giovedì 23 luglio 2020

Jack London / Martin Eden I - X

We all have Ruth and Martin in us - Cholpon Kozhoiarova - Medium

Jack London
MARTIN EDEN


1
Uno dei due aprì la porta con una chiave ed entrò, seguito da un giovanotto che si tolse il berretto con gesto imbarazzato. Aveva rozzi vestiti che odoravano di mare ed era chiaramente fuori posto nell’ampio atrio in cui si trovò. Non sapeva che fare del berretto e stava cercando di ficcarselo nella tasca del giaccone quando l’altro glielo prese. Ciò fu fatto con tranquillità e naturalezza e il giovanotto imbarazzato gliene fu grato. «Lui mi capisce», pensava. «E mi darà una mano».

Camminava alle calcagna dell’altro facendo oscillare le spalle e tenendo le gambe involontariamente divaricate, come se il pavimento si alzasse e si abbassasse seguendo le fluttuazioni e gli sbalzi del mare. Le ampie sale parevano troppo strette per la sua andatura dondolante e fra sé e sé egli era terrorizzato al pensiero che le sue larghe spalle potessero urtare contro gli stipiti delle porte o far cadere i minuscoli soprammobili posati sugli scaffali più bassi. Si ritraeva ora dall’uno ora dall’altro dei diversi oggetti, moltiplicando timori che in realtà erano soltanto una creazione della sua mente. Fra un pianoforte a coda e un tavolo centrale con alte pile di libri c’era spazio sufficiente per il passaggio di sei persone affiancate, e tuttavia vi si avvicinò con trepidazione. Le robuste braccia gli cadevano lungo i fianchi in modo sgraziato. Non sapeva che farne, di quelle sue braccia e delle mani, e quando nella sua visione alterata un braccio parve pericolosamente sul punto di sfiorare i libri sul tavolo, se ne allontanò traballando come un cavallo impaurito e per poco non finì contro lo sgabello del pianoforte. Osservò l’armoniosa andatura dell’altro davanti a lui e per la prima volta si rese conto che il suo passo era diverso da quello degli altri uomini. Per un istante il fatto di camminare in modo così impacciato gli diede un acuto senso di vergogna. Il sudore gli usciva dalla pelle della fronte in minuscole perline e si arrestò per asciugarsi con un fazzoletto la faccia abbronzata.
«Fermati un po’, Arthur, ragazzo mio», disse, cercando di mascherare l’ansietà con il tono scherzoso. «Tutto in una volta è un po’ troppo per il sottoscritto. Sai che io non volevo venire, e neanche la tua famiglia muore dalla voglia di vedermi, penso».
«Non ti preoccupare», fu la rassicurante risposta. «Non devi avere paura di noi. Siamo gente alla buona. Guarda, c’è una lettera per me».
Fece un passo indietro verso il tavolo, strappò il margine della busta e cominciò a leggere, dando all’estraneo la possibilità di riprendersi. Questi lo capì e gliene fu grato. Aveva il dono di sapersi immedesimare negli altri, di capirli, e sotto al suo aspetto allarmato esso già si manifestava in lui. Si asciugò la fronte e si guardò intorno con un’espressione controllata, benché nei suoi occhi comparisse un balenio come quello che si scorge negli animali selvatici quando temono di essere presi in trappola. Si trovava in mezzo a un mondo ignoto, preoccupato di ciò che poteva accadere, ignaro di ciò che doveva fare, consapevole che la sua andatura e il suo portamento erano goffi, timoroso che ogni suo tratto e ogni sua dote ne fossero inevitabilmente segnati. Ne aveva l’acuta consapevolezza, la frustrante sensazione, e lo sguardo divertito che l’altro gli lanciò furtivamente al di sopra del bordo della lettera lo trapassò, bruciante come una pugnalata. Vide quello sguardo ma non ebbe alcuna reazione perché la disciplina era una delle cose che aveva imparato. Inoltre quel colpo di pugnale lo aveva ferito nell’orgoglio. Si maledì per essere venuto e contemporaneamente decise che, dal momento che era venuto, ce l’avrebbe fatta, in un modo o nell’altro. Gli si indurirono i lineamenti e negli occhi gli affiorò una luce aggressiva. Si guardò intorno in modo più noncurante soffermandosi con attenzione su ciò che vedeva e registrando nel cervello ogni particolare di quel grazioso ambiente. I suoi occhi erano spalancati: nulla sfuggiva alla loro percezione e a mano a mano che bevevano avidamente quella visione di bellezza, svaniva dal suo sguardo la luce aggressiva e subentrava un’espressione di calda simpatia. Egli era sensibile alla bellezza e lì la sua sensibilità aveva trovato di che risvegliarsi.
La sua attenzione fu richiamata da un quadro a olio, in cui un’onda possente si infrangeva su uno scoglio sporgente, mentre il cielo era coperto da nuvoloni minacciosi; al di là della linea dei frangenti una pilotina, che andava di bolina stretta e sbandando rivelava ogni particolare del ponte, stava beccheggiando sullo sfondo del tempestoso cielo al tramonto. Era una visione di bellezza che lo attrasse irresistibilmente. Dimenticando la sua andatura goffa egli si accostò al dipinto, finché gli fu vicinissimo. La tela perse tutta la sua bellezza e il suo viso assunse un’espressione perplessa. Guardò fissamente quello che gli parve un trascurabile scarabocchio e indietreggiò di un passo. Subito l’impressione di bellezza sembrò tornare nella tela. «Un quadro basato su un trucco», pensò rimuovendolo dalla mente, anche se tra tutte le numerose impressioni che percepiva trovò il modo di avvertire una punta di indignazione che tanta bellezza dovesse essere sacrificata a un trucco. Non si intendeva di pittura. Aveva dimestichezza solo con oleografie e litografie che erano sempre definite e nette, da vicino o da lontano. A dire il vero aveva visto quadri a olio esposti nelle vetrine di negozi, ma lo schermo del vetro aveva impedito al suo sguardo ansioso di andar loro troppo vicino.
Si girò a dare un’occhiata all’amico che leggeva la lettera e vide i libri sul tavolo. Subito nei suoi occhi balenò un lampo di acuto desiderio simile a quello che affiora nello sguardo di un affamato alla vista del cibo. Un irrefrenabile impulso lo portò, con un dondolio delle spalle prima a destra e poi a sinistra, al tavolo, dove cominciò a toccare i libri con dolcezza. Guardava i titoli e i nomi degli autori, leggeva brani dei testi accarezzando i volumi con gli occhi e con le mani e, in un caso, riconobbe un libro che aveva letto. Per il resto si trattava di libri e di autori a lui ignoti. Si imbatté in un volume di Swinburne che cominciò a leggere metodicamente, dimentico del posto in cui si trovava, con il viso rosso. Due volte chiuse il libro tenendo il segno con l’indice per guardare il nome dell’autore. Swinburne! Avrebbe ricordato questo nome. Aveva occhi acutissimi costui, e sapeva cogliere i colori e i balenii di luce. Ma chi era questo Swinburne? Era morto da cent’anni o pressappoco, come la maggior parte dei poeti? O era ancora vivo, impegnato a scrivere? Girò il frontespizio… sì, aveva scritto anche altri libri; bene, come prima cosa la mattina dopo sarebbe andato alla biblioteca con prestito gratuito e avrebbe cercato di prendere delle altre cose di Swinburne. Tornò al testo e si immerse nella lettura. Non notò che nella stanza era entrata una giovane donna. Se ne accorse solo quando sentì la voce di Arthur che diceva:
«Ruth, ti presento il signor Eden».
Chiuse il libro tenendo il segno con l’indice e prima di girarsi vibrava già a una sensazione del tutto nuova, che non era dovuta alla ragazza ma alle parole di suo fratello. Sotto quel suo corpo muscoloso palpitava una sensibilità acuta e nervosa. Al minimo impatto del mondo esterno sulla sua coscienza, i pensieri, le simpatie e le emozioni divampavano e guizzavano come fiamme. Era straordinariamente sensibile e reattivo, mentre la sua immaginazione, fortemente stimolata, lavorava incessantemente a stabilire relazioni di somiglianza e differenza. «Signor Eden» era ciò che lo aveva fatto vibrare – lui che per tutta la sua vita era stato chiamato «Eden» o «Martin Eden» o semplicemente «Martin». «Signore!». Era certo un bel progresso, disse fra sé. La sua mente parve trasformarsi, in un attimo, in una vasta camera oscura, in cui vide vorticare innumerevoli immagini della sua vita, di sale delle caldaie e di castelli di prua, di accampamenti e di spiagge, di prigioni e di taverne, di lazzaretti e di strade dei bassifondi, il cui filo conduttore era costituito dal modo in cui le persone si erano rivolte a lui in quelle varie situazioni.
E poi si girò e vide la ragazza. La fantasmagoria del suo cervello svanì alla vista di lei. Era una creatura pallida ed eterea, con occhi azzurri grandi e spirituali e una messe di capelli d’oro. Non capì come fosse vestita, se non che l’abito era meraviglioso come lei. La paragonò a un fiore di un colore oro tenuesu un esile stelo. No, era uno spirito, una divinità, una dea; una bellezza così sublime non era di questa terra. O forse i libri avevano ragione e ce n’erano molte come lei nelle alte sfere della vita. Avrebbe potuto essere cantata da quel Swinburne. Forse aveva avuto in mente qualcuno come lei quando aveva descritto quella ragazza, Isotta, nel libro che era lì sul tavolo. Tutte queste immagini, sensazioni e pensieri si intrecciarono in un attimo senza alcuna intromissione della realtà nella quale si muoveva. Vide la mano di lei tendersi verso la sua e lei guardarlo diritto negli occhi mentre si stringevano la mano con franchezza, come fra uomini. Le donne che aveva conosciuto non stringevano la mano in quel modo. Anzi, la maggior parte di loro non stringeva affatto la mano. Una miriade di associazioni mentali, di visioni dei vari modi in cui aveva fatto la conoscenza di donne, gli inondò la mente minacciando di sommergerla. Ma egli le allontanò e la guardò. Non aveva mai visto una fanciulla del genere. Le donne che aveva conosciuto! E subito pose accanto a lei le donne che aveva conosciuto. Per un attimo eterno si trovò nel mezzo di una galleria di ritratti di cui ella occupava il posto centrale, mentre intorno a lei erano le figure di molte donne, tutte soppesate e misurate con un rapido sguardo con riferimento a lei, unità di peso e di misura. Vide le facce smunte e malaticce delle ragazze di fabbrica e le ragazze smorfiose e sguaiate a sud di Market Street. C’erano le donne dei piccoli accampamenti e le donne olivastre del Vecchio Messico che fumavano sigarette. Queste a loro volta sparirono davanti all’avanzata delle donne giapponesi, che incedevano come bamboline leziose nei loro zoccoli di legno; delle eurasiatiche con i loro lineamenti delicati segnati dalla corruzione; delle prosperose donne delle isole dei Mari del Sud, con pelle scura e ghirlande in testa. Tutte queste furono cancellate da una razza grottesca uscita da un orribile incubo – creature sciatte che si trascinavano lungo i marciapiedi di Whitechapel, megere dei bordelli gonfie di gin, e tutto il seguito di arpie luride e oscene di quel vasto inferno, che presentandosi in mostruose forme femminili depredano i marinai, relitti dei porti, feccia e fango dell’umanità.
«Non vuole sedersi, signor Eden?», stava dicendo la ragazza. «Ero ansiosa di conoscerla fin da quando Arthur ci ha raccontato. È stato molto coraggioso…».
Egli fece con la mano un gesto noncurante e borbottò che non aveva fatto proprio niente e che chiunque lo avrebbe fatto al suo posto. Ella notò che la mano che aveva agitato era coperta di abrasioni recenti in via di guarigione, e un’occhiata all’altra mano che gli pendeva al fianco le rivelò che doveva essere nelle stesse condizioni. Inoltre con uno guardo rapido e acuto notò una cicatrice sulla guancia di lui, un’altra che faceva capolino da sotto i capelli sulla fronte e una terza che scendeva verso il basso scomparendo sotto il colletto inamidato. Frenò un sorriso alla vista della riga rossa che segnava lo strofinio del colletto contro il collo abbronzato. Evidentemente non era abituato a portarlo. Analogamente il suo occhio femminile osservò gli abiti che indossava, il loro taglio dozzinale e privo di eleganza, le pieghe del giaccone sulle spalle e le arricciature delle maniche che denunciavano l’esistenza di braccia gonfie di muscoli.
Mentre agitava la mano e borbottava che non aveva fatto proprio niente, cercò di obbedire al suo invito e di prendere posto sulla sedia. Trovò il tempo di ammirare il modo armonioso con cui ella si sedette prima di precipitarsi verso la sedia di fronte a quella di lei, sopraffatto dalla consapevolezza della sua goffaggine. Questa era un’esperienza nuova per lui. Per tutta la vita fino ad allora non aveva avuto coscienza di essere aggraziato o goffo: pensieri di questo genere non gli avevano mai attraversato il cervello. Si sedette con circospezione sul bordo della sedia, preoccupatissimo di dove mettere quelle sue mani, così ingombranti dovunque le mettesse. Arthur stava uscendo dalla stanza e Martin Eden ne seguì l’uscita con uno sguardo voglioso. Si sentiva perduto, solo in quella stanza con quella donna pallida e spirituale. Non c’era alcun bettoliere da chiamare perché portasse da bere, nessun garzone da mandare al locale dietro l’angolo a prendere un boccale di birra con cui inaugurare un rapporto di cordiale amicizia.
«Che cicatrice ha sul collo, signor Eden», stava dicendo la ragazza. «Com’è successo? Sono sicura che deve essere stata una qualche avventura».
«Un messicano col coltello, signorina», rispose inumidendosi le labbra riarse e schiarendosi la gola. «È stata solo una rissa. Dopo che gli ho portato via il coltello ha cercato di staccarmi il naso con un morso».
Per quanto l’avesse liquidata in quel modo, nei suoi occhi erano rimasti i ricchi particolari di quella calda notte stellata a Salina Cruz, la bianca striscia della spiaggia, le luci delle navi cariche di zucchero nel porto, le voci dei marinai ubriachi in lontananza, gli stivatori che si spingevano, la fiammeggiante rabbia sulla faccia del messicano, il brillio animalesco dei suoi occhi alla luce delle stelle, la puntura dell’acciaio sul collo e il fiotto di sangue, la folla e le grida, i due corpi, il suo e quello del messicano, avvinghiati, che si rotolavano più volte lasciando segni sulla sabbia, e in una vaga lontananza i dolci accordi di una chitarra. Questa era l’immagine, e lui rabbrividiva ancora a ricordarla, e si chiedeva se quello che aveva dipinto la pilotina nel quadro sul muro sarebbe stato in grado di raffigurarla. La spiaggia bianca, le stelle e le luci delle navi cariche di zucchero sarebbero state splendide, pensava, come sfondo per il gruppo di opache figure che sulla sabbia, nel mezzo del quadro, circondavano i due contendenti. Decise che il coltello avrebbe dovuto avere un posto preciso nel dipinto e che sarebbe stato ben visibile, con una specie di bagliore, alla luce delle stelle. Ma di tutto ciò nulla era entrato nelle sue parole. «Ha cercato di staccarmi il naso con un morso», concluse.
«Oh», disse la ragazza con una voce tenue e lontana, ed egli notò dal suo viso sensibile che ne era rimasta colpita.
Provò anch’egli una forte impressione e un rossore imbarazzato gli coprì leggermente le guance bruciate dal sole, benché il calore che sentiva fosse fortissimo, come quando il viso veniva esposto alle vampate che uscivano dal portello aperto della fornace nella sala macchine. Argomenti sordidi come le risse di coltello evidentemente non erano adatti per una conversazione con una signora. Negli ambienti che frequentava, nei libri che leggeva, la gente non parlava di quelle cose, forse non sapeva neppure che esistessero.
Ci fu una breve pausa nella conversazione che cercavano di avviare. Poi lei fece una cauta domanda sulla cicatrice della guancia. Mentre la formulava, egli si rese conto che la fanciulla stava facendo uno sforzo per parlare il linguaggio di lui, e decise di non seguirla e di parlare invece il linguaggio di lei.
«È stato solo un incidente», rispose portandosi la mano alla guancia. «Una notte durante una bonaccia ma col mare grosso si spezzò il mantiglio del boma, e poi il paranco. Era di filo metallico e guizzava come una serpe. Tutti quelli di guardia cercavano di afferrarlo e mi sono buttato anch’io e sono stato beccato».
«Oh», esclamò lei, questa volta con un accento di comprensione, benché tutto quel discorso fosse stato greco per lei, che si chiedeva che cosa fosse un mantiglio e che cosa volesse dire beccato.
«Quest’uomo, Swineburne», cominciò, cercando di mettere in esecuzione il suo piano e pronunciando la i come ai.
«Chi?».
«Swineburne», ripeté, sempre con la stessa pronuncia. «Il poeta».
«Swinburne», corresse lei.
«Sì, quello lì», balbettò lui con le guance di nuovo infuocate. «Quanto tempo fa è morto?».
«Ma non mi risulta che sia morto». Lei lo guardò con curiosità. «Dove lo ha conosciuto?».
«Non l’ho mai visto in faccia», fu la risposta. «Ma ho letto qualcosa della sua poesia da quel libro lì sul tavolo proprio prima che lei venisse. Le piace la sua poesia?».
A quel punto la fanciulla cominciò a parlare rapidamente e fluentemente sull’argomento da lui suggerito. Egli si sentiva più a suo agio e si accomodò un po’ meglio sulla poltrona tenendosi stretto ai braccioli con le mani, come se essa gli potesse essere sottratta facendolo cadere sul pavimento. Era riuscito a farla parlare con il proprio linguaggio, e mentre ella continuava si sforzò di seguirla, meravigliandosi di tutta la cultura immagazzinata in quella graziosa testolina e contemplando la pallida bellezza del viso di lei. Riusciva a seguirla, per quanto perplesso per le parole inconsuete che le uscivano scioltamente dalle labbra e per espressioni critiche e processi mentali che erano estranei alla sua mente, ma che ciò nonostante la stimolavano e la facevano fremere. Qui c’era vita intellettuale, pensò, e c’era anche bellezza, calda e splendida come non aveva mai pensato potesse esistere. Dimenticò se stesso e la fissò con occhi avidi. Ecco qualcosa per cui vivere, da cercare di conquistare, per cui combattere – sì, per cui si poteva persino morire. I libri erano veri. Al mondo c’erano donne così e lei era una di loro. Ella diede ali alla sua immaginazione, e tele grandi e luminose apparvero davanti a lui, nelle quali emergevano figure vaghe e gigantesche di amore e di avventura, e di imprese eroiche compiute per la donna – per una donna pallida, per un fiore d’oro. E attraverso la visione ondeggiante e palpitante fissava, come attraverso un miraggio incantato, la donna reale che era seduta lì e parlava di letteratura e di arte. Ascoltava anche, ma soprattutto guardava, inconsapevole della fissità del suo sguardo o del fatto che nei suoi occhi brillava tutto quello che nella sua natura era tipicamente mascolino. Ma lei, che poco conosceva il mondo degli uomini, essendo una donna, avvertiva chiaramente la presenza di quegli occhi ardenti. Non era mai stata vicino a uomini che la guardassero in quel modo, e ne era imbarazzata. Incespicò e tentennò nel suo discorso e perse il filo del ragionamento. Era intimorita, ma contemporaneamente avvertiva uno strano piacere nell’essere guardata in quel modo. La sua educazione l’avvertì della presenza del pericolo e di un allettamento insano, sottile e misterioso; mentre i suoi istinti urlavano a gran voce in tutto il suo essere, spingendola a superare d’un balzo casta e posizione per raggiungere questo viaggiatore di un altro mondo, questo rozzo giovanotto con le mani lacerate e una riga rossa causata dalla presenza intorno al collo di un indumento insolito, il quale, presumibilmente, era contaminato e segnato da un’esistenza ingrata. Lei era incontaminata, e la sua purezza si ritraeva; ma era anche donna e proprio allora cominciava a prendere coscienza delle contraddizioni dell’animo femminile.
«Come stavo dicendo… che cosa stavo dicendo?». Si interruppe di colpo e rise allegramente di ciò che le era capitato.
«Lei stava dicendo che questo qui, questo Swinburne, non è riuscito a essere un grande poeta perché… e poi lì si è bloccata, signorina», le rammentò lui, mentre gli parve all’improvviso di sentire fame e deliziosi brividi gli correvano su e giù per la spina dorsale al suono della risata di lei. Come argento, pensò, come il tintinnio di campane argentine e immediatamente, per un istante, fu trasportato a una terra lontana, dove sotto rosei fiori di ciliegio fumava una sigaretta e ascoltava i rintocchi della pagoda con il tetto aguzzo che invitavano alla preghiera devoti con calzari di paglia.
«Sì, grazie», ella disse. «Swinburne fallisce, alla fin fine, perché è, beh… indelicato. Molte delle sue poesie non dovrebbero mai essere lette. Ogni verso dei poeti veramente grandi è pieno di verità e bellezza ed evoca tutto ciò che è elevato e nobile nell’uomo. Nessun verso dei grandi poeti potrebbe essere eliminato senza con ciò provocare un impoverimento nel mondo».
«Io pensavo che era grande», disse egli esitante, «quel poco che ho letto, non avevo idea che era un… mascalzone così. Immagino che questo venga fuori dai suoi altri libri».
«Ci sono molti versi che potrebbero essere eliminati nel libro che lei stava leggendo», ella disse con voce misuratamente ferma e dogmatica.
«Mi devono essere sfuggiti», annunciò lui. «Quello che ho letto era roba buona. Era tutto pieno di luce e scintillava, e splendeva dentro di me e mi illuminava tutto, come il sole o come la luce di un faro. È così che l’ho sentito, ma immagino di non essere un grande intenditore di poesia, signorina».
Si interruppe frustrato. Era confuso e dolorosamente consapevole della sua incapacità espressiva. Aveva avvertito la grandezza e il calore della vita in ciò che aveva letto, ma le sue parole erano inadeguate. Non riusciva a comunicare ciò che sentiva e fra sé si paragonò a un marinaio su una nave sconosciuta in una notte buia, che brancolava toccando attrezzature il cui funzionamento gli era ignoto. Bene, decise, stava a lui farsi conoscere in questo mondo nuovo. Non aveva mai visto nulla di cui non fosse riuscito a cogliere il senso se lo avesse voluto ed era giunto il momento in cui voleva parlare delle cose che sentiva dentro di sé in modo che ella capisse. Lei diventava sempre più grande al suo orizzonte.
«Ora Longfellow…», stava dicendo la ragazza.
«Sì, l’ho letto», interloquì impulsivamente, desideroso di mettersi in mostra e di sfoggiare quel po’ di cultura letteraria che aveva, voglioso di farle vedere che non era proprio un bietolone. «Il Salmo della Vita, l’Excelsior e… be’, ho letto solo questi».
Ella annuì e sorrise, ed egli sentì confusamente che era un sorriso di tolleranza e di pietà. Era stato uno stupido a tentare di bleffare a quel modo. Probabilmente quel Longfellow aveva scritto una grande quantità di libri di poesia.
«Mi scusi, signorina, di averla interrotta così; il fatto è che so proprio poco di queste cose. Non sono del mio giro; ma le farò entrare nel mio giro».
Pronunciò queste parole come una minaccia, con voce decisa, occhi fiammeggianti e un’espressione determinata sul viso. Alla ragazza parve che la linea della mascella si fosse modificata, assumendo un taglio sgradevolmente aggressivo. Contemporaneamente un’intensa vampata di virilità sembrò emanare da lui e investirla.
«Penso che lei abbia le capacità di… farle entrare nel suo giro», concluse con una risata. «È un uomo forte».
Lo sguardo di lei si soffermò per un istante su quel collo muscoloso, nerboruto, quasi taurino, abbronzato dal sole, traboccante di sana rudezza e di possanza. E benché egli rimanesse seduto con il viso rosso e l’espressione umile, ella si sentì di nuovo attratta da lui. Fu sorpresa da un pensiero malizioso che le sorse nella mente. Le sembrava che se avesse potuto posare le mani su quel collo, tutta quella forza e tutto quel vigore sarebbero entrati in lei. Rimase traumatizzata da questo pensiero che pareva rivelare un’inattesa depravazione della sua natura. Inoltre per lei la forza era una cosa grossolana e volgare: il suo ideale maschile era l’uomo esile e aggraziato. Tuttavia quel pensiero persisteva. Quel desiderio di posare le mani sul collo bruciato dal sole la sbigottiva. In realtà lei era tutt’altro che robusta e aveva bisogno della forza altrui, per il corpo e per la mente. Ma non lo sapeva: sapeva solo che nessun uomo l’aveva mai colpita come questo, che la sconvolgeva continuamente con la sua orribile grammatica.
