, questi scrittori, questi giornalisti e questi lettori?
Ma il suo maggiore problema era che non conosceva né direttori né scrittori. E come se ciò non bastasse non conosceva neppure qualcuno che avesse mai tentato di scrivere. Non c’era nessuno con cui parlare, da cui avere suggerimenti o una parola di consiglio. Cominciò a dubitare che i direttori fossero uomini veri e non ingranaggi di una macchina. Ecco che cos’era tutto quello, un enorme meccanismo. Egli metteva tutta l’anima nei racconti, negli articoli e nelle poesie che poi affidava a quella macchina. Li ripiegava in un certo modo, univa al manoscritto che aveva infilato in una lunga busta i francobolli per la risposta, la sigillava, vi attaccava altri francobolli per la spedizione e la lasciava ricadere nella cassetta delle lettere. Questa attraversava il continente e dopo un certo tempo il postino gli restituiva il manoscritto contenuto in una nuova busta lunga, su cui erano stati apposti i francobolli che aveva allegato. Dall’altra parte non c’era un essere umano, ma un sistema meccanico che toglieva il manoscritto da una busta per metterlo in un’altra su cui incollava i francobolli da lui inviati. Era come le macchine automatiche in cui si inserivano monete grazie alle quali dopo un ticchettio metallico di ingranaggi si otteneva una stecca di gomma da masticare o una tavoletta di cioccolata a seconda della fessura in cui si erano ficcati i soldi. La macchina editoriale funzionava nello stesso modo. Un’apertura portava assegni e l’altra biglietti di rifiuto. Finora aveva trovato solo fessure del secondo tipo.
L’impressione di avere a che fare con un meccanismo impersonale era accentuata dal modo in cui veniva comunicato il rifiuto. Aveva già ricevuto un centinaio di questi biglietti, costituiti da moduli stampati – e almeno una dozzina, o forse anche più, per ciascuno dei manoscritti più vecchi. Se avesse ricevuto un rigo di risposta, una semplice frase di carattere personale, ne avrebbe tratto grande conforto. Ma nessun direttore aveva fornito una simile prova della propria esistenza, e Martin non aveva potuto far altro che giungere alla conclusione che all’altra estremità non c’erano esseri umani, ma solo ingranaggi ben oliati che facevano girare la macchina alla perfezione.
Era un buon combattente, integro e caparbio, e sarebbe stato pronto a continuare ad alimentare quella macchina per molti anni, ma ormai si era quasi dissanguato e la lotta non si sarebbe conclusa dopo anni, ma nel giro di qualche settimana. Ogni scadenza del conto della pensione lo avvicinava alla catastrofe, e non meno onerosa era l’affrancatura dei quaranta manoscritti. Non comprava più libri ed economizzando anche sulle spese minime cercava di ritardare l’inevitabile fine. Ma non era portato a risparmiare e affrettò la conclusione regalando cinque dollari a sua sorella Marian perché si comprasse un vestito.
Lottava oscuramente, senza consigli, senza incoraggiamenti e cercando di vincere lo sconforto. Persino Gertrude cominciava a guardarlo con diffidenza. Dapprima aveva tollerato per amore fraterno ciò che a suo parere era una mania, ma adesso era seriamente preoccupata. Le sembrava che quella fissazione si stesse trasformando in pazzia. Martin se ne accorse e soffriva più per quel cruccio che per l’esplicito e molesto disprezzo di Bernard Higginbotham. Martin aveva fiducia in se stesso, ma era ormai l’unico ad averla dopo che l’aveva persa anche Ruth. La ragazza aveva voluto che si dedicasse allo studio e, pur non disapprovando apertamente la sua attività letteraria, non l’aveva mai neppure approvata.
Non aveva mai osato proporle di leggere ciò che aveva scritto, impeditone da una sorta di pudore. Inoltre era stata molto impegnata negli studi ed egli capiva che non era giusto sottrarle tempo prezioso. Tuttavia, dopo il conseguimento della laurea, fu la ragazza stessa a chiedergli che le mostrasse ciò che faceva. Martin accolse la proposta con soddisfazione e diffidenza. Ruth era un giudice competente. Aveva una laurea in lettere e aveva studiato letteratura sotto la guida di docenti capaci. Forse anche i direttori dei giornali lo erano, ma con lei sarebbe stato diverso. Non gli avrebbe mandato un impersonale biglietto di rifiuto, né gli avrebbe detto che il fatto che i suoi scritti non erano stati accettati non significava che fossero privi di meriti. Avrebbe parlato con calore e umanità, alla sua maniera rapida e vivace e, soprattutto, avrebbe gettato lo sguardo sul vero Martin Eden. Attraverso l’opera avrebbe scoperto l’anima e il cuore di lui e avrebbe cominciato ad avere un’idea, una minima idea, della materia dei suoi sogni e della grande forza che possedeva.
Martin raccolse un certo numero di copie in carta carbone dei racconti e quindi unì ad essi, dopo un momento di esitazione, le Liriche del mare. In un tardo pomeriggio di giugno salirono in bicicletta e si diressero verso le colline. Era la seconda volta che usciva solo con lei e mentre procedevano nell’aria calda e fragrante, che la brezza marina manteneva fresca, fu colpito dall’ordine e dalla bellezza che dominavano il mondo e fu contento di vivere e di amare. Lasciarono le biciclette sul ciglio della strada e salirono sulla bruna sommità di una collinetta aperta dove l’erba bruciata dal sole emanava un dolce odore secco di mietitura che riempiva l’animo di felicità.
«Ha svolto il suo compito», disse Martin mentre la ragazza si sedeva sulla sua giacca distesa e lui le si metteva vicino sulla calda terra. Annusò la dolcezza di quell’erba fulva, che penetrandogli nel cervello mise in moto pensieri che passarono dal particolare all’universale. «Ha assolto la funzione che le spettava», proseguì accarezzando amorevolmente l’erba secca. «È germogliata ambiziosamente sotto i tremendi acquazzoni dello scorso inverno, ha lottato contro la violenza dell’inizio di primavera, è fiorita attirando gli insetti e le api, ha sparso i propri semi, ha rispettato i patti che aveva con il mondo e…».
«Perché considera sempre le cose da un punto di vista così terribilmente pratico?», lo interruppe la ragazza.
«Immagino, perché ho studiato l’evoluzione. A dire la verità solo recentemente ho sviluppato la capacità di vedere le cose in questo modo».
«Ma mi sembra che un atteggiamento così concreto la porti a distruggere la bellezza, come i ragazzi che catturando le farfalle tolgono loro la polvere che fa belle le ali».
Martin scosse la testa.
«La bellezza ha un senso che prima non ero mai riuscito a cogliere. L’accettavo come un’entità priva di significato, come qualcosa che esisteva senza fondamento o ragione. Non ne sapevo niente. Ma ora ne conosco la natura, o meglio sto cominciando a conoscerla. Per me quest’erba è più bella, ora che so in che modo è diventata erba e quali occulti processi chimici legati al sole, alla pioggia e alla terra l’hanno resa tale. C’è fascino nella storia della vita di ogni erba, e anche avventura. Il solo pensiero mi commuove. Quando mi viene in mente l’interrelazione fra energia e materia e lo spaventoso conflitto che fra loro si scatena, sento che potrei scrivere un’epopea sull’erba».
«Come parla bene, lei», disse Ruth con aria assorta, e lui notò che lo guardava con occhi penetranti.
Ne fu subito confuso e imbarazzato, e si sentì salire il sangue al collo e alla fronte.
«Spero di imparare a parlare», borbottò Martin. «Ci sono in me tante cose che voglio esprimere. Ma sono così grandi che non riesco a trovare veramente il modo di dirle. Qualche volta mi sembra che tutto il mondo, tutta la vita, ogni cosa siano entrati in me e che mi stiano invocando perché sia il loro portavoce. Ne sento – oh, non riesco a descriverlo – la grandiosità, ma quando parlo balbetto come un ragazzino. È stupendo tradurre sentimenti e sensazioni in parole, scritte o semplicemente pronunciate, che a loro volta possano ritrasformarsi negli stessi sentimenti e nelle stesse sensazioni in coloro che leggono o ascoltano. È un compito straordinario. Vede, adesso affondo il viso nell’erba e l’aria che respiro attraverso le narici fa nascere in me una folla di pensieri e fantasie. Ho sentito l’alito dell’universo. Conosco il canto e l’allegria, il successo e il dolore, la lotta e la morte; e percepisco visioni che mi salgono al cervello dal profumo dell’erba, e che vorrei raccontare al mondo. Ma come fare? Ho la lingua legata. Poco fa ho tentato, parlando, di descriverle gli effetti che l’odore dell’erba ha su di me, ma non ci sono riuscito. Sono stato capace solo di dare una pallida idea di quello che sentivo con parole impacciate. Quello che dicevo mi pareva un discorso privo di senso. E tuttavia ardo dal desiderio di parlare. Oh!…», alzò le mani al cielo in un gesto di disperazione, «… è impossibile! Non si può capire! Non si può comunicare».
«Ma lei parla molto bene», insistette Ruth. «Pensi a quanto è migliorato nel breve tempo da che ci conosciamo. Il signor Butler è un famoso oratore. È sempre invitato dal Comitato statale a salire sul podio durante la campagna elettorale. Ma lei ha parlato bene come lui l’altra sera a cena. Lui è solo più controllato. Lei ha ancora la tendenza ad agitarsi troppo, ma la supererà con la pratica. Sarebbe un eccellente oratore. E può arrivare lontano, se vuole. Ha grandi qualità. Sono sicura che ha doti di dirigente e non c’è motivo perché non possa riuscire in qualunque campo in cui si impegni, come ha fatto con la grammatica. Sarebbe un ottimo avvocato. Si affermerebbe in politica. Non c’è nulla che le impedisca di avere lo stesso successo del signor Butler. Senza la cattiva digestione», aggiunse con un sorriso.
Continuarono a parlare; ed ella tornava sempre, con dolce insistenza, alla necessità di un’istruzione completa e ai vantaggi del latino come elemento fondamentale di qualunque carriera. Delineando in tal modo il suo ideale di uomo di successo aveva come modello supremo l’immagine del padre, integrata da alcuni tocchi e tratti inconfondibili del signor Butler. Egli ascoltava con ardore e grande attenzione, osservandola supino e seguendo con gioia ogni mossa delle labbra di lei mentre parlava. Ma il suo cervello rifiutava il contenuto di quei discorsi. Non c’era nulla di allettante nelle situazioni che ella descriveva, ed egli si accorse di provare un forte senso di delusione accanto all’acuto tormento dell’amore per lei. In tutto quello che diceva non c’era alcun cenno alle sue creazioni letterarie, e i manoscritti che aveva portato per leggerglieli giacevano dimenticati sul terreno.
Infine, durante una pausa, lui alzò gli occhi al sole, ne misurò l’altezza al di sopra dell’orizzonte e richiamò l’attenzione sui manoscritti prendendoli in mano.
«Me n’ero dimenticata», disse ella rapidamente. «E sono così ansiosa di ascoltare».
Le lesse un racconto, scegliendolo fra quelli che sperava fossero i migliori. Lo aveva intitolato Il vino della vita, e la bevanda che conteneva, che gli aveva inebriato il cervello quando lo aveva scritto, gli tornò a far girare la testa mentre lo leggeva. C’era un certo incanto nell’idea originale e Martin l’aveva arricchita avvolgendola in un’aura di magia e rivestendola di parole incantate. Tutto il fuoco e la passione che aveva sentito nel comporlo rinacquero in lui, ed egli ne fu così trascinato da non vedere né udire i difetti che aveva. Non così Ruth. Il suo orecchio allenato scoprì le debolezze e le esagerazioni, la voglia di strafare del principiante, e avvertì subito le cadute e le incertezze del ritmo della frase. Per il resto sembrava non percepire la cadenza, tranne quando diventava troppo reboante; in quei momenti era sgradevolmente impressionata dal dilettantismo dello stile. Tale fu l’impressione finale che ricavò da quella lettura: era una composizione dilettantesca. Ma non gliela comunicò, limitandosi a indicare, dopo che egli ebbe finito di leggere, alcuni difetti secondari, e a dirgli che la novella le era piaciuta.
Egli ne fu deluso. Pur riconoscendo che le sue critiche erano giuste, sentiva di non averle fatto conoscere la propria opera perché la giudicasse come un tema di scuola. I particolari non erano importanti, perché vi si soffermava tanto? Poteva correggerli, e imparare ad evitarli. Nella vita aveva colto una cosa grande, e aveva cercato di darle espressione nel racconto. Era questa che le aveva letto, non un compitino con tutte le virgole e gli accenti al posto giusto. Voleva che sentisse anche lei questa cosa grande che era in lui, e che egli aveva visto con i propri occhi, afferrato con il proprio cervello e collocato sulla pagina scritta con parole sue. E concluse che evidentemente non c’era riuscito. Forse i direttori avevano ragione. Aveva sentito quella grande cosa, ma non era stato capace di tradurla in parole. Nascose la delusione e si unì a lei così prontamente nelle critiche che ella non si accorse di quanto forte fosse il dissenso che si celava dietro quelle dichiarazioni.
«L’altro s’intitola Il vaso», disse aprendo il manoscritto. «È stato rifiutato da quattro o cinque riviste ormai, ma continuo a pensare che sia valido. In realtà non so che dirne, se non che vi ho colto qualcosa. Ma forse non le farà l’effetto che fa a me. È una cosa breve… solo duemila parole».
«Tremendo!», gridò Ruth quando lui finì. «È orribile, non c’è parola per dire quanto è orribile!».
Egli notò con un segreto senso di soddisfazione il viso pallido, gli occhi spalancati e tesi e le mani strette a pugno di lei. C’era riuscito. Aveva comunicato quel grumo di fantasie e sensazioni che gli si era formato nel cervello. E aveva colto nel segno. Che le fosse piaciuto o no l’aveva afferrata in una morsa d’acciaio, costringendola ad ascoltare senza preoccuparsi di particolari insignificanti.
«È la vita», rispose, «e la vita non è sempre bella. E tuttavia, forse perché anch’io sono un po’ bizzarro, vi trovo qualcosa di bello. E mi sembra che questa bellezza sia accentuata proprio dal fatto di trovarsi…».
«Ma perché quella povera donna…», l’interruppe Ruth con voce alterata, senza però terminare la protesta che aveva in mente ed esclamando: «Oh! Ma è degradante! È brutto! È disgustoso!».
Gli sembrò per un attimo che il cuore si fermasse. Disgustoso! Non l’avrebbe mai immaginato e non aveva intenzione di provocare simili reazioni. Tutto il racconto gli era davanti agli occhi in lettere di fuoco e in quella luce corrusca cercò invano motivi che potessero provocare disgusto. Il cuore riprese a battere. L’accusa non reggeva.
«Perché non ha scelto una storia gradevole?», gli chiese la ragazza. «Sappiamo che al mondo ci sono cose disgustose, ma non è necessario…».