«Sì, ho una salute di ferro», diceva lui. «Se devo dire la verità digerisco anche i sassi. Ma proprio adesso mi è venuto un attacco di dispepsia. Buona parte di quello che lei ha detto non riesco a digerirlo. Non ho avuto una preparazione adatta, capisce. Mi piacciono i libri e la poesia, e il tempo libero che ho lo passo a leggere, ma non ci ho mai pensato come lei. Ecco perché non riesco a parlarne. Sono come un navigatore alla deriva senza carta e bussola in un mare sconosciuto. Ma ora voglio trovare l’orientamento e forse lei può aiutarmi. Come ha fatto a imparare tutte le cose che ha detto?».
«Andando a scuola, penso, e studiando», rispose.
«Io sono andato a scuola da bambino», protestò lui.
«Sì, ma io parlo del liceo, dei corsi superiori, dell’università».
«È andata all’università?» chiese, francamente sorpreso. Ebbe l’impressione che ella si fosse allontanata da lui di milioni di miglia.
«Ci sto andando adesso. Seguo corsi speciali di inglese».
Egli non sapeva che cosa intendesse con quella denominazione, ma fece un’altra domanda dopo avere preso atto mentalmente di questa lacuna.
«Quanto dovrei studiare prima di poter andare all’università?».
La fanciulla accolse con un sorriso di incoraggiamento questo desiderio di cultura e disse: «Dipende da quanti anni ha già fatto. Lei non ha mai frequentato le superiori, vero? Ma ha finito la scuola media?».
«Quando ho lasciato perdere mi mancavano due anni», rispose. «Però a scuola sono sempre stato promosso con buoni voti».
Non appena ebbe pronunciato queste parole, si pentì di essersi fatto trascinare dalla vanità; fu invaso da una grande rabbia e strinse i braccioli della poltrona con tale forza che le punte delle dita gli fecero male. Contemporaneamente si accorse che una donna stava entrando nella stanza. Vide la ragazza alzarsi dalla sedia e dirigersi rapidamente verso la nuova venuta. Si baciarono e avanzarono verso di lui tenendosi allacciate per la vita. Martin pensò che la donna, alta, bionda, bella, maestosa pur nella sua snellezza, doveva essere la madre. Il vestito di lei era adeguato allo stile e all’eleganza di quella casa, ed egli ne contemplava con ammirazione le linee aggraziate. La donna e il vestito gli facevano venire in mente le attrici sul palcoscenico. Quindi ricordò di aver visto grandi dame e abbigliamenti eleganti anche all’entrata dei teatri di Londra, e di essere stato costretto dai poliziotti a uscire sotto la pioggia fine e insistente, abbandonando la tettoia sotto la quale aspettava insieme con altri curiosi. Poi la mente gli tornò al Grand Hotel di Yokohama dove, sempre stando fuori sul marciapiede, aveva visto altre grandi dame. E allora, come in un lampo, la città e il porto tornarono a passargli davanti agli occhi in miriadi di immagini. Tuttavia si affrettò a soffocare il caleidoscopio della memoria sotto la tormentosa ossessione dei problemi del presente. Capiva che doveva superare la prova della presentazione e con grande difficoltà si alzò, restando in piedi con i pantaloni che gli facevano le borse alle ginocchia, le braccia pendule e ridicole e la faccia tesa per l’imminente cimento.
II
Visse come un incubo l’ingresso nella sala da pranzo. Fra le fermate e gli ostacoli, i balzi e gli scatti, il movimento gli era a volte parso impossibile, ma alla fine ce l’aveva fatta e si era trovato seduto accanto a Lei. Lo schieramento delle posate lo sgomentò. Le fissava affascinato temendone gli ignoti pericoli, finché quel luccichio divenne uno sfondo luminoso per una successione di visioni del castello di prua in cui era seduto con i compagni a mangiare carne salata infilzandola con il coltello e aiutandosi con le dita, o raccogliendo da una ciotola di latta una densa zuppa di piselli con ammaccati cucchiai di ferro. Sentiva ancora alle narici l’odore sgradevole della carne andata a male, mentre alle orecchie riecheggiava lo strepito della bocca e delle labbra dei marinai che masticavano, accompagnato dagli scricchiolii del legno e dai gemiti delle paratie. Osservando gli altri aveva deciso che mangiavano da maiali. Qui sarebbe stato attento: non avrebbe fatto alcun rumore. Doveva fare in modo di non dimenticarsene mai.
Con lo sguardo fece il giro della tavola. Di fronte a lui si trovavano Arthur e il fratello Norman. Gli venne in mente che erano i fratelli della ragazza e provò per loro un grande affetto. Come si volevano bene, i membri di quella famiglia! Gli balenò nel ricordo l’immagine della madre di lei, del bacio di saluto e delle due donne che venivano verso di lui allacciate. Non aveva mai visto tali manifestazioni di affetto fra genitori e figli. Ebbe la rivelazione della grandezza dei sentimenti che poteva esserci nell’alta società. Era la cosa più bella che avesse visto nella sua breve esperienza di questo mondo. Ne rimase profondamente commosso e si sentì struggere il cuore per la tenerezza. Per tutta la vita aveva sognato l’amore. Aveva fame d’amore. Era per lui un’esigenza organica. Tuttavia aveva dovuto farne a meno, e questo l’aveva reso duro. Non aveva mai saputo di avere bisogno di amore, e neppure ora ne aveva la consapevolezza, ma lo sentiva in sé, ne era esaltato e pensava che fosse una cosa bella, elevata e meravigliosa.
Fu lieto che non fosse presente il sgnor Morse, perché era già abbastanza difficile fare la conoscenza di lei, della madre e del fratello Norman, mentre conosceva già abbastanza Arthur. Ma il padre sarebbe stato troppo per lui, ne era certo. Gli sembrava di non aver mai faticato tanto in vita sua. Lo sforzo più duro era cosa da ragazzi al confronto. Aveva la fronte imperlata di sudore e la camicia bagnata per lo sforzo di dover fare tante cose insolite contemporaneamente. Doveva mangiare come non aveva mai mangiato prima, guardarsi intorno furtivamente per imparare come si eseguissero tutti quei nuovi compiti, ricevere il flusso delle impressioni che lo investivano, imprimersele nella mente e classificarle; riconoscere il desiderio che provava per la ragazza, un desiderio che gli provocava una sorda e dolorosa irrequietezza; sentire l’impulso di muoversi nell’ambiente in cui lei viveva e rincorrere fantasie e vaghi progetti sul modo di arrivare fino a lei. Inoltre, quando il suo sguardo furtivo si posava su Norman che sedeva di fronte a lui, o su qualcun’altro, per capire quale coltello o quale forchetta dovessero essere usati in una certa occasione, cercava di imprimere quelle fattezze nella mente, la quale automaticamente si sforzava di valutarle e di capire che rapporti avessero con lei. Doveva poi parlare, sentire ciò che gli veniva detto e che cosa dicevano gli altri parlando fra loro, e rispondere, quando era necessario, cercando di tenere a freno la propria loquacità. E per aggiungere confusione a confusione c’era la continua minaccia del domestico che gli compariva silenzioso alle spalle, una Sfinge sinistra che presentava enigmi e rompicapo e ne esigeva l’immediata soluzione. Per tutto il pasto fu tormentato dal pensiero delle coppette dell’acqua. Incessantemente, e senza motivo, si chiedeva quando sarebbero arrivate e che aspetto avessero. Aveva sentito parlare di simili oggetti e adesso, prima o poi, nel giro di pochi minuti li avrebbe visti, sedendo allo stesso tavolo che ospitava individui superiori abituati ad usarli e, – sì, li avrebbe usati egli stesso. Ma soprattutto, al fondo del suo pensiero ma ad esso sempre presente, era il problema di come si sarebbe dovuto comportare verso queste persone. Quale doveva essere il suo atteggiamento? Era una questione che dibatteva continuamente dentro di sé con grande ansia. A volte una voce gli suggeriva che avrebbe dovuto codardamente fingere ciò che non era e recitare una parte, altre volte ne sentiva un’altra che ancor più vigliaccamente lo ammoniva a non farlo; questa scelta lo avrebbe certamente condotto al disastro, perché tale condotta non era nella sua natura e si sarebbe coperto di ridicolo.
Durante la prima parte del pranzo, mentre si arrovellava per decidere su come si sarebbe dovuto comportare, rimase molto tranquillo. Non sapeva che questa calma smentiva ciò che Arthur aveva detto il giorno prima, quando aveva annunciato che avrebbe portato a pranzo un uomo turbolento, ma di non allarmarsi perché lo avrebbero trovato interessante. Martin Eden non avrebbe mai creduto, in quel momento, che il fratello di lei avesse potuto commettere verso di lui un tale tradimento – specialmente dopo che, grazie a lui, questo stesso fratello era uscito indenne da una sgradevole rissa. Rimase dunque seduto a tavola preoccupato della propria inadeguatezza e nel contempo affascinato da tutto ciò che avveniva intorno a lui. Per la prima volta capì che mangiare non era soltanto una funzione vitale. Non si accorgeva di ciò che ingeriva, non era consapevole della qualità del cibo. Poteva indulgere al suo amore per la bellezza a quella tavola, in cui il mangiare aveva una funzione estetica. Ma esso aveva anche una funzione intellettuale: la sua mente ne era stimolata. Sentì pronunciare parole che per lui non avevano alcun senso, e altre che aveva visto solo nei libri e che nessuno di sua conoscenza poteva legittimamente usare in virtù della propria statura intellettuale. Quando udiva queste parole uscire con noncuranza dalle labbra dei membri di questa meravigliosa famiglia, la famiglia di lei, era colto da un brivido di piacere. Il fascino romanzesco, la bellezza, il nobile vigore dei libri si stavano avverando. Era in quel raro stato di beatitudine in cui l’uomo vede i propri sogni uscire dalle nebbie della fantasia e diventare concreti.
Non si era mai trovato a tali altezze dell’esistenza e si teneva in disparte: ascoltava, osservava e si beava, limitandosi a rispondere con reticenti monosillabi «Sì, signorina», e «No, signorina», a lei e «Sì, signora» e «No, signora» alla madre. Frenò l’impulso suscitato dalla sua esperienza in marina a dire «Signorsì», e «Signornò» ai fratelli. Sentiva che sarebbe stato fuori luogo e che sarebbe stata una ammissione di inferiorità da parte sua, assolutamente da evitare se voleva aspirare a lei. Ne era anche frenato dal proprio orgoglio. «Per Dio», disse fra sé a un certo punto. «Valgo quanto loro, e se sanno un mucchio di cose che io non conosco, potrei impararne anch’io un bel po’!». Ma subito dopo, quando la ragazza o la madre si rivolgevano a lui chiamandolo «Signor Eden», la sua aggressiva fierezza spariva e si sentiva avvolgere da una calda felicità. Era un uomo civile, proprio così, e si trovava a pranzo accanto a persone delle quali aveva letto nei libri. Anche lui era nei libri, nelle avventure narrate sulle pagine stampate di libri rilegati.
Ma mentre smentendo la descrizione di Arthur si rivelava più come un agnello mansueto che come un uomo turbolento, Martin si lambiccava il cervello per decidere che linea dovesse seguire. Non era proprio una creatura mite e la parte di comprimario mal si adattava alla sua indole imperiosa. Parlava solo quando non poteva farne a meno e allora il suo eloquio assomigliava al modo in cui si era avvicinato alla tavola, punteggiato da scatti e arresti mentre cercava le parole nel suo lessico poliglotta, indeciso se usare parole che sapeva essere appropriate ma temeva di non saper pronunciare e scartandone altre che capiva non sarebbero state comprese oppure sarebbero risuonate aspre e sgradevoli. Per tutto il tempo fu comunque schiacciato dalla consapevolezza che la sua ricerca di una buona dizione lo esponeva al ridicolo, impedendogli di esprimere ciò che sentiva in sé. Inoltre il suo amore per la libertà pativa le restrizioni proprio come il collo mal sopportava l’inamidata prigionia del colletto. Si aggiunga che sentiva di non poter resistere a lungo. La natura gli aveva dato grande sensibilità e intelligenza, e l’esigenza di esprimere ciò che urgeva dentro di sé. Presto fu sopraffatto dal desiderio di dare forma alle sensazioni che gli ribollivano dentro, e allora dimenticava chi era e dove si trovava, e le vecchie parole – gli strumenti del linguaggio che conosceva – gli uscivano inavvertitamente dalla bocca.
Una volta rifiutò una cosa offertagli da un domestico, il quale lo aveva interrotto toccandolo insistentemente sulla spalla, con un brusco «Beh?».
A questa reazione tutti i commensali fissarono gli occhi su di lui mentre il domestico guardava compiaciuto per la sua mortificazione. Ma si riprese subito.
«È un termine in lingua kanaka che significa “basta”», disse, «e mi è venuto spontaneamente. Si scrive B – E – H». Vide che lei gli fissava le mani con uno sguardo interrogativo e curioso e continuò nelle spiegazioni:
«Sono appena venuto giù lungo la Costa con un battello postale del Pacifico. Era in ritardo e nei dintorni dei porti del Puget Sound abbiamo lavorato come negri a caricare – un carico misto, non so se ha idea di che cosa vuol dire. Ecco perché ho la pelle sbucciata».
«Oh, non era per questo», si affrettò a spiegare a sua volta la ragazza. «È che ho l’impressione che lei abbia mani troppo piccole rispetto al corpo».
Martin si sentiva il viso in fiamme: quell’osservazione gli era sembrata un’altra denuncia delle sue lacune.
«Sì», disse in tono umile. «Non sono abbastanza grandi da sopportare gli sforzi. Sono capace di pestare come un fabbro con la forza che ho nelle spalle e nelle braccia. Sono così possenti che se picchio uno sul mento mi faccio male alla mano».
Si pentì subito di quelle parole e sentì una grande rabbia contro se stesso. Non era riuscito a tenere a bada la lingua e aveva finito per dire cose di cui non stava bene parlare.
«È stato molto coraggioso ad aiutare Arthur in quel modo, tanto più che per lei era un estraneo», disse lei con tatto, consapevole che si era sentito umiliato pur senza averne capito il motivo.
«Non è stato proprio niente», rispose. «L’avrebbe fatto chiunque al mio posto. Quel branco di teppisti era in cerca di guai, e Arthur non gli aveva fatto niente. Si sono buttati su di lui, e allora io mi sono buttato su di loro e ne ho stesi un po’. È lì che mi è venuta via un po’ di pelle dalle mani, è rimasta a terra insieme coi denti di quelli della banda. Ne valeva la pena. Quando ho visto…».
Si fermò con la bocca aperta sul baratro della propria depravazione: proprio non meritava di respirare la stessa aria di lei. E mentre Arthur ricominciava per la ventesima volta il racconto della sua avventura con i teppisti ubriachi sul traghetto e di come Martin Eden si fosse precipitato in suo soccorso, questi meditava con la fronte aggrottata sulla figuraccia che aveva fatto, affrontando per l’ennesima volta il problema di come dovesse comportarsi con quelle persone. Fino ad allora non era certamente stato un successo. Non apparteneva a quella tribù e non ne sapeva il dialetto, disse fra sé. Non poteva farsi passare per uno di loro. L’inganno sarebbe stato scoperto, anche perché era estraneo alla sua natura. In lui non c’era posto per finzioni o artifici. Doveva rimanere se stesso a qualunque costo. Al momento non era in grado di esprimersi come loro, ma con il tempo ci sarebbe riuscito. Di questo aveva la certezza. Nel frattempo doveva pur parlare, e avrebbe parlato come sapeva, cercando di moderarsi un po’, naturalmente, in modo da riuscir loro comprensibile e non scandalizzarli troppo. E inoltre non avrebbe mai lasciato intendere, neppure con un tacito assenso, di conoscere cose di cui non aveva la più pallida idea. Avendo deciso di seguire questa linea di condotta, quando ebbe sentito che i due fratelli, parlando dell’università, usavano diverse volte il termine «trigo», chiese loro:
«Che cosa vuol dire trigo?».
«Trigonometria», disse Norman, «una forma superiore di mate».
«E mate che cosa vuol dire?», fu la nuova domanda che, per qualche motivo, fece ridere Norman.
«Matematica, aritmetica», fu la risposta.
Martin Eden annuì. Per un attimo gli erano balenate davanti agli occhi le sconfinate distese della cultura, e quella visione assunse concretezza. La sua eccezionale potenza visiva dava forma concreta all’astratto. Nell’alchimia del suo cervello la trigonometria, la matematica e tutto l’intero campo del sapere adombrato nei discorsi dei fratelli si tramutava in distese di paesaggio. I panorami che vedeva erano panorami di verde fogliame e di radure di foreste, tutti soavemente luminosi, o macchiati da sprazzi di luce. In lontananza, i particolari erano velati o smussati da una bruma violacea, ma, al di là della bruma violacea c’era, e lui lo sapeva, lo splendore dell’ignoto, il richiamo del romanzesco, inebriante come un vino. Ecco l’avventura, ecco qualcosa da fare con la testa e con la mano, un mondo da conquistare; e subito, dal fondo della sua coscienza, balzò il pensiero: Vincereconquistarlaconquistare quello spirito del bianco del giglio che gli stava accanto.
La scintillante visione fu squarciata e dissolta da Arthur, che per tutta la sera aveva cercato di far emergere la turbolenza del suo uomo. Martin Eden si ricordò della propria decisione e per la prima volta fu se stesso, dapprima consciamente e deliberatamente, ma presto con pieno abbandono alla gioia della creazione e allo sforzo di far apparire agli occhi degli ascoltatori la vita quale egli la conosceva. Era membro dell’equipaggio della goletta contrabbandiera Halcyon quando questa fu sequestrata da un cutter della guardia di finanza. Rivedeva tutto a occhi aperti e riusciva a raccontarlo, portando davanti al loro sguardo il palpito del mare, e gli uomini e le navi che sul mare si muovevano. Esercitò le sue doti di veggente, finché videro con i suoi occhi ciò che egli aveva visto. Sceglieva dalla grande massa di particolari con il tocco dell’artista, tracciando immagini di vita che si accendevano di luci e di colori e conferendo loro un tale movimento che gli ascoltatori venivano lanciati verso l’alto sull’onda di quella rozza eloquenza, di quell’entusiasmo, di quella forza. A volte li scandalizzava con la vivezza della narrazione e la crudezza del linguaggio, ma la violenza era sempre accompagnata dalla bellezza, e la tragedia attenuata dal senso dell’umorismo, dalle interpretazioni che dava delle strane distorsioni e delle bizzarrie della mente dei marinai.
E mentre parlava, la ragazza lo guardava con occhi sbigottiti, scaldata da quella fiammata. Si chiedeva se fino ad allora la sua esistenza non fosse stata avvolta da un grande freddo e voleva avvicinarsi a quell’uomo di fuoco, ardente come un vulcano che emette forza, vigore e salute. Si sentiva spinta verso di lui e resisteva a quell’impulso. Avvertiva anche un istinto opposto, che l’induceva ad allontanarsene. Provava avversione per quelle mani escoriate, annerite dalla fatica al punto tale che le lordure della vita erano penetrate nella carne stessa, per quella rossa irritazione del colletto e per quei muscoli gonfi. La sua rozzezza la spaventava; ogni espressione rude era un insulto per le orecchie, ogni episodio di violenza un insulto per l’anima. E sempre tornava quell’attrazione verso di lui, finché cominciò a pensare che doveva essere una creatura malvagia per esercitare tanto potere su di lei. Tutto ciò che nella sua mente era saldo cominciava a vacillare. Le sue avventure romanzesche facevano crollare le convenzioni. Davanti a quella tranquillità nello sfidare i pericoli, davanti a quella schietta risata, la vita non era più una questione da affrontare con serietà e rigore, ma un balocco da maneggiare e rovesciare, da vivere e godere con noncuranza e da gettare da una parte con altrettanta noncuranza. «Gioca allora!», era il grido che sentiva risuonare in sé. «Accostati a lui, se ne hai voglia, e posagli le mani sul collo!». Avrebbe voluto urlare per l’audacia di quel pensiero, e invano esaltò la propria pulizia e la propria cultura, pensando a tutto ciò che vedeva in se stessa e non in lui. Si guardò intorno e notò che gli altri lo fissavano rapiti; sarebbe caduta nella disperazione se non avesse visto l’orrore negli occhi della madre – orrore affascinato, ma pur sempre orrore. Quest’uomo che veniva dall’oscurità circostante era il male. La mamma l’aveva capito, aveva ragione. Si sarebbe affidata al suo giudizio, come aveva sempre fatto per tutto. Il fuoco che emanava da lui non dava più calore, la paura che incuteva non era più così intensa.
Più tardi, al pianoforte, lei suonò per lui e contro di lui, in modo aggressivo, con la vaga intenzione di far rimarcare l’incolmabile baratro da cui erano separati. La musica era come una clava picchiata brutalmente contro la testa di lui che, pur stordito e a terra, si rialzava pronto alla lotta. Egli la guardava con timore; nella sua mente, come in quella di lei, la divisione fra loro si allargava sempre più, ma ancor più forte egli sentiva in sé l’ambizione di raggiungerla. E tuttavia il viluppo delle sue sensazioni era troppo complesso perché si accontentasse di passare la sera a contemplare quell’abisso che li teneva lontani, soprattutto se c’era musica. Era molto sensibile a quei suoni, che gli accendevano i sensi come un forte liquore, – come una droga che dominando la sua immaginazione la sollevava fino alle nuvole e ne seguiva il volo nel cielo. Faceva svanire le brutture della realtà, lo immergeva in un’aura di bellezza, liberava le sue fantasie romantiche e dava loro ali. Non capiva la musica che ella suonava, diversa da quella del pianoforte martellato nelle sale da ballo e dal fracasso degli strumenti a fiato delle bande. Di questa musica aveva trovato cenni nei libri, e accettava sulla fiducia ciò che la ragazza suonava, dapprima in paziente attesa delle cadenze di ritmi semplici e pronunciati, e in preda alla perplessità perché questi non duravano a lungo. Dopo che era riuscito a percepirli e si era preparato a seguirne il movimento con il volo dell’immaginazione, eccoli sparire in una caotica confusione di suoni privi di significato che riportava a terra la fantasia come un corpo inerte.
A un certo punto gli venne in mente che in tutto ciò vi fosse un esplicito rifiuto. Avvertito del suo atteggiamento antagonistico si sforzò di decifrare il messaggio che le mani di lei gli lanciavano attraverso la tastiera. Tuttavia liquidò quel pensiero come indegno e impossibile e si abbandonò alla musica con un trasporto ancora maggiore, ritrovando il precedente stato di felicità. I piedi non erano più di argilla, la carne si era trasformata in spirito; davanti agli occhi gli balenò una gloriosa visione: poi la scena sparì e Martin fu trasportato lontano, e si sentì fluttuare su quel mondo che gli era molto caro. Il noto e l’ignoto si mescolavano nella fantasmagoria che gli splendeva davanti. Entrava in strani porti di paesi inondati dal sole e percorreva piazze di mercati in mezzo a popolazioni barbariche che nessuno aveva visto mai. Aveva nelle narici il profumo delle isole delle spezie come lo aveva percepito nelle calde e soffocanti notti sul mare, o mentre faceva rotta contra gli alisei nelle lunghe giornate tropicali fra isolette coralline sormontate da ciuffi di palme che sparivano, e altre che spuntavano nel turchese del mare. Rapide come il pensiero andavano e venivano quelle visioni: ora volava a cavallo di un «bronco» sul variopinto paesaggio del Painted Desert; ora guardava dall’alto nel tremolante filtro della calura il bianco sepolcro della Valle della Morte, o immergeva con forza il remo nel gelido oceano in cui grandi isole di ghiaccio torreggiavano lucenti nel brillio del sole. Era sdraiato su una spiaggia di corallo dove gli alberi di cocco arrivavano fino a dove il mare si infrangeva nel dolce suono della risacca. La mole di una vecchia nave naufragata era illuminata dalle fiamme azzurre di falò, alla cui luce danzatori di hula ballavano seguendo primitivi richiami d’amore, intonati dai cantori sullo strimpellare dell’ukulele e sul rullo del tam-tam. Era una sensuale notte tropicale, con un pallido spicchio di luna sospeso nel cielo e la Croce del Sud che bruciava bassa all’orizzonte.
Martin era come un’arpa, le cui corde erano formate dalla vita che aveva vissuto e dalla coscienza che ne era nata; e il flusso della musica era come un vento che soffiando contro di loro le faceva vibrare di ricordi e di sogni. Non provava solo sensazioni: queste si rivestivano di forme, di colori e di luminosità che conferivano una magica e sublimata concretezza alle audaci creazioni della sua immaginazione. Passato, presente e futuro si fondevano mentre attraversava oscillando il vasto e caldo mondo per giungere, fra grandi avventure e nobili imprese, fino a Lei – sì, per rimanere con lei, conquistarla, circondarla con le proprie braccia e portarla in volo nell’empireo della mente.
Volgendo il capo per guardarlo al di sopra della spalla lei gli lesse sul viso qualcosa di tutto ciò. Era un volto trasfigurato con grandi occhi luminosi che tentavano di superare il velo dei suoni, cercando di cogliere oltre quella cortina i palpiti e le pulsazioni della vita e i giganteschi fantasmi dello spirito. Ne fu sbigottita. Il tanghero rozzo e impacciato era scomparso. Restavano gli abiti mal tagliati, le mani escoriate e il viso bruciato dal sole; ma questi parevano le sbarre dell’inferriata alla finestra di una prigione attraverso la quale ella vedeva spuntare un animo grande, muto e inespresso perché quelle deboli labbra non erano in grado di farlo parlare. Tutto ciò durò pochissimo; in seguito vide tornare lo zotico e rise di quello scherzo della fantasia. Ma l’impressione di quell’attimo fuggevole rimase e quando venne l’ora in cui egli dovette andarsene con la sua goffa andatura gli prestò lo Swinburne e un altro volume di Browning, che usava in uno dei suoi corsi di inglese. Le parve così infantile, mentre in piedi davanti a lei arrossiva e balbettava la sua gratitudine, che sentì sorgere in sé uno slancio di compassione materna. Non vide più il tanghero, né l’animo nobile dietro le sbarre della prigione e neppure l’uomo che l’aveva fissata in tutta la sua mascolinità facendola fremere di gioia e di paura. Davanti a sé scorse solo un ragazzo, il quale le stringeva la mano con una palma così callosa che le sembrò di toccare una grattugia per noce moscata, e le diceva parlando a scatti:
«La più bella sera della mia vita. Vede, non sono abituato alle cose…». Si guardò intorno smarrito. «Alla gente e alle case come questa. È tutto nuovo per me, e mi piace».
«Spero che lei torni», rispose, mentre egli salutava i suoi fratelli.
Si ficcò in testa il berretto, varcò goffamente la soglia e sparì.
«Bene, che ne pensi di lui?», chiese Arthur.
«Interessantissimo, una boccata di ossigeno», rispose la sorella. «Quanti anni ha?».
«Venti – quasi ventuno. Gliel’ho chiesto nel pomeriggio. Non pensavo che fosse così giovane».
E io ho tre anni più di lui, pensò lei dando ai fratelli il bacio della buona notte.
III
Scendendo la scalinata Martin Eden infilò la mano nella tasca del giaccone, tirandone fuori un rettangolino di carta di riso marrone e un pizzico di tabacco messicano, che arrotolò con destrezza fino a farne una sigaretta. Aspirò profondamente nei polmoni la prima boccata di fumo, che fece poi uscire in un lungo soffio. «Dio!», disse forte con voce piena di rispetto e meraviglia. «Dio!», ripeté. E mormorò per la terza volta «Dio!». Portò quindi la mano al colletto che strappò dalla camicia e cacciò in tasca. Benché cadesse una pioggia fredda e sottile, si scoprì il capo e si sbottonò il panciotto, continuando con passo dondolante e un’aria di grande indifferenza. Si accorgeva appena dell’acqua che veniva dal cielo. Era in estasi, inseguendo visioni di sogno e ricostruendo ciò che aveva appena vissuto.
Aveva finalmente trovato la donna – la donna cui raramente aveva pensato perché era poco portato a tali pensieri, ma che aveva sperato vagamente di potere un giorno incontrare. Si era seduto a tavola accanto a lei, ne aveva toccato la mano con la propria, l’aveva guardata negli occhi e aveva avuto la visione di un’anima bella, anche se di una bellezza non più grande degli occhi attraverso i quali si rivelava e del corpo che le dava forma ed espressione. Non pensava al suo corpo come a cosa materiale, il che era per lui una novità perché solo così aveva guardato tutte le donne che aveva conosciuto. La carne di lei era in qualche modo diversa. Non concepiva il suo corpo come corpo, soggetto alle malattie e alle debolezze della carne. Esso era qualcosa di più dell’involucro di quell’anima: era un’emanazione, una felice e pura cristallizzazione della sua essenza divina. Questo senso del sacro lo fece trasalire, riportandolo dai sogni a pensieri concreti. Mai prima di allora era stato colpito da parole, segni o percezioni del divino, cui non credeva. Non si era mai curato della religione: dei nocchieri del cielo e dei loro discorsi sull’immortalità dell’anima si era sempre fatto beffe, sia pure in tono bonario. Sosteneva che nell’al di là non vi fosse vita alcuna; solo il presente esisteva, e oltre esso il buio eterno. Ma ciò che aveva scorto negli occhi di lei era l’anima – l’anima immortale che non poteva morire. Nessun uomo che avesse conosciuto, nessuna donna, gli aveva dato questo senso di immortalità. Lei sì. Glielo aveva sussurrato il primo momento in cui lo aveva guardato. Il suo viso gli splendeva davanti agli occhi mentre camminava, – pallido e serio, dolce e sensibile, aperto a un sorriso di pietà e tenerezza che solo uno spirito poteva avere, di una purezza quale non aveva mai immaginato potesse esistere, che lo investì con la forza di un colpo facendolo sobbalzare. Aveva conosciuto il bene e il male, ma non gli era mai venuto in mente che la purezza potesse essere un attributo della realtà. Ora invece, in lei, concepì la purezza come il massimo della bontà e della limpidezza, la somma delle quali costituiva la vita eterna.
Sentì sorgere in sé l’ambizione di afferrare questa vita eterna. Non era degno di portarle l’acqua, – lo sapeva; era stato un miracolo della sorte e uno straordinario colpo del destino che gli aveva permesso di vederla, essere con lei e parlarle quella sera. Era stato un caso, non ne aveva avuto alcun merito. Non era all’altezza di tanta fortuna. Il suo stato d’animo era essenzialmente religioso. Era umile e mite, pieno di mortificazione e di disprezzo verso se stesso. Aveva la stessa disposizione di spirito dei peccatori nel banco dei penitenti. Era stato riconosciuto colpevole di peccato. Ma allo stesso modo in cui sul banco dei penitenti gli umili e i miti riescono ad avere la rapida ma splendida visione della loro futura esistenza nella grazia, così egli scorgeva fuggevolmente lo stato di beatitudine cui sarebbe approdato se fosse riuscito ad averla. Ma questo possesso di lei era vago e nebuloso, completamente diverso da come aveva concepito il possesso in passato. L’ambizione si librava in un folle volo ed egli si vedeva mentre saliva con lei a grandi altezze, condividendone i pensieri e godendo con lei delle cose belle e nobili. Era un possesso dell’anima quello che vagheggiava, purificato di ogni grossolanità, un libero connubio dello spirito che non sapeva formulare in modo preciso nella mente, che non riusciva a pensare. A dir la verità non pensava a nulla: i sensi sopraffacevano la ragione, ed egli vibrava e palpitava fra emozioni fino ad allora ignote, galleggiando felice in un mare di sensazioni in cui il sentimento stesso era esaltato, spiritualizzato e trasportato al di sopra delle vette della vita.
Barcollava come un ubriaco, mormorando con fervore mentre avanzava: «Dio! Dio!».
Un poliziotto all’angolo della strada lo fissò con aria sospettosa; poi notò il suo dondolio di marinaio.
«Perché cammini così?», gli chiese.
Martin Eden tornò sulla terra. Aveva un organismo vigile, rapidamente adattabile, capace di trasformarsi e di riversarsi in ogni sorta di angoli e fessure. Alla voce dell’altro rientrò immediatamente in se stesso e capì con chiarezza la situazione.
«Bello, eh?», rispose con una risata. «Non mi ero accorto che parlavo forte».
«Ancora un po’ e canterai», fu la diagnosi dell’agente.
«No. Mi dia un fiammifero che prendo il prossimo tram».
Accese la sigaretta, diede la buona notte e proseguì. «Ci sei rimasto di sasso, eh?», borbottò fra sé. «Quello sbirro ha pensato che avevo bevuto». Sorrise e rifletté. «Forse ero partito davvero», aggiunse. «Non credevo che era possibile per la faccia di una donna».
In Telegraph Avenue prese un tram per Berkeley affollato di ragazzi e giovanotti che cantavano e di tanto in tanto urlavano slogan studenteschi. Li osservò incuriosito. Erano universitari che andavano alla stessa università di lei, erano della sua stessa classe sociale, forse la conoscevano e potevano vederla ogni giorno se avessero voluto. Si meravigliò che non avessero desiderato farlo quella sera, preferendo andare a divertirsi al rimanere tutto il tempo con lei, parlarle e disporsi intorno a lei a contemplarla e adorarla. Fu distolto da altri pensieri. Notò un giovinastro che aveva occhi socchiusi e labbra pendule. Decise che doveva essere un tipo malevolo. A bordo di una nave sarebbe stato vile, lagnoso e pettegolo. Lui, Martin Eden, era migliore di quello, e il pensiero lo rallegrò perché gli parve che lo avvicinasse a Lei. Cominciò a fare un paragone fra sé e gli studenti. Era conscio della splendida muscolatura del proprio corpo ed ebbe la certezza di essere molto superiore a loro fisicamente. Ma la testa di quei giovani era colma di nozioni che consentivano loro di parlare lo stesso linguaggio di lei, – e questo pensiero lo rattristò. Ma a che cosa serviva il cervello? si chiese appassionatamente. Anche lui avrebbe potuto fare quello che avevano fatto loro. Avevano studiato la vita sui libri, loro, mentre lui l’aveva vissuta, la vita. Il suo cervello era pieno di nozioni come il loro, anche se erano nozioni di altro tipo. Quanti di quelli erano capaci di annodare lo spezzone di una cima, prendere la ruota del timone o stare di vedetta? Rivide davanti agli occhi la propria vita in una serie di immagini di pericoli, audacie, sforzi e fatiche. Ricordò gli errori e le sconfitte mentre imparava. Tutto ciò gli aveva fatto bene. Più tardi avrebbero dovuto anch’essi entrare nella vita e tirare la carretta come lui. Bene. Quando loro fossero stati impegnati in questo egli avrebbe potuto imparare dai libri l’altro aspetto della vita.
Quando la vettura attraversò la zona di sparse abitazioni che separava Oakland da Berkeley guardò fuori cercando con gli occhi un familiare fabbricato a due piani lungo la cui facciata correva l’insegna MAGAZZINI HIGGINBOTHAM. Martin Eden scese all’angolo. Per un istante fissò la scritta, il cui significato andava per lui al di là delle parole che la componevano. Le lettere stesse comunicavano il senso di una personalità meschina ed egoista, gretta e mediocre. Bernard Higginbotham aveva sposato sua sorella, lo conosceva bene. Aprì con la chiave e salì al secondo piano, dove viveva il cognato, proprio sopra il negozio. Nell’aria ristagnava un odore di verdura bollita. Attraversando a tentoni la sala incespicò su un giocattolo lasciato sul pavimento da uno dei suoi numerosi nipoti, che andò a sbattere contro una porta con un forte rumore. «Spilorcio», pensò; «troppo avaro per spendere due cent di luce ed evitare che i pensionanti si rompano l’osso del collo».
A tastoni cercò la maniglia della porta ed entrò in una stanza illuminata, dove si trovavano seduti Bernard Higginbotham e sua sorella. Lei stava rammendando un paio di pantaloni, mentre il magro corpo di lui era ripartito su due sedie, con i calcagni appoggiati sul bordo della seconda sedia e le malandate pantofole che dondolavano infilate sui piedi. Alzò lo sguardo dal giornale che leggeva mettendo in luce un paio di occhi scuri, falsi e penetranti. Ogni volta che lo vedeva Martin Eden provava un senso di repulsione. Non riusciva a capire che cosa la sorella avesse trovato in lui. Lo considerava alla stregua di un verme schifoso, e sentiva forte l’impulso di schiacciarlo col piede. «Un giorno o l’altro gli spacco la faccia», si diceva spesso, e quel pensiero lo aiutava a sopportarlo. Gli occhi, crudeli come quelli di una donnola, lo seguivano con aria di rimprovero.
«E adesso che c’è ancora?», chiese Martin.
«Ho fatto verniciare quella porta la settimana scorsa», rispose Higginbotham con un tono fra il lamentoso e l’aggressivo; «e sai quanto siano alte le paghe sindacali. Dovresti fare più attenzione».
Martin avrebbe voluto ribattere, ma capì che era inutile. Distolse gli occhi da quell’essere spregevole e li fissò su una stampa a colori sul muro, che lo sorprese. Gli era sempre piaciuta, ma ora gli sembrava di scorgerla per la prima volta. Era dozzinale, proprio così, come tutto il resto della casa, e con la mente tornò alla dimora da cui era appena uscito. E rivide i quadri, e poi Lei, che lo guardava con struggente dolcezza mentre gli stringeva la mano al momento del saluto. Dimenticò dove si trovava e l’esistenza di Bernard Higginbotham, finché questi gli domandò:
«Hai visto un fantasma?».
Martin tornò in sé, osservò quegli occhi piccini, beffardi, truculenti, vili, ed ebbe rapida la visione, come su uno schermo, di come fossero quando era invece impegnato con i clienti nel negozio di sotto: servili, melliflui, untuosi e adulatori.
«Sì», rispose Martin. «Ho visto un fantasma. Buona notte. Buona notte, Gertrude».
Si mosse per lasciare la stanza, incespicando su un filo rotto del tappeto lacerato.
«Non sbattere la porta», lo ammonì Higginbotham.
Sentì il sangue ribollirgli nelle vene, ma si controllò e chiuse la porta piano dietro di sé.
Higginbotham guardò la moglie con aria esultante.
«Ha bevuto», dichiarò con voce bassa e rauca. «Come ti avevo detto».
La moglie annuì rassegnata. «Aveva gli occhi lucidi», ammise, «e non aveva il colletto mentre l’indossava quando è uscito. Ma forse non ha preso più di un paio di bicchieri».
«Non riusciva a stare in piedi», disse il marito in tono che non ammetteva discussioni. «L’ho guardato. Non era capace di attraversare la stanza senza traballare. L’hai sentito anche tu che quasi cadeva in anticamera».
«Penso che abbia picchiato contro il carrettino di Alice», disse lei. «Al buio non l’ha visto».
Higginbotham in preda alla rabbia cominciò ad alzare la voce. Per tutto il giorno si controllava in negozio, riservando alla sera, quand’era con la famiglia, il privilegio di tornare ad essere se stesso.
«Ti dico che il tuo caro fratello era ubriaco».
Aveva una voce fredda, tagliente e perentoria e scandiva le parole con un suono metallico come quello di una macchina. La moglie sospirò e tacque. Era una donna grande e tarchiata, vestita sempre in modo trasandato ed eternamente stanca per il peso della pinguedine, del lavoro e del marito.
«Ha preso dal padre, te lo dico io», continuò Higginbotham in tono accusatorio. «E tirerà le cuoia nel fango nello stesso modo. E tu lo sai».
La moglie annuì, sospirò e continuò a cucire. Erano d’accordo che Martin fosse tornato a casa ubriaco. Se avessero avuto nell’animo loro una minima possibilità di sapere che cosa fosse la bellezza avrebbero compreso che quegli occhi lucidi e quel viso acceso erano il segno che nel giovane era nato l’amore.
«Proprio un bell’esempio per i bambini», sbottò Higginbotham all’improvviso rompendo il silenzio della moglie, che lo irritava. Desiderava quasi che lei lo contraddicesse di più. «Deve andarsene se lo fa un’altra volta. Capito? Non posso tollerare i suoi eccessi – pervertire bambini innocenti con le sue sbronze». Higginbotham amava quella parola, che era una novità nel suo repertorio, avendola recentemente scoperta in un articolo di giornale. «Questo è quello che fa – pervertire – non c’è altra parola».
La moglie continuò a sospirare e a scuotere la testa con aria addolorata senza cessare di rammendare. Higginbotham riprese il giornale.
«Ha pagato la pigione della settimana scorsa?», tuonò al di sopra del foglio.
Lei annuì e aggiunse: «Ha ancora un po’ di soldi».
«Quando si imbarca di nuovo?».
«Quando ha finito la paga, immagino», rispose la donna. «Ieri è andato a San Francisco a cercare una nave. Ma ha ancora denaro e non vuole imbarcarsi sulla prima nave che gli capita».
«Un lavaponti come lui non può darsi delle arie», sbottò Higginbotham. Cosa vuoi che scelga quello!».
«Ha detto qualcosa di una goletta che si prepara a salpare per un posto molto lontano alla ricerca di un tesoro sepolto, e lui ci va se finisce i soldi».
«Se solo volesse sistemarsi, gli darei da portare il carro», disse il marito, ma senza un briciolo di benevolenza nella voce. «Tom se n’è andato».
La moglie lo guardò con aria interrogativa e preoccupata.
«Se n’è andato stasera. Va a lavorare per Carruthers. Gli danno più di quello che potevo pagarlo io».
«Te l’ho detto che l’avresti perso», esclamò lei. «Valeva di più di quello che guadagnava con te».
«Senti un po’, bionda», rispose Higginbotham in tono minaccioso, «te l’ho detto mille volte di non metter naso negli affari miei. Non fartelo più ripetere».
«Che m’importa», disse la donna tirando su col naso. «Tom era un bravo ragazzo».
Il marito la fulminò con lo sguardo. Quella era un’esplicita sfida.
«Se questo tuo fratello avesse un briciolo di sale in zucca accetterebbe di portare il carro», ringhiò l’uomo.
«Paga regolarmente la pensione», fu la risposta. «È mio fratello, e finché non ti deve dei soldi non hai il diritto di continuare a rompergli l’anima. Pure se siamo sposati da sette anni ho anch’io la mia sensibilità».
«Gli hai detto che gli farai pagare il costo del gas se continua a leggere a letto?», domandò lui.
La signora Higginbotham non rispose. Sentì che lo spirito di ribellione si spegneva nella stanchezza. Il marito aveva trionfato e ora l’aveva in pugno. Gli occhi gli brillavano di una luce vendicativa e le orecchie ascoltavano con gioia i sospiri di lei. Provava una grande felicità nell’umiliarla, ed ella si umiliava spesso ormai, anche se non era stato così nei primi tempi della loro vita coniugale, prima che una nidiata di bambini e le continue punzecchiature di lui l’avessero svuotata di ogni energia.
«Glielo dirai domani, chiaro?», disse. «Ah, e devo dirti, prima di dimenticarmi, di chiamare Marian domani per badare ai bambini. Con Tom che se n’è andato io dovrò star fuori col carro, e tu devi fare in modo di scendere per servire al banco».
«Ma domani è giorno di bucato», obiettò lei debolmente.
«Alzati prima a farlo. Io non parto prima delle dieci».
E spiegando il giornale con gesto brusco riprese a leggere.
IV
Ancora in subbuglio per l’incontro con il cognato, Martin Eden si fece strada a tentoni nel buio corridoio fino alla sua stanza, un minuscolo vano con spazio sufficiente appena per un letto, una sedia e un catino su un trespolo. Higginbotham era troppo parsimonioso per tenere una domestica quando il lavoro di casa poteva essere fatto dalla moglie. Inoltre il fatto che la cameretta per la persona di servizio fosse libera gli consentiva di avere due pensionanti invece di uno. Martin posò sulla sedia il Swinburne e il Browning, si tolse il giaccone e si sedette sul letto. Il peso del suo corpo fu accolto da un cigolio di molle arrugginite cui non prestò attenzione. Cominciò a sfilarsi le scarpe, ma gli occhi gli caddero sul muro intonacato davanti a lui, il cui biancore era interrotto da lunghe strisce scure provocate da infiltrazioni di pioggia attraverso il tetto. Su questo sudicio sfondo scorrevano esaltanti visioni. Dimenticò le scarpe e rimase a lungo con lo sguardo fisso, finché le labbra cominciarono a muoversi e a mormorare: «Ruth».
«Ruth». Non aveva mai pensato che in un semplice suono potesse essere tanta bellezza. Lo ascoltava inebriato mentre lo ripeteva. «Ruth». Era un talismano, una parola magica con cui evocare un incantesimo. Ogni volta che la sussurrava, gli appariva il viso di lei diffondendo sulla sudicia parete un riflesso dorato. Questa luminosità non si arrestava al muro: si estendeva all’infinito e penetrando nelle profondità di quella luce l’anima sua cercava quella di lei. Quanto di meglio era in lui usciva in un flusso meraviglioso. Il solo pensiero di lei lo purificava, lo rendeva migliore, lo induceva a voler essere migliore. Era per lui una sensazione nuova. Non aveva mai conosciuto donne che avessero avuto simili effetti su di lui. Avevano anzi provocato in Martin conseguenze opposte, risvegliandone gli istinti animaleschi. Non sapeva che molte avevano fatto del loro meglio, per quanto modesti fossero stati i risultati. Non avendo mai avuto coscienza di se stesso non sapeva di avere qualcosa che suscitava amore nelle donne spingendole verso la sua fresca giovinezza. Benché spesso fossero state attratte da lui, egli non si era mai curato di loro: e non avrebbe mai immaginato che alcune erano diventate migliori grazie a lui. Vissuto fino ad allora in una beata noncuranza, gli sembrava adesso che avessero sempre cercato di afferrarlo e stringerlo con mani spregevoli. Ciò non era giusto, né per loro né per lui. E Martin, che per la prima volta acquistava consapevolezza di sé, non era in grado di giudicare e si sentiva bruciare di vergogna nel rivedere episodi della propria infamia.
Si alzò di scatto cercando di guardarsi nel sozzo specchio che si trovava sopra il catino. Dopo aver passato un asciugamano sulla superficie rimase a contemplarla a lungo e con attenzione. Era la prima volta che osservava veramente se stesso. I suoi occhi erano fatti per vedere, ma fino a quel momento erano stati occupati dal sempre mutevole panorama del mondo, che aveva fissato con tanta attenzione da dimenticarsi di guardare la propria figura. Vide il viso e la testa di un giovane di vent’anni, ma, non abituato a questo genere di valutazioni, non sapeva come giudicarlo. Sopra una fronte quadrata vide una massa di capelli castano scuro mossi da ondulazioni e cenni di ricci che facevano la felicità delle donne, le quali morivano dalla voglia di accarezzarli e di infilarvi le dita. Ma egli li trascurò, convinto che non avessero alcun pregio agli occhi di lei, soffermandosi invece a lungo e pensosamente sulla fronte alta e quadrata – tentando di penetrarvi dentro per scoprire che cosa contenesse. Com’era il cervello che si trovava al suo interno? Se lo chiedeva con insistenza. Di che cosa era capace? A che altezza lo avrebbe elevato? Lo avrebbe portato fino a lei?