Continuò con lo stesso tono indignato, ma lui non la seguiva. Sorrise fra sé nell’osservare quel viso virginale, così innocente, così prepotentemente innocente che la purezza sembrava penetrare in lui liberandolo di tutte le scorie e immergendolo in un bagliore etereo, fresco, dolce e vellutato come la luce delle stelle. Sappiamo che al mondo ci sono cose disgustose! Si soffermò sull’idea che lei avesse simili esperienze e ne rise come di uno scherzo fra innamorati. E un attimo dopo, come in una fulminea visione che abbracciava una grande quantità di particolari, vide l’immenso oceano di tutte le cose disgustose fra le quali aveva vissuto e viaggiato, e la perdonò per non avere capito il racconto. Non era colpa sua se non comprendeva. Ringraziò Dio che ella fosse nata e si fosse conservata in quello stato di innocenza. Lui invece conosceva la vita negli aspetti più sordidi come nei più nobili, nella sua grandezza nonostante il fango che vi si annidava e, per Dio!, voleva dire al mondo come la pensava. I santi del cielo – che altro potevano essere se non puri e immacolati? Che meriti avevano? Ma i santi dell’abisso – quelli sì che erano fonte di eterna ammirazione! Era qui che la vita si riscattava. Vedere la grandezza morale levarsi dalla sentina dell’iniquità; rizzare noi stessi il capo e scorgere per la prima volta la bellezza remota e indistinta con occhi grondanti di melma; dalla debolezza, dalla fragilità, dal male e dalla suprema abiezione veder nascere la forza, la verità e le più elevate doti spirituali…
Colse alcune frasi di ciò che la ragazza stava dicendo.
«Tutto il tono è basso, mentre ci sono tante cose elevate. Prenda In Memoriam, per esempio».
Stava per obiettare, suggerendole Locksley Hall, e lo avrebbe fatto se la visione non lo avesse nuovamente rapito costringendolo a guardare fisso quella donna, la femmina della sua specie che, uscita dal fango primordiale e dopo aver strisciato ed essersi arrampicata per la scala dell’esistenza per migliaia e migliaia di secoli, era arrivata al gradino superiore nelle sembianze di quella Ruth, immacolata, bella, celestiale e capace di fargli conoscere l’amore e aspirare alla purezza e desiderare di assaporare la divinità – lui, Martin Eden, anch’egli giunto sorprendentemente fino a lì dal groviglio, dal pantano e dagli infiniti errori e aborti dell’incessante creazione. Lì erano l’avventura, la meraviglia e la gloria. Lì era materia di cui scrivere, se fosse riuscito a trovare la favella. Santi del cielo! Erano solo santi e non potevano farci nulla. Ma lui era un uomo.
«Lei ha forza», sentì che diceva, «ma è una forza priva di disciplina».
«Come un elefante in una cristalleria», osservò lui facendola sorridere.
«Deve imparare a discriminare. E rivolgersi a esempi che siano modelli di gusto, finezza e stile».
«Oso troppo», mormorò.
Lei sorrise in segno di approvazione e si dispose ad ascoltare un altro racconto.
«Non so che idea si farà di questo», disse Martin in tono di scusa. «È buffo. Credo di essere andato al di là di quello che sentivo, ma le mie intenzioni erano buone. Non si preoccupi dei dettagli, ma cerchi di provare a sentire quello di grande che ci ho messo. È una cosa grande e vera, ma è molto probabile che non mi sia riuscito di esprimerla».
Cominciò, e durante la lettura la guardava. Finalmente era arrivato fino a lei, pensava. Ruth sedeva immobile, con gli occhi fissi su di lui, e respirava appena, tutta assorta e dimentica di sé, così egli credeva, presa dalla magia della sua creazione. Aveva intitolato il racconto Avventura perché era l’apoteosi dell’avventura – non dell’avventura da romanzi, ma di quella vera che mette alla prova, che comporta punizioni o ricompense straordinarie, che è infida e capricciosa, che esige una terribile pazienza e una diuturna fatica, che offre l’abbagliante luce della gloria o la morte oscura dopo una vita di fame e di stenti o al termine del lungo delirio di una febbre devastante, che ci conduce attraverso una lunga catena di eventi meschini e ignobili, intrisi di sangue e sudore e tormentati dalle punture di insetti, alle nobili mete e alle grandi vittorie.
Tutto questo, e altro ancora, aveva messo in quella novella, ed era questo, ne era certo, che muoveva il cuore della ragazza, intenta nell’ascolto. Aveva gli occhi spalancati e guance insolitamente accese e prima della fine gli parve che quasi ansimasse. Certamente era stata colpita; ma da lui, non dal racconto. Non era stata la novella a impressionarla particolarmente, ma l’intensità dell’energia di Martin, quella vecchia forza straripante che sembrava traboccare dal corpo di lui e sommergerla. E paradossalmente era il racconto stesso, carico di quell’energia, il canale attraverso il quale, in quel momento, la forza di lui si riversava in lei. Ma Ruth si accorgeva solo della forza, non del mezzo, e quando le parve di essere particolarmente trasportata da ciò che lui aveva scritto, in realtà era stata sconvolta da qualcosa che era del tutto estraneo a ciò che ascoltava – da un’idea terribile e pericolosa che le si era formata spontaneamente nel cervello. Si era sorpresa a chiedersi come fosse il matrimonio, e la calda inquietudine che ciò le provocava l’aveva riempita di terrore. Era sconveniente. Non era da lei. Non era mai stata tormentata dalla propria femminilità, ed era vissuta nel mondo incantato della poesia tennysoniana con un’ingenuità che le aveva persino impedito di cogliere il vero significato delle delicate allusioni di quel delicato maestro alla grossolanità che a volte interferisce nei rapporti fra regine e cavalieri. Fino ad allora aveva dormito e ora la vita bussava con violenza a tutte le porte. Al pensiero di aprire i chiavistelli e togliere le sbarre era presa dal panico, mentre istinti maliziosi la spingevano a spalancare i portali e a invitare nel palazzo l’affascinante visitatore sconosciuto.
Martin attendeva soddisfatto il verdetto. Non aveva dubbi sul giudizio e rimase attonito quando la sentì dire: «È bello».
«È bello», ripeté Ruth con forza dopo una pausa.
Naturalmente lo era, ma conteneva qualcosa di più, un’ansia splendida e tormentosa al cui servizio si era posta la bellezza. Egli si lasciò scivolare sul terreno in silenzio, guardando sorgere davanti a sé l’enorme e sinistra ombra del dubbio. Aveva fallito. Non era stato capace di esprimersi. Aveva visto una delle cose più grandi della vita e non era riuscito a descriverla.
«Che cosa ne pensa del…». Esitò, imbarazzato dal fatto di usare per la prima volta un’espressione per lui inconsueta. «Del tema dominante?».
«Era confuso», rispose Ruth. «È la mia sola critica, in linea generale. Ho seguito il racconto, ma mi è parso denso di molti altri elementi. È troppo prolisso. Lei rallenta l’azione introducendovi molto materiale estraneo».
«Era quello il tema principale», si affrettò a spiegare Martin, «il grande motivo che corre sotterraneo per tutto il racconto, la dimensione cosmica e universale. Ho tentato di fonderlo nella narrazione, che del resto era una vicenda superficiale. L’idea era buona ma temo di averla realizzata male. Non sono riuscito a far capire a che cosa miravo. Con il tempo imparerò».
Lei non lo seguiva. Nonostante la laurea in lettere, la sua capacità di capire non andava oltre un certo limite. E in questo caso attribuiva la mancata comprensione alle incoerenze della novella.
«Era un’opera priva di unità», disse. «Ma in certi momenti era bella».
Udì la voce di lei come se provenisse da lontano, perché si stava chiedendo se doveva leggerle le Liriche del mare. E rimaneva immobile in preda a un dubbio tormentoso, mentre lei lo scrutava, rimuginando fra sé ancora una volta il pensiero insistente e ossessivo del matrimonio.
«Vuole essere famoso?», gli chiese all’improvviso.
«Sì, un po’…», confessò lui. «Fa parte dell’avventura. Non è l’essere famoso che conta, ma il diventarlo. E, dopo tutto, essere famoso vorrebbe dire, per me, soltanto un mezzo per qualcos’altro. Per questo voglio essere famoso a tutti i costi».
Per te, stava per aggiungere, e lo avrebbe fatto se avesse scorto in lei un minimo di entusiasmo per ciò che le aveva letto.
Ma Ruth era troppo impegnata a riflettere, a vagheggiare per lui una carriera che avrebbe potuto seguire, a chiedersi che cosa fosse quel «qualcos’altro» cui aveva accennato. Come scrittore non aveva possibilità. Di ciò era perfettamente convinta. Lo aveva dimostrato oggi, con le sue composizioni scolastiche e dilettantesche. Sapeva parlare bene, ma era incapace di esprimersi in forma letteraria. Lo paragonò a Tennyson, a Browning e ai suoi prosatori preferiti, e vide che ne usciva male. E tuttavia non glielo disse, perché quello strano interesse che aveva in lui la spinse a tacere. Dopo tutto quel desiderio di scrivere era un’innocente debolezza di cui si sarebbe liberato con il tempo. In seguito si sarebbe dedicato alle faccende serie della vita. Lo sentiva. Aveva una tale energia che non poteva fallire – non appena avesse abbandonato la letteratura.
«Mi piacerebbe vedere tutto quello che scrive, signor Eden», disse.
Egli arrossì di piacere. Si interessava a lui, questo era certo. E almeno non gli aveva dato un biglietto di rifiuto. Aveva definito belle certe parti del suo lavoro, ed era il primo incoraggiamento che avesse mai ricevuto.
«Lo farò», disse con calore. «E le prometto, signorina Morse, che mi farò onore. So di avere già fatto molta strada, ma ne ho ancora molta e voglio arrivare fino alla fine, anche se dovessi percorrerla tutta carponi». Le porse un fascio di fogli. «Ecco le Liriche del mare. Quando saremo a casa gliele lascerò perché le possa leggere con comodo. Ma lei deve dirmi francamente quello che pensa. Ciò di cui ho soprattutto bisogno è una critica spassionata. Sia sincera con me, la prego».
«Sarò molto schietta», promise la ragazza, con un senso di disagio perché sentiva di non esserlo stata e dubitava di poterlo essere in futuro.
XV
«La prima battaglia è finita», disse Martin allo specchio una decina di giorni dopo. «Ma ce ne sarà una seconda, e una terza, e altre senza fine, a meno che…».
Non finì la frase, ma volse lo sguardo per la stanza squallida e angusta e gli occhi gli caddero tristemente su un mucchio di manoscritti rifiutati, accatastati in un angolo del pavimento ancora avvolti nelle lunghe buste. Non avendo più francobolli che gli permettessero di continuare a farli viaggiare, da una settimana si erano andati ammassando. Ne sarebbero arrivati altri l’indomani, il giorno dopo e nei successivi, fino a quando non gli fossero pervenuti tutti, ed egli non aveva la possibilità di rimetterli in giro. Era in ritardo di un mese sull’affitto della macchina per scrivere, che non era in grado di pagare, perché aveva denaro sufficiente solo per una settimana di pensione e per i versamenti all’ufficio di collocamento.
Si sedette fissando pensosamente il tavolo. Era coperto di macchie d’inchiostro, e improvvisamente Martin scoprì di essergli affezionato.
«Caro vecchio tavolo», disse, «ho passato ore felici con te, e mi sei stato buon amico, tutto sommato. Non mi hai mai deluso, non mi ha mai dato una nota di biasimo o un biglietto di rifiuto, non ti sei mai lamentato di dover fare gli straordinari».
Vi appoggiò sopra le braccia, fra le quali nascose il viso. Gli doleva la gola e avrebbe voluto piangere. Gli venne in mente la prima volta che aveva fatto a botte, a sei anni, quando si era battuto mentre le lacrime gli correvano giù per le guance e l’altro ragazzo, di due anni maggiore di lui, lo aveva picchiato per bene, lasciandolo esausto. Rivedeva il cerchio dei compagni che urlavano come ossessi quando era caduto a terra alla fine torcendosi per la nausea, con il sangue che gli colava dal naso e le lacrime che gli cadevano dagli occhi pesti.
«Povero sbarbatello», mormorò. «Anche adesso hai preso una bella battuta. Ti han pestato a sangue. Sei proprio finito».
Ma la visione di quel primo scontro che gli era rimasta impressa negli occhi della mente si dissolse per riformarsi nella serie di altri scontri che erano seguiti. Sei mesi più tardi Faccia-di-Cacio (così era conosciuto l’altro ragazzo) gliele aveva date di nuovo, ma questa volta ne era uscito con un occhio nero. Era già qualcosa. E rivide quei combattimenti, uno dopo l’altro, tutti finiti male per lui e con Faccia-di-Cacio esultante. Ma non era mai scappato. Ora quel ricordo gli era di grande conforto. Era sempre rimasto, e aveva accettato fino alla fine l’amaro calice. Faccia-di-Cacio era un demonio quando c’era da menare le mani e non lo aveva mai risparmiato. Ma lui aveva resistito. Aveva sempre resistito.
Rivide poi un vicolo stretto che si apriva fra sgangherate costruzioni in legno, chiuso da un fabbricato di mattoni a un piano da cui usciva il ritmico rombo delle presse che stampavano la prima edizione dell’«Enquirer». Allora aveva undici anni, mentre Faccia-di-Cacio ne aveva tredici e andavano entrambi in giro a vendere il giornale. Erano appunto lì in attesa delle loro copie. E naturalmente Faccia-di-Cacio aveva attaccato briga un’altra volta e ci fu un nuovo scontro che rimase senza esito, perché alle quattro meno un quarto si aprì la porta della tipografia e i ragazzi si affollarono dentro a piegare i giornali.
«Ti meno domani», fu la minaccia che sentì dalla voce del suo nemico; e udì la propria che, acuta e tremante per le lacrime trattenute prometteva che ci sarebbe stato anche lui.
E il giorno dopo, subito dopo la scuola, c’era andato facendo la strada di corsa per riuscire ad arrivare prima e precedendo Faccia-di-Cacio di due minuti. Gli altri ragazzi gli avevano detto che era in gamba e gli avevano dato consigli, indicandogli i difetti che aveva come picchiatore e assicurandogli la vittoria se avesse seguito le istruzioni. Poi diedero gli stessi suggerimenti anche al suo nemico. Come si erano divertiti durante quello scontro! Per un momento fece una pausa in quella successione di ricordi, invidiando i compagni per lo spettacolo cui avevano assistito. E poi iniziò il combattimento, che continuò per mezz’ora senza alcuna tregua fino all’apertura della tipografia.