Si chiese se ci fosse un’anima in quegli occhi grigio-acciaio, che spesso parevano azzurri e riflettevano il vigore dell’aria salmastra spirante dal mare illuminato dal sole. Si domandò anche che impressione avessero fatto a lei. Cercò poi di immedesimarsi nella ragazza per capire che cosa provasse mentre lo fissava negli occhi, ma il gioco non gli riuscì. Era in grado di mettersi agevolmente nei panni di altri uomini, ma dovevano essere persone di cui conosceva il modo di vivere. Come ella vivesse gli era invece ignoto. Come poteva indovinare anche uno solo dei suoi pensieri essendo per lui una creatura magica e misteriosa? Egli aveva occhi onesti, concluse tornando a sé, privi di viltà e di grettezza. Fu anche sorpreso dall’abbronzatura del proprio volto, che non aveva mai pensato potesse essere così scuro. Si arrotolò la manica della camicia e confrontò la parte interna del braccio con il colore del viso. Sì, era un uomo bianco, dopo tutto, ma anche le braccia erano cotte dal sole. Torse il braccio, sollevò il bicipite con l’altra mano e si guardò sotto, dove la pelle era meno toccata dal sole. Era candida. Scorgendo nello specchio la faccia abbronzata rise al pensiero che un tempo era stata bianca come la parte sottostante del braccio; e non gli venne in mente che al mondo ci fossero poche pallide donne che potessero vantare una pelle più chiara o più liscia della sua – più chiara delle parti del proprio corpo sfuggite alle vampe del sole.
La sua bocca poteva sembrare quella di un cherubino se non fosse stato per la smorfia che le labbra piene e sensuali assumevano sotto sforzo, tendendosi rigidamente sui denti. A volte si contraevano tanto che la bocca diventava dura e severa, quasi ascetica. Erano le labbra di un combattente e di un innamorato. Potevano gustare con piacere la dolcezza della vita e metterla da parte nella lotta per prevalere. Il mento e le mascelle, forti e con una linea leggermente squadrata, accentuavano il disegno imperioso della bocca. La forza influiva positivamente sulla sensualità, inducendolo ad amare la bellezza sana e facendolo vibrare di fronte a sensazioni altrettanto sane. Le labbra si aprivano su denti che non avevano mai avuto bisogno delle cure del dentista. Osservandoli concluse che erano bianchi, forti e regolari. E tuttavia, guardandoli, cominciò ad avere qualche perplessità. Nei suoi vaghi ricordi, in qualche remoto angolo della mente, permaneva il sospetto che qualcuno si lavasse i denti tutti i giorni, – persone della stessa classe sociale di lei. Anch’ella doveva lavarsi i denti tutti i giorni: che cosa avrebbe pensato se avesse saputo che lui non lo aveva mai fatto in vita sua? Decise di procurarsi uno spazzolino e di contrarre questa abitudine. Avrebbe cominciato subito l’indomani. Doveva cambiare i propri comportamenti in tutto, persino nella pulizia dei denti e nell’uso del colletto, anche se la rigidità di questo lo colpiva come una rinuncia alla libertà.
Alzò la mano, strofinando il polpastrello del pollice sul palmo calloso e fissando lo sporco penetrato nella carne stessa che nessuna spazzola sarebbe riuscita a rimuovere. Quant’era diverso il palmo di lei! Lo ricordò con un brivido di felicità. Sembrava un petalo di rosa, pensò, fresco e soffice come un fiocco di neve. Non avrebbe mai creduto che la semplice mano di una donna potesse essere di una morbidezza così deliziosa. Arrossì colpevolmente immaginando la felicità che una sua carezza avrebbe provocato in lui. Era un pensiero troppo volgare, che pareva mettere in dubbio la sua elevata spiritualità. Lei era un pallido, esile spirito che si ergeva ben oltre il mondo carnale; e tuttavia nei pensieri di Martin persisteva il ricordo della morbidezza di quella mano. Era abituato alla durezza callosa delle mani delle ragazze delle fabbriche. Sapeva bene perché fossero così ruvide, ma la mano di lei… Era morbida perché non l’aveva mai adoperata per lavorare. Il pensiero che qualcuno non fosse costretto a farlo per vivere fece crescere a dismisura l’abisso fra loro. E subito vide l’aristocrazia della società – coloro che non dovevano faticare – ergersi davanti a sé sulla parete – figura di bronzo arrogante e potente. Anche lui aveva lavorato, come tutti i membri della sua famiglia. I suoi primi ricordi erano legati al lavoro. Ricordò Gertrude: quando non erano indurite dalle interminabili faccende di casa le sue mani erano così gonfie e screpolate per il bucato che sembravano manzo lesso. E gli venne in mente l’altra sorella, Marian: l’estate prima aveva lavorato in un conservificio, dove le sue mani belle e sottili si erano ricoperte di cicatrici con i coltelli per tagliare i pomodori, senza contare le punte di due dita rimaste nella tagliatrice di uno stabilimento di scatole di cartone l’inverno precedente. Rammentò le palme indurite di sua madre distesa nella bara. E il padre, che aveva lavorato fino all’ultimo rantolo: quando se ne andò lo spessore dei calli delle sue mani doveva essere più di due centimetri. Le mani di lei erano morbide, invece, come quelle della madre e dei fratelli. Quest’ultimo particolare lo colpì: provava inequivocabilmente quanto fosse alta la loro casta e quanto grande la distanza che lo separava da lei.
Si sedette sul letto ridendo amaramente e finì di togliersi le scarpe. Era stato uno stupido a restare incantato davanti a un viso di donna e a due mani bianche e morbide. Poi, all’improvviso, sul lercio intonaco del muro apparve una visione. Si trovava davanti a un tetro casamento, di notte, nell’East End di Londra, e davanti a lui era Margey, una minuscola operaia di quindici anni che aveva accompagnato a casa dopo una festa. La ragazza abitava in quel tugurio, una tana indegna di un animale. Le stava porgendo la mano augurandole la buona notte. Lei aveva alzato il viso per farsi baciare, ma Martin non aveva intenzione di farlo: ne aveva quasi paura. E allora la mano di lei afferrò la sua stringendola febbrilmente. Sentendo quelle callosità sfregare contro le sue egli fu sommerso da un’ondata di compassione. Vide i supplichevoli e bramosi occhi di lei, e la sua malnutrita figura femminile che era passata all’improvviso da una brevissima fanciullezza a una maturità spaventosa e crudele; e allora l’avvolse generosamente con le braccia e chinandosi la baciò sulle labbra. Gli risuonò nelle orecchie un gridolino di felicità mentre sentiva che gli si aggrappava come un gatto. Povera creatura affamata! Continuò a fissare l’immagine di ciò che era accaduto tanto tempo fa. Aveva la pelle d’oca proprio come quella notte in cui la ragazza si era avvinghiata a lui, e il cuore stretto da una compassione struggente. Era una scena grigia, di un grigio greve e fumoso, con la pioggia che cadeva uggiosa su un lurido selciato. Ed ecco splendere sulla parete una visione luminosa, che uscendo a poco a poco dalle nebbie dell’altra e ad essa sovrapponendosi fece emergere il pallido viso di Lei sotto una corona di capelli d’oro, remoto e inaccessibile come una stella.
Prese dalla sedia il Browning e il Swinburne e li baciò. Eppure mi ha detto di tornarla a trovare, pensò. Si guardò di nuovo allo specchio e disse forte con grande solennità:
«Martin Eden, domani come prima cosa andrai in biblioteca a leggere un libro sul galateo. Capito?».
Mentre si allungava per spegnere il gas le molle cigolarono sotto il peso del suo corpo.
«Ma devi piantarla di sacramentare, Martin, vecchio mio; devi piantarla di sacramentare», disse forte.
Si assopì a poco a poco e quando fu addormentato ebbe in sogno visioni che per audacia e follia rivaleggiavano con quelle di chi è sotto gli effetti dell’oppio.
V
Il mattino seguente, risvegliandosi, passò dalle dolci immagini del sogno a un ambiente che emanava odore di lisciva e di panni sporchi e fremeva degli aspri stridori di un’esistenza tormentata. Uscendo dalla stanza sentì lo sciabordio dell’acqua, un urlo e il forte rumore di uno schiaffo con cui la sorella sfogava la propria irritazione contro uno dei suoi numerosi figli. Lo strillo del bimbo lo trapassò come un coltello. Era consapevole che tutto, e la stessa aria che respirava, fossero squallidi e ripugnanti. Che differenza, pensò, dall’atmosfera di bellezza e serenità della casa in cui dimorava Ruth. Lì tutto era spirituale, qui tutto era materiale e meschino.
«Vieni, Alfred», disse al bambino piangente, ficcandosi la mano nella tasca dei pantaloni, in cui teneva sparsi i propri soldi con la stessa noncuranza con cui affrontava la vita in generale. Mise un quarto di dollaro nella mano del ragazzino e lo tenne per un istante fra le braccia per calmarne i lacrimosi sussulti. «Ora va’ a prendere delle caramelle e non dimenticare di darle anche ai fratellini e alle sorelline. Fa’ in modo di prendere quelle che durano di più».
Sua sorella sollevò la faccia arrossata dalla tinozza e lo guardò.
«Bastava un nichelino», disse. «Fai sempre così, non hai idea del valore del denaro. E il bambino mangerà fino a star male».
«Non brontolare, sorella», rispose allegramente. «Sono soldi spesi bene. Se tu non fossi così occupata ti darei il buongiorno con un bacio».
Voleva essere affettuoso con questa sorella, che era una buona donna e che a suo modo, ne era certo, gli voleva bene. E tuttavia, quale ne fosse la causa, era cambiata con il passare degli anni, diventando sempre più sfuggente. Erano stati la fatica, i molti figli e le punzecchiature del marito a renderla diversa, ne era convinto. Gli venne in mente, in un volo dell’immaginazione, che la sua natura sembrava assumere sempre più le caratteristiche della verdura appassita, della puzzolente lisciva e delle unte monetine che maneggiava al banco del negozio.
«Va’ a fare colazione», disse in tono rude, ma sotto sotto compiaciuta. Fra tutti i suoi fratelli giramondo quello era sempre stato il suo preferito. «Sarò io a darti un bacio», disse con un improvviso tuffo al cuore.
Si pulì le braccia insaponate detergendole con le dita di entrambe le mani. Lui cinse con le braccia la sua larga vita e la baciò sulle labbra. A lei vennero le lacrime agli occhi, non tanto per la forza del sentimento che provava quanto per lo sfinimento causato dal continuo lavoro. Lo spinse lontano da sé, ma non poté impedire che egli notasse i suoi occhi umidi.
«La colazione è nel forno», disse lei rapidamente. «Jim dovrebbe essere in piedi ormai. Io mi sono dovuta alzare presto per il bucato. Ora prendi su ed esci di casa presto. Oggi non sarà un bel giorno, visto che Tom se n’è andato e non c’è che Bernard per portare il carro».
Martin andò in cucina con la morte nel cuore: l’immagine del viso rosso e della sgraziata figura della sorella erano per lui come un chiodo conficcato nel cervello. Concluse che lei lo avrebbe amato se avesse avuto più tempo libero e non fosse stata costretta ad ammazzarsi per la fatica. Bernard Higginbotham era un bruto a farla lavorare tanto; Martin aveva avuto tuttavia l’impressione che non vi fosse stato nulla di affettuoso in quel bacio. Era vero che per anni la sorella lo aveva salutato in questo modo solo quando partiva per qualche viaggio, o al suo ritorno. Ma questo bacio sapeva di lisciva e le labbra erano inerti. Era mancata la rapida, vigorosa pressione che dovrebbe accompagnare sempre un bacio. Quello era il bacio di una donna ormai così stanca da avere dimenticato come si bacia. La ricordava da ragazza, prima del matrimonio, quando era capace di ballare tutta la notte con i migliori ballerini dopo una dura giornata di lavoro in lavanderia, e non lasciava le danze che per tornare a un’altra dura giornata di lavoro. Poi pensò a Ruth e alla fresca dolcezza che doveva essere in quelle labbra come in tutta la sua persona. Il bacio di lei doveva essere come la sua stretta di mano o come il suo modo di guardare gli altri, fermo e schietto. Si spinse con la fantasia a pensare alle labbra della ragazza sulle proprie e lo immaginò con tanta intensità che gli vennero le vertigini e gli parve di volare in mezzo a nubi di petali di rose con un profumo così penetrante che gli arrivava fino al cervello.
In cucina trovò l’altro pensionante, Jim, che mangiava languidamente la pappa di avena con uno sguardo disgustato e lontano. Era apprendista idraulico e aveva un mento sfuggente e un temperamento edonistico che, uniti a un certo ottuso nervosismo, non promettevano nulla di buono per lui nella lotta per l’esistenza.
«Perché non mangi?», chiese a Martin che infilava neghittosamente il cucchiaio nella pappa d’avena semicruda e fredda. «Ti sei sbronzato anche ieri sera?».
Martin scosse il capo, sopraffatto dallo squallore di tutto ciò che lo circondava. Ruth Morse gli sembrava più distante che mai.
«Io sì», continuò Jim con aria fiera e una risatina nervosa. «Ero pieno fino agli occhi. Oh, lei è stata grande. Mi ha portato a casa Billy».
Martin fece un cenno di assenso con la testa – era portato per natura a prestare attenzione a chiunque gli rivolgesse la parola – e si versò una tazza di caffè tiepido.
«Vai al ballo del Lotus Club stasera?», chiese Jim. «Daranno birra a volontà e se viene quel gruppo di Temescal ci sarà un bel pasticcio. Io me ne frego e la donna ce la porto lo stesso. Cribbio, che saporaccio mi sento in bocca!».
Fece una smorfia e cercò di farlo scomparire con una sorsata di caffè.
«Conosci Julia?».
Martin scosse il capo.
«È la mia donna», spiegò Jim, «ed è una delizia.Te la presenterei, ma è che faresti colpo su di lei. Non so che cosa vedono in te le ragazze, giuro che non lo capisco; mi vien male a pensare come piantano gli altri per venire con te».
«A te non ne ho portata via nessuna», rispose Martin con scarso interesse. Doveva finire la colazione in un modo o nell’altro.
«E invece sì», disse l’altro con calore. «Maggie».
«Mai avuto a che fare con lei. Non ci ho mai neanche ballato, tranne quella sera».
«Sì, e fu proprio allora». esclamò Jim. «Ci hai ballato una volta, l’hai guardata, ed ecco fatta la frittata.
«Naturalmente non l’hai fatto apposta, ma io sono stato sistemato per bene. Se ne sbatteva di me, continuava a chiedere di te. Se tu volevi diventava la tua donna».
«Ma io non volevo».
«Non mi è servito. Mi ha piantato in asso». Jim lo guardò con ammirazione. «Ma spiegami un po’ come fai, Mart».
«Me ne frego di loro»,. fu la risposta.
«Cioè fai credere che non ti importano?», chiese Jim con vivo interesse.
Martin rifletté un momento prima di parlare. «Forse bisogna fare così, ma per me è diverso. Non mi è mai importato molto. Comunque se sei capace di bluffare va bene lo stesso, almeno credo».
«Dovevi venire al capannone di Riley ieri sera», disse Jim passando improvvisamente a parlare di tutt’altro. «Un sacco di ragazzi si sono messi i guantoni. C’era un duro di West Oakland che chiamavano «Il topo». Ti sgusciava di sotto come seta. Non riusciva a toccarlo nessuno. Speravamo tanto che ci fossi anche tu. Dove sei andato, a proposito?».
«Giù a Oakland», rispose Martin.
«A teatro?».
Martin allontanò da sé il piatto e si alzò.
«Vieni al ballo stasera?», gli chiese l’altro cercando di trattenerlo.
«Penso di no», rispose.
Scese le scale e uscì in strada, respirando a pieni polmoni. Stava quasi per soffocare in quell’atmosfera chiusa e i discorsi dell’apprendista lo avevano portato all’esasperazione. C’erano stati momenti in cui era stato sul punto di scattare e di prendere la testa di Jim per sbattergliela sul piatto di pappa d’avena. Quanto più quello blaterava, tanto più gli pareva che Ruth si allontanasse da lui. Come sarebbe mai riuscito a diventare degno di lei frequentando simili animali?
Questo problema lo atterriva, mentre si sentiva come oppresso dall’incubo delle sue origini operaie. Tutto congiurava per tenerlo in quell’umile posizione: Gertrude, la casa e la famiglia della sorella, l’apprendista Jim, tutte le persone che conosceva, tutti i legami che aveva nella vita. L’esistenza non gli appariva più sotto una luce favorevole. Fino ad allora l’aveva accettata, e l’aveva vissuta come una cosa buona, con tutto ciò che lo circondava. Non l’aveva mai messa in discussione, tranne che nelle riflessioni seguite alle proprie letture; e comunque erano solo idee trovate nei libri, favole che parlavano di un mondo perfetto e impossibile. Ma ora lo aveva scorto, questo mondo, possibile e vero, e al centro di questo universo era una donna meravigliosa di nome Ruth; da quel momento avrebbe provato amarezze, e desideri così intensi da provarne dolore, e una disperazione tanto più tormentosa perché alimentata dalla speranza.
Era indeciso se servirsi della biblioteca di Berkeley o di quella di Oakland; alla fine scelse quest’ultima perché Ruth viveva in quel quartiere. Chissà… una biblioteca era un luogo dove era facile che lei si recasse, e avrebbe potuto incontrarla. Non sapeva come funzionassero queste istituzioni e si aggirò fra gli interminabili scaffali della narrativa, finché quella che gli sembrò un’impiegata, una ragazza di lineamenti delicati che pareva francese, non gli disse che le opere di consultazione erano al piano superiore. Non si sentiva sufficientemente sicuro da potersi rivolgere all’addetto seduto alla scrivania e cominciò la propria avventura nel reparto della filosofia. Aveva sentito parlare della filosofia che si trovava nei libri, ma non avrebbe mai pensato che se ne fosse scritto tanto. Gli alti scaffali ricolmi di ponderosi tomi ebbero su di lui un effetto mortificante e allo stesso tempo stimolante. Ecco opere che potevano mettere alla prova la forza del suo cervello. Trovò libri di trigonometria nel settore della matematica, che sfogliò soffermandosi di tanto in tanto su formule e cifre per lui incomprensibili. Sapeva leggere l’inglese, ma quella era una lingua straniera. Norman e Arthur però la conoscevano, li aveva sentiti esprimersi in quell’idioma, ed erano i fratelli di lei. Lasciò il reparto in preda alla disperazione, mentre da ogni parte i libri sembravano premerglisi addosso e schiacciarlo. Non aveva mai neppure sognato che il cuore del sapere umano avesse quelle dimensioni, e ne fu sbigottito. Sarebbe mai stato capace il suo cervello di dominarla tutta? Più tardi ricordò che altri uomini, molti uomini, ce l’avevano fatta, e giurò fra sé, appassionatamente, che anche lui ci sarebbe riuscito.
Continuò a girovagare alternando attimi di depressione ad altri di esaltazione mentre fissava gli scaffali pieni di sapienza. In un reparto di opere miscellanee si imbatté in un Compendio di Norrie, di cui sfogliò le pagine con rispetto. In un certo senso esso parlava un linguaggio familiare, legato al mare come lui. Trovò quindi un Bowditch e libri di Lecky e Marshall. Ecco la soluzione: si sarebbe istruito nell’arte della navigazione, avrebbe smesso di bere, avrebbe lavorato sodo e sarebbe diventato capitano. A questo punto Ruth gli parve più vicina. Come comandante l’avrebbe potuta sposare (se lei lo avesse voluto). E se non avesse accettato, ebbene – egli avrebbe condotto un’esistenza dignitosa fra gli uomini grazie a lei, e comunque avrebbe smesso di bere. Poi si ricordò che c’erano gli assicuratori e gli armatori, e che un capitano deve essere sempre al servizio di due padroni, ciascuno dei quali capace di schiacciarlo e prontissimo a farlo, e che essi avevano interessi diametralmente opposti. Volse gli occhi tutt’intorno alla sala e chiudendoli continuò ad avere la visione di migliaia di libri. No, mai più mare per lui. C’era una grande potenza in quella moltitudine di libri, e se voleva fare grandi cose doveva farle a terra. Inoltre i capitani non potevano portare con sé in mare le proprie mogli.
Venne il mezzogiorno e poi il pomeriggio. Dimenticandosi di mangiare continuò la sua ricerca nei libri sul galateo, perché oltre che dal problema della carriera era tormentato da un dubbio semplice e concreto: Se si conosce una signora che vi invita ad andarla a trovare, quando lo si può fare? Erano questi i termini in cui formulava quell’ interrogativo. Ma dopo aver trovato lo scaffale giusto cercò invano la risposta. Fu spaventato dalla mole delle norme che regolavano le buone maniere e si perse nei meandri della condotta relativa ai biglietti di visita nella società per bene. Abbandonò l’indagine. Non aveva trovato ciò che voleva, benché avesse scoperto che ci sarebbe voluto tutto il tempo a disposizione di un uomo per imparare la buona educazione e che quindi avrebbe dovuto poter disporre di una vita preliminare in cui apprendere come essere cortese.
«Ha trovato quello che cercava?», gli chiese l’uomo dalla scrivania mentre se ne stava andando.
«Sì, signore», rispose. «Bella questa biblioteca qui».
L’altro annuì. «Saremo lieti di vederla qui spesso. Fa il marinaio?».
«Sì, signore», rispose, «e tornerò».
Com’era riuscito a capirlo? si chiese scendendo le scale. Quando fu in strada camminò rigido, diritto e goffo per il primo isolato, finché assorbito dai propri pensieri, tornò naturalmente alla sua andatura dondolante.
VI
Una terribile irrequietezza simile alla fame affliggeva Martin Eden. Bruciava per il desiderio di vedere la ragazza le cui esili mani serravano la sua esistenza in una stretta d’acciaio. Non riusciva a trovare la forza di andarla a trovare. Temeva che la sua visita potesse avvenire troppo presto, rendendolo colpevole di un’orribile infrazione di quella spaventosa faccenda nota come galateo. Trascorreva lunghissime ore nelle biblioteche di Oakland e di Berkeley dopo essersi procurato tesserini per il prestito per sé, per le sorelle Gertrude e Marian, e per Jim, e aver ottenuto il consenso di quest’ultimo solo in cambio di diversi bicchieri di birra. Con quattro moduli a propria disposizione per il ritiro dei libri consumò molto gas nella stanza della servitù in cui era alloggiato, che Higginbotham gli addebitò nella misura di cinquanta centesimi la settimana.
I molti libri che lesse non calmarono la sua irrequietezza. Ogni pagina era una nuova fessura che si apriva nel regno della conoscenza. La sua fame si placava con ciò che leggeva, ma poi tornava più forte. Inoltre non sapeva da dove cominciare e incontrava continui ostacoli dovuti alla mancanza di preparazione. Non comprendeva le citazioni più comuni, neppure quelle che, ne era perfettamente consapevole, erano alla portata di ogni lettore. Lo stesso poteva dirsi della poesia, che lo faceva quasi impazzire di gioia. Di Swinburne lesse altre cose oltre a quelle contenute nel volume prestatogli da Ruth, e non ebbe nessuna difficoltà nella lettura di Dolores. Giunse alla conclusione che evidentemente la ragazza non lo aveva capito. Eppure come era possibile, con la vita raffinata che conduceva? Si imbatté nelle poesie di Kipling, e si lasciò trascinare dal ritmo, dal movimento e dal fascino che infondevano negli oggetti più familiari. Fu sorpreso dell’amore per la vita di quest’uomo e della sua penetrante psicologia. Psicologia era un termine nuovo nel vocabolario di Martin. L’acquisto di un dizionario aveva significato una notevole diminuzione delle sue riserve di denaro e avvicinato il giorno in cui sarebbe stato costretto a imbarcarsi per procurarsene dell’altro. Aveva anche fatto infuriare Higginbotham, il quale avrebbe preferito che quei soldi finissero nelle proprie tasche sotto forma di compenso per l’alloggio.