Si rivide com’era tanti anni prima in quel periodo in cui, giorno dopo giorno, si precipitava dalla scuola al vicolo dell’«Enquirer». Non riusciva a camminare ad andatura molto spedita perché era rigido e zoppicante a causa dei colpi ricevuti. Gli avambracci erano pesti e lividi dal polso al gomito per gli innumerevoli pugni che aveva parato, e qua e là la carne maciullata cominciava ad andare in suppurazione. Gli dolevano la testa, le braccia e le spalle, gli faceva male la schiena, era tutto ammaccato e si sentiva il cervello intorpidito e confuso. A scuola non giocava più, e non riusciva più a studiare. Persino rimanere seduto tutto il giorno al banco, come faceva, era un tormento. Gli pareva di aver cominciato secoli fa quel ciclo di scontri quotidiani, e che il tempo si dilatasse in un futuro angoscioso di lotte continue. Perché non riusciva a pestare Faccia-di-Cacio? pensava spesso; sarebbe stata per lui, Martin, la fine di un incubo. Non gli venne mai in mente di ritirarsi dalla guerra, di permettere all’altro di avere la meglio su di lui.
Si trascinava così al vicolo del giornale stremato nel corpo e nell’anima, ma pronto a sopportare tutto con infinita pazienza, per affrontare il suo eterno nemico, Faccia-di-Cacio, non meno stanco di lui, che sarebbe stato ben disposto a lasciare la sfida se non fosse stato per quella folla di strilloni che l’osservavano, costringendolo, benché controvoglia, a tener alto il proprio orgoglio. Un giorno, dopo venti minuti di sforzi disperati per annientarsi nel rispetto di regole che non consentivano i calci, i colpi sotto la cintura e la continuazione del combattimento quando uno dei due era a terra, Faccia-di-Cacio, con il fiato rotto e la testa che gli girava, gli propose di chiudere la sfida alla pari. E ora Martin, con la testa appoggiata sulle braccia, ebbe un brivido di gioia ripensando a se stesso tanto tempo fa, quando ansimando, barcollando e soffocando per il sangue delle labbra tagliate che gli entrava in bocca e gli colava in gola si avvicinò all’altro con passo malfermo e dopo aver sputato sangue per poter parlare gli gridò che non avrebbe mai accettato di finire alla pari e che lui, Faccia-di-Cacio, poteva ritirarsi se voleva. Ma l’avversario non si era tirato indietro e lo scontro era ripreso. Ed era proseguito il giorno dopo, e il successivo e poi in quelli che seguirono. Ogni volta che, ricominciando, alzava le braccia, sentiva un gran male e i primi colpi che dava e riceveva gli straziavano l’anima; ma dopo un po’ non avvertiva più il dolore e prendeva a combattere ciecamente, seguendo come in sogno, in una specie di danza leggera, i movimenti dell’avversario, le sue fattezze enormi, gli occhi accesi come quelli di un animale. Si concentrava su quella faccia; tutto il resto intorno a lui era un vuoto che ruotava vertiginosamente. Non c’era altro al mondo che quella faccia, e non avrebbe conosciuto tregua, una tregua che desiderava ardentemente, fino a quando non l’avesse ridotta a un ammasso di sangue, a costo di spaccarsi le nocche delle dita, oppure fino a quando l’altro non fosse riuscito a far lo stesso con lui. Solo allora, comunque andasse, avrebbe avuto riposo. Ma ritirarsi, abbandonare – via, era impossibile per lui!
Venne il giorno in cui si trascinò fino al vicolo e Faccia-di-Cacio non c’era. Lo aspettarono invano. I ragazzi si congratularono con lui e gli dissero che gliele aveva date, ma Martin non era soddisfatto. Nessuno dei due aveva vinto e la questione non era risolta. Solo molto tempo dopo vennero a sapere che proprio quel giorno era morto improvvisamente il padre del suo avversario.
Con un salto di diversi anni Martin rievocò ora quella sera nella piccionaia dell’Auditorium. Aveva diciassette anni ed era appena sbarcato. Era scoppiata una rissa perché un tale aveva insultato un altro e Martin, intervenendo, si era trovato di fronte agli occhi fiammeggianti di Faccia-di-Cacio.
«Ti sistemo dopo lo spettacolo», gli aveva sibilato l’antico nemico.
Martin aveva annuito. La maschera si stava dirigendo verso il gruppo dei disturbatori.
«Ci vediamo fuori dopo l’ultimo atto», bisbigliò Martin senza distogliere lo sguardo dal numero di danza sul palcoscenico.
La maschera se ne andò dopo averli scrutati per bene.
«Sei con la banda?», chiese a Faccia-di-Cacio al primo intervallo.
«Certo».
«Allora devo trovarmene una», annunciò Martin. Fra un atto e l’altro raccolse un gruppo di sostenitori – tre tipi che aveva conosciuto alla fabbrica di chiodi, un fuochista, mezza dozzina della banda di Boo e altri della temuta banda del quartiere fra la Diciottesima e Market Street.
Uscendo dal teatro le due bande si allinearono senza farsi notare sui lati opposti della strada. Arrivate a un angolo tranquillo si unirono per tenere un consiglio di guerra.
«Andiamo al ponte dell’Ottava», disse un tale con i capelli rossi della banda di Faccia-di-Cacio. «Ci si può menare in mezzo, sotto la luce elettrica, e da qualunque parte viene la madama si può tagliare la corda dall’altra».
«Mi va bene», disse Martin, dopo essersi consultato con i capi del suo gruppo.
Il ponte dell’Ottava, che traversava un braccio dell’Estuario di Sant’Antonio, era lungo quanto tre isolati cittadini. La luce elettrica era a metà ponte e alle due estremità, e nessun poliziotto poteva superarle senza essere visto. Martin ricordò quel luogo ideale per una battaglia e le due bande torve e decise che rimanendo rigorosamente separate sostenevano i rispettivi campioni, mentre lui e Faccia-di-Cacio si spogliavano. A poca distanza furono poste sentinelle con il compito di sorvegliare le imboccature illuminate del ponte. Un membro della banda di Boo teneva giacca, camicia e berretto di Martin, pronto a portarli con sé in un luogo sicuro in caso di intervento della polizia. Poi si portò al centro di fronte all’avversario e risentì la propria voce che diceva, alzando la mano in tono di avvertimento:
«Niente strette di mano. Capito? Qui si fa solo a botte. E non si butta la spugna. Questa è una storia vecchia e bisogna farla fuori. Chiaro? Uno dei due deve andar sotto».
Faccia-di-Cacio tentennava, si vedeva benissimo, ma fu punto nell’orgoglio davanti alle due bande.
«Perché tante chiacchiere inutili?», rispose. «Certo… si va fino in fondo».
E si avventarono uno sull’altro come torelli, a pugni nudi, con tutta la forza della gioventù, con odio, con la voglia di far male, di ferire, di distruggere. Tutti i faticosi progressi dell’uomo nella sua ascesa millenaria lungo la scala della creazione furono perduti. Come simbolo della grande avventura umana nella via della civiltà rimaneva solo la luce elettrica. Martin e Faccia-di-Cacio erano due selvaggi dell’età della pietra, dell’era delle caverne, dei rifugi sugli alberi. Sprofondarono sempre più nel fango, tornando ai sedimenti primordiali da cui ebbe origine la vita, urtandosi ciecamente come gli atomi nelle reazioni chimiche, come la polvere cosmica nei cieli, scontrandosi, respingendosi e cozzando di nuovo in un processo eterno.
«Dio! Siamo animali! Bestie feroci!», mormorò Martin osservando l’andamento della lotta, che la sua straordinaria capacità di visione gli consentiva di seguire come in una lanterna magica. Era contemporaneamente attore e spettatore. I lunghi mesi di studio e di affinamento culturale fremevano a quella vista, ma poi il presente fu cancellato e la sua mente fu invasa dai fantasmi del passato, ed egli tornò ad essere il Martin Eden che, appena sbarcato, si batteva con Faccia-di-Cacio sul ponte dell’Ottava. Soffriva, faticava, sudava, sanguinava, ma esultava quando i pugni arrivavano a segno.
Erano due grumi di odio che ruotavano mostruosamente uno intorno all’altro. Con il passare del tempo le due bande contrapposte si calmarono. Non avevano mai visto tanta ferocia e ne avevano timore. I duellanti erano animali troppo forti per loro. Perso il primo splendido slancio della gioventù e della freschezza, combattevano ora con più cautela e intelligenza. Fino a quel momento nessuno dei due era prevalso sull’altro. «Possono vincere tutti e due», sentì dire Martin. Poi fece una finta di destro e scagliò il sinistro, ma fu colpito violentemente d’incontro da una botta che gli squarciò la guancia fino all’osso. Il pugno nudo non avrebbe potuto fare tanto. Udì un mormorio di meraviglia a quel taglio spaventoso e sentì il sangue colare. Ma non batté ciglio. Divenne molto prudente, perché sapeva a quale livello di scaltrezza e di slealtà potessero giungere i suoi simili. Rimase in vigile attesa fino a quando non finse un violento attacco che non portò a termine perché aveva visto un luccichio metallico.
«Alza la mano!», urlò. «È un tirapugni! È con quello che mi hai colpito!».
Le due bande fecero un passo avanti con aria torva e ringhiosa. In un attimo ci sarebbe stata una rissa generale e lui sarebbe stato privato della sua vendetta. Era fuori di sé.
«Non v’immischiate voi!», gridò con voce rauca. «Capito? Avete capito?».
Indietreggiarono. Erano animali, ma lui era il re degli animali, un essere spaventoso che incombeva su di loro e li dominava.
«Questo scontro è mio, e non voglio che nessuno ci metta il becco. Dammi il tirapugni».
Calmato e leggermente intimidito Faccia-di-Cacio gli passò l’arma proibita.
«Gliel’hai passato tu, rosso, che ti nascondi dietro gli altri, lì», continuò Martin gettando l’oggetto nell’acqua. «Ti avevo visto e mi chiedevo che cosa stavi combinando. Se ci provi un’altra volta ti pesto a morte, capito?».
Continuarono a combattere fino allo stremo e anche oltre, in un esaurimento incommensurabile e inconcepibile finché la folla delle belve, saziata la sete di sangue e terrorizzata da ciò che vedeva, cominciò a implorarli di smettere rivolgendosi ad entrambi senza distinzione. E Faccia-di-Cacio, pronto a cadere morto come a morire rimanendo in piedi, ridotto a un mostro spaventoso dalla cui faccia era scomparso ogni connotato umano, esitò barcollando, ma Martin si buttò su di lui colpendolo ripetutamente.
Poi, dopo un tempo che parve lunghissimo e mentre le forze di Faccia-di-Cacio scemavano rapidamente, durante uno scambio di colpi si sentì uno schianto e si vide il braccio destro di Martin cadergli inerte al fianco. Tutti capirono; era una frattura. Se ne accorse anche Faccia-di-Cacio, che si gettò come una furia sull’avversario in difficoltà scaricandogli addosso una gragnuola di colpi. Gli amici di Martin erano pronti a intervenire, ma, pur sorpreso dall’attacco del nemico, egli intimò loro di stare lontani, con urlacci e imprecazioni in cui il dolore si mescolava alla disperazione.
Andò avanti con il solo sinistro e mentre picchiava ostinatamente, quasi senza accorgersi di ciò che faceva e come se si trovasse a grande distanza, udì intorno mormorii di paura e una voce rotta che diceva: «Non è uno scontro, ragazzi. È un omicidio; dobbiamo fermarli».
Ma non li fermò nessuno e Martin provava soddisfazione nel continuare a picchiare fiaccamente e caparbiamente con una sola mano, pestando quella massa sanguinolenta davanti a lui che non era più una faccia, ma un’orribile maschera, una ripugnante cosa senza nome che gemeva sotto la scossa dei colpi e non voleva svanire dalla sua vista annebbiata. E andò avanti a colpire sempre più lentamente con gli ultimi brandelli di vitalità per un tempo che gli sembrò durare secoli e millenni, finché si accorse vagamente che la cosa senza nome cedeva, scivolando giù piano piano sull’impiantito del ponte. E subito gli fu sopra traballando sulle gambe malferme, agitando le braccia nell’aria in cerca di sostegni e dicendo con voce irriconoscibile:
«Ne vuoi ancora? Di’, ne vuoi ancora?».
Lo ripeté più volte – chiedendolo con tono imperioso, amichevole, minaccioso – finché non sentì che i compagni lo afferravano, gli battevano le mani sulle spalle e cercavano di mettergli la giacca. E precipitò in un abisso di buio e di oblio.
La sveglia di latta sul tavolo continuava a ticchettare, ma Martin, con la testa nascosta fra le braccia, non la sentiva. Non udiva nulla, non pensava. Aveva rivissuto il passato con tanta intensità da perdere la coscienza, proprio come gli era avvenuto anni prima sul ponte dell’Ottava. Quelle tenebre vuote durarono almeno un minuto. Poi, come risuscitando dalla morte, balzò in piedi con gli occhi in fiamme e il sudore che gli scorreva sulla faccia, gridando:
«Te le ho date, Faccia-di-Cacio! Ci ho messo undici anni, ma te le ho date!».
Si sentiva venire meno e con le gambe tremanti si avviò barcollando verso il letto, e si buttò a sedere sulla sponda. Era ancora nella morsa del passato. Volse per la stanza uno sguardo perplesso e allarmato, chiedendosi dove si trovasse, finché l’occhio non gli cadde sul mucchio di manoscritti nell’angolo. Quindi le ruote della memoria percorsero rapidamente quattro anni e tornò nel presente, all’universo che i libri gli avevano aperto attraverso le loro pagine, ai sogni ambiziosi e all’amore per una pallida ombra di fanciulla, sensibile, privilegiata ed eterea, che sarebbe morta di paura se avesse visto per un solo attimo ciò che lui aveva vissuto – se avesse scorto un solo momento della sordida vita da cui era uscito.
Si alzò e si trovò di fronte la propria immagine riflessa nello specchio.
«E così sei venuto dal fango, Martin Eden», disse con tono solenne. «E ti sei purificato gli occhi a una gran luce, e ti sei fatto largo tra le stelle, facendo tutto ciò che la vita ha sempre fatto, lasciando «morire la scimmia e la tigre» e strappando una nobile eredità a tutte le potenze dell’universo».
Si fissò più da vicino e rise.
«Siamo caduti nell’isterismo e nel melodramma, vero?», si chiese. «Ma sì, non importa. Le hai date a Faccia-di-Cacio e picchierai sodo anche i direttori, anche se ti ci volessero trent’anni. Non ti puoi fermare a questo punto. Devi andare avanti. E lo farai fino alla fine».
XVI
Il suono della sveglia catapultò Martin nella realtà con una violenza che avrebbe fatto venire il mal di capo a chi non avesse avuto la sua robusta costituzione. Benché dormisse profondamente si svegliò subito come un gatto, pieno di energia e felice che le cinque ore di oblio fossero finite. Odiava l’incoscienza del sonno. Erano tante le cose che doveva fare, e tanta la voglia di vivere pienamente la vita. Rimpiangeva ogni momento che il sonno gli sottraeva e prima che la sveglia avesse interrotto il suo tintinnio aveva già ficcato la testa nella catinella rabbrividendo al freddo morso dell’acqua.
Ma non seguì il programma consueto. Non c’erano novelle incompiute in attesa del tocco finale o nuovi spunti che chiedevano di essere articolati in forma narrativa. Aveva studiato fino a tardi ed era ormai quasi ora di colazione. Cercò di leggere un capitolo di Fiske, ma si sentiva irrequieto e chiuse il libro. Quel giorno avrebbe segnato l’inizio di un’altra battaglia, durante la quale per qualche tempo non avrebbe avuto la possibilità di scrivere. Si accorse di essere colmo di una tristezza simile a quella che prova chi lascia la casa e la famiglia. Guardò i manoscritti nell’angolo. Ecco che cos’era. Li doveva abbandonare, poveri figli disonorati che nessuno voleva. Si avvicinò e cominciò a frugare fra quelle carte, soffermandosi qua e là sui suoi brani preferiti. Lesse Il vaso ad alta voce e concesse lo stesso onore ad AvventuraGioia, la sua ultima creatura, che aveva portato a termine il giorno precedente e aveva gettato nell’angolo per mancanza di francobolli, riscosse la sua più viva approvazione.
«Non capisco», mormorò. «O forse sono i direttori che non capiscono. Che cosa c’è che non va nelle cose mie? Ogni mese pubblicano di peggio. Tutto quello che pubblicano – o quasi – è peggiore».
Dopo colazione mise la macchina per scrivere nella custodia e la riportò a Oakland.
«Sono in arretrato di un mese», disse all’impiegato del negozio. «Ma dica al direttore che adesso comincerò a lavorare e che fra un altro mese, circa, tornerò a sistemare tutto».
Prese il traghetto per San Francisco e andò all’ufficio di collocamento. «Qualunque tipo di lavoro, ma non nel commercio», disse all’impiegato. Fu interrotto dall’arrivo di un uomo vestito in modo alquanto stravagante, tipico di certi lavoratori che aspirano all’eleganza. L’impiegato scosse la testa con aria sconsolata.
«Non c’è niente?», disse l’altro. «Cerco io qualcuno, oggi».
Si girò a fissare Martin che, scrutandolo a sua volta, notò il volto gonfio e pallido, bello e debole, e capì che aveva passato la notte in bianco.
«Cerchi un lavoro?», chiese il nuovo venuto. «Che cosa sai fare?».
«Sono capace di sgobbare, di andare in mare, di scrivere a macchina (ma niente stenografia), di stare a cavallo; e sono pronto a fare tutto e ad affrontare qualunque cosa», fu la risposta.
L’altro annuì.
«Potresti andarmi bene. Mi chiamo Dawson, Joe Dawson, e devo trovare un lavandaio».
«È troppo per me», rispose Martin divertito all’idea di stirare bianchi e vaporosi capi di abbigliamento da donna. Tuttavia quel tipo gli era simpatico e aggiunse. «Potrei lavare e basta. L’ho imparato quando ero in mare».
Joe Dawson si fermò un momento a riflettere.
«Senti, possiamo parlarne e metterci d’accordo. Sei disposto ad ascoltarmi?».
Martin fece un cenno affermativo con il capo.
«È una piccola lavanderia dell’entroterra, che appartiene allo Shelly Hot Springs… un albergo, sai. Il lavoro lo fanno in due, il capo e l’assistente. Il capo sono io. Non lavorerai per me ma sotto di me. Sei disposto a imparare?».
Martin rifletté. La prospettiva era allettante. Erano solo pochi mesi, e avrebbe avuto tempo per studiare. Poteva lavorare sodo e studiare intensamente.
«Il mangiare non è male, e avrai una stanza tutta per te», disse Joe.
Fu quest’ultimo particolare che lo convinse. In camera sua sarebbe potuto rimanere sveglio fino a tardi senza essere disturbato.
«Ma il lavoro è pesantissimo», aggiunse l’altro.
Martin si accarezzò con aria significativa i muscoli possenti delle braccia. «Mi sono venuti con il lavoro», disse.
«Allora vediamo». Per un istante Joe si portò la mano al capo. «Accidenti, mi gira la testa. Non riesco a vederci. Ieri sera ci ho dato dentro… altro che se ci ho dato dentro. Ecco le condizioni. Il salario per due è di cento dollari al mese più vitto e alloggio. Io ne tenevo sessanta e quaranta andavano al lavorante. Ma quello di prima conosceva il mestiere, mentre tu sei un pivello. Se ti prendo con me, all’inizio dovrò fare un bel po’ del tuo lavoro. Diciamo che puoi cominciare con trenta dollari, ma che potrai arrivare a quaranta. Sarò giusto con te. Non appena riuscirai a fare la tua parte ne prenderai quaranta».
«Vengo con te», dichiarò Martin porgendogli la mano, che l’altro gli strinse. «Ci sono anticipi – per il biglietto del treno e gli extra?».
«Ho fatto fuori tutto», rispose tristemente Joe indicando di nuovo la testa che gli doleva. «Tutto quello che ho è il biglietto di ritorno».
«E io sono al verde… quando avrò pagato la pensione».
«Non pagarla», lo consigliò Joe.
«Non posso. La devo a mia sorella».
Joe emise un lungo fischio che esprimeva perplessità e si lambiccò il cervello senza trovare una soluzione.
«Ho quello che basta per una bevuta», disse disperato. «Vieni, magari ci viene in mente qualcosa».
Martin rifiutò.
«Vai ad acqua?».
Questa volta Martin annuì e Joe proseguì con voce lamentosa. «Beato te. Io non posso proprio», aggiunse per giustificarsi. «Dopo aver lavorato come un demonio per tutta la settimana devo sbronzarmi. So non lo faccio mi viene voglia di ammazzarmi o di incendiare tutto. Ma sono contento che tu bevi solo acqua. Tieni duro».
Martin si rese conto dell’enorme distanza che lo separava da quell’uomo – una voragine dovuta alla cultura – ma non ebbe alcuna difficoltà a riaccostarsi a lui. Per tutta la vita era vissuto in un ambiente operaio e la solidarietà fra lavoratori era per lui come una seconda natura. Risolse il problema del trasporto troppo arduo per l’altro, tormentato dal mal di testa. Avrebbe spedito i bagagli a Shelly Hot Springs con il biglietto di Joe, e lui ci sarebbe andato in bicicletta. Erano più di cento chilometri, ma poteva viaggiare la domenica ed essere pronto per il lavoro il lunedì mattina. Sarebbe tornato subito a casa a fare le valigie. Non doveva salutare nessuno. Ruth e la famiglia trascorrevano l’estate in montagna, sul lago Tahoe.
Arrivò a Shelly Hot Springs la domenica sera, stanco e impolverato. Joe lo accolse con calore. Aveva lavorato tutto il giorno con un asciugamano umido intorno alla fronte dolente.
«C’era un accumulo di bucato della settimana scorsa perché ero stato via per prendere te», spiegò. «La tua roba è arrivata bene. È in camera tua. Accidenti quanto pesava! Che ci tieni dentro? Lingotti d’oro?».
Joe si sedette sul letto mentre Martin apriva il bagaglio. Il bagaglio consisteva in una cassa da imballaggio di cereali per la prima colazione che Higginbotham gli aveva ceduto per mezzo dollaro. Due maniglie di corda, fissate da Martin, l’avevano trasformata in un baule adatto al trasporto in treno. Con gli occhi sbarrati Joe vide uscire dalla cassa alcune camicie e diversi capi di biancheria, seguiti da parecchi strati di libri.
«Libri fino in fondo?», chiese.
Martin annuì e continuò a sistemarli su un tavolo di cucina, che era stato messo in camera al posto del trespolo con la bacinella.
«Cribbio!», esplose Joe, che cercava faticosamente di capire. Infine disse:
«Ma… non te ne frega niente delle ragazze?».
«No», fu la risposta. «Andavo molto a donne prima di attaccare con i libri. Ma dopo non ho più avuto tempo».
«E non ne avrai molto neanche qui. Tutto quello che si può fare è lavorare e dormire».
Martin sorrise pensando alle cinque ore di sonno che si concedeva ogni notte. La camera era situata sopra la lavanderia e si trovava nello stesso fabbricato del motore che pompava l’acqua, produceva l’energia elettrica e faceva funzionare le macchine per lavare. Il meccanico, che occupava la stanza vicina, passò per fare la conoscenza del nuovo compagno e aiutò Martin a sistemare una lampadina su un filo elettrico che partendo dal tavolo arrivava fin sopra il letto.
La mattina dopo Martin fu scaraventato fuori dalle coperte alle sei e un quarto, in tempo per la colazione delle sette meno un quarto. Nel fabbricato della lavanderia c’era una tinozza per i domestici, ed egli elettrizzò Joe facendo un bagno con l’acqua fredda.
«Accidenti, hai un bel fegato!», esclamò l’amico quando si sedettero a mangiare in un angolo della cucina dell’albergo.
Erano con loro il meccanico, il giardiniere, l’aiuto giardiniere e due o tre stallieri. La colazione fu frettolosa e tetra e vennero scambiate pochissime parole. Ascoltando quella conversazione Martin si rese conto di quanto fosse ormai diverso dai compagni. La loro limitatezza mentale lo deprimeva, ed era ansioso di allontanarsi. Trangugiò quindi il cibo, una pappa nauseabonda, con la stessa rapidità degli altri e fece un sospiro di sollievo uscendo dalla porta della cucina.
Era una piccola lavanderia a vapore perfettamente attrezzata, nella quale le macchine più moderne facevano tutto ciò che era possibile fare meccanicamente. Dopo avere ricevuto alcune istruzioni Martin divise i panni sporchi in grandi mucchi, mentre Joe metteva in movimento la lavatrice e preparava nuove dosi di detersivo, fatto con composti chimici così corrosivi che il lavandaio era costretto ad avvolgersi la bocca, gli occhi e il naso con asciugamani bagnati che gli davano l’aspetto di una mummia. Finito il suo compito, Martin aiutò a strizzare la biancheria infilandola in un tamburo che ruotava a una velocità di diverse migliaia di giri il minuto, spremendo tutta l’acqua dai panni con la forza centrifuga. Poi cominciò ad alternarsi fra l’essiccatoio e la centrifuga, utilizzando il tempo restante per stendere calze e pedalini. Il pomeriggio si trasferirono al mangano, l’uno ammucchiando la roba e l’altro infilandola nella macchina mentre aspettavano che si scaldassero i ferri. Fino alle sei furono impegnati a stirare. A questo punto Joe scosse la testa dubbioso.
«Siamo un bel po’ indietro», disse. «Dovremo andare avanti dopo cena».
Lavorarono fino alle dieci sotto il bagliore della luce elettrica fino a che l’ultimo capo non fu stirato e ripiegato, pronto per la distribuzione. Era una calda notte californiana e benché avessero spalancato le finestre la stanza era una fornace a causa degli incandescenti fornelli accesi per riscaldare i ferri. Pur essendo rimasti in canottiera e avendo le braccia nude, Martin e Joe sudavano e boccheggiavano.
«Come assestare il carico ai tropici», disse Martin mentre salivano le scale.
«Vai bene», rispose Joe. «Impari in fretta, sei in gamba. Di questo passo rimarrai a trenta dollari solo un mese. Il secondo andrai a quaranta. Ma non dirmi che non hai mai stirato. A me non la fai».
«Mai stirato uno straccio in vita mia fino a oggi», protestò Martin.
Entrando in camera fu sorpreso dalla spossatezza che sentiva, dimenticando di essere rimasto in piedi a lavorare per quattordici ore. Fissò la sveglia alle sei, sottrasse cinque ore e calcolò che sarebbe potuto stare sveglio a leggere fino all’una. Toltesi le scarpe per alleviare il gonfiore dei piedi si sedette al tavolo con i libri. Aprì il Fiske al punto in cui lo aveva lasciato due giorni prima e cominciò a leggere, ma ebbe difficoltà a capire il primo capoverso e fu costretto a ripeterlo. Quindi si risvegliò dolorante per i muscoli irrigiditi e infreddolito dal vento delle montagne che aveva cominciato a soffiare dalla finestra aperta. Guardò l’orologio: segnava le due. Aveva dormito per quattro ore. Si tolse i vestiti e si infilò a letto, precipitando nel sonno non appena toccato il guanciale.
Anche il martedì fu una giornata faticosa e senza un attimo di sosta. Martin rimase ammirato per la velocità con cui si muoveva Joe, che sul lavoro era un demonio. Teneva un ritmo infernale e non c’era momento durante quelle lunghe ore in cui non cercasse di guadagnare tempo. Si concentrava su ciò in cui era impegnato e sul modo per risparmiare qualche minuto, facendo notare a Martin come potesse eseguire in tre movimenti ciò che faceva in cinque, e in due le cose che fino ad allora aveva svolto in tre. «Eliminazione del moto superfluo», lo definì Martin, osservando il compagno e cercando di imitarlo. Era capace di operare anche lui con abilità e si era sempre vantato di essere in grado di fare da solo tutto il compito che gli era stato assegnato e di non essere superato da nessuno nel ritmo di lavoro. Per questo motivo si concentrò con un’attenzione non minore di quella del collega, ascoltando con grande interesse i consigli e i suggerimenti che l’altro gli dava. «Spianava» colletti e polsini, stendendo in modo uniforme l’amido dove la stoffa era doppia in modo da evitare bolle nella fase della stiratura, a una velocità che suscitò le lodi di Joe.
Non c’era mai momento in cui non ci fosse qualcosa da fare. Joe non si dava tregua, anticipava i tempi e saltava da un’attività all’altra. Inamidavano duecento camicie bianche afferrandole una per una con un unico gesto che faceva sporgere polsi, colletto, sprone e petto dalla mano destra ruotante. Mentre la sinistra tratteneva le falde per impedire che finissero nella tinozza, la destra si immergeva in un amido così caldo che per poterlo stendere dovevano infilare in continuazione le mani in un secchio di acqua fredda. Quella sera lavorarono fino alle dieci e mezza inamidando i «capi di lusso», delicati indumenti da signora pieni di trine e merletti.
«Viva i tropici, dove si va senza vestiti», rise Martin.
«Io sarei disoccupato», rispose Joe con tono serio. «So fare solo questo mestiere».
«Ma lo sai fare bene».
«Per forza. Ho cominciato al Contra Costa di Oakland, quando avevo undici anni, a preparare i panni per il mangano. Ne sono passati diciotto, di anni, e non ho mai fatto niente altro. Ma questo posto è il più faticoso che abbia avuto. Ci vorrebbe almeno un altro ad aiutarci. Lavoriamo anche domani sera. Il mercoledì usiamo sempre il mangano per i colli e i polsi».
Martin fissò la sveglia, si accostò al tavolo e aprì il Fiske. Non riuscì a finire il primo capoverso. Le righe gli ballavano davanti agli occhi confondendosi. Camminò avanti e indietro picchiandosi violentemente la testa con i pugni ma senza riuscire a vincere la sonnolenza. Appoggiò il libro aperto in piedi davanti al viso reggendosi le palpebre con le dita e si addormentò con gli occhi spalancati. A questo punto cedette e senza quasi rendersi conto di ciò che faceva si spogliò e andò a letto. Dormì per sette ore di un sonno pesante e animalesco e si svegliò per il suono della sveglia con la sensazione di non aver riposato a sufficienza.