Durante le ore del giorno non osava avvicinarsi al quartiere di Ruth, ma la notte lo coglieva appostato come un ladro presso la casa dei Morse, a lanciare di tanto in tanto sguardi appassionati verso i muri e le finestre. Più d’una volta mancò poco che non fosse sorpreso dai fratelli di lei e una volta pedinò fino in centro il signor Morse, studiandone l’espressione del viso lungo le strade illuminate, in ansiosa attesa dei segni di un improvviso pericolo di morte che gli desse la possibilità di salvarlo con un intervento tempestivo. Un’altra sera la sua veglia fu ricompensata, attraverso una finestra del secondo piano, dalla visione di Ruth, di cui scorse la testa e le spalle e le braccia che si sollevavano a fissare i capelli davanti a uno specchio. Fu solo un momento, ma fu per lui un attimo lunghissimo, durante il quale sentì il sangue divenirgli vino e scorrergli cantando nelle vene. Poi lei chiuse l’imposta. Ma Martin aveva capito quale fosse la camera di lei e dopo di allora si soffermò spesso da quelle parti, dove, nascosto sotto un albero buio al lato opposto della strada, rimaneva fermo a fumare un’infinita quantità di sigarette. Un pomeriggio vide sua madre uscire da una banca e ricevette un’altra prova dell’enorme distanza che lo separava da Ruth, la quale apparteneva alla classe che aveva rapporti con le banche. Non era mai stato in simili posti in vita sua e si era fatto l’idea che queste istituzioni fossero frequentate solo dai ricchi e dai potenti. Era come se avesse avuto una rigenerazione morale. L’innocenza e la purezza di lei avevano avuto conseguenze su di lui, che ora sentiva una grande esigenza di pulizia, necessaria se mai avesse potuto un giorno respirare la stessa aria di lei. Si lavava i denti e si fregava le mani con una spazzola da cucina, finché non vide in una vetrina uno spazzolino per le unghie di cui intuì l’uso. E poiché al momento dell’acquisto il commesso gli suggerì, osservandogli le unghie, di comprare una limetta, si procurò anche questo accessorio da toletta. In biblioteca aveva consultato un libro sull’igiene personale, ed ecco nascere in lui la mania del bagno freddo ogni mattina, con grande meraviglia di Jim e sconcerto di Higginbotham, che non aveva in grande simpatia le idee dell’ultima moda e che si domandò seriamente se dovesse far pagare a Martin un supplemento per il consumo dell’acqua. Un altro progresso fu fatto con la piega ai pantaloni. Ora che era diventato sensibile a queste cose Martin non tardò ad accorgersi della differenza fra le borse alle ginocchia dei calzoni indossati dagli operai e la riga diritta lungo tutta la gamba di quelli portati da coloro che erano dei ceti superiori. Compresone il motivo invase la cucina della sorella alla ricerca del ferro e dell’asse per stirare. All’inizio ebbe qualche inconveniente che lo portò a bruciare un paio di pantaloni e a comprarne un altro, con una spesa che avvicinò ulteriormente il giorno in cui si sarebbe dovuto imbarcare nuovamente.
Il cambiamento non riguardava il solo aspetto esteriore. Fumava ancora ma aveva rinunciato all’alcol. Fino ad allora aveva considerato il bere un’attività tipicamente virile e si era vantato della propria capacità di resistenza, che gli consentiva di rimanere lucido anche dopo che molti erano finiti sotto il tavolo. Nei suoi incontri casuali con marinai che erano stati suoi compagni, e ce n’erano molti a San Francisco, offriva loro da bere e accettava i loro inviti, ma per sé ordinava sempre succo di frutta o acqua brillante subendo senza reagire i caustici commenti degli amici. E a mano a mano che gli altri diventavano brilli li studiava con attenzione, osservandoli a poco a poco cadere vittime del demone dell’alcol e ringraziando Dio di non essere più come loro. Dovevano dimenticare i loro limiti, e quando erano ubriachi si esaltavano nel vaneggiamento e nella stupidità che li portavano a sentirsi onnipotenti. In Martin il desiderio delle bevande forti era svanito. Era stato inebriato da cose nuove e più profonde: da Ruth, che aveva acceso in lui l’amore e gli aveva permesso di scorgere l’esistenza di una vita più alta ed eterna; dai libri, che avevano suscitato in lui una febbre che gli divorava il cervello; dalla soddisfazione per la pulizia personale, che gli aveva dato un’efficienza fisica superiore a quella che aveva prima e che sentiva vibrare in tutto il corpo.
Una sera andò a teatro sperando che un caso fortunato gli consentisse di vederla, ed effettivamente riuscì a scorgerla dalla seconda galleria. La vide scendere lungo il corridoio centrale fra le poltrone insieme con Arthur e un giovane sconosciuto che portava gli occhiali e aveva una massa tondeggiante di capelli, la vista del quale suscitò subito in lui apprensione e gelosia. L’osservò prendere posto in una delle prime file di platea e per il resto della serata la sua attenzione fu soprattutto attratta da quel paio di spalle bianche e da quella folta chioma bionda che a quella distanza riusciva appena a scorgere. Vide anche altre persone, e di tanto in tanto, alzando lo sguardo su coloro che si trovavano vicino a lui, notò due ragazze che si voltavano dal loro posto nella prima fila della galleria a una dozzina di posti da lui e gli sorridevano con occhi audaci. Era sempre stato di carattere compiacente e poco portato a respingere gli approcci. In passato avrebbe restituito il sorriso e cercato il modo di stabilire ulteriori contatti, ma ora era diverso: restituì il sorriso, ma distolse subito lo sguardo e non si girò più da quella parte. Tuttavia diverse volte, dimenticandosi dell’esistenza delle due ragazze e volgendo il viso verso di loro vide che continuavano a sorridere. Non poteva cambiare da un giorno all’altro, né cancellare l’innata bonomia della propria natura; ricambiò dunque il sorriso con calda simpatia. Non era una novità per lui. Sapeva che stavano cercando di agganciarlo. Ma adesso era diverso. Lontana, giù in platea, era la sola donna che contasse al mondo, così diversa, così tremendamente diversa da quelle due ragazze della sua stessa classe sociale, che per loro egli sentiva solo compassione e dolore. In cuor suo desiderava ardentemente che potessero avere, almeno in minima parte, la bontà e lo splendore di lei. Per nessun motivo avrebbe potuto offenderle a causa di quella profferta, che non lo lusingava; giunse persino a provare imbarazzo per la propria volgarità, che l’aveva suscitata. Sapeva che se fosse appartenuto al ceto di Ruth non ci sarebbe stata nessuna avance da parte di quelle ragazze; e ad ogni loro occhiata sentiva su di sé il peso della propria classe sociale, che gravava su di lui e gli impediva di elevarsi.
Lasciò il posto prima che calasse il sipario dell’ultimo atto con l’intenzione di vederla al momento dell’uscita. C’erano sempre molti uomini in piedi sul marciapiede di fronte e poteva calarsi il berretto sugli occhi e nascondersi dietro le spalle di qualcuno per evitare che lei lo scorgesse. Fu fra i primi a emergere dal teatro, ma si era appena sistemato sul bordo quando apparvero le due ragazze. Capì che lo stavano cercando e in quel momento maledisse ciò che in lui attirava tanto le donne. Il modo in cui attraversavano il marciapiede gli fece capire che lo avevano scoperto. Accostandosi a lui rallentarono l’andatura per la presenza della folla. Una delle due lo sfiorò e fece finta di notarlo solo in quel momento. Era una ragazza snella e bruna con audaci occhi neri.
Martin restituì il sorriso che gli fu rivolto. «Ciao», disse.
Era stata una reazione automatica; quante volte si era comportato così in circostanze simili. E poi non avrebbe potuto esimersi dal farlo: aveva un’indole così generosa e tollerante che non poté farne a meno. La ragazza bruna gli lanciò un sorriso di gratitudine e di saluto e parve volersi fermare, mentre la compagna, che la teneva sotto braccio, ridacchiava e sembrava anch’ella volersi arrestare. Martin fece un rapido calcolo. Non sarebbe stato opportuno che Lei uscisse e lo vedesse mentre conversava con quelle due e istintivamente, come se fosse una cosa del tutto naturale, cominciò a camminare a fianco della ragazza con gli occhi neri. Non era imbarazzato, la lingua gli funzionava perfettamente. In una situazione di questo genere si sentiva a proprio agio e tenne testa con disinvoltura alla schermaglia di battute rapide e argute che costituivano sempre i preliminari di presentazione di queste fuggevoli relazioni. All’incrocio in cui il flusso principale della folla puntava verso la strada principale Martin cominciò a portarsi verso il bordo del marciapiede per svoltare nella via laterale. Ma pur continuando a seguirlo e a trascinarsi dietro l’amica, la ragazza con gli occhi neri lo prese per un braccio esclamando:
«Calma, Bill! Che fretta hai? Non avrai intenzione di scaricarci così presto?».
Lui si arrestò con una risata e si girò a fronteggiarle. Dietro le spalle delle ragazze scorgeva la folla passare sotto la luce dei lampioni. Il posto dove si trovava non era molto illuminato e sarebbe riuscito a vederLa, inosservato, mentre passava. E sarebbe certamente passata di lì, perché quello era il percorso che doveva seguire per tornare a casa.
«Come si chiama la tua amica?», chiese alla ragazza che ridacchiava, accennando a quella con gli occhi neri.
«Chiediglielo tu», fu la convulsa risposta.
«E allora?», domandò volgendosi esplicitamente all’interessata.
«Non mi hai detto ancora come ti chiami tu», ribatté l’altra.
«Non me l’hai chiesto», rispose Martin con un sorriso. «Pensa, ci hai azzeccato. Mi chiamo Bill, proprio così».
«Non contar balle», e lo fissò in viso osservandolo con occhi penetranti, appassionati e invitanti. «Davvero, che nome hai?».
Tornò a guardarlo, con un’espressione che era quella delle donne di tutti i tempi fin dall’inizio della battaglia fra i sessi. Dopo una distratta valutazione Martin, ormai imbaldanzito, capì che la ragazza avrebbe cominciato a ritrarsi pudica e riservata davanti ai suoi approcci, sempre pronta a passare alla controffensiva se lui avesse dimostrato minore calore. Ma aveva anch’egli istinti umani e il suo orgoglio non poteva che essere lusingato dalle attenzioni di lei. Oh, sapeva tutto di come andavano queste cose, dalla A alla Z. Era una brava ragazza, quella, secondo i criteri di valutazione della sua classe sociale, la quale lavorava sodo in cambio di un misero salario rifiutando sprezzante le facili soluzioni a sua disposizione, rabbiosamente tesa a un briciolo di felicità nel deserto dell’esistenza, in un futuro in bilico fra l’abbrutimento di una fatica senza fine e l’oscuro baratro di una condizione ancora peggiore, in cui si precipitava con maggiore rapidità sebbene il cammino fosse meglio retribuito.
«Bill», rispose con un cenno del capo. «Sicuro, Pete, Bill e niente altro».
«Sul serio?», chiese la ragazza.
«Non è vero che si chiama Bill», intervenne l’altra.
«Come lo sai?», domandò lui. «Non mi hai mai visto prima di adesso».
«Non ce n’è bisogno per capire che è una frottola», fu la replica.
«Allora, Bill, come ti chiami?», chiese ancora la prima ragazza.
«Bill può andare», confessò lui.
Lei lo prese per un braccio e lo scosse giocosamente. «Lo sapevo che dicevi balle, ma mi piaci lo stesso».
Martin afferrò quella mano invitante e sentì nella palma segni e alterazioni che gli erano familiari.
«Quando hai piantato il conservificio?» chiese.
«Come fai a saperlo?» e «Accidenti, sei un mago!» esclamarono contemporaneamente le ragazze in una specie di coro.
E mentre con loro scambiava quelle battute, stupido prodotto di cervelli stupidi, gli tornarono alla mente i giganteschi scaffali della biblioteca pieni della saggezza universale. Sorrise con amarezza all’assurdità di quella situazione e fu assalito dai dubbi. Tuttavia fra visioni interiori e chiacchiere aveva trovato il tempo di sorvegliare la folla che, uscita dal teatro, sciamava davanti a lui. E infine la vide, sotto le luci, fra il fratello e il giovane sconosciuto con gli occhiali, ed ebbe la sensazione che il cuore gli si arrestasse. A lungo aveva atteso questo momento. Ebbe il tempo di notare una cosa leggera e vaporosa che le nascondeva la testa regale, la linea aggraziata della sua figura, la grazia del portamento e della mano che raccoglieva la lunga gonna; ed eccola scomparsa, mentre lui si ritrovava a fissare le due ragazze del conservificio, i loro goffi tentativi di vestire con eleganza, quei patetici sforzi per essere pulite e in ordine, la stoffa scadente, i nastri scadenti, gli anelli scadenti alle dita. Si sentì tirare per un braccio e udì una voce che esclamava:
«Svegliati, Bill! Che cos’hai?».
«Che stavi dicendo?», chiese.
«Oh nulla», rispose la ragazza bruna con un movimento del capo. «Stavo solo notando…»
«Che cosa?».
«Beh, stavo dicendo che sarebbe bello se tu riesci a scovare un amico… per lei» (e indicò la compagna), «così potremmo andare da qualche parte a prendere un gelato, o un caffè, o qualcos’altro».
Martin avvertì un’improvvisa nausea dello spirito.
Il passaggio da Ruth a quella ragazza era stato troppo brusco. Accanto agli occhi arditi e sfacciati della donna davanti a lui vide quelli limpidi e luminosi di Lei, che lo osservava con un’espressione così infinitamente pura e profonda che gli parve di vedere il volto di una santa. E oscuramente sentì sorgere una grande forza in sé. Egli era superiore a ciò che aveva davanti. Per lui la vita aveva un significato più alto di quello che le attribuivano quelle due ragazze, le cui aspirazioni non andavano al di là del gelato e di un amico. Ricordò di avere sempre avuto una segreta vita interiore. Aveva cercato di comunicarla ad altri, ma non aveva mai trovato una donna, né un uomo, in grado di comprenderla. A volte aveva fatto il tentativo, ma era solo riuscito a sconcertare coloro che lo ascoltavano. E come i suoi pensieri erano al di là della portata di costoro, così, concluse, egli stesso doveva essere al di sopra di loro. Sentì in sé una grande vampata di forza e strinse i pugni. Se adesso la vita aveva assunto ben altro significato per lui, anche egli doveva esigere di più dalla vita, ma non poteva pretenderlo da compagnie come quella che aveva davanti. Quegli occhi audaci non avevano nulla da offrirgli. Sapeva che pensieri nascondevano – gelati e qualcos’altro. Ma quello sguardo di santa… quello sguardo offriva cose che già aveva conosciuto e altre che poteva intuire: libri e quadri, bellezza e quiete, e tutta la raffinatezza di un’esistenza superiore. Indovinava che pensieri si celassero dietro quegli occhi neri, come un organismo familiare di cui conosceva ogni movimento. Offrivano bassi piaceri, angusti come la terribile tomba che ne era l’inevitabile e spietato suggello. Gli occhi della santa, invece, offrivano mistero, meraviglie impensabili e vita eterna. In essi aveva intravisto le espressioni dell’anima di lei, e anche della propria.
«C’è solo una cosa che non va in questo programma», disse ad alta voce. «Ho già un appuntamento».
Gli occhi della ragazza fecero trapelare la sua delusione.
«Devi assistere un amico malato, immagino?», chiese beffarda.
«No, un vero appuntamento con…», esitò, «con una ragazza».
«Non mi starai pigliando per i fondelli?», chiese la ragazza con espressione severa.
La guardò fisso in volto e rispose: «È proprio così, davvero. Ma possiamo trovarci un’altra volta. Non mi hai detto ancora il tuo nome. Dove abiti?».
«Lizzie», rispose con tono più dolce stringendogli il braccio con la mano e appoggiandosi a lui con il corpo. «Lizzie Connolly. E abito sulla Quinta, all’angolo con Market Street».
Continuò a chiacchierare ancora per qualche minuto prima di augurare la buona notte. Non andò subito a casa; e giunto all’albero sotto cui trascorreva le sue veglie guardò verso la finestra mormorando: «Quell’appuntamento era con te, Ruth. Non ho voluto mancare».
VII
Una settimana di intense letture era passata dalla sera in cui aveva conosciuto Ruth Morse e Martin ancora non osava andarla a visitare. Più volte aveva raccolto tutto il suo coraggio per l’impresa, ma la determinazione gli era venuta meno di fronte ai dubbi che lo assalivano. Non sapeva quale fosse l’ora più adatta per presentarsi e siccome non aveva nessuno cui chiedere un parere temeva di commettere un errore imperdonabile. Liberatosi dei vecchi compagni e scrollatesi di dosso le abitudini del passato non gli rimaneva da fare altro che leggere. Le lunghe ore che dedicava a questa attività avrebbero rovinato gli occhi di chiunque, ma i suoi erano forti ed avevano il sostegno di un fisico possente. Inoltre la sua mente era come un campo appena arato, mai toccato dalle astrazioni contenute nei libri, e ormai pronto per la semina. Poiché non era mai stata logorata dalle fatiche dello studio, si impadroniva della cultura libresca con la voracità di un animale da preda che non vuole mollare ciò che è riuscito ad azzannare.
Gli sembrò alla fine della settimana di aver vissuto secoli, tanto lontane erano la vecchia vita e le abitudini del passato. Ma la mancanza di preparazione era per lui fonte di continue frustrazioni. Cercava di leggere libri che richiedevano anni di specializzazione. Un giorno affrontava un’opera di filosofia estremamente tradizionale, un altro un libro ultra-moderno, con la conseguenza che la testa gli si confondeva per il conflitto e le contraddizioni fra idee opposte. Lo stesso avvenne per gli economisti. Su uno scaffale della biblioteca trovò Karl Marx, Ricardo, Adam Smith e Mill, e le astruse formule dell’uno non spiegavano perché le idee dell’altro fossero superate. Era sconcertato, e tuttavia voleva capire. Un giorno sentì nascere in sé l’interesse per l’economia, l’industria e la politica. Passando per il City Hall Park aveva notato un gruppo di persone al centro del quale cinque o sei uomini discutevano animatamente con il viso rosso e a voce molto alta. Si accostò agli ascoltatori e sulle labbra di quei filosofi del popolo sentì un linguaggio nuovo, sconosciuto. Uno era un barbone, un altro un agitatore sindacale, un terzo uno studente in legge e gli altri erano operai con buone capacità nel parlare. Per la prima volta sentì parlare di socialismo, anarchia, imposta unitaria e apprese che c’erano filosofie sociali in contrasto. Udì centinaia di termini tecnici che gli erano nuovi, appartenenti a campi dell’attività intellettuale che non aveva mai neppure sfiorato. A causa di ciò non poté seguire da vicino le argomentazioni e fu solo in grado di avere intuizioni e formulare congetture sulle idee di cui quelle strane espressioni erano il veicolo. C’erano anche un uomo con gli occhi scuri, cameriere in un ristorante, che si professava teosofo, un fornaio sindacalizzato che si dichiarava agnostico, un vecchio che sconcertava tutti con una strana filosofia secondo la quale ciò che èè giusto, e un altro che si dilungava in interminabili discorsi sul cosmo e su padre atomo e su madre atomo.
Martin Eden aveva la testa frastornata quando si allontanò dopo diverse ore per correre in biblioteca a controllare i significati di una dozzina di parole inconsuete. E quando se ne andò aveva sotto il braccio quattro volumi: La dottrina segreta di Madame Blavatsky, Progresso e povertàLa quintessenza del socialismo e La guerra fra religione e scienza. Purtroppo cominciò con La dottrina segreta. Ogni riga era piena di parole lunghissime che non comprendeva. Rimase seduto con le spalle appoggiate allo schienale del letto e il dizionario accanto a sé, e finì per averlo davanti agli occhi più spesso che non l’opera che stava leggendo. Le parole nuove di cui era costretto a cercare il significato erano tante che quando le ritrovava le aveva ormai dimenticate e doveva andarle a rivedere. Decise di scrivere le definizioni in un taccuino e in tal modo riempì pagine e pagine di appunti, ma continuava a non capire. Lesse fino alle tre della mattina: gli girava la testa, ma non era ancora riuscito ad afferrare alcuno dei concetti fondamentali del testo. Alzando lo sguardo gli sembrò che la camera si alzasse, ondeggiasse e si abbassasse come una nave in mare. Con molte maledizioni lanciò lontano da sé La dottrina segreta, spense il gas e si preparò a dormire. Non ebbe molta più fortuna con gli altri tre libri. Ciò non era dovuto a scarsa intelligenza perché sarebbe stato in grado di comprendere quei pensieri se avesse avuto una formazione adeguata e se avesse acquisito gli strumenti concettuali idonei. Sospettando che quella fosse la causa delle sue difficoltà, meditò per qualche tempo se non gli convenisse studiare il dizionario fino a quando non si fosse impadronito di ogni termine che conteneva.
Tuttavia trovava consolazione nella poesia, e ne leggeva molta, ricavando le più grandi soddisfazioni dai poeti più semplici, che erano i più accessibili. Amava la bellezza e lì trovava la bellezza. Era una cosa che lo toccava nel profondo, come la musica e, sebbene allora non ne fosse consapevole, si andava così preparando agli studi più impegnativi che sarebbero seguiti. Il suo cervello era una tabula rasa e gran parte di ciò che leggeva e apprezzava in quelle strofe e in quei versi vi veniva registrato indelebilmente, finché Martin scoprì di provare grande piacere nel ripetere a voce alta, o con un sussurro appena accennato, le armoniose melodie che vedeva nelle pagine stampate. In seguito scorse a fianco a fianco, su uno scaffale della biblioteca, I miti classici di Gayley e L’età della favola di Bullfinch. Fu come una folgorazione, una vivida luce nelle tenebre della sua ignoranza, e lo portò a leggere ancor più avidamente opere di poesia.
L’impiegato seduto alla scrivania aveva visto Martin così spesso, che aveva assunto verso di lui un atteggiamento di grande cordialità, accogliendolo sempre al suo ingresso in biblioteca con un sorriso e un cenno del capo. E fu proprio questo il motivo che spinse Martin a diventare audace. Mentre ritirava alcuni libri e l’altro era impegnato a timbrare le schede, gli chiese all’improvviso: «Senta, c’è qualcosa che vorrei chiederle». L’impiegato gli rivolse un sorriso di incoraggiamento. «Quando si conosce una signorina, e lei vi chiede di andarla a trovare, dopo quanto tempo si può farlo?».
Si sentiva la camicia appiccicata alla pelle per il sudore provocato dall’emozione.
«Beh, direi in qualunque momento».
«Sì, ma qui è diverso», obiettò Martin. «Lei…io…beh, vede, le cose stanno così: magari lei non è in casa. Va all’università».
«Può sempre ripresentarsi un’altra volta».
«Non mi sono spiegato bene», confessò Martin con voce balbettante, decidendo di gettarsi del tutto alla mercè del suo interlocutore. «Io sono un tipo un po’ rozzo e non sono mai stato nella buona società. Questa ragazza è tutto quello che io non sono, e io non sono nulla di quello che è lei. Lei non penserà mica che io la stia prendendo in giro?», gli chiese all’improvviso.
«No, no, nient’affatto, glielo assicuro», protestò l’altro. «La sua richiesta non rientra precisamente nelle competenze del reparto delle opere di consultazione, ma io sarò lieto di aiutarla».
Martin lo guardò con ammirazione: «Se potessi contarla su bene in questo modo, mi andrebbe di lusso».
«Mi scusi, non ho capito».
«Voglio dire, se fossi capace di parlare come lei, così sciolto così cortese, eccetera».
«Oh», disse l’altro con tono comprensivo.
«Qual’è l’ora migliore per andare? Il pomeriggio?… Non troppo vicino all’ora di pranzo? O la sera? O la domenica?».
«Senta», rispose il bibliotecario illuminandosi in volto. «La chiami al telefono e glielo chieda».
«Lo farò», disse Martin raccogliendo i libri e avviandosi alla porta.
Ma prima di uscire si girò per fare un’altra domanda.
«Se parla con una donna giovane, per esempio con una che si chiama signorina Lizzie Smith, le dice “Signorina Lizzie” o “signorina Smith?”».
«Signorina Smith», rispose il bibliotecario con tono perentorio. «Dica sempre “Signorina Smith”, fino a quando non l’avrà conosciuta meglio».
E fu così che Martin Eden risolse il suo problema.
«Venga in qualunque momento; rimarrò in casa tutto il pomeriggio», fu la risposta telefonica di Ruth alla sua incerta richiesta sul momento più opportuno per la restituzione dei libri che gli erano stati prestati.