«Hai letto molto?», gli chiese Joe.
Martin scosse il capo.
«Non importa. Stasera dobbiamo manovrare il mangano, ma giovedì smettiamo alle sei. Così avrai tempo».
Quel giorno Martin lavò a mano indumenti di lana in una grande tinozza con un forte detersivo, aiutandosi con un mozzo di ruota montato su un’asta che si immergeva, attaccata con una molla a una leva posta in alto.
«Una mia invenzione», disse Joe con orgoglio. «È meglio dell’asse e delle nocche delle mani e inoltre ti fa risparmiare quindici minuti alla settimana, e quindici minuti non sono da buttar via in questo casino».
Anche passare colli e polsi al mangano era stata un’idea di Joe, che vi si dilungò quella sera mentre lavoravano alla luce elettrica.
«È una cosa che non si fa in nessuna lavanderia, tranne che in questa. Ed è necessaria se si vuole finire sabato pomeriggio alle tre. Però riesce se la si fa bene. Ci vuole il calore giusto e la pressione giusta, e bisogna passarli per tre volte. Guarda questo!», esclamò sollevando un polsino. «Non si poteva far meglio a mano o con la pressa».
Giovedì Joe era su tutte le furie. Era arrivato un carico di «capi di lusso» da inamidare.
«Me ne vado», annunciò. «Non ci sto. Me ne vado senza aspettare un secondo. A che serve lavorare come un mulo tutta la settimana e cercare di guadagnare dei minuti, quando poi mi arrivano all’improvviso con un carico supplementare di roba da inamidare? Questo è un paese libero e io dirò a quel grasso olandese che cosa penso di lui. E non glielo dico con tanti giri di parole. Glielo voglio proprio spiattellare in faccia. Tutti questi panni in più!
«Questa sera si lavora», aggiunse dopo un istante di silenzio venendo a più miti consigli e rassegnandosi al destino.
Quella sera Martin non lesse nulla. Per una settimana non vide giornali e, stranamente, non ne sentì nemmeno il bisogno. Aveva perso ogni interesse per le notizie di attualità. Era troppo stanco e snervato per avvertire curiosità per qualunque cosa, anche se aveva pensato di partire in bicicletta per Oakland il sabato pomeriggio se fossero riusciti a finire per le tre. Erano più di cento chilometri e gli altri cento che avrebbe dovuto percorrere per tornare all’albergo la domenica pomeriggio non sarebbero stati un gran riposo per la seconda settimana di lavoro. Sarebbe stato più comodo andare in treno, ma il biglietto di andata e ritorno era due dollari e mezzo, e si era proposto di risparmiare.
XVII
Martin imparò molte cose. Nel corso della prima settimana lui e Joe finirono duecento camicie bianche in un pomeriggio. Joe manovrava la pressa, una macchina alla quale era agganciato un ferro rovente con una barra d’acciaio che lo teneva schiacciato. Con questo strumento stirava lo sprone, il colletto e i polsi, metteva questi ultimi ad angolo retto con la camicia e dava il tocco finale al petto. Non appena finiva le camicie le gettava su una rete che si trovava fra lui e Martin, il quale le prendeva e le «terminava», stirando tutte le parti non inamidate.
Era un lavoro sfibrante che veniva eseguito per ore e ore a grande velocità. Sulle ampie verande dell’albergo uomini e donne in leggeri abiti bianchi sorseggiavano bevande ghiacciate cercando di mantenersi freschi. Ma nella lavanderia l’aria era rovente. L’enorme fornello diventava rosso e bianco per la temperatura, mentre i ferri emettevano nuvole di vapore muovendosi sulla stoffa umida. Il calore di questi attrezzi era diverso da quello dei ferri da stiro casalinghi. La familiare prova del tocco con un dito bagnato era inutile perché la temperatura che avesse consentito un controllo di questo tipo sarebbe stata troppo bassa per le esigenze di Joe e Martin. La gente del mestiere misurava la temperatura avvicinando il ferro alla guancia e valutandone il calore secondo criteri ignoti che Martin, pur ammirando, non era in grado di capire. Quando il nuovo ferro era troppo caldo, lo si raffreddava attaccandolo a una verga di ferro e immergendolo in acqua gelida. Anche in questo caso occorreva una valutazione sottile e precisa. Un secondo di troppo nel liquido refrigerante avrebbe significato la perdita delle qualità nella stiratura che solo la giusta temperatura è in grado di garantire, e Martin scoprì, con grande meraviglia, di avere acquisito la capacità di compiere questa operazione con un’esattezza infallibile, come una macchina.
Non ebbe però il tempo per essere fiero di questa scoperta, perché tutta la sua attenzione doveva concentrarsi sul lavoro. Trasformatosi in una macchina intelligente, sempre all’erta con le mani e con la testa, tutte le sue doti personali erano messe al servizio di quell’attività. Nel cervello non c’era più posto per i grandi problemi universali dell’uomo. Tutte le vie d’accesso alla mente erano sbarrate e chiuse ermeticamente. La camera di risonanza dell’anima era ridotta a un angolo striminzito, a una torre di comando che muoveva i muscoli delle braccia, le spalle e le dieci agili dita, mentre il rapido ferro spinto lungo il suo sbuffante percorso da gesti ampi e decisi, perfettamente calcolati – non un centimetro di più né un centimetro di meno – frusciava su una marea di maniche, fianchi, schiene e falde, finché le camicie finite venivano gettate, senza gualcirle, sull’asse destinata ad accoglierle. E il lancio non era ancora finito che già l’attenzione era rivolta a un’altra camicia. E così di seguito per ore e ore, mentre fuori tutti boccheggiavano sotto il sole della California. Ma non c’erano svenimenti nella stanza surriscaldata. I turisti delle fresche verande avevano bisogno di abiti puliti.
Fiumi di sudore uscivano dal corpo di Martin. Beveva enormi quantità d’acqua, ma la calura delle giornate e dei suoi sforzi era tale che gli correva in tutti gli interstizi e gli usciva da tutti i pori. In mare il lavoro che aveva svolto gli aveva sempre lasciato, tranne che in rare occasioni, ampie possibilità di riflettere e meditare. Il comandante della nave aveva avuto il dominio assoluto sul suo tempo; ma il direttore dell’albergo era diventato padrone anche della sua anima. Non aveva altri pensieri che non fossero per quella fatica che lo snervava e annichiliva. Null’altro gli veniva in mente. Non aveva coscienza di amare Ruth, la quale non esisteva neppure più, perché il suo cervello in tensione non trovava neanche il tempo di ricordarla. Solo quando strisciava a letto la sera o quando faceva colazione la mattina la ragazza gli si ripresentava in fuggevoli ricordi.
«È un inferno, vero?», notò una volta Joe.
Martin annuì con una punta di irritazione. Era un’osservazione banale e superflua. Non parlavano durante il lavoro. La conversazione faceva perdere loro il ritmo, come avvenne anche quella volta, costringendolo a fare un passaggio in meno con il ferro e a recuperarlo con due movimenti supplementari, grazie ai quali poté riprendere la cadenza.
Azionavano la lavatrice il venerdì mattina. Due volte la settimana dovevano passare la biancheria dell’albergo: lenzuola, federe, coperte, tovaglie e tovaglioli. Finito questo compito si dedicavano ai «capi di lusso» da inamidare. Era un lavoro lento, meticoloso e delicato, che Martin non imparò con altrettanta facilità. Inoltre non poteva rischiare, perché gli errori si pagavano cari.
«Lo vedi questo?», gli chiese Joe sollevando un sottilissimo copribusto che avrebbe potuto essere racchiuso nel pugno di una mano. «Se lo bruci ti costa venti dollari di salario».
Martin evitò il pericolo diminuendo la tensione muscolare, anche se fu costretto a una straordinaria concentrazione nervosa che lo portava a solidarizzare in silenzio con le imprecazioni dei compagni, mentre lui era costretto a faticare e a soffrire senza battere ciglio su quelle belle cose, indossate da donne che non devono farsi il bucato da sé. I «capi di lusso» diventarono un incubo per Martin, oltre che per Joe, perché sottraevano loro minuti guadagnati con tanta fatica. Ci lavorarono per tutta la giornata, con un’interruzione alle sette per passare al mangano la biancheria dell’albergo, riprendendo alle dieci quando i clienti erano a dormire e continuando fino a mezzanotte, all’una, alle due. Smisero alle due e mezzo.
Sabato mattina furono di nuovo impegnati con i capi di lusso e nel completamento di altre attività rimaste in sospeso, e alle tre del pomeriggio posero termine alla loro settimana lavorativa.
«Non vorrai andare a Oakland in bicicletta dopo tutto quello che hai fatto?», gli chiese Joe mentre, seduti sui gradini, si facevano una gloriosa fumata.
«Devo», fu la risposta.
«Che vai a fare?… Una ragazza?».
«No, devo cambiare i libri alla biblioteca e voglio risparmiare i due dollari e mezzo del treno».
«Perché non li mandi con il corriere espresso? Costa un quarto di dollaro per viaggio».
Martin pensò che non era una cattiva idea.
«E domani ti riposi», proseguì l’altro. «Ne hai bisogno. Ne ho bisogno anch’io. Sono distrutto».
Lo si vedeva. Indomabile, sempre in movimento, teso tutta la settimana a guadagnare secondi e minuti, a colmare i ritardi e ad abbattere gli ostacoli, fonte di irresistibile energia, motore umano di potenza straordinaria, diavolo scatenato sul lavoro, ora che aveva completato il suo compito settimanale era sull’orlo del crollo. La sua bella faccia, estenuata e strapazzata, si era come disfatta in un’espressione di grande spossatezza. Aspirava la sigaretta automaticamente e parlava con voce spenta e monotona. Tutta la grinta e la determinazione erano svanite. La soddisfazione era offuscata dalla tristezza.
«E la prossima settimana ricomincia tutto daccapo», disse mestamente. «E a che serve poi tutto questo? Qualche volta vorrei essere un vagabondo. Non lavorano e campano lo stesso. Cribbio! Sento il bisogno di un bicchiere di birra, ma non riesco a trovare la voglia di tirarmi su per arrivare fino al paese. Sei uno scemo se ti muovi da qui, quando puoi mandare quei libri con il corriere».
«Ma che ci sto a fare qui tutta la domenica?», chiese Martin.
«Ti riposi. Non sai neanche tu quanto sei stanco. Beh, io la domenica sono così a terra che non riesco neanche a leggere i giornali. Una volta mi sono ammalato di febbre tifoidea. Due mesi e mezzo di ospedale. Niente lavoro per tutto questo tempo. È stato bellissimo.
«Bellissimo», ripeté un minuto dopo con aria trasognata.
Dopo aver fatto un bagno Martin scoprì che il suo capo era scomparso. Pensò che con ogni probabilità era uscito a farsi una birra, ma gli ottocento metri che avrebbe dovuto percorrere per raggiungerlo al villaggio gli parvero troppi. Si sdraiò sul letto senza scarpe cercando di raccogliere le idee. Non allungò la mano per prendere un libro. Era troppo stanco per riuscire a dormire e, intorpidito dalla fatica, rimase disteso senza quasi pensare fino all’ora di cena. Joe non comparve neanche allora e Martin ne capì il perché quando sentì dire dal giardiniere che probabilmente se ne stava attaccato al banco del bar. Andò subito a letto e la mattina dopo si sentì riposato. Poiché Joe non c’era ancora, Martin si procurò un giornale e si allungò in un posticino tranquillo all’ombra degli alberi. Passò la mattinata senza sapere neanche lui come. Non si assopì e non fu disturbato da nessuno, ma non riuscì a completare la lettura del giornale. Tornò nello stesso luogo nel pomeriggio, dopo il pranzo, e vi si addormentò.
Trascorse così la domenica e il lunedì mattina riprese a lavorare pieno di forza alla divisione dei capi di biancheria, mentre Joe, con un’asciugamano legato intorno alla testa, manovrava la lavatrice e mescolava il detersivo accompagnando tutto ciò che faceva con una sequela di sospiri e imprecazioni.
«Non posso proprio farne a meno», spiegò. «Quando viene il sabato sera devo andare a bere».
Passò un’altra settimana, una nuova grande battaglia che continuava ogni notte alla luce elettrica e raggiungeva il culmine alle tre del sabato pomeriggio, quando Joe gustava il suo momento di stanco trionfo prima di trascinarsi al paese per dimenticare. La domenica di Martin fu uguale alla precedente. Dormì all’ombra degli alberi, scorse faticosamente le pagine del giornale e passò molte ore sdraiato supino senza fare nulla e senza pensare a nulla. Era troppo intontito per pensare, anche se capiva che si detestava per questo. Aveva ribrezzo per se stesso, come se avesse vissuto un’esperienza degradante o commesso un atto infame. Ogni palpito divino era scomparso in lui. Insensibile al pungolo dell’ambizione aveva perso la vitalità che potesse risvegliarlo. Era morto. L’anima sua era morta. Non era che un animale, una bestia da soma. Non vedeva alcuna bellezza nella luce del sole che filtrava tra il verde delle foglie, né sentiva l’azzurra volta del cielo comunicargli come un tempo i segni della grandezza del cosmo e i segreti che fremevano nel momento della rivelazione. La vita era insopportabilmente tetra e stupida e lasciava in bocca un sapore amaro. Una cortina nera copriva il lucido specchio della vista interiore, e la fantasia giaceva malata in una camera oscurata nella quale non entrava alcun raggio di luce. Invidiava Joe che giù al villaggio imperversava attaccato al banco del bar, con il cervello che gli girava per effetto dell’alcool, stupidamente felice per cose stupide, immerso in un’ubriachezza trionfante e bizzarra in cui dimenticava il lunedì mattina e la settimana di micidiale fatica che lo attendeva.
Passò la terza settimana: Martin odiava se stesso e la vita. Era oppresso da un senso di fallimento. I direttori di giornali avevano ottimi motivi per rifiutare i suoi scritti. Ora lo capiva con chiarezza e rideva di se stesso e dei propri sogni. Ruth gli aveva restituito per posta le Liriche del mare. Lesse con apatia la lettera di lei. Faceva del suo meglio per dirgli che le piacevano e che erano belle. Ma non sapeva né mentire, né fingere di non vedere la verità. Capiva che erano un fallimento e quella sentenza si leggeva fra le righe fredde e sbrigative della lettera. Aveva ragione e Martin ne fu perfettamente convinto riguardando le poesie. Aveva smarrito la capacità di provare meraviglia di fronte alla bellezza, e nel leggere quelle composizioni si chiedeva che mai avesse avuto in testa mentre le scriveva. Le audacie linguistiche gli parvero grottesche, le espressioni felici lo sbalordivano per la loro mostruosità e tutto gli sembrava assurdo, irreale e impossibile. Le avrebbe bruciate subito se avesse avuto la voglia di accendere il fuoco. C’era la sala delle caldaie, ma pensava che non meritassero neppure lo sforzo necessario per portarle fino allo sportello della fornace. Tutta l’energia che aveva era impiegata a lavare i panni di altri. Per sé non gli restava nulla.
Decise che quando fosse arrivata la domenica avrebbe risposto alla lettera di Ruth, costasse quel che costasse. Ma sabato pomeriggio, dopo aver finito il lavoro e fatto un bagno, fu sopraffatto dal desiderio di dimenticare. «Magari vado giù a vedere come se la passa Joe», disse fra sé, sapendo nel momento stesso in cui la formulava che era una bugia, ma incapace di costringersi a riconoscerla come tale. E anche se fosse riuscito a compiere questo sforzo si sarebbe rifiutato di ammettere che mentiva, perché voleva soprattutto dimenticare. Si avviò verso il villaggio lentamente e senza entusiasmo, e accelerò il passo inconsciamente quando fu vicino al bar.
«Pensavo che tu andavi ad acqua», fu la frase che Joe gli rivolse a mo’ di saluto.
Martin non si degnò di dare spiegazioni, ma ordinò whiskey e si riempì il bicchiere fino all’orlo prima di passare la bottiglia.
«Non tenertela tutta la notte», disse con tono rude.
Poiché l’altro se la prendeva comoda Martin non volle aspettare che finisse e dopo avere ingollato il bicchiere in un fiato lo riempì di nuovo.
«Ora posso aspettare il mio turno», gli disse deciso, «però muoviti».
Joe si affrettò a versare e bevvero insieme.
«È stato il lavoro, vero?», chiese Joe.
Martin si rifiutò di affrontare quell’argomento.
«È un vero inferno», continuò l’altro, «però mi dispiace vederti lasciare la preziosa acqua, Mart. Beh, alla salute!». Martin continuò a bere in silenzio, ringhiando ordini e inviti e intimorendo il barista, un effeminato giovanotto di campagna con acquosi occhi azzurri e la scriminatura nel mezzo.
«È uno scandalo come ci fanno sgobbare, poveri cristi», osservò Joe. «Se non mi sbronzassi mi verrebbe da scoppiare e gli brucerei tutta la baracca. La mia ciucca è l’unica cosa che li salva, te lo dico io!».
Martin non rispose. Dopo qualche bicchiere sentì la testa girargli per l’ubriachezza. Ah, quello era vivere, il primo soffio di aria pura che avesse respirato in tre settimane. Tornò a sognare. La fantasia uscì dalla camera oscura e lo invitò a seguire la sua forma luminosa. Lo specchio della vista interiore tornò a splendere come una lastra d’argento e a brulicare di immagini abbaglianti. Aveva riacquistato la capacità di provare meraviglia di fronte alla bellezza e sentiva rinascere in sé l’energia. Cercò di comunicarlo a Joe, ma il compagno aveva visioni diverse dalle sue, piani infallibili che gli avrebbero consentito di sfuggire alla schiavitù di quel lavoro infame e di diventare proprietario di una grande lavanderia meccanica.
«Te lo dico io, Mart, non ci saranno bambini a lavorare nella mia lavanderia – ci puoi giurare. E non ci sarà anima viva a sgobbare dope le sei di sera. Senti quello che ti dico! Ci saranno macchine e lavoratori in numero sufficiente per fare tutto in un orario decente e tu, Mart, sai che farai? Sarai il direttore di tutta la baracca, capito? E sai qual è il mio piano? Adesso mi metto anch’io ad andare ad acqua, risparmio per due anni… risparmio e poi…».
Martin si era allontanato lasciandolo ad esporre il programma al barista, finché anche questo degno gentiluomo fu chiamato a servire due contadini che entrando avevano accettato l’invito di Martin. Egli offrì da bere a tutti con grande generosità, ai braccianti, a uno stalliere, all’aiuto giardiniere dell’albergo, al barista e a un vagabondo di passaggio che era sgusciato dentro come un’ombra e come un’ombra si era appostato all’estremità del bancone.
XVIII
Lunedì mattina Joe gemette spingendo fino alla lavatrice il primo carrello di panni.
«Senti», cominciò.
«Chiudi il becco», ringhiò Martin.
«Scusa, Joe», disse a mezzogiorno quando smisero per il pranzo.
All’altro vennero le lacrime agli occhi.
«Non importa vecchio mio», disse. «È un inferno e non possiamo farci niente. Sai, tu mi piaci molto. È per questo che ci sono rimasto male. Mi sei stato simpatico subito».
Martin gli strinse la mano.
«Andiamocene», suggerì Joe. «Piantiamo tutto e andiamo a fare i vagabondi. Non ci ho mai provato ma dev’essere facilissimo. Non si fa nulla tutto il giorno, pensa, nulla di nulla. Una volta sono stato malato in ospedale, con la febbre tifoidea, ed è stato bellissimo. Avrei voglia di ammalarmi di nuovo».
La settimana procedette faticosamente. L’albergo era pieno ed erano sommersi da capi di lusso da inamidare. Erano capaci di imprese epiche. La sera combattevano fino a tardi sotto la luce elettrica, ingollavano un pasto in fretta e furia e arrivarono persino a lavorare per una mezz’ora prima di colazione. Martin non faceva più il bagno freddo.
Era perennemente assorbito da una frenetica attività svolta sotto la magistrale guida di Joe, che, conscio della sua grande abilità nel guadagnare minuti preziosi e nell’evitare di perderli, li contava con la passione con cui l’avaro passa in rassegna le monete d’oro, girando a un ritmo forsennato come una macchina impazzita e aiutato soltanto da quell’altro meccanismo che un tempo credeva di essere un uomo e rispondeva al nome di Martin Eden.
Solo in rari momenti Martin riusciva a pensare. La casa in cui un tempo aveva avuto dimora la sua ragione aveva la porta chiusa e le finestre sbarrate, ed egli ne era diventato lo spettrale guardiano. Non era che un’ombra, aveva ragione Joe. Erano due ombre che si muovevano in un limbo di eterna fatica. O era un sogno? Qualche volta nell’umido e sfrigolante calore dei pesanti ferri che passavano e ripassavano sui candidi indumenti gli veniva il sospetto che potesse essere un incubo. Prestissimo, o magari fra un migliaio d’anni, si sarebbe ridestato nella cameretta con il tavolo macchiato d’inchiostro e avrebbe ripreso a scrivere dal punto in cui si era interrotto il giorno prima. O forse era un sogno anche questo e il risveglio sarebbe avvenuto al cambio del turno di guardia, quando sarebbe stato sbalzato dalla cuccetta rollante nel castello di prua e costretto a salire sul ponte sotto il cielo stellato dei tropici e alla fresca brezza degli alisei che gli penetrava nella carne.
Arrivò il sabato, con la sua vacua vittoria delle tre.
«Magari vado in paese per una birra», disse Joe con la voce curiosa e monotona che contrassegnava il tracollo del fine settimana.
Improvvisamente Martin parve risvegliarsi. Aprì la borsa degli attrezzi e lubrificò la bicicletta, mettendo grasso sulla catena e regolando i cuscinetti. Joe era a metà della via che portava al bar quando fu superato da Martin che piegato sul manubrio e spingendo sui pedali con un ritmo regolare si preparava ad affrontare cento chilometri di strade, di salite e di polvere. Quella notte dormì a Oakland e la domenica rifece il percorso in senso inverso. Il lunedì mattina, stanco ma soddisfatto di non aver bevuto, iniziò una nuova settimana di lavoro.
Passò così la quinta settimana, e poi la sesta, durante le quali visse e lavorò come una macchina, conservando soltanto un barlume di lucidità e un briciolo di coscienza che lo spingevano, a ogni fine settimana, a bruciare le energie rimaste in quei duecento chilometri. Non era riposo. Era una forma più raffinata di fatica meccanica che contribuì a cancellare quel residuo di aspirazioni della sua esistenza precedente. E alla fine della settima settimana, controvoglia ma incapace di resistere, scese giù al villaggio con Joe ad annegare la vita e a ritrovare la vita fino al lunedì mattina.
Nelle settimane seguenti riprese a macinare quei duecento chilometri il sabato e la domenica, cancellando l’istupidimento di una fatica immane con uno sforzo ancora più grande, ma dopo tre mesi scese di nuovo al paese con Joe. Dimenticò, tornò a vivere e, vivendo, vide, con chiarezza allucinante, la bestialità dell’esistenza che conduceva – non per il bere, ma a causa del lavoro. L’alcol non era la causa, ma la conseguenza di quell’attività inumana, che sopravveniva inevitabilmente come la notte segue il giorno. Diventare un animale da soma non era la premessa per salire alle vette, gli sussurrò il whiskey, ed egli annuì in segno di approvazione. Il liquore era saggio: rivelava i propri segreti.
Chiese carta e penna e dopo avere ordinato da bere per tutti si accostò al banco del bar a scrivere, mentre tutti intorno a lui brindavano alla sua salute.
«È un telegramma, Joe», disse. «Leggilo».
Joe lo sbirciò con un ghigno incuriosito da ubriaco, ma ciò che vide sembrò fargli recuperare la lucidità. Lo fissò con aria di rimprovero mentre le lacrime gli rigavano le guance.
«Non vorrai piantarmi in asso, Mart?», chiese disperato. Martin accennò di sì con la testa e chiese a uno degli avventori di fargli quel telegramma all’ufficio postale.
«Un momento», borbottò Joe con la voce impastata. «Lasciami pensare». Rifletteva aggrappato al banco del bar non riuscendo a reggersi sulle gambe malferme, mentre l’amico lo sosteneva circondandolo con il braccio.
«Scrivi “due lavandai”», disse bruscamente. «Da’ qua, lo correggo io».
«Ma tu perché te ne vai?», chiese Martin.
«Per lo stesso motivo».
«Io posso imbarcarmi. Tu no».
«No», rispose «ma posso benissimo vivere da vagabondo».
Martin lo guardò un istante con occhi penetranti ed esclamò:
«Per Dio, se hai ragione! Meglio fare il vagabondo che ammazzarsi per il lavoro. Almeno vivi. E starai meglio di quanto non sia stato finora».
«Una volta sono stato in ospedale», riprese Joe. «È stato bellissimo. Febbre tifoidea… te l’avevo detto?».
Mentre Martin modificava il testo del telegramma in «due lavandai», Joe continuava:
«Quando ero in ospedale non mi veniva voglia di bere. Strano, eh? Ma quando lavoro tutta la settimana come un animale devo sbronzarmi. Hai mai notato che i cuochi bevono come spugne?… e anche i fornai? È il lavoro. Lo devono fare. Dài, voglio pagare la metà del telegramma».
«Giochiamocela», propose Martin.
«Forza, da bere per tutti», esclamò Joe scuotendo i dadi e rovesciandoli sul piano bagnato del bancone.
Lunedì mattina Joe era pieno di eccitazione. Non si lamentava più del mal di testa e aveva perso l’interesse nel lavoro. Si fece sfuggire una grande quantità di occasioni per guadagnare tempo soffermandosi ad osservare dalla finestra gli alberi e il cielo illuminato dal sole.
«Guarda che spettacolo!», esclamava. «Ed è tutto mio! E gratis. Posso sdraiarmi sotto quegli alberi e dormire per mille anni se mi viene voglia. A che serve aspettare ancora? Lì fuori c’è il paese del dolce far niente e io ho già il biglietto… ed è un biglietto di sola andata, cribbio!».
Qualche minuto più tardi, mentre riempiva il carrello di panni sporchi destinati alla lavatrice, Joe scorse la camicia del direttore dell’albergo. La riconobbe dalle iniziali e in uno slancio di entusiasmo per la libertà ritrovata la gettò sul pavimento e la calpestò.
«Vorrei che ci fossi dentro tu, porco di un olandese!», urlò. «Qui dove ti ho messo! Prendi questo! E questo! E questo! Accidenti a te! Tenetemi, voi! Tenetemi!».
Martin si mise a ridere e lo riportò a lavorare. Martedì sera arrivarono i due nuovi lavandai e il resto della settimana se ne andò per istruirli nelle procedure. Joe se ne stava seduto a spiegare come si faceva, ma non lavorava più.
«Non alzo un dito», dichiarò. «Non alzo un dito. Possono licenziarmi se vogliono, ma se lo fanno li pianto in quattro e quattr’otto. Basta lavoro per me, grazie mille. D’ora in poi viaggerò gratis sui carri merci e me ne starò spaparanzato al sole. Datevi da fare, schiavi! Forza! Sgobbate e sudate! Sgobbate e sudate! Quando sarete morti, marcirete come me, e allora, che ve ne frega di come vivete?… Eh? Spiegatemelo un po’… A che serve?».
Sabato ritirarono la paga e giunse il momento dell’addio.
«Non è che posso chiederti di cambiare idea e di girovagare con me?», chiese Joe con aria poco convinta.
Martin gli strinse la mano e Joe gliela tenne per un momento nella sua dicendo:
«Ti rivedrò un’altra volta, Mart, prima di morire. Parola mia. Me lo sento nelle ossa. Ciao, Mart, e fa’ il bravo. Mi piaci un sacco, sai».
Rimase solo in mezzo alla strada a guardare finché Martin non sparì dietro la curva.
«È un bravo tipo, quel ragazzo lì», mormorò. «Un bravo tipo».
Poi si avviò con passo pesante giù per la strada verso la cisterna dell’acqua, dove una mezza dozzina di carri ferroviari vuoti attendevano su un binario morto di essere agganciati a un treno merci.
XIX
Di ritorno a Oakland, Martin vide spesso Ruth e la sua famiglia, che nel frattempo avevano finito la villeggiatura. Dopo il conseguimento della laurea lei non era più impegnata a studiare, e lui aveva perso ogni voglia di scrivere dopo quell’esperienza che gli aveva tolto qualsiasi stimolo intellettuale. In tal modo poterono stare assieme come non era mai avvenuto prima di allora e accrescere in breve tempo la loro intimità.
In un primo momento Martin non aveva fatto altro che riposare. Dormiva molto e passava lunghe ore senza fare nulla immerso in pensieri e meditazioni, come qualcuno che si stia riprendendo dopo una terribile prova. Ebbe i primi segni di risveglio accorgendosi di provare un interesse più vivo nei giornali, preludio alla ripresa della lettura di facili romanzi e poesie. Infine, qualche giorno dopo, ricominciò a immergersi nello studio del Fiske, da tempo trascurato. Le grandi capacità di recupero della gioventù, assistite dallo splendido corpo e dalla perfetta salute, gli diedero nuovo slancio.
Ruth non nascose la propria delusione quando egli le annunciò che avrebbe cercato un altro imbarco non appena si fosse sentito di nuovo in forze.
«Perché vuole farlo?», chiese.
«Ho bisogno di soldi», rispose. «Devo mettere da parte abbastanza per il successivo assalto ai direttori delle riviste. Il denaro è fondamentale nella guerra… nel mio caso ci vogliono denaro e pazienza».
«Ma se le servivano soldi perché non è rimasto nella lavanderia?».
«Perché mi sarei abbrutito. Era un genere di lavoro che spingeva al bere».
Lo fissò inorridita.
«Lei vuol dire che…?», cominciò con un tremito nella voce.