Gli venne incontro alla porta e il suo occhio femminile notò subito la piega dei pantaloni e un certo leggero ma indefinibile cambiamento in meglio nella persona. Rimase anche sorpresa dal viso di Martin. Era quasi violenta la sensazione di salute che emanava da quel volto e la investiva con forza. Di nuovo sentì in sé il desiderio di appoggiarsi a lui per riceverne il calore e di nuovo fu sorpresa degli effetti che quella presenza provocava in lei. Lui, a sua volta, riprovò la vertiginosa sensazione di piacere al contatto della mano di lei nel momento del saluto. L’unica differenza fra loro era che mentre la donna era fredda e controllata, il viso di lui era rosso fino alla radice dei capelli. La seguì con la sua andatura goffa, dondolando e muovendo esageratamente le spalle. Dopo che si furono seduti nel soggiorno cominciò a trovarsi a proprio agio – molto più di quanto non si fosse aspettato. La ragazza gli rese tutto più facile e il garbo con cui lo fece moltiplicò l’amore che provava per lei. Dapprima parlarono dei libri che aveva preso – di Swinburne di cui era appassionato e di Browning che non capiva; e lei condusse la conversazione passando da un argomento all’altro, sempre pensando al modo migliore per poterlo aiutare. Ci aveva riflettuto dopo il loro primo incontro. Avrebbe voluto tanto essere utile a un uomo che, lungi dal suscitare in lei alcuna forma di disprezzo, le faceva sentire dentro una pietà e una tenerezza quali non aveva mai sentito, le faceva provare un istinto quasi materno. Non poteva essere una normale compassione, se colui che la provocava emanava una virilità tale da turbarla nei suoi timori di fanciulla e risvegliarle nella mente e nel cuore idee e sentimenti strani. Sentì di nuovo grande attrazione per quel collo maschile e struggente dolcezza al pensiero di posarvi le mani. Anche quella volta lo percepì come un impulso irresistibile, ma cominciava ad abituarvisi e non le venne mai in mente che quelli fossero i segni con cui si rivelava l’amore, né che fosse amore ciò che quell’uomo aveva scatenato in lei. Credeva di interessarsi a lui semplicemente per la curiosità che normalmente si ha per un tipo insolito in possesso di varie qualità potenziali e nei suoi confronti si sentiva addirittura animata da spirito filantropico.
Non sapeva di desiderarlo. Per lui era diverso. Martin era certo di amarla e la voleva con un ardore che non aveva mai provato per niente altro in vita sua. Aveva amato la poesia per amore della bellezza, ma dopo aver incontrato Ruth gli si era spalancato davanti lo sterminato territorio della poesia d’amore. Lei gli aveva dato una capacità di comprensione superiore a quella che aveva acquisito nella lettura di Bullfinch e di Gayley. Un verso che una settimana prima non avrebbe giudicato degno di riflessione. – «Il folle amante divino che muore per un bacio» – gli ricorreva ora nella mente in modo ossessivo. Quanta verità e quanta bellezza erano in esso! E nel guardare la fanciulla capiva che sarebbe stato pronto a morire per un bacio. Si sentì anch’egli un folle amante divino; nessuna onorificenza di cui fosse stato solennemente insignito avrebbe potuto renderlo più orgoglioso. E alla fine comprese quale fosse il significato della vita e perché fosse venuto al mondo.
Contemplandola e ascoltandola i suoi pensieri divennero più audaci. Rammentò la gioia delirante per il tocco della mano alla porta e provò un bruciante desiderio di risentirlo. Gli occhi si posavano spesso sulla bocca di lei, da cui era irresistibilmente attratto. Ma non c’era nulla di profano e di volgare in quell’impulso. Era invaso da una felicità indicibile nel seguire ogni movimento e gioco delle labbra mentre pronunciavano le parole; non erano labbra come quelle di tutte le altre creature umane, la loro sostanza non era creta mortale. Erano fatte di puro spirito, e il desiderio che suscitavano in lui era diverso da quello che aveva avvertito per altre donne. Avrebbe potuto baciarle, quelle labbra, posarvi le sue, ma sarebbe stato un gesto animato dallo stesso nobile e reverente fervore con cui il fedele bacia la tunica di Nostro Signore. Non era consapevole di questa metamorfosi avvenuta in sé, e non si era accorto che la luce che gli brillava negli occhi quando la guardava fosse la stessa che illumina lo sguardo di tutti gli uomini innamorati. Non immaginava quale maschio ardore prorompesse dai propri occhi, né gli effetti sullo spirito di lei del calore di quelle fiamme. Fu esaltato e confuso dalla sua penetrante verginità, che elevava i pensieri ad una siderale e gelida castità, ma sarebbe stato sorpreso di sapere che la luce del proprio sguardo, come un’ondata di calore, la faceva vibrare di un fuoco simile al suo. Lei ne fu sottilmente turbata e più di una volta senza rendersi conto del perché, perse il filo del ragionamento a causa di quella dolce intrusione che la costringeva a uno sforzo mentale nel tentativo di rimettere in ordine idee già in parte espresse. Parlare le era sempre riuscito facile e queste interruzioni l’avrebbero sconcertata, se non fosse stata convinta che erano determinate dal fatto di trovarsi di fronte a un tipo umano di notevole interesse. Era molto sensibile alle impressioni, e non era dunque strano che fosse stata colpita in modo così intenso da un uomo che pareva provenire da un altro mondo.
Giacché il problema di come aiutarlo, sia pure in secondo piano, persisteva ancora, la ragazza indirizzò la conversazione in quella direzione; ma fu Martin che affrontò la questione per primo. «Forse lei può darmi un buon consiglio», cominciò, ricevendo un segno di incoraggiamento che gli fece balzare il cuore in gola. «Ricorda l’altra volta che sono stato qui, che le ho detto a lei che non ero capace a parlare di libri e altre cose così perché non ne sapevo un’acca? Beh, ci ho pensato su molto. Ho passato un sacco di tempo in biblioteca, ma i libri che ho preso non erano roba facile. Ma forse è meglio che le spieghi tutto da principio. Ho sempre avuto una vita difficile. Ho lavorato duro fin da quando ero piccolo, e ora che sono stato in biblioteca e che ho visto i libri con altri occhi – e anche gli altri libri che ho visto – ho capito che i libri che leggevo non erano quelli giusti. Sa, i libri che uno trova negli allevamenti di bestiame e sulle navi non sono gli stessi che lei ha magari in casa sua. Beh, queste sono le letture che ho fatto. Ma io – non lo dico per vantarmi – sono diverso da quelli con cui sono stato. Non dico che sono migliore dei marinai e dei vaccari che erano con me – per un po’ ho fatto anche il vaccaro – ma i libri mi sono sempre piaciuti, ho letto tutto quello che mi capitava fra le mani – beh, penso proprio di essere diverso dalla maggior parte di loro.
«Ora, per tornare a bomba: non sono mai stato in una casa come questa. Quando sono venuto una settimana fa, e ho visto tutto, e lei, e sua madre, e i fratelli e tutto il resto – beh, mi è piaciuto moltissimo. Avevo sentito parlare di queste cose e avevo letto di queste cose nei libri, e quando mi sono guardato in giro in casa sua ho visto che quello che avevo letto nei libri era vero. Comunque quello che conta è che mi è piaciuto moltissimo tutto questo. Lo volevo anch’io. E lo voglio ancora. Voglio respirare un’aria come quella che si respira in questa casa – un’aria piena dell’odore dei libri, dei quadri, delle cose belle, dove la gente parla a bassa voce ed è pulita e quello che pensa è pulito. L’aria che ho sempre respirato io puzzava di sbobba e dell’affitto da pagare e di spazzatura e di birra, e nessuno sapeva parlare d’altro. Sa, quando lei ha traversato la stanza ed è andata a baciare la sua mamma, ho pensato che quella era la cosa più bella che avevo mai visto. Ho visto molto della vita, e comunque molto di più di ciò che hanno visto quelli che in genere stavano con me. Mi piace conoscere le cose, e voglio sempre vedere dell’altro, e voglio sempre vedere posti diversi.
«Ma non sono ancora venuto al punto. Adesso ci arrivo. Voglio aprirmi la strada fino al tipo di vita che fa lei in questa casa. Al mondo ci sono altre cose oltre alle sbronze, e alla fatica del lavoro, e allo sbattersi sempre in giro. Ora, che devo fare per riuscirci? Da dove cominciare? Sono pronto a lavorare sodo per pagarmi questo viaggio, e quando si tratta di sgobbare pochi ce la fanno a starmi alla pari. Se comincio sono capace di lavorare giorno e notte. Magari lei pensa che è strano che domando tutto questo proprio a lei, ma non ho nessun altro da chiedere – o forse Arthur. Sì, magari dovevo domandare a lui…. Ma se io dovevo…».
Si interruppe. Il suo piano così accuratamente preparato era naufragato di fronte al terribile sospetto che si sarebbe dovuto rivolgere ad Arthur, e che si era reso ridicolo. Ruth non rispose subito. Era troppo impegnata a cercare di conciliare quel discorso impacciato e balbettante, e l’ingenuità di quei pensieri, con ciò che scorgeva nel viso di lui. Non aveva mai visto tanta energia negli occhi di un uomo. Ecco un uomo che può fare qualsiasi cosa, era il messaggio che leggeva in quello sguardo, un messaggio che mal si accordava con la debolezza delle parole in cui era stato formulato. Senza contare che la sua mente, così raffinata e agile, non era in grado di apprezzare adeguatamente la semplicità. E tuttavia Ruth aveva intuito proprio nell’incertezza in cui quella mente si dibatteva una forza enorme. Le era parso qualcosa di simile allo sforzo di un gigante impegnato a liberarsi dalle catene che lo tengono avvinto. Quando parlò, il suo volto era pieno di comprensione.
«Lei stesso ha capito di che cosa abbia bisogno. Le occorre un’istruzione regolare. Dovrebbe quindi tornare a scuola per terminare le secondarie e poi continuare andando all’università».
«Ma ci vogliono soldi», l’interruppe lui.
«Oh! Non ci avevo pensato», esclamò la ragazza. «Non ha parenti, qualcuno che la possa aiutare?».
Lui scosse la testa.
«Mio padre e mia madre sono morti. Ho due sorelle, una sposata e una che si sposerà presto, penso. Poi ho un mucchio di fratelli – io sono il minore – ma loro non hanno mai dato una mano a nessuno. Se ne sono andati in giro per il mondo pensando solo a se stessi. Il più vecchio è morto in India. Due sono in Sud Africa adesso, e un altro è imbarcato su una baleniera, e un altro viaggia con un circo – fa il trapezista. Penso di essere anch’io come loro. È da quando avevo undici anni che ho badato a me stesso – cioè da quando è morta mia mamma. Devo studiare da solo, immagino, e quello che voglio sapere è da dove cominciare».
«Credo che la prima cosa da fare sia di procurarsi una grammatica. Il suo modo di esprimersi…», stava per dire «è spaventoso», ma si corresse e concluse, «non è molto corretto».
Martin arrossì e cominciò a sudare.
«So che tiro fuori molte parole di gergo che lei non capisce, ma sono le sole parole che conosco, o almeno che conosco bene. Me ne vengono in mente altre, che ho pescato nei libri, ma non sono sicuro di saperle dire a proposito e così non le uso».
«Non è tanto quello che lei dice, quanto il modo in cui lo dice. Mi perdona se sono sincera? Non vorrei ferire la sua sensibilità».
«No, no», esclamò lui, intimamente commosso per la gentilezza che gli dimostrava. «Spari pure. Devo saperlo, e preferisco che me lo dica lei piuttosto che chiunque altro».
«Ecco, per esempio lei dice “più minore” invece di “minore” e “non ho nessuno da chiedere” invece di “non ho nessuno a cui chiedere”. Poi usa in modo errato i pronomi…»
«Che cosa sono i pronomi?», domandò Martin; e aggiunse umilmente: «Vede, non capisco nemmeno le sue spiegazioni».
«In effetti non gliel’ho spiegato», rispose la fanciulla con un sorriso. «Per esempio, poco fa ha usato l’espressione “le ho detto a lei”. Non doveva aggiungere “a lei” perché “le” significa, appunto, “a lei” e quindi aveva già usato il pronome giusto. Il secondo pronome è una ripetizione grammaticalmente scorretta».
«Ora capisco» disse Martin. «Non ci avevo mai pensato. Se dico “le” è come se dico “a lei” e allora è inutile dire “a lei” un’altra volta. Non mi era mai venuto in mente che era sbagliato e non lo dirò più».
Ruth rimase sorpresa dalla prontezza di lui nell’afferrare quei concetti. Avuto il suggerimento non solo aveva capito ma era anche riuscito a dare una spiegazione, più efficace di quella di lei.
«Troverà tutto nella grammatica», proseguì. «Ci sono altre cose che ho notato nel suo modo di parlare. Qualche volta usa “ci” invece di “le”. Non è corretto usare “ci” in sostituzione di “a lei”. “Ci” è una variante di un altro pronome personale. Lo sapeva?».
Egli rifletté per un istante; poi rispose: «Vuol dire “a noi”».
La fanciulla fece un cenno di approvazione con la testa e continuò: «E poi lei non usa i congiuntivi».
Martin assunse un’espressione perplessa. Era qualcosa che non riusciva ad afferrare.
«Mi faccia un esempio».
«Bene…», Ruth aggrottò la fronte pensando a ciò che doveva dire, mentre lui, continuando a fissarla, giunse alla conclusione che aveva un’espressione adorabile. «”Mi pare che è strano”. Non le pare una forma scorretta?».
Egli cominciò a riflettere ripetendosi mentalmente quelle parole.
«Non le suona male?».
«Non mi pare», riprese Martin attento ad esprimersi in modo corretto.
«Perché non ha detto “a me non mi pare”?».
«Perché è sbagliato. Ma per l’altro, – beh, non so proprio che dire. Forse il mio orecchio non è abituato come il suo».
«Bisognerebbe dire “mi pare che sia strano”», esclamò la ragazza.
Martin arrossì di nuovo.
«E poi la pronuncia», proseguì Ruth. «Non parliamo delle “o” e delle “e” che pronuncia aperte quando dovrebbero essere chiuse e viceversa. Ma dovrebbe almeno correggere la sua “z”, che è spaventosa».
«In che senso?», chiese Martin piegandosi verso di lei pieno di tanta gratitudine che le si sarebbe inginocchiato ai piedi.
«Lei sbaglia la pronuncia di questo suono. Lei dice “stansa” invece di “stanza” e “marso” invece di “marzo”. Deve stare anche attento ai suoni con la “g”. Qualche volta li pronuncia giusti e qualche altra li sbaglia. Dice “campania” invece di “campagna” e “li ho parlato” invece di “gli ho parlato”. Ma è inutile che continui. Ciò che le occorre è una buona grammatica. Gliene vado a prendere una e le faccio vedere da dove cominciare».
Mentre Ruth si alzava gli venne in mente come in un lampo una regola che aveva letto nei libri sulle buone maniere e si tirò su goffamente non sapendo se fosse proprio quello ciò che doveva fare, con il rischio, inoltre, che la ragazza lo interpretasse come un segno che fosse lui a volersene andare.
«A proposito signor Eden», disse voltandosi quando fu alla porta. «Che cosa significa “filtrare?”. È una parola che ha usato più volte».
«Ah, filtrare», rise Martin. «È gergo. Vuol dire prendere whisky e birra – insomma tutto quello che bevi quando vuoi ubriacarti».
«E un’altra cosa», rise a sua volta la ragazza. «Non usi il pronome “tu” quando vuole descrivere azioni impersonali. “Tu” è molto personale e lei adesso non lo ha usato in questo senso».
«Non capisco».
«Poco fa lei mi ha detto, “whisky e birra – insomma tutto quello che bevi quando vuoi ubriacarti” – ora, io non voglio ubriacarmi, ha capito adesso?».
«Ma se vuoi ubriacarti devi berli».
«Sì, naturalmente», disse lei sorridendo. «Ma sarebbe meglio che lei non mi coinvolgesse personalmente. Usi “si” al posto di “tu” – “quello che si beve quando ci si vuole ubriacare” – suona anche molto meglio».
Tornando con la grammatica avvicinò una sedia a quella di lui – Martin si chiese se dovesse aiutarla in questa operazione – e gli si sedette accanto. Mentre sfogliava le pagine del libro le loro teste erano vicinissime. Inebriato da quella intimità, Martin faticava a seguire quello che la fanciulla gli diceva per assegnargli il lavoro da svolgere. Ma quando lei cominciò a esporre l’importanza della coniugazione dei verbi fu così affascinato dalla struttura del linguaggio che per la prima volta gli si rivelava, che si dimenticò di chi gli stava a fianco. Accostandosi di più alla pagina si sentì sfiorare la guancia dai capelli di lei. Era svenuto una sola volta in vita sua e credette di essere sul punto di ripetere quella esperienza. Non riusciva a respirare perché il cuore gli batteva in gola fino quasi a soffocarlo. Non gli era mai parsa così accessibile. In quell’attimo il grande baratro che si stendeva fra loro era scomparso. E ciò nonostante il sentimento che provava non aveva perso nulla della sua natura elevata. Non era stata lei ad abbassarsi fino a lui, ma era stato lui ad elevarsi nell’alto dei cieli fino a lei. In quel momento la reverenza che lo pervadeva assomigliava al rispetto e al fervore dei credenti. Gli sembrava di essere penetrato abusivamente nel sancta sanctorum e a poco a poco, con grande cautela, allontanò il capo da quello di lei, ponendo fine a una vicinanza che lo aveva fatto vibrare come una scarica elettrica, ma di cui lei non si era accorta.
VIII
Passarono diverse settimane, durante le quali Martin Eden studiò la grammatica, ripassò i libri sulle buone maniere e ne lesse voracemente altri che lo avevano attratto. In quel periodo non frequentò nessuno della sua stessa classe sociale. Le ragazze del Lotus Club si chiedevano che ne fosse stato di lui e tormentavano Jim di domande, ma alcuni dei giovanotti che avevano indossato i guantoni da Riley furono contenti che non venisse più. Martin, nel frattempo, aveva fatto un’altra preziosa scoperta in biblioteca. Come la grammatica gli aveva rivelato la struttura della lingua, così quest’opera gli apri gli occhi su quella della poesia consentendogli di capire, attraverso lo studio della metrica, della costruzione e della forma quale fosse la fonte segreta di tanta bellezza. Un altro saggio moderno trovato in biblioteca trattava la poesia come un’arte rappresentativa, analizzandola in modo esauriente con abbondanti esempi tratti da quanto di meglio era in letteratura. Non aveva mai letto opere di narrativa con la stessa passione che mise nello studio di questi libri. La sua fresca intelligenza, mai messa alla prova nei primi vent’anni di vita e ora spinta dalla maturità del desiderio, si impadroniva di ciò che leggeva con un vigore inconsueto alla mente degli studenti.
Ricordandola adesso dalla sua nuova posizione, la vecchia realtà che aveva conosciuto, fatta di terra, mare e navi, di marinai e donnacce, gli sembrava piccola, e tuttavia, fondendosi con il nuovo universo, tendeva ad espandersi insieme con questo. Con una mente come la sua, portata alla ricerca dell’unità, Martin rimase sorpreso quando cominciò a vedere per la prima volta punti di contatto fra questi due mondi. Si sentiva nobilitato dall’elevatezza dei pensieri e dalla bellezza che trovava nei libri. Ciò lo indusse a credere ancora più fermamente che al di sopra del suo ceto, nella classe sociale di Ruth e della famiglia di lei, tutti avessero questi pensieri e che vi si ispirassero nel loro modo di vivere. Giù di sotto dove lui viveva c’era l’ignobile e lui voleva purgarsi dell’ignobile che aveva sporcato tutti i suoi giorni e salire a quel regno sublimato dove abitavano la classi superiori. Per tutta la fanciullezza e giovinezza era stato tormentato da una vaga inquietudine: non aveva mai scoperto che cosa desiderasse, ma si trattava di qualcosa che aveva cercato vanamente fino a quando non aveva conosciuto Ruth. Ora la sua irrequietezza era diventata intensa e dolorosa, e sapeva finalmente, in modo chiaro e inequivocabile, che le cose cui voleva assolutamente arrivare erano la bellezza, l’intelletto e l’amore.
Durante quelle settimane vide Ruth cinque o sei volte, e ognuna fu una nuova fonte d’ispirazione. Lei lo aiutava nella lingua inglese, gli correggeva la pronuncia e lo introdusse all’aritmetica. Ma quegli incontri non erano dedicati solo agli studi di base. Egli aveva avuto tante esperienze nella vita e la sua mente era così matura che non si accontentava delle frazioni, della radice cubica, dell’analisi del testo e degli elementi della frase; c’erano momenti in cui la conversazione si volgeva ad altri argomenti – all’ultima poesia che l’uno aveva letto e all’ultimo poeta che l’altra aveva studiato. E quando lei leggeva ad alta voce i brani preferiti, lui raggiungeva il massimo della felicità. Nessuna di tutte le donne che aveva sentito parlare, aveva mai avuto una voce come quella. Il più piccolo suono accresceva il suo amore, ogni parola lo faceva fremere e tremare. Quella voce pacata, modulata, musicale, era il dolce, ricco e indefinibile prodotto della cultura e della gentilezza d’animo. Ascoltandola si sentiva risuonare nelle orecchie le grida stridule delle donne indigene e delle prostitute e, meno aspre, le rauche cantilene delle operaie e delle ragazze del suo ceto. E allora il cervello cominciava a trasformarle in visioni che gli si presentavano una dopo l’altra agli occhi della mente, ciascuna moltiplicando nel contrasto le splendide qualità di Ruth. La sua felicità diventava ancora più intensa al pensiero che lei comprendeva ciò che leggeva e palpitava di piacere nel percepire la bellezza della pagina scritta. Gli lesse gran parte di The Princess e spesso le vide gli occhi colmi di lacrime, tanto forte era la sua sensibilità estetica. In quei momenti le emozioni che lei provava lo innalzavano a un’altezza divina e, guardandola, Martin aveva l’impressione di scrutare il volto della vita e di leggerne i segreti più profondi. Conscio dell’altissimo livello di raffinata sensibilità che aveva raggiunto egli concluse che era amore, e che l’amore era la cosa più grande del mondo. Passava allora in rassegna, traendoli dai meandri della memoria, tutti i fremiti e gli ardori che aveva provato in passato – l’ebrietà del vino, le carezze delle donne, la rudezza dei colpi dati e ricevuti negli scontri fisici – e tutti gli sembravano ora squallidi e volgari paragonati a quel fuoco sublime che lo colmava di gioia.
Era invece una situazione nuova per Ruth, che non aveva mai avuto esperienze sentimentali. In questo campo le sole conoscenze le venivano dai libri, nei quali i fatti della vita ordinaria venivano trasformati dalla fantasia in un mondo immaginario; non pensava che questo rozzo marinaio le si stesse insinuando nel cuore, ammassandovi una forza esplosiva che un giorno sarebbe scoppiata avvolgendola in un rogo gigantesco. Ignorava che cosa fosse la fiamma dell’eros. Ciò che sapeva dell’amore era puramente teorico, e nella concezione che se ne era fatta lo vedeva come una quieta lingua di fuoco, dolce come gocce di rugiada o le lievi increspature di un laghetto, e fresco come la vellutata oscurità delle notti d’estate. L’amore, ai suoi occhi, era piuttosto un affetto tranquillo che si volgeva alla persona amata in una delicata atmosfera di calma eterea pervasa da un tenue profumo di fiori e avvolta da una luce soffusa. Non riusciva a immaginare le vulcaniche esplosioni dell’amore, il calore rovente e le desolate distese di ceneri infuocate che lasciava. Non conosceva né ciò che in lei stessa rimaneva nascosto, né ciò che si celava nel mondo: gli abissi della vita erano coperti dal mare delle illusioni. L’affetto coniugale che univa suo padre e sua madre costituiva il suo ideale di affinità amorosa, e attendeva il giorno in cui anche lei sarebbe arrivata, senza difficoltà e turbamenti, al tranquillo approdo di una dolce unione con l’uomo amato.
Fu così che cominciò a vedere Martin Eden come una novità, come una creatura strana, e a considerare strani e nuovi gli effetti che produceva su di lei. Ed era naturale che così fosse. Allo stesso modo aveva provato sensazioni insolite osservando gli animali allo zoo o percependo con un brivido la luce abbagliante del fulmine. C’era qualcosa di cosmico in quelle manifestazioni, e c’era qualcosa di cosmico in lui. Vedeva nel suo volto il bagliore del sole tropicale, e nei suoi muscoli palpitanti e possenti il primordiale vigore della vita. Era segnato e scavato da quel mondo misterioso di uomini rudi e di azioni ancora più rudi i cui avamposti si trovavano al di là dell’orizzonte di lei. Lui era una creatura ribelle e selvaggia e segretamente Ruth si sentiva lusingata nella vanità dal fatto che la seguisse in modo così mansueto. Era anche animata dal comprensibile desiderio di addomesticare quell’animale pericoloso. Ma era un impulso inconscio e mai la ragazza avrebbe immaginato che in realtà aspirava a modellare quella creta a somiglianza della figura del padre, in un’immagine che per lei era la più bella al mondo. Né si rendeva conto, a causa dell’inesperienza, che quel senso cosmico che aveva colto in lui era il più cosmico fra tutti i fenomeni della realtà, l’amore, che attirava con uguale forza gli uomini e le donne in tutte le parti del mondo, costringeva i cervi a uccidersi nella stagione degli accoppiamenti e spingeva persino gli elementi a unirsi con forza irresistibile.