Gli sarebbe stato facile allontanare quel sospetto, ma era naturalmente portato alla sincerità e ricordò il vecchio proposito di essere franco, qualunque cosa avvenisse.
«Sì», rispose. «Anch’io. Parecchie volte».
Lei si scostò da lui rabbrividendo.
«Non ho conosciuto nessun uomo che lo abbia fatto… che lo abbia mai fatto».
«Perché non hanno mai lavorato allo Shelly Hot Springs», disse Martin con un riso amaro. «Il lavoro è una buona cosa. È necessario per la salute dell’uomo, ce lo dicono tutti i predicatori, e sa il cielo che non mi ha mai spaventato. Ma ci sono cose nelle quali è male eccedere: una di queste è quella lavanderia. Ecco perché vado in mare per un altro viaggio. Sarà l’ultimo, credo, perché quando tornerò riuscirò a sfondare nelle riviste. Ne sono certo».
Ruth espresse in silenzio la sua disapprovazione, ed osservandola mestamente lui comprese come le fosse impossibile capire ciò che quell’esperienza aveva significato per lui.
«Un giorno scriverò un saggio sull’argomento, intitolato La degradazione del lavoro o La psicologia del bere nella classe operaia, o qualcosa del genere».
Non l’aveva mai sentita così lontana dal giorno del loro primo incontro. La confessione di Martin, fatta con franchezza e con spirito di ribellione, l’aveva disgustata. E tuttavia Ruth era più sconvolta dalla ripugnanza provata che da ciò che l’aveva provocata, perché le rivelava quanto si fosse avvicinata a lui e, una volta accettato questo fatto, si era aperta la via a un’intimità ancora maggiore. Provò anche pietà e un ingenuo impulso di redimerlo. Avrebbe salvato questo rozzo giovane che veniva da tanto lontano. Lo avrebbe sottratto agli effetti nefasti dell’ambiente in cui era vissuto, salvandolo dalle sue inclinazioni contro la volontà stessa di lui. Credeva che tutte queste aspirazioni fossero dovute a un impulso magnanimo; non immaginava che nascessero dalla gelosia e dal desiderio d’amore.
Fecero molti giri in bicicletta nelle belle giornate d’autunno e si fermavano sulle colline a declamare poesie, alternandosi nella lettura di versi nobili ed eletti che ispiravano pensieri elevati. La rinuncia, il sacrificio, la pazienza, l’industriosità e le alte aspirazioni erano i principi che lei indirettamente predicava e vedeva realizzati nel padre, nel signor Butler e in Andrew Carnegie, il povero figlio di emigranti diventato grande benefattore.
Martin osservava tutto ciò con piacere e gratitudine. Ora seguiva più chiaramente i processi mentali di lei; quell’anima non era più per lui un meraviglioso mistero. Intellettualmente erano alla pari. I punti di dissenso non influivano sul suo amore, che sentiva più forte che mai. L’amava per quello che era, e persino la debolezza fisica aveva un fascino particolare agli occhi di lui. Aveva letto dell’infermità di Elizabeth Barrett, che per anni era rimasta confinata a letto fino al giorno luminoso in cui per fuggire con Browning si era sollevata in posizione eretta, con i piedi fermi sulla terra, libera sotto il cielo infinito; e ciò che aveva fatto Browning poteva farlo anche lui, Martin, per Ruth. Ma era necessario che lei lo amasse. Il resto sarebbe stato facile. Le avrebbe dato forza e salute. E nelle vaghe immagini della loro vita futura vedeva, su un solido sfondo fatto di lavoro, agiatezza e benessere, se stesso e l’amata impegnati a leggere e a discutere di poesia, con Ruth che gli declamava i versi reclinata su una moltitudine di cuscini disposti sul pavimento. Era quella la chiave dell’avvenire, la visione che si ripeteva in continuazione. Talvolta lei appoggiava la testa sulla spalla di lui, che leggeva tenendole un braccio intorno alla vita. Talaltra si immergevano insieme nella bellezza della pagina stampata. E poiché Ruth amava la natura, la fantasia di Martin variava generosamente lo scenario di quelle letture, ambientandole in valli chiuse da ripide pareti di roccia, in prati sulle montagne, ai piedi di grigie dune sabbiose di fronte alle onde del mare, su un’isola vulcanica dei tropici con una cascata la cui nebbiolina oscillava e tremava verso l’oceano a ogni refolo di vento. E ogni volta, in primo piano, signori supremi della bellezza, erano lui e Ruth fermi in un’eterna lettura, e ogni volta dietro quel fondale di natura che li copriva come un velo erano il lavoro, il successo e il denaro, che li affrancavano dal mondo e da tutti i suoi tesori.
«Vorrei raccomandare alla mia bambina di essere prudente», l’ammonì un giorno la madre.
«So a che cosa alludi. Ma è impossibile. Lui non è…».
Ruth era arrossita; era il verginale imbarazzo di colei che è costretta ad affrontare per la prima volta i temi sacri della vita da una madre considerata anch’ella come un essere venerato.
«Adatto a te», concluse la madre in sua vece.
Ruth annuì.
«Non volevo dirlo, ma hai ragione. È rozzo, brutale, forte… troppo forte. Non ha…».
Esitò e non riuscì a proseguire. Era un’esperienza nuova, parlare di queste faccende con la mamma. Ancora una volta la madre completò il suo pensiero.
«Non ha un passato limpido… è questo che volevi dire?».
E ancora una volta Ruth accennò di sì con il capo arrossendo.
«Proprio così», disse. «Non è stata colpa sua, ma si è molto mescolato…».
«Alla feccia?».
«Sì, alla feccia. E mi fa paura. Qualche volta sono proprio spaventata, quando parla così liberamente e tranquillamente delle cose che ha fatto come se non importassero. Ma importano, non è vero?».
Si sedettero e si abbracciarono, e durante la pausa della conversazione la madre le carezzò la mano aspettando che continuasse.
«Però mi interessa molto», proseguì. «In un certo senso è il mio protetto. E poi è il mio ragazzo, anche se non è proprio un amico in senso stretto; piuttosto è un amico e un protetto allo stesso tempo. Qualche volta, quando mi fa paura, mi pare un bulldog che ho preso per svago, come hanno fatto alcune ragazze dell’università, che tira con forza il laccio, mostra i denti e minaccia di liberarsi dal guinzaglio».
La madre continuava a tacere.
«Mi interessa, immagino, come un cane. Ha molte buone qualità, intendiamoci. Ma ci sono parecchie cose di… di tutt’altra natura che non vorrei avesse. Come vedi, ho riflettuto anch’io. Impreca, fuma, beve, ha fatto a pugni (me lo ha detto lui; e ha detto anche che gli piace). È tutto ciò che non dovrebbe essere l’uomo… l’uomo che vorrei per…», e qui abbassò la voce a un sussurro, «… marito. E poi è forte. Il mio principe deve essere alto, snello e bruno – pieno di grazia e di fascino. No, non c’è pericolo che mi innamori di Martin Eden. Sarebbe la disgrazia peggiore che potrebbe capitarmi».
«Ma non era questo che volevo dire», fraintese la madre. «Hai pensato a lui? Per te è un partito inaccettabile da ogni punto di vista, ma se dovesse innamorarsi di te?».
«Lo è già», esclamò la ragazza.
«Era da prevedersi», disse con dolcezza la signora Morse. «Come si può evitarlo, conoscendoti?».
«Olney mi detesta», disse Ruth con calore. «E io non lo posso soffrire. Quando lo vedo mi ribolle il sangue nelle vene e sento la voglia di trattarlo male. E se per caso riesco a rimanere calma è lui ad essere odioso con me. Invece sono felice con Martin Eden. Nessuno mi ha mai amata, voglio dire nessun uomo, come lui. Sai che cosa voglio dire, mammina. È dolce sentire che si è una vera donna». Nascose il viso nel grembo della madre singhiozzando. «Penserai che sono una ragazza incosciente, ma sono sincera e ti dico solo quello che sento».
La signora Morse provava un misto di mestizia e di felicità. La sua bambina, ormai laureata in lettere, non c’era più: al suo posto era sbocciata la donna. Il piano era riuscito. Quel preoccupante vuoto nella natura di Ruth era stato colmato senza rischi o pericoli. Questo rozzo marinaio era stato lo strumento attraverso il quale Ruth, pur non amandolo, era diventata cosciente della propria femminilità.
«Gli tremano le mani», proseguiva Ruth con il volto sempre nascosto per la vergogna. «È divertente e ridicolo, e me ne dispiace per lui. E quando lo vedo con le mani così tremanti e gli occhi lucidi, gli faccio la ramanzina per la vita sbagliata che conduce e gli do consigli su quello che deve fare per correggersi. Lui mi adora, lo so. Gli occhi e le mani non mentono. Al solo pensarci sento che sono maturata, e capisco che ormai ho qualcosa che è mio, proprio mio, che mi rende uguale alle altre ragazze… e alle giovani donne. E capisco anche che prima non ero come loro e che questo ti preoccupava. Cercavi di non farmi sapere il tuo cruccio, ma io me n’ero accorta e volevo… «metterci una pezza», come direbbe Martin Eden».
Fu un momento magico per madre e figlia, che continuarono a discorrere con gli occhi umidi nella luce incerta del crepuscolo, Ruth trascinata dal candore e dalla franchezza, la madre tesa ad ascoltarla con comprensione e a darle saggi consigli.
«Ha quattro anni meno di te», diceva, «e non ha né arte né parte. Non ha né un posto fisso né uno stipendio sicuro. È uno scriteriato. Il buon senso dovrebbe suggerirgli, amandoti, di fare qualcosa che possa dargli il diritto di sposarti invece di perdere il tempo con quei racconti e con i suoi sogni infantili. Ho paura che Martin Eden non diventerà mai adulto. Rifugge dalla responsabilità della scelta di un’occupazione, come invece fecero, quando fu il momento, tuo padre e le persone di nostra conoscenza, per esempio il signor Butler. Temo che Martin Eden non sarà mai in grado di guadagnarsi da vivere. Purtroppo, considerando come è fatto il mondo, per essere felici ci vogliono i soldi – oh, non un grande patrimonio, ma il denaro sufficiente a una ragionevole agiatezza. Ti… ti ha mai parlato?».
«Non mi ha detto una parola. Non ci ha mai neanche provato, ma se lo facesse lo fermerei subito perché non l’amo».
«Ne sono contenta. Non vorrei vedere mia figlia, la mia sola figlia che è così innocente e pura, finire nelle mani di uno come quello. Al mondo ci sono molti uomini per bene, che sono onesti, e sinceri e concreti. Abbi pazienza. Un giorno ne troverai uno che amerai e che ti amerà, e con lui sarai felice come tuo padre e io siamo stati felici insieme. E c’è una cosa che devi sempre ricordare…».
«Sì, mamma».
La signora Morse disse con voce bassa e dolce: «I bambini».
«Ci ho… ci ho pensato», confessò Ruth rammentando i pensieri impuri che l’avevano tormentata in passato, con il viso di nuovo rosso per la vergogna di dover parlare di queste cose.
«I tuoi figli non possono avere come padre il signor Eden», continuò la signora Morse in tono deciso. «Devono avere genitori che abbiano avuto una vita pura, e temo che quella di lui non lo sia stata. Tuo padre mi ha detto delle abitudini dei marinai e… e tu capisci».
Ruth strinse la mano della madre in segno di assenso, convinta di avere capito, anche se in realtà aveva una vaga idea di qualcosa di remoto e terribile che non era in grado di immaginare.
«Sai che non faccio nulla senza dirtelo», cominciò. «… Solo che qualche volta devi farmi domande, come prima. Volevo parlartene, ma non sapevo come. È falso pudore, lo so, ma tu deve rendermi la cosa più facile. Qualche volta fammi domande, come prima, dammi la possibilità di spiegare.
«Sei anche tu una donna, mamma!», esclamò infine esultante, dopo che, essendosi entrambe alzate, ebbe afferrato le mani della madre per rimanere di fronte a lei nella luce crepuscolare, con la curiosa e dolce consapevolezza di essere uguale a lei. «Non ti avrei mai visto così se non ci fossimo parlate. Mi sono dovuta accorgere che ero una donna per capire che lo sei anche tu».
«Siamo due donne», disse la madre attirandola a sé e baciandola. «Siamo due donne», ripeté mentre uscivano dalla stanza abbracciate alla vita e con l’animo colmo di felicità per quella rivelazione.
«La nostra ragazzina è diventata una donna», disse orgogliosamente la signora Morse al marito un’ora più tardi.
«Ciò significa», disse lui dopo aver fissato a lungo la moglie, «ciò significa che è innamorata».
«No, ma è amata», replicò la moglie sorridendo. «L’esperimento è riuscito. Finalmente si è svegliata».
«Allora dovremo liberarci di lui». Il tono del signor Morse era quello spiccio e brusco dell’uomo d’affari.
La moglie scosse la testa. «Non è necessario. Ruth dice che fra qualche giorno si imbarcherà. Quando tornerà, lei non ci sarà. La manderemo dalla zia Clara. E poi un anno sulla costa atlantica, con il cambiamento di clima, persone, mentalità e tutto il resto, è proprio quello che ci vuole».
XX
In Martin era rinato il desiderio di scrivere. Racconti e poesie gli pullulavano dal cervello senza sforzo ed egli prendeva appunti che gli sarebbero serviti in futuro, quando avrebbe dato loro espressione. Ma non scriveva. Era la sua piccola vacanza: aveva deciso di consacrarla al riposo e all’amore e in entrambi i campi faceva grandi progressi. In breve tempo riacquistò la sua traboccante vitalità e ogni volta che si incontrava con Ruth la ragazza sentiva come un trauma l’impatto con la forza e la potenza di lui.
«Sta’ attenta», l’avvertì ancora una volta la madre. «Temo che tu veda troppo spesso Martin Eden».
Ma Ruth rise fiduciosa. Era sicura di se stessa e d’altronde, di lì a qualche giorno, Martin sarebbe stato in mare. Poi, al suo ritorno, lei sarebbe stata ancora sulla costa orientale in visita ai parenti. E tuttavia c’era qualcosa di magico nella forza e nella vitalità di Martin. Egli aveva saputo di quel progettato viaggio nell’Est e capiva che doveva affrettare i tempi, ma non sapeva come corteggiare una ragazza di quella fatta. Era inoltre frenato dall’avere spesso frequentato in passato ragazze e donne del tutto diverse da lei, tanto esperte dell’amore, della vita e delle schermaglie fra i sessi quanto lei ne era ignara. La sua sbalorditiva innocenza lo atterriva, gelandogli sulle labbra le parole ardenti e convincendolo, nonostante tutto, di essere indegno di lei. Era anche trattenuto dal fatto di non essere mai stato innamorato prima di allora. Nel suo intenso passato, era stato attratto da molte donne alcune delle quali lo avevano anche affascinato, ma non aveva mai provato che cosa volesse dire amare. Gli era stato sufficiente chiamarle con un fischio e un cenno noncurante e imperioso perché accorressero a lui. Si era trattato di avventure, diversioni, piccoli episodi privi di importanza. E ora, per la prima volta, era lui a supplicare, pieno di tenerezza, di timori e di dubbi, lui che non conosceva i modi e le parole dell’amore, e che era sbigottito dalla cristallina innocenza dell’amata.