Il rapido sviluppo di Martin era per lei fonte di meraviglia e di interesse. Scopriva in lui qualità inattese, che parevano sbocciare, da un giorno all’altro, come fiori piantati in un terreno favorevole. Gli leggeva ad alta voce Browning ed era spesso sorpresa dalle strane spiegazioni che dava di passi controversi. Non era in grado di capire che grazie alla sua esperienza degli uomini, delle donne e della vita, le interpretazioni che forniva erano molto più corrette di quelle di lei. Le concezioni che aveva le sembravano ingenue, benché spesso si sentisse stimolata da quegli audaci voli della mente, con cui si spingeva ad altezze e a distanze tali che lei non riusciva a seguirlo e doveva limitarsi ad osservare, piena di ammirazione, il lavorio di quella straordinaria intelligenza. Poi Ruth suonava – non più contro di lui – sondandone l’animo con una musica che penetrava più profondamente di quanto lei non potesse immaginare. La sua natura si apriva a quei suoni come un fiore al sole, passando rapidamente dal ragtime e dalle canzonette popolari ai brani più frequentati del repertorio classico, che lei conosceva quasi a memoria. Palesò subito una predilezione per Wagner, frutto delle sue tendenze democratiche, e l’ouverture del Tannhäuser divenne, dopo che lei glielo ebbe illustrato, il pezzo che più lo attirava. Identificava tutto il suo passato nel motivo della Venusberg, e Ruth nel Coro dei pellegrini; e dall’entusiasmo cui la musica lo aveva portato spaziava nell’oscura regione della ricerca dello spirito, in cui si svolge l’eterna battaglia fra bene e male.
Qualche volta la interrogava e le insinuava qualche dubbio sulla correttezza del modo in cui definiva e concepiva la musica. Ma sul canto non aveva riserve. Ella vi metteva tutta se stessa, ed egli rimaneva sempre pieno di ammirazione per la divina musicalità della sua pura voce di soprano. E non poteva fare a meno di confrontarla con il debole pigolìo e gli striduli gorgheggi delle operaie, malnutrite e ineducate, e con i rauchi urli che uscivano dalla gola rovinata dal gin delle donne nelle città di porto. Alla ragazza piaceva cantare e suonare per lui. In realtà era la prima volta che Ruth agiva su un’anima umana, ed era felice di modellare una materia così duttile; era convinta infatti che sarebbe riuscita a dargli la foggia che voleva. Inoltre stare con lui le piaceva, non provava più alcuna repulsione. Quella prima reazione era stata in effetti causata dal timore di scoprire il proprio io sconosciuto, ma ormai lo aveva superato. Pur non essendone consapevole, sentiva di avere su di lui diritti di proprietà. E poi egli aveva su di lei un effetto stimolante. Ruth studiava intensamente all’università, e le faceva bene uscire ogni tanto dal chiuso dei libri per respirare la corroborante atmosfera che spirava da lui, fresca come una brezza marina. Forza! Era di forza che aveva bisogno e lui gliela dava generosamente. Entrare nella stessa stanza, o incontrarlo alla porta aveva su di lei un effetto rigeneratore. E quando se ne era andato, tornava ai libri con rinnovato ardore e una nuova carica di energia.
Ruth conosceva Browning, ma non si era mai resa conto della delicatezza che occorre nel giocare con le anime. A mano a mano che il suo interesse per Martin aumentava, il desiderio di trasformarne la vita divenne per lei una vera ossessione.
«Prendiamo il signor Butler», disse un pomeriggio dopo aver terminato le consuete attività con la grammatica, l’aritmetica e la poesia. «In partenza era in una posizione relativamente sfavorevole. Suo padre era stato impiegato di banca, ma si trascinò per anni a causa della salute malferma, fino a quando non morì di turbercolosi in Arizona, e dunque alla sua morte il signor Butler – il suo nome è Charles Butler – si trovò solo al mondo. Il padre veniva dall’Australia e lui non aveva parenti in California. Andò a lavorare in una tipografia – gliel’ho sentito raccontare tante volte – e come prima paga guadagnava tre dollari la settimana. Il suo reddito è ora di almeno trentamila dollari l’anno. Come c’è riuscito? Era onesto, fidato, industrioso e parsimonioso. Evitava i piaceri cui la maggior parte dei ragazzi non sa rinunciare. Si era proposto di mettere da parte un tanto la settimana, qualunque fosse ciò di cui doveva privarsi. Naturalmente presto guadagnò più di tre dollari la settimana, e a mano a mano che il salario aumentava risparmiava sempre di più.
«Lavorava di giorno e la sera andava a scuola. Aveva sempre lo sguardo fisso al futuro. In seguito frequentò un istituto superiore serale. Quando compì diciassette anni aveva un ottimo salario come tipografo, ma era ambizioso. Voleva far carriera e non solo guadagnarsi da vivere, ed era disposto a fare sacrifici immediati in vista di un tornaconto futuro. Decise di entrare in campo legale e si fece assumere come fattorino nell’ufficio di papà – pensi! – con una paga di solo quattro dollari la settimana. Ma aveva imparato a fare economie e continuò a risparmiare anche su quei quattro dollari».
Si fermò per ripigliare fiato e per vedere come la prendeva Martin. Il viso di lui mostrava vivo interesse per gli sforzi giovanili del signor Butler, ma anche un’ombra di perplessità.
«Direi che se la passava proprio male», osservò. «Quattro dollari alla settimana! Come poteva viverci? Certo che ne doveva aver pochi, di grilli per il capo. Beh, io pago cinque dollari alla settimana per vitto e alloggio e non faccio proprio niente di straordinario, questo è sicuro. Ma lui deve aver vissuto come un cane. Quello che mangiava…».
«Si cucinava da solo», l’interruppe Ruth, «su un fornellino a cherosene».
«Quello che mangiava doveva essere peggio di quello che danno ai marinai nelle carrette più scassate… e non c’è un vitto più schifoso di quello».
«Ma pensi a ciò che è adesso!», esclamò Ruth con entusiasmo. «Pensi a ciò che può permettersi con il suo reddito attuale. I suoi sacrifici gli fruttano una ricompensa mille volte maggiore».
«Scommetto una cosa», disse Martin guardandola con occhi penetranti, «ed è che il signor Butler non è un tipo allegro adesso che le cose gli vanno così bene. Se per anni ha mangiato in quel modo scommetto che si è rovinato lo stomaco».
Ruth abbassò gli occhi sentendosi scrutata in quel modo.
«Scommetto che soffre di cattiva digestione!», l’incalzò Martin.
«Sì», confessò la ragazza, «ma…».
«E scommetto», proseguì lui implacabile, «che è un tipo tetro e noioso come un gufo e che non è capace di divertirsi, con tutti i suoi trentamila dollari all’anno. E scommetto che si scoccia pure, se vede gli altri divertirsi. Non ho ragione?».
Lei annuì in segno di assenso, affrettandosi però a precisare:
«Non è un tipo così, ma un uomo serio e sobrio per natura. Lo è sempre stato».
«E ci credo!», esclamò Martin. «Guadagnare tre o quattro dollari alla settimana, farsi da mangiare su un fornellino a petrolio per risparmiare, lavorare tutto il giorno e la sera studiare, sempre a sgobbare e mai a divertirsi, non godersi mai la vita, non avere mai saputo come si fa a godersi la vita; ma è chiaro: i trentamila dollari gli sono arrivati troppo tardi».
Nella sua umana comprensione cercava di immaginare nei minimi particolari l’esistenza di quel ragazzo e la grettezza spirituale della sua trasformazione in un uomo da trentamila dollari l’anno. Con un balzo prodigioso della sua fervida immaginazione Martin vide tutta la vita di Charles Butler animarsi e dilatarsi davanti agli occhi.
«Sa» aggiunse. «Mi dispiace per il signor Butler. Era troppo giovane per capirlo, ma per amore di questi trentamila dollari all’anno ha rinunciato a vivere. E adesso questi soldi sono sprecati per lui. Questi trentamila, tutti insieme, non sono capaci di dargli quello che avrebbe potuto dargli la monetina da dieci centesimi che metteva via da ragazzo invece di comprarsi le caramelle, le noccioline, o un ingresso in loggione».
Era la singolarità di queste affermazioni che sbalordiva Ruth, non solo perché erano nuove e contrarie alle sue convinzioni, ma anche perché vi avvertiva un fondo di verità che minacciava di sconvolgere i suoi valori. Se invece di ventiquattro anni ne avesse avuti quattordici ne sarebbe stata trasformata; ma aveva ventiquattro anni, era conservatrice per natura e per educazione e si era già cristallizzata in quella nicchia dell’esistenza nella quale era nata e si era formata. Era vero che quei bizzarri giudizi la turbavano nel momento in cui li sentiva enunciare, ma li attribuiva al temperamento particolare e alle esperienze insolite di lui, e presto li dimenticava. Ciò nonostante, pur disapprovandoli, la forza della voce che li pronunciava, il lampeggiare di quegli occhi e la serietà del viso che ad essi si accompagnavano la facevano fremere ogni volta, attirandola irresistibilmente verso di lui. Non avrebbe mai immaginato che in quei momenti quell’uomo, venuto da una regione oltre il suo orizzonte, si spingesse, con ardito volo del pensiero, molto al di là delle sue frontiere. Il suo ambito non superava questi confini, ma le menti limitate sono in grado di riconoscere solo le limitazioni altrui. Ruth, convinta di avere un intelletto molto aperto, riteneva che i conflitti che fra loro sorgevano fossero dovuti ai limiti di lui; sognava perciò di aiutarlo a vedere come lei vedeva, di ampliare il suo orizzonte fino a farlo coincidere con il proprio.
«Ma non ho finito la mia storia», riprese. «Lavorava, dice il papà, come nessun altro fattorino ha mai fatto. Era sempre disponibile, non arrivava mai in ritardo e di solito si trovava in ufficio qualche minuto prima dell’orario d’inizio. E tuttavia riusciva a trovare il modo di studiare. Ogni ritaglio di tempo era per lo studio. Imparò la contabilità e la dattilografia e si pagava le lezioni di stenografia facendo dettati la sera a un cronista giudiziario che aveva bisogno di impratichirsi. Presto fu promosso impiegato e si rese indispensabile. Il papà lo stimava molto e vide che avrebbe fatto strada. Fu su suo suggerimento che si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. Divenne avvocato e appena rientrò in ufficio il papà lo fece diventare socio dello studio. È un grand’uomo. Diverse volte ha rifiutato la candidatura a senatore degli Stati Uniti; il papà dice che, se solo lo volesse, potrebbe essere nominato giudice della Corte Suprema ogni volta che vi è un posto vacante. Una vita così è una fonte di ispirazione per tutti noi. Ci dimostra che con la propria volontà un uomo può elevarsi al di sopra dell’ambiente in cui è nato».
«È un grand’uomo», disse Martin con sincerità.
Tuttavia gli sembrava che in quel racconto vi fosse qualcosa che contrastava con la sua concezione della vita e della bellezza. Non riusciva a trovare motivazioni adeguate nella vita piena di privazioni e sacrifici del signor Butler. L’avesse fatto per l’amore di una donna o per il raggiungimento della bellezza Martin l’avrebbe capito. Il folle amante divino deve essere pronto a tutto per un bacio, ma non per trentamila dollari l’anno. La carriera del Signor Butler non lo convinceva. Tutto sommato aveva un che di meschino. Trentamila all’anno erano una bella cosa, ma lo stomaco in disordine e l’incapacità di godere della felicità che è prerogativa degli esseri umani toglieva a quel denaro ogni valore.
Questo cercò di comunicare a Ruth, ma la scandalizzò, facendole chiaramente capire che era necessario intervenire ancora per dargli un giusto indirizzo. La ragazza aveva quella diffusa chiusura mentale dalla quale tutte le creature umane sono indotte a credere che la propria razza, la propria fede religiosa e le proprie idee politiche siano le migliori e le sole giuste e che i loro simili sparsi nel resto della terra si trovano in una situazione meno fortunata della loro. Era la stessa ristrettezza che spingeva gli antichi Ebrei a ringraziare Dio di non essere nati donne e che fece andare i missionari moderni nei più remoti angoli del mondo a sostituire gli dei degli indigeni con altri dei; e che faceva sentire a Ruth il desiderio di modellare quest’uomo uscito da altre sfere dell’esistenza a immagine e somiglianza di coloro che si trovavano nella sua.
IX
Al termine del successivo viaggio Martin Eden tornò alla natia California infervorato dall’amore. Esauriti i soldi, si era imbarcato come marinaio semplice sulla goletta che andava alla ricerca del tesoro; alle Isole Salomone, dopo otto mesi di tentativi infruttuosi, la spedizione si era sciolta. Gli uomini avevano ricevuto la paga in Australia e Martin aveva preso la prima nave che faceva la traversata fino a San Francisco. Quegli otto mesi non erano solo serviti a fargli guadagnare denaro sufficiente per diverse settimane sulla terraferma, ma gli avevano anche consentito di studiare e di leggere molto.
Aveva la tempra dello studioso e, dietro alla sua capacità di apprendere, c’erano la tenacia della sua natura e l’amore per Ruth. Continuò a rileggere la grammatica che aveva portato con sé fino a quando non l’ebbe padroneggiata con la sua mente assetata di sapere. Notò la rozzezza di linguaggio dei compagni e si propose di correggere mentalmente ogni scorrettezza che udiva. Scoprì con gioia che stava acquisendo una grande sensibilità d’orecchio e che si stava formando in lui il gusto della proprietà grammaticale. L’uso errato dei pronomi lo colpiva sgradevolmente, ma spesso, a causa della mancanza di abitudine, era lui stesso che ricadeva in quei vecchi difetti; la sua lingua si rifiutava di apprendere troppi nuovi trucchi in un giorno solo.
Dopo aver ripassato più volte la grammatica, si dedicò al dizionario aggiungendo ogni giorno venti parole al proprio repertorio lessicale. Si accorse che non era un compito facile e mentre stava alla barra o di vedetta tornava in continuazione su quell’elenco sempre più lungo di pronunce e di definizioni che imparava a memoria prima di addormentarsi. «Non ho mai fatto alcunché», «se fossi» e «coloro i quali» erano espressioni che ripeteva sotto voce al fine di abituare la lingua al tipo di idioma parlato da Ruth. E pronunciò migliaia di volte con il suono giusto «stanza», «campagna» e parole analoghe; e si accorse infine, con grande sorpresa, che stava cominciando a parlare una lingua più pura e corretta di quella degli ufficiali stessi e dei signori delle cabine che avevano finanziato la spedizione.
Il capitano era un norvegese con occhi sfuggenti, che in qualche modo era venuto in possesso dell’opera completa di Shakespeare. Poiché non la leggeva mai, Martin si offrì di lavargli i vestiti e in cambio poté avere accesso a quei preziosi volumi. La sua mente era così imbevuta di quelle creazioni e dei molti brani preferiti che gli si imprimevano nella memoria senza alcuno sforzo, che per qualche tempo tutto ciò che lo circondava assunse le forme delle tragedie e delle commedie elisabettiane e i suoi stessi pensieri venivano formulati in versi sciolti. Queste letture furono un addestramento per l’orecchio, introducendo nella sua mente molte espressioni arcaiche e inconsuete.
Gli otto mesi erano trascorsi proficuamente: oltre a ciò che aveva imparato dal punto di vista della proprietà del linguaggio e dell’elevatezza di pensiero, aveva scoperto molto su se stesso. E accanto all’umiltà dovuta alla consapevolezza della propria ignoranza, era nata in lui la convinzione delle proprie capacità. Era certo di essere molto diverso dagli altri marinai, ma ebbe la saggezza di capire che la differenza era più nella potenzialità che nei risultati ottenuti. Ciò che era in grado di fare sarebbe riuscito anche a loro, e tuttavia avvertiva in sé un confuso fermento che lo portava a concludere di avere enormi possibilità ancora inespresse. Era torturato dalla squisita bellezza del mondo e avrebbe voluto che Ruth fosse lì per condividerla con lui. Decise che le avrebbe descritto gli scenari dei mari del Sud. A quel pensiero si sentì divampare dentro uno spirito creativo e l’ambizione di ricreare tanta bellezza per un pubblico più vasto. Avrebbe scritto. Sarebbe stato uno degli occhi con cui il mondo vedeva, uno degli orecchi con cui ascoltava, uno dei cuori con cui palpitava. Avrebbe scritto di tutto, poesia e prosa, narrazioni e descrizioni, e drammi come quelli di Shakespeare. Quella era la sua carriera, la strada attraverso la quale avrebbe conquistato Ruth. I letterati erano i giganti del mondo, e vide in loro esseri molto migliori dei vari signor Butler che guadagnavano trentamila dollari l’anno e sarebbero potuti diventare giudici della Corte Suprema se solo lo avessero voluto.
Una volta sbocciata, questa idea lo assorbì completamente e il viaggio di ritorno a San Francisco fu come un sogno. Era ebbro di un potere di cui non conosceva i limiti e aveva la sensazione dell’onnipotenza. Nell’immensità e nella solitudine del mare la sua visione si ampliò, e per la prima volta Ruth e il mondo cui apparteneva gli apparvero con chiarezza, concretizzandosi nella mente come oggetti reali che potevano essere presi in mano, rigirati ed esaminati. Molto era ancora oscuro e nebuloso in quel mondo, ma riuscendo a percepirlo nella sua globalità, se non nei particolari, capiva anche che cosa avrebbe dovuto fare per dominarlo. Scrivere! Quel pensiero era come un fuoco per lui. Avrebbe cominciato non appena fosse tornato. La prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata una descrizione del viaggio dei cercatori del tesoro che avrebbe venduto a qualche giornale di San Francisco. Non avrebbe detto niente a Ruth, che sarebbe stata sorpresa e felice quando avesse visto il suo nome stampato. Pur scrivendo avrebbe continuato a studiare. Il giorno aveva ventiquattro ore ed egli si sentiva invincibile. Sapeva che cosa volesse dire lavorare e nessuna barriera gli avrebbe resistito. Non sarebbe più stato costretto a tornare in mare, almeno come marinaio, e per un attimo si vide proprietario di un panfilo da crociera. Altri scrittori ne possedevano uno. Naturalmente la prudenza suggeriva di non illudersi: il successo sarebbe arrivato lentamente all’inizio e per un po’ avrebbe dovuto accontentarsi di guadagnare denaro appena sufficiente a consentirgli il proseguimento degli studi. Tuttavia dopo qualche tempo – la cui durata rimaneva ancora ignota – dopo il necessario apprendistato, avrebbe scritto cose sublimi e il suo nome sarebbe stato sulla bocca di tutti. Ma soprattutto, ed era ciò che considerava la sua più grande vittoria, si sarebbe dimostrato degno di Ruth. La fama era bellissima, ma era per Ruth che era nato quello splendido sogno. Non aspirava alla gloria; era solo uno dei folli amanti divini.
Arrivato a Oakland con il suo bel gruzzolo in tasca riprese la vecchia stanzetta in casa di Bernard Higginbotham e si mise al lavoro. Non avvertì del ritorno neppure Ruth, che sarebbe andato a trovare quando avesse finito l’articolo sui cercatori del tesoro. Non gli riuscì così difficile evitare di vederla grazie alla violenta febbre creativa da cui fu colto. Inoltre, proprio ciò che stava scrivendo l’avrebbe avvicinato a lei. Non sapeva quale dovesse essere la lunghezza dell’articolo, ma decise di contare il numero di parole di un saggio stampato su due pagine nel supplemento domenicale del «San Francisco Examiner» e di orientarsi su quello. Completò la narrazione in tre giorni frenetici, ma, dopo averla ricopiata attentamente in una calligrafia chiara e di facile lettura, apprese da un manuale di retorica preso in biblioteca che esistevano cose come i capoversi e le virgolette. Non ci aveva mai pensato prima di allora, ma si mise subito all’opera per riscrivere l’articolo consultando in continuazione il manuale e imparando in un giorno sulla tecnica della composizione più di quanto uno studente di scuola non riesca a fare in un anno. Dopo averlo copiato per la seconda volta e averlo arrotolato attentamente, lesse in un giornale alcuni consigli per i principianti e scoprì una regola ferrea, per la quale i manoscritti non dovevano mai essere arrotolati e dovevano avere il testo su una sola facciata del foglio. Aveva infranto ambedue le norme. Dalla stessa fonte apprese anche che i giornali di prim’ordine pagavano come minimo dieci dollari la colonna. Copiando il manoscritto per la terza volta si consolò quindi al pensiero che doveva moltiplicare dieci colonne per dieci dollari, con un totale di cento dollari, e decise che era meglio che andare in mare. Se non fosse stato per gli errori avrebbe finito l’articolo in tre giorni. Cento dollari per tre giorni di lavoro! Per guadagnare la stessa cifra sarebbe dovuto rimanere su una nave per almeno tre mesi. Sarebbe stato stupido a tornare a navigare quando poteva scrivere, rifletté, sebbene il denaro in se stesso non avesse per lui alcun significato, ma valesse solo per la libertà che gli avrebbe dato e gli abiti rispettabili che gli avrebbe consentito di indossare. Tutto ciò a sua volta lo avrebbe portato più vicino, molto più vicino, alla pallida fanciulla che gli aveva cambiato la vita ed era stata per lui fonte di ispirazione.
Spedì i fogli in una busta grande indirizzata al direttore del «San Francisco Examiner». Pensava che ciò che veniva accettato dai giornali sarebbe stato pubblicato immediatamente, e dal momento che il manoscritto era stato mandato di venerdì sperava di vederlo pubblicato la domenica successiva. Sarebbe stato bello che Ruth venisse informata in quel modo del suo ritorno. Sarebbe quindi andato a trovarla la domenica pomeriggio. Nel frattempo gli venne un’altra idea, di cui fu particolarmente fiero perché gli pareva saggia, intelligente e ragionevole. Avrebbe scritto un racconto di avventure per ragazzi e lo avrebbe venduto a «The Youth’s Companion». Consultando le annate del periodico nella sala di lettura della biblioteca scoprì che pubblicava racconti a puntate suddividendoli in cinque episodi settimanali, ciascuno dei quali costituito da circa tremila parole. Per altro c’erano anche racconti distribuiti in sette puntate e decise di scriverne uno di quella lunghezza.
Era stato su una baleniera nell’Artico in una spedizione che, prevista inizialmente in tre anni, si era conclusa dopo sei mesi a causa di un naufragio. Benché avesse un’immaginazione vivace, e a volte persino bizzarra, aveva per la realtà un sostanziale rispetto, che lo costringeva a scrivere soprattutto su ciò che conosceva. Sulle solide fondamenta di queste esperienze di prima mano nella pesca dei cetacei costruì l’avventurosa storia di due ragazzi, di cui fece i protagonisti della narrazione. Il sabato sera decise che questo tipo di letteratura non era difficile: quel giorno aveva infatti portato a termine la prima puntata di tremila parole, fra il grande divertimento di Jim e i sarcasmi di Higginbotham, che per tutta la cena lanciò continue frecciate al «literato» della famiglia.
Martin si limitò a pregustare in silenzio la sorpresa del cognato quando l’indomani mattina, aprendo l’«Examiner», avesse visto l’articolo sui cercatori del tesoro. Il giorno dopo, di buon’ora, andò alla porta a prendere il giornale e scorse immediatamente, con crescente eccitazione, le molte pagine dell’edizione domenicale. Lo riguardò una seconda volta con molta attenzione, lo ripiegò e lo ripose dove l’aveva trovato. Era contento di non aver detto a nessuno dell’articolo. Ripensandoci, decise di essersi sbagliato sulla rapidità con cui gli scritti arrivavano alle colonne dei giornali. Inoltre il suo saggio non conteneva notizie di attualità e molto probabilmente il direttore gli avrebbe scritto in proposito.