Nel processo che lo aveva portato a conoscere il mondo multiforme e le sue incessanti mutazioni aveva appreso una norma di condotta secondo la quale quando si è impegnati per la prima volta in un gioco sconosciuto si deve attendere la prima mossa dell’avversario. Infinite volte questa regola gli era stata preziosa e lo aveva preparato ad essere un buon osservatore. Sapeva come tenere d’occhio ciò che gli era ignoto e aspettare che si rivelasse una debolezza dell’interlocutore, un’apertura in cui penetrare. Era come rimanere in guardia negli scontri di pugilato in attesa di un varco nella difesa dell’altro. E quando questo si presentava Martin sapeva bene come cogliere l’occasione, e picchiare sodo.
E così rimaneva fermo davanti a Ruth, che osservava con attenzione, desideroso di comunicarle il suo amore e timoroso di farlo. Aveva paura di turbarla e non si sentiva sicuro di sé. E tuttavia, pur non rendendosene conto, seguiva la via migliore. L’amore era venuto al mondo prima della parola e in quei suoi primordi aveva appreso modi e forme che non aveva mai dimenticato. Era in questa maniera antica e primitiva che Martin corteggiava Ruth. All’inizio non si era accorto di farlo, anche se in seguito lo intuì. Il contatto fra la mano di lui e quella di lei significava molto più di qualunque parola che egli potesse pronunciare, e lo scontro fra la forza di lui e la fantasia di lei sprigionava più incanto delle poesie d’amore e dei discorsi appassionati di infinite generazioni di amanti. Qualsiasi cosa lui avesse espresso a parole avrebbe colpito in parte l’intelletto di lei: ma il tocco della mano, quel fuggevole contatto, si rivolgeva all’istinto. Se l’intelletto della ragazza era giovane e ingenuo, il suo istinto era vecchio come il genere umano. Il suo istinto era stato giovane quando l’amore era giovane e adesso era più saggio delle convenzioni, delle opinioni e di tutte le cose appena nate. Ecco perché l’intelletto di Ruth non reagiva. Non veniva stimolato e la ragazza non capiva la potenza dell’incessante appello che Martin rivolgeva alla sua natura amorosa. Del resto che egli l’amasse era chiaro come il giorno e Ruth consciamente si beava nel contemplare le manifestazioni dell’amore di lui – gli occhi illuminati da una luce tenera, le mani tremanti e l’inequivocabile e cupo rossore che traspariva oscuramente dalla pelle abbronzata. Lei andava anche più in là, eccitandolo cautamente ma facendolo in modo così delicato che Martin non lo sospettò mai, e con tanto candore da non rendersene nemmeno conto ella stessa. Fremeva a queste prove di un potere che la proclamava donna e provava un piacere sottilmente femminile nel tormentarlo e nel prendersi gioco di lui.
Reso muto dall’inesperienza e dall’eccesso di ardore, goffo e maldestro nel corteggiamento, Martin continuava i suoi approcci con contatti fisici. Il tocco della mano di lui le riusciva gradito, la riempiva di un delizioso brivido di piacere. Martin non lo sapeva, ma capiva che non le era sgradevole. Non che si toccassero spesso la mano, tranne quando si incontravano e al momento del congedo; tuttavia nel manovrare le biciclette, nel legarvi i libri di poesia che portavano con sé sulle colline e nel leggere uno accanto all’altra la medesima pagina c’erano altre occasioni in cui le mani si sfioravano. E c’erano anche casi in cui i capelli di lei solleticavano il viso di lui e la spalla di lui aderiva a quella di lei mentre si piegavano insieme a godere della bellezza contenuta in un libro. Ruth sorrideva fra sé dell’impulso capriccioso, sbucato dal nulla, che le suggeriva di arruffargli i capelli; mentre lui avrebbe desiderato ardentemente, quando si erano stancati di leggere, di appoggiarle la testa sul grembo e di sognare con gli occhi chiusi di ciò che il futuro aveva in serbo per loro. In passato, nei picnic domenicali allo Shellmound Park e allo Schuetzen Park, aveva spesso posato il capo in tal modo, giungendo persino ad addormentarsi profondamente, mentre le ragazze gli riparavano il volto dal sole e guardandolo si scioglievano d’amore per lui e si stupivano della noncuranza con cui egli accettava la loro passione. Fino ad allora appoggiare la testa sul grembo di una ragazza era stata la cosa più facile del mondo, ma adesso quello di Ruth era per lui inaccessibile. E tuttavia, proprio in quella reticenza stava la forza del suo approccio. Il silenzio di lui la rassicurava. Pur essendo timida e suscettibile non si accorse mai della pericolosa piega presa dal loro rapporto. In modo sottile e quasi senza accorgersene Ruth si era accostata sempre più a lui ed egli, consapevole di quella vicinanza, avrebbe voluto osare ma temeva di farlo.
Una volta ne ebbe il coraggio, un pomeriggio in cui la trovò nel soggiorno semibuio in preda a una tremenda emicrania.
«Non c’è rimedio», disse lei rispondendo alle sue domande. «Inoltre non posso prendere le polverine contro il mal di capo. Il dottor Hall me lo ha proibito».
«Penso di conoscere il modo di farglielo passare», rispose Martin, «e senza medicine. Non ne sono sicuro, naturalmente, ma posso provare. È un semplice massaggio. L’ho appreso per la prima volta dai giapponesi, che fanno grande uso di massaggi. E poi l’ho rivisto, con alcune variazioni, presso gli hawaiani, che lo chiamano lomi-lomi. Riesce a ottenere quasi gli stessi risultati dei farmaci, e persino a guarire casi in cui essi non hanno avuto efficacia».
Poco dopo che le mani di lui ebbero cominciato a strofinarle la testa lei emise un profondo sospiro.
«Che bello!», disse.
Mezz’ora più tardi parlò di nuovo per chiedergli: «Non è stanco?».
Era una domanda inutile, perché era evidente quale sarebbe stata la risposta. Quindi Ruth si abbandonò alla sonnolenta contemplazione del grande sollievo che quella forza le portava. Le parve che dai polpastrelli delle dita di lui uscisse un flusso vitale che scacciava il male, finché con l’attenuarsi del dolore lei si assopì, e Martin se ne andò.
Quella sera la ragazza lo chiamò al telefono per esprimergli la sua gratitudine.
«Ho dormito fino all’ora di cena», disse. «Mi ha guarita completamente, signor Eden, e non so come ringraziarla».
Lui era così eccitato e felice che le rispose con frasi sconnesse, mentre davanti agli occhi, per tutta la durata della conversazione telefonica, gli danzò l’immagine di Browning e dell’inferma Elizabeth Barrett. Ciò che era avvenuto una volta poteva verificarsi di nuovo, e lui, Martin Eden, avrebbe ripetuto il miracolo per Ruth Morse. Tornò in camera sua e al volume della Sociologia di Spencer disteso aperto sul letto. Ma non riuscì a leggere. I tormenti d’amore ebbero la meglio sulla sua volontà, finché, nonostante tutto, si ritrovò seduto davanti al tavolino macchiato d’inchiostro. Il sonetto che scrisse quella notte fu il primo di un ciclo d’amore che portò a termine nel giro di due mesi. Nel comporli aveva in mente i Love-sonnets from the Portuguese della Barrett Browning, e scrisse nelle migliori condizioni per le grandi creazioni, all’apice della tensione esistenziale, in preda a una dolce follia d’amore.
Dedicava le molte ore in cui non era con Ruth al Ciclo d’amore, alle letture casalinghe e alle visite alle biblioteche, dove consultava le riviste esaminandone i contenuti e la politica editoriale. Il tempo che trascorreva con Ruth lo faceva impazzire per il venir meno delle speranze, che sentiva tanto più vane quanto più erano grandi. Una settimana dopo la guarigione dall’emicrania, Norman, appoggiato da Arthur e Olney, propose un giro in barca al chiaro di luna. Dal momento che Martin era l’unico in grado di governare un’imbarcazione fu richiesta la sua collaborazione. Ruth si sedette vicino a lui a poppa, mentre i tre giovanotti stavano al centro, assorbiti in una verbosa discussione su questioni riguardanti le associazioni universitarie.
Non era ancora sorta la luna e nel fissare la volta stellata del cielo, in silenzio accanto a Martin, Ruth avvertì un improvviso senso di solitudine. Lo guardò. Un soffio di vento faceva piegare la barca finché il ponte fu quasi a pelo dell’acqua mentre lui, con una mano al timone e l’altra alla scotta di maestra, orzava leggermente, scrutando contemporaneamente davanti a sé per scorgere la non lontana riva settentrionale. Non si era accorto dello sguardo di lei, che l’osservava intensamente, riflettendo sulla strana conformazione di quella mente che induceva un giovane dotato di tante qualità a perdere il tempo a scrivere racconti e poesie destinati alla mediocrità e al fallimento.
Gli occhi di lei seguivano la linea del forte collo, appena visibile alla luce delle stelle, e della solida testa, e le tornò il vecchio impulso di appoggiarvi le mani, attratta da quella forza che pure la spaventava. Avvertì più acutamente il senso della solitudine e si sentì stanca. A causa dell’inclinazione della barca era in una posizione scomoda e rammentò il mal di capo che egli aveva lenito e la riposante calma che era in lui. Era seduto accanto a lei, vicinissimo a lei, e la barca parve spingerla ancor più contro di lui. Le venne allora il desiderio di appoggiarsi a quell’uomo, di affidarsi alla sua forza – un desiderio vago e indistinto che, persino quando le si fu chiarito nella mente, continuò a dominarla inducendola a piegarsi sempre più verso di lui. O era l’inclinazione della barca? Non lo sapeva. Non l’avrebbe saputo mai. Sapeva solo di essere sorretta da lui e che quel sostegno tranquillo e sicuro aveva su di lei un effetto straordinario. Forse era colpa della barca, ma lei non fece nulla per spostarsi. Rimase appoggiata leggermente ma costantemente alla spalla di lui, continuando a farlo anche quando egli mutò posizione per consentirle di stare più comoda.
Era una pazzia, ma Ruth si rifiutò di considerarla tale. Non era più se stessa ma una donna bisognosa di affetto e tuttavia appagata da quel semplice contatto. Non sentiva più la stanchezza. Martin non parlava. Se lo avesse fatto avrebbe dissolto quell’incanto, che fu invece prolungato dalla reticenza di lui nell’esprimerle il suo amore. Egli era in preda alle vertigini e allo sbigottimento, e non riusciva a capire che cosa stesse accadendo. Era una cosa tanto bella che non poteva che essere il prodotto di un delirio dei sensi. Soffocò il folle desiderio di lasciar andare scotta e timone per stringerla fra le braccia. Intuì che sarebbe stata una mossa sbagliata e fu contento che l’avere le mani occupate gli impedisse di cedere alla tentazione. Orzò invece la barca con minore delicatezza, togliendo vergognosamente vento alla vela per prolungare il bordo fino alla riva settentrionale. L’arrivo in prossimità della spiaggia lo avrebbe infatti costretto a virare, ponendo fine al contatto. Veleggiava con abilità, rallentando la velocità dell’imbarcazione senza farlo notare a quelli che erano infervorati nella discussione e ringraziando mentalmente le più ardue esperienze di navigazione che avevano reso possibile quella notte meravigliosa, dandogli la capacità di dominare il mare, la barca e il vento e l’occasione di navigare accanto all’amata, appoggiata dolcemente sulla sua spalla.
Quando la prima luce della luna che era spuntata toccò la vela, illuminando l’imbarcazione di una luce perlacea, Ruth si staccò da lui. E sentì, mentre si muoveva, che anche lui si allontanava. L’impulso ad evitare di essere scoperti fu simultaneo in entrambi. L’episodio aveva avuto un carattere di tacita e segreta intimità. Ruth rimase seduta staccata da lui con le guance in fiamme, chiaramente consapevole del significato di ciò che era avvenuto. Si era resa colpevole di qualcosa che non avrebbe voluto fosse visto dai fratelli e da Olney. Perché? Non aveva mai fatto nulla di simile in vita sua, pur essendo andata altre volte con giovanotti in barca a vela al chiaro di luna. Era sopraffatta dalla vergogna e dal mistero della sua prorompente femminilità. Lanciò un’occhiata a Martin che era impegnato a far virare la barca per cominciare l’altro bordo: l’avrebbe odiato per come l’aveva indotta a fare una cosa così sfacciata e vergognosa. Proprio lui! Forse aveva ragione la mamma, si vedevano troppo spesso. Decise che una cosa del genere non sarebbe avvenuta mai più, e che in futuro lo avrebbe incontrato meno spesso. Accarezzò l’insensata idea di avere con lui una spiegazione la prima volta in cui sarebbero rimasti soli insieme e di dirgli una bugia, di parlargli con indifferenza del malessere che l’aveva colta poco prima del sorgere della luna, ma si ricordò che si erano staccati spontaneamente l’uno dall’altra prima dell’arrivo di quella luce rivelatrice e capì che egli si sarebbe accorto che stava mentendo.
Nei frenetici giorni che seguirono Ruth non fu più se stessa ma una creatura strana ed enigmatica, ostinata nei giudizi e riluttante a riflettere, che si rifiutava di scrutare nel futuro e di pensare a sé e a ciò che l’attendeva. Si sentiva travolta da un mistero che l’atterriva, l’affascinava e la riempiva di continuo stupore. Aveva però un’idea certa, che le dava sicurezza. Non avrebbe mai permesso a Martin di rivelarle il suo amore. Finché ci fosse riuscita tutto sarebbe andato bene. Dopo pochi giorni egli si sarebbe imbarcato. E anche se Martin le avesse parlato tutto sarebbe andato bene, perché lei non lo amava. Naturalmente sarebbe stata un’ora dolorosa per lui, oltre che imbarazzante per lei, perché sarebbe stata la prima dichiarazione che riceveva. Fremette di piacere a quel pensiero. Era una vera donna e un uomo era pronto a chiederle di sposarlo. Era una prospettiva che andava dritta al cuore della sua femminilità. Il tessuto della sua esistenza, la sua stessa essenza, vibravano e tremavano. Quel pensiero le palpitava nella mente come una farfalla attratta dalla fiamma. Arrivò al punto di immaginare la proposta di Martin, formulata con parole che lei stessa gli metteva sulla bocca, e a ripetere le frasi con cui, rifiutandolo, addolciva la ripulsa con la gentilezza e lo esortava a vivere in modo genuino e nobile. Soprattutto, doveva smettere di fumare sigarette. Avrebbe insistito su questo punto. E tuttavia, no, non doveva neppure permettergli di parlare. Poteva fermarlo, come aveva detto alla mamma. Con il viso in fiamme allontanò dalla propria mente la scena che aveva immaginato. La prima proposta di matrimonio sarebbe stata fatta in un momento più adatto e da un corteggiatore più degno.

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