Dopo la prima colazione continuò il racconto a episodi. Le parole gli fluivano con facilità dalla penna, anche se frequentemente smetteva di scrivere per verificare sul dizionario le definizioni dei vocaboli o per consultare il manuale di stile. Spesso approfittava di queste pause per leggere o rileggere un capitolo senza interruzioni e si consolava pensando che anche se non erano le grandi cose che sentiva in sé, quei tentativi gli servivano per esercitarsi nell’arte della composizione o almeno per imparare a dare forma ed espressione ai propri pensieri. Lavorò duramente fino al crepuscolo, quando uscì per andare in biblioteca ad esplorare riviste e settimanali fino alle dieci, ora della chiusura. Per una settimana seguì lo stesso programma. Ogni giorno scriveva circa tremila parole e ogni sera frugava fra le pagine dei periodici, prendendo nota dei racconti, degli articoli e delle poesie che i direttori giudicavano degni di pubblicazione. Di una cosa era certo: ciò che erano in grado di fare questi diversi scrittori era anche alla sua portata, e, col tempo, sarebbe riuscito a fare anche cose di cui gli altri non erano capaci. Si rallegrò nel leggere in «Book News», in una nota relativa ai compensi per i collaboratori delle riviste, non tanto che Rudyard Kipling ricevesse un dollaro per parola, quanto che la tariffa minima pagata dai periodici migliori fosse di due centesimi per parola. «The Youth’s Companion» era certamente un settimanale di prim’ordine e a quelle condizioni le tremila parole che aveva scritto quella giornata gli avrebbero fruttato sessanta dollari – il salario di due mesi di un marinaio!
Venerdì sera finì il racconto a puntate, della lunghezza di ventunmila parole. Calcolò che a due centesimi la parola gli avrebbe fruttato quattrocentoventi dollari. Non male per il lavoro di una settimana. Era la cifra più alta che avesse mai posseduto in una sola volta e non sapeva neppure come fare per spenderla tutta. Aveva scoperto una miniera d’oro, che non si sarebbe esaurita tanto facilmente. Fece piani di spese per nuovi vestiti, di abbonamenti a molte riviste e di acquisto di decine di testi di consultazione cui allora poteva avere accesso solo in biblioteca. Ma anche così gli rimaneva una grossa parte di quei quattrocentoventi dollari. Se ne preoccupò fino a quando non gli venne in mente che avrebbe assunto una domestica per Gertrude e che avrebbe regalato una bicicletta a Marian.
Spedì il voluminoso manoscritto a «The Youth’s Companion» e la domenica pomeriggio, dopo aver preparato lo schema per un articolo sui pescatori di perle, andò a trovare Ruth. Le aveva telefonato ed ella gli venne incontro alla porta, dove ancora una volta venne investita dalla ventata di vigore e di salute che emanava da lui. Le parve che le entrasse nel corpo e le scorresse nelle vene in un’onda di calore, facendola fremere per la forza che le trasmetteva. Egli arrossì violentemente stringendole la mano e guardandola negli occhi azzurri, ma l’abbronzatura recente dovuta agli otto mesi trascorsi sotto il sole coprì l’alterazione del viso pur non potendo proteggere il collo dall’irritazione provocata dal colletto rigido. Ruth notò quella riga sulla pelle con un sorriso divertito che svanì subito quando osservò i vestiti di lui. Gli andavano alla perfezione – era il primo abito che si era fatto fare su misura – e davano alla sua figura, che sembrava più snella, una forma armoniosa. Inoltre il berretto di panno era stato sostituito da un cappello floscio, che la ragazza gli ordinò di rimettersi congratulandosi con lui per l’eleganza dell’abbigliamento. Non ricordava di essere mai stata così felice. Quella metamorfosi era opera sua; ne era orgogliosa ed era animata dall’ambizione di continuare ad aiutarlo.
Tuttavia il cambiamento più radicale, e che più apprezzava, riguardava il modo completamente diverso in cui si esprimeva. Non solo parlava con maggiore correttezza e in maniera più spedita, ma aveva anche un vocabolario molto più ricco. Trasportato dall’entusiasmo o dall’emozione ricadeva ancora, a volte, nei vecchi difetti di pronuncia. Si notava pure, di tanto in tanto, un’imbarazzata esitazione quando usava le nuove parole che aveva imparato. D’altronde, insieme alla facilità di espressione palesava uno spirito arguto e piacevole che entusiasmò Ruth. Era frutto di quel senso dell’umorismo e di quella predisposizione allo scherzo che un tempo l’avevano reso così popolare presso quelli del suo ceto, ma che fino ad allora non era riuscito a fare emergere quando si trovava con lei per mancanza di un linguaggio adatto. Solo adesso cominciava a sentirsi a proprio agio e a capire di non essere del tutto sgradito, ma era ancora molto titubante, fin troppo, lasciando a Ruth l’iniziativa della conversazione brillante e intelligente, cui teneva testa ma senza osare di spingersi troppo oltre.
Le parlò di ciò che aveva fatto e del piano di guadagnarsi da vivere scrivendo pur continuando a studiare, ma fu deluso dalla freddezza con cui lei lo accolse. Ruth non si mostrò entusiasta di quel progetto.
«Vede», disse con franchezza, «scrivere è un lavoro come tutti gli altri. Naturalmente non lo conosco direttamente, ma ragiono basandomi sul buon senso. Non si può fare il fabbro senza passare tre anni ad imparare il mestiere – e magari sono cinque anni! Gli scrittori sono pagati tanto più dei fabbri che è naturale ci siano tanti più uomini cui piacerebbe questa carriera, o comunque che tentano di scrivere».
«Perché escludere, però, che in me vi possa essere la predisposizione a scrivere?», chiese, esultando in cuor suo per il linguaggio di cui si era servito e proiettando subito con la mente la situazione e l’atmosfera in cui ora si trovava sul vasto schermo della memoria accanto a innumerevoli altri episodi della sua vita – scene rozze e grossolane, volgari e bestiali.
Quella complessa visione interiore balenò come in un lampo senza provocare pause nella conversazione, né interrompere il tranquillo fluire dei suoi pensieri. Con gli occhi della fantasia si vide mentre conversava con questa dolce e bellissima fanciulla seduta accanto a lui, in una stanza piena di libri, quadri, gusto e intelligenza, pervasa da una luce chiara e da un’atmosfera calda e brillante; mentre disposti intorno a questo centro luminoso fino a perdersi oltre i margini dello schermo erano scene del tutto diverse, ciascuna collocata come un quadro che egli poteva osservare a piacimento come il visitatore di un museo. Scorgeva queste immagini dietro nubi di fumo fluttuanti e spirali di nebbia, squarciate da fasci di vivida luce rossa. Vide cowboys al bar che bevevano accanitamente whisky in un’atmosfera densa di bestemmie e scurrilità e si vide in mezzo a loro mentre trincava e imprecava come i più selvaggi di quella masnada, o seduto al tavolo sotto fumanti lampade di cherosene fra il secco rumore delle fiches e il fruscio delle smazzate. Si vide a torace scoperto e a pugni nudi mentre si batteva in un’epica lotta con Liverpool Red sul castello di prua della Susquehanna; e vide il ponte insanguinato della John Rogers quella grigia mattina del tentativo di ammutinamento, con il secondo ufficiale scosso dai sussulti della morte al boccaporto principale, la rivoltella in mano al vecchio che vomitava fuoco e fumo, gli uomini con facce contorte in smorfie animalesche che gli cadevano intorno urlando orrende maledizioni – per poi tornare alla scena centrale calma e pura sotto una luce ferma, nella quale Ruth era seduta a conversare in mezzo a quadri e libri, e vide il pianoforte a coda sul quale ella più tardi avrebbe suonato per lui e udì l’eco delle proprie parole eleganti e appropriate: «Perché escludere, però, che in me vi possa essere la predisposizione a scrivere?».
«Per quanto si possa essere predisposti per il mestiere di fabbro», diceva lei ridendo, «non ho mai sentito di nessuno che lo sia divenuto senza aver prima finito l’apprendistato».
«Lei che cosa consiglierebbe?», chiese Martin. «Non dimentichi che sono certo di avere le qualità per scrivere – non riesco a spiegarlo, ma me lo sento dentro».
«Deve ricevere un’istruzione completa», fu la risposta, «indipendentemente dal fatto che finisca o no per diventare scrittore. Questa formazione è indispensabile qualunque sia la carriera che sceglierà, ma non deve essere lacunosa e irregolare. Deve andare alle scuole superiori».
«Sì…», cominciò lui, ma fu interrotto dalla ragazza che aggiunse:
«Naturalmente lei potrebbe continuare a scrivere».
«Non potrò farne a meno», disse lui con tono grave.
«Perché?». Ruth lo guardò perplessa, perché non le piaceva l’ostinazione con cui ripeteva quell’idea.
«Perché se non scrivessi non ci sarebbe nessuna scuola superiore. Devo avere quanto mi basta per vivere, vestirmi e comprare libri, capisce?».
«Me ne ero dimenticata», disse ridendo. «Ma perché non è nato con una buona rendita?».
«Preferisco avere salute e fantasia», rispose lui. «Per i soldi posso arrangiarmi, ma sono contento di avere le altre cose per…». Stava per dire «per te», ma si corresse: «per diventare in gamba».
«Non dica “in gamba”», esclamò lei, teneramente petulante. «È poco fine, e brutto».
Lui arrossì e balbettò: «Ha ragione. Vorrei solo che mi correggesse sempre».
«Lo farò», disse lei, esitante. «Ha tante buone qualità che da lei voglio la perfezione».
Martin fu subito come cera nelle mani di lei, non meno ansioso di essere modellato di quanto lei fosse smaniosa di foggiarlo nell’immagine del suo uomo ideale. E quando la ragazza osservò che era proprio il periodo giusto, poiché gli esami di ammissione alla scuola superiore sarebbero cominciati il lunedì seguente, Martin promise immediatamente di sostenerli.
Poi lei suonò e cantò per lui che la contemplava con occhi imploranti, perso dietro a quella bellezza e stupito che non vi fossero centinaia di pretendenti che l’ascoltavano e la vagheggiavano come lui.
X
Quella sera si fermò a cena e, con grande soddisfazione di Ruth, fece buona impressione a suo padre. Parlarono della carriera nella marina mercantile, un argomento che Martin conosceva a menadito, e il signor Morse osservò in seguito che gli era parso un giovane con le idee molto chiare. Lo sforzo per evitare espressioni gergali e la ricerca delle parole giuste lo costringevano a parlare con lentezza, consentendogli di esprimere quanto di meglio era in lui. Era più a suo agio di quella prima serata quasi un anno prima, e quella timidezza e modestia furono apprezzate persino dalla signora Morse, la quale fu lieta del suo evidente miglioramento.
«È il primo uomo che abbia mai suscitato il minimo interesse in Ruth», osservò rivolta al marito. «È così immatura in queste faccende che ne ero alquanto preoccupata».
Il signor Morse guardò la moglie con aria incuriosita.
«Hai intenzione di servirti di questo giovane marinaio per svegliarla?», chiese.
«Ho intenzione di non vederla morire zitella se posso evitarlo», fu la risposta. «Se questo giovanotto riuscirà a richiamare la sua attenzione sugli uomini sarà una buona cosa».
«Un’ottima cosa», commentò il padre. «Ma supponi – qualche volta dobbiamo fare supposizioni, mia cara – supponi che questo interesse per lui diventi un po’ troppo particolare…».
«Impossibile», rise la signora Morse. «Lei è di tre anni maggiore di lui, e poi… è impossibile. Non ci sono pericoli. Fidati di me».
E così la posizione di Martin fu decisa proprio mentre lui a causa di Arthur e Norman meditava una pazzia. Fu attratto dai loro discorsi, che riguardavano una gita in bicicletta sulle colline la domenica mattina, solo quando seppe che anche Ruth sarebbe stata della partita. Non aveva la bicicletta, e non sapeva neppure andarci, ma stabilì che se Ruth ne era capace avrebbe dovuto cominciare anche lui; dunque dopo essersi congedato da loro si fermò da un ciclista che si trovava sulla strada di casa e ne comprò una per quaranta dollari. Era una somma superiore al salario guadagnato in un mese di duro lavoro e i suoi risparmi vennero notevolmente decurtati; ma vinse le perplessità per una spesa così gravosa aggiungendo ai cento dollari che avrebbe ricevuto dall’«Examiner» i quattrocentoventi che come minimo gli sarebbero stati versati da «The Youth’s Companion». Né si preoccupò di avere rovinato l’abito durante i tentativi fatti per imparare ad andare in bicicletta durante il tragitto dal negozio a casa. La stessa sera riuscì a mettersi in contatto con il sarto attraverso il telefono nel negozio di Higginbotham e ne ordinò un altro. Trasportò quindi il veicolo su per gli stretti gradini che salivano rasente il muro posteriore del fabbricato come una scaletta antincendio e, dopo avere staccato il letto dalla parete, scoprì che nella stanzetta era rimasto solo spazio sufficiente per lui e la bicicletta.
Si era riproposto di dedicare la domenica allo studio per l’esame di ammissione alla scuola superiore, ma ne fu distratto dall’articolo sui pescatori di perle e trascorse la giornata divorato dall’ansia febbrile di ricreare la bellezza e l’atmosfera romanzesca che si sentiva bruciare dentro. Il fatto che l’«Examiner» di quella mattina non avesse pubblicato l’articolo sui cercatori del tesoro non lo avvilì. Si trovava in tale stato di esaltazione che non sentì neppure l’invito, ripetuto due volte, che il pranzo era pronto, e perse il sostanzioso pasto che Higginbotham faceva immancabilmente preparare per la tavola della domenica. Per il cognato quel pranzo era il segno tangibile del successo e della prosperità che aveva conquistato su questa terra, e l’onorava con tirate piene di luoghi comuni sulle istituzioni americane e sull’opportunità di elevarsi che offrivano a tutti gli uomini disposti a lavorare sodo; e a mo’ di esempio non mancava mai di citare la propria ascesa da povero garzone di drogheria a proprietario della Higginbotham’s Cash Store.
Lunedì mattina Martin Eden guardò sospirando l’incompiuto Pescatori di perle prima di uscire per prendere il tram che lo avrebbe portato alla scuola superiore di Oakland. E quando, qualche giorno dopo, tornò per avere i risultati delle prove, seppe di essere stato respinto in tutte le materie, tranne che in grammatica.
«Sei bravo in grammatica», l’informò il professor Hilton fissandolo attraverso spesse lenti; «ma non sai nulla, proprio nulla, delle altre discipline, e nella storia degli Stati Uniti sei un vero disastro – non c’è altro termine, un vero disastro. Ti consiglierei…».
L’insegnante fece una pausa e lo squadrò con occhi freddi e privi di simpatia, come se stesse osservando una delle sue provette. Aveva una cattedra di fisica alla scuola superiore, una famiglia numerosa, un magro stipendio e un buon patrimonio di nozioni che ripeteva come un pappagallo.
«Sì, professore», disse Martin con umiltà, augurandosi che al posto del docente ci fosse il suo amico della biblioteca.
«Ti consiglierei di tornare alla scuola media per almeno due anni. Buon giorno!».
Martin non rimase particolarmente colpito dalla bocciatura, ma fu sorpreso dall’espressione sconvolta di Ruth quando le riferì il consiglio del professor Hilton. La delusione della ragazza era così evidente che gli dispiacque di esser stato respinto soprattutto per il dispiacere che le aveva provocato.
«Ha visto che avevo ragione», disse Ruth. «Lei ne sa più di qualsiasi studente che entra nella scuola superiore, ma non è in grado di superare gli esami perché ha un’istruzione frammentaria e incerta. Ha bisogno della disciplina allo studio che solo insegnanti esperti possono darle. Le occorrono buone basi. Il professor Hilton ha ragione, e se fossi in lei andrei a una scuola serale. In un anno e mezzo potrebbe colmare tutte le lacune. Inoltre questo le lascerebbe libere le giornate per scrivere, oppure, se non riuscisse a guadagnarsi da vivere con la penna, per trovarsi un impiego».
Ma se di giorno devo lavorare e di notte studiare, quando posso vederti? – fu il primo pensiero di Martin, che però si guardò bene dall’esprimerlo ad alta voce. Rispose invece:
«Sono troppo vecchio per andare alla scuola serale. Non che me ne importerebbe se pensassi che servisse, ma credo che non mi sarebbe utile. Vanno troppo piano per me. Sarebbe una perdita di tempo…» – pensò a lei e al desiderio che diventasse sua – «… e non posso permettermelo. Di tempo ne ho poco».
«Ci sono tante cose che dovrebbe imparare». Lei lo guardò con tanta dolcezza che Martin pensò di essere un bruto nel contraddirla in quel modo. «La fisica e la chimica… non può farle senza laboratori; e l’algebra e la geometria sono quasi impossibili da imparare senza l’aiuto di un insegnante. Lei ha bisogno di professori esperti, preparati dal punto di vista didattico».
Egli rimase in silenzio per un minuto, cercando di esprimersi in un modo che non lo facesse sembrare troppo vanitoso.
«Non pensi che voglia darmi arie», cominciò. «Non è proprio nelle mie intenzioni. Ma ho l’impressione di essere, potrei dire, molto dotato per lo studio. Sono in grado di studiare da solo in modo del tutto naturale, come un’anatra che si muove nell’acqua. Ha visto anche lei che cosa sono riuscito a fare con la grammatica. Ho imparato molte altre cose, non immagina neanche quante. E ho appena cominciato. Aspetti che abbia acquistato…» si arrestò un attimo prima di proseguire «sicurezza. Ora sto cominciando a orientarmi, a figurarmi un po’ la situazione…».
«Per favore, non dica “figurarmi”», lo interruppe la ragazza.
«A sbrogliarmi un po’», rimediò subito Martin.
«Neanche questa è una forma corretta», protestò lei.
Martin ricominciò tutta la frase da capo.
«Quello che voglio dire è che comincio a darmi un po’ una regolata».
Impietosita, Ruth si astenne dall’intervenire ancora una volta, ed egli proseguì.
«La cultura mi sembra come la sala delle mappe. Ho questa impressione tutte le volte che vado in biblioteca. Compito degli insegnanti è istruire gli studenti nell’uso delle carte in modo sistematico. Sono le guide della sala delle mappe, e niente altro. Non è qualcosa che hanno composto personalmente. Non l’hanno fatto loro, non è una creazione loro. È tutto già nelle mappe e loro devono solo dare un orientamento ai visitatori, che altrimenti non si raccapezzerebbero. Ma io non mi perdo facilmente. Capisco subito la posizione. So in dove sono… E adesso che c’è?».
«Non dica “in dove sono”».
«Giusto», rispose grato, «dove sono. Però in dove ero rimasto?… Voglio dire, dove ero rimasto? Ah, sì nella sala delle mappe. Beh, c’è della gente…».
«Ci sono persone», lo corresse la ragazza.
«Ci sono persone che hanno bisogno di una guida, e sono molti… ma io penso di potermela cavare da solo. Ho passato molto tempo nella sala delle mappe ormai, e sono in grado di orientarmi; conosco le carte che devo consultare, le coste che voglio esplorare. Per il tipo di rotta che intendo percorrere è molto meglio che viaggi da solo. La velocità di una squadra navale coincide con quella della nave più lenta, e per gli insegnanti è lo stesso. Non possono andare più forte della maggioranza della classe mentre io sono in grado di correre più velocemente del resto della scolaresca».
«”Meglio soli che male accompagnati”», osservò lei.
Meglio con te che soli, avrebbe voluto risponderle lui vagheggiando nella mente un mondo infinito di distese inondate dal sole e spazi stellati, che attraversava con lei cingendola con le braccia e sentendo sul viso i suoi capelli d’oro mossi dal vento. In quel momento avvertì dolorosamente quanto fosse inadeguato il linguaggio. Dio! Oh, se avesse potuto pronunciare parole sublimi, che le facessero vedere quel che lui vedeva! Sentì in sé, come una morsa dolorosa e struggente, l’acuto desiderio di raffigurare quelle visioni che gli balenavano inattese nello specchio della mente. Adesso capiva! Ebbe come la rivelazione di un segreto. Ecco in che cosa erano grandi gli scrittori e i poeti sommi. Ecco perché erano giganti: perché sapevano esprimere ciò che pensavano e sentivano e vedevano. I cani addormentati al sole spesso guaivano e abbaiavano, ma erano incapaci di dire che cosa li avesse spinti a quei mugolii e a quei latrati. Se lo era chiesto più volte. E ora aveva capito che egli stesso non era nulla più che un cane assopito. Aveva nobili e bellissime visioni, ma era solo capace di guaire e abbaiare a Ruth. Avrebbe però smesso di dormire al sole. Si sarebbe alzato, avrebbe spalancato gli occhi, avrebbe lottato, faticato e imparato fino ad eliminare le nubi che gli offuscavano la vista e i lacci che gli legavano la lingua per riuscire a condividere con lei la ricchezza di quelle visioni. Altri uomini avevano scoperto il meccanismo dell’espressione, attraverso il quale le parole diventavano strumenti obbedienti e il modo in cui si combinavano assumeva significati più grandi della semplice somma delle parti. Sentì un fremito profondo per quel segreto appena intravisto e ancora una volta si vide in un vortice di distese inondate dal sole e di spazi stellati, finché non si accorse che tutto era calmo intorno a lui e vide che Ruth l’osservava con espressione divertita e occhi sorridenti.
«Sono stato preso in un turbinio di visioni», disse e nel momento in cui la frase gli risuonò nelle orecchie il cuore gli balzò in petto. Da dove gli erano venute quelle parole che avevano espresso in modo così adeguato quella pausa visionaria? Era un miracolo. Mai aveva formulato in maniera elevata un pensiero elevato. Ecco ciò che spiegava tutto. Non aveva mai tentato quello che avevano fatto Swinburne e Tennyson e Kipling e tutti gli altri poeti. La mente gli tornò fulminea ai Pescatori di perle. Non aveva mai osato salire alle grandi altezze e dare forma allo spirito di bellezza che gli bruciava dentro come un fuoco. Quell’articolo sarebbe stato una cosa diversa quando lo avesse terminato. Era sbigottito dall’infinita bellezza che vedeva e ancora una volta ebbe come in un lampo un pensiero temerario: perché non avrebbe potuto cantarla anche lui, quella bellezza, in nobili versi come i grandi poeti, e con essa tutta la misteriosa felicità e il reverente stupore che sentiva per Ruth? Perché non poteva celebrare la sua donna, come i grandi poeti? Loro avevano cantato l’amore. L’avrebbe cantato anche lui… Per Dio!
Il suo orecchio terrorizzato percepì l’eco di quella esclamazione che nel trasporto dell’emozione gli era sfuggita dalle labbra. Il sangue gli salì al viso in ondate successive così violente che il rossore della vergogna coprì il bronzo della pelle dal bordo del colletto fino alla radice dei capelli.
«Io… io… chiedo scusa», balbettò. «Stavo pensando».
«Sembrava che stesse pregando», disse lei, cercando di farsi forza, ma sentendosi venir meno il cuore. Era la prima volta che aveva udito una bestemmia dalla bocca di un uomo che conosceva e ne era sgomenta, non solo perché offendeva i principi del buon gusto e dell’educazione, ma anche, e soprattutto, perché la feriva nell’anima, entrando come un ciclone nel giardino protetto della sua verginità.
Ma lo perdonò, pur sorpresa dalla facilità con cui ciò avvenne. Non era difficile scusarlo per tutto ciò che faceva. Non aveva avuto l’opportunità di diventare come gli altri uomini, ma stava cercando di cambiare con grande abnegazione, e ci stava riuscendo. Non le venne in mente che ci potessero essere altre ragioni per spiegare il fatto che fosse così ben disposta verso di lui. Per quell’uomo sentiva tenerezza, ma non lo sapeva. Non poteva saperlo. Ventiquattro placidi anni vissuti senza nessuna esperienza di quel genere non l’avevano preparata a capire con chiarezza ciò che provava, e Ruth, che non aveva mai avvertito il fuoco del vero amore, non si era accorta da dove venisse quel calore che l’avvolgeva.





DE OTROS MUNDOS
Los escritores y sus enfermedades / Cuando el genio literario emerge del sufrimiento

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The 100 best novels / No 35 / The Call of the Wild by Jack London (1903)
How to Make a Living as a Writer, According to Jack London

RIMBAUD
Jack London / L'appel de l'écriture

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Jack London I / Un testamento a tutti gli effetti
Jack London II / Nato per comandare
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