«Riverrun», «Meandertale», «Chaosmos» sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensava: «Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo».
Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro immaginario, una congettura di Jorge Luis Borges se non un incubo collettivo fatto dal Pen Club. Anzi, un libro del genere oggi è inverosimile più di quanto lo fosse allora, visto che il mondo, in particolare quello letterario, ha preso tutt’altre direzioni. Invece il Finnegans Wake non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano.
Di Joyce è opera estrema non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’Ulysses, e due anni prima della morte dell’autore). A spiegarcelo fu un giovane Umberto Eco, nel 1962: «Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia».
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato «La guerra contro i cliché» una prefazione all’Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: «Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell'artista da giovane, poi l'Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell'immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue». La «terrificante» (Eco) arma con cui si compie tale «sterminio del lettore» (Amis) è, dunque, il gioco di parole.
«Al principio di tutto era il pun», avrebbe poi scritto Samuel Beckett nel suo romanzo d’esordio, Murphy (1938). Come, con un certo sgomento, il lettore di Finnegans Wake apprende più volte a ogni riga, nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli «siamesi» sono «soamheis» (so-am-he-is, così come sono, egli è); «Chaosmos» è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; «riverrun» (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l'inizio) è un'unione di «fiume» e «scorrimento» (ma può essere molte altre cose); «Meandertale» è una sorta di sciarada fra il «meandro» e il «racconto» (tale) che finisce per produrre un'entità vicina a «Neanderthal», quindi all'uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria «La veglia di Finnegan», il cui ritornello dice: «Vedi che avevo ragione? / Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!». Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo «joycity», gioiosità joyciana. Ma non tutti i pun vengono per ridere.
Al proprio «meandertale», oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili. Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Rodolfo Wilcock o Gianni Celati (che di recente ha pubblicato invece una traduzione pressoché cantata dell’Ulysses), oltre allo stesso Joyce, a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008). Nell’incredulità generale pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera. Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di Finnegans Wake (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo originale a fronte. Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo «si traduce da solo», poiché è scritto in una lingua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triestino: chissà quanti non-italiani leggendo «riceypeasy» penseranno ai «risi e bisi» qui evocati consapevolmente da Joyce).
La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino: ; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo). I suoi amici devono aver tirato a indovinare per dieci anni: come arrivare, altrimenti, a un titolo tanto particolare? Il primo riferimento è alla canzone popolare «Finnegan’s Wake», il cui testo parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta («wake» come nome significa «veglia» ma come verbo «to wake» sta per «svegliarsi»). Joyce trasformò «Finnegan’s» in «Finnegans», e la veglia di Finnegan diventò «la veglia dei Finnegan» o «i Finnegans si svegliano». Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito di fondazione della città di Dublino, e che (sempre per assonanza e pun) «Finnegan» può diventare «Finn again»: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese.
Come se non bastasse, c’è pure il latino, dove «negans» è participio presente di «negare» e quindi «Fin negans wake» è una veglia, o un risveglio, che nega la fine.
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini (ma anche con il principio per cui alla base del pensiero umano c’è la poesia). Il passaggio da Ulysses al Finnegans è anche un passaggio da Omero a Vico. Joyce intese non solo narrare un ciclo vitale ricorsivo, ma manifestarlo nella struttura stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma «una circolazione del quadrato», diceva: il quadratino che simboleggia il romanzo sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita. A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione, fra l’Ulysses e Finnegans Wake avviene inoltre il passaggio dal giorno alla notte.
Là c’era una giornata nella vita di un «everyman», Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker. Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo come riferimenti esterni ma si fondono fra loro grazie alle condensazioni tipiche del lavoro onirico. Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody («Ecco che arrivano tutti») e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corrispondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio...
In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (è questa del resto la stoffa in cui sono intessuti i sogni), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, grazie a cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola. Il gioco di parole, divenuto dispositivo primario di significazione, non fa più ridere: è il sonno-sogno della ragione linguistica e genera i suoi mostri. Se l’Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese. Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consulente che scrive alla casa editrice: «Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d'inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte».
Un bello scherzo, ordito da Eco che da Joyce aveva mutuato il vezzo di datare i propri libri nel giorno del proprio compleanno, aveva firmato Dedalus i pezzi parodici scritti da giovane (in epoca che non perdonava ai giovani studiosi la pubblicista ludica e non accademica) e che all’ultimo momento, licenziando le bozze del Pendolo di Foucault, decise che non poteva chiamare Stefano Belbo il suo protagonista (l’allusione al paese natale di Cesare Pavese era fuorviante). Quindi cambiò il nome da Stefano in Jacopo: Stefano, come Stephen (Dedalus); Jacopo, come James (Joyce). Per non parlare dell’altra invenzione di Eco, quella del saggio in cui analizza I Promessi Sposi come se fossero l’opera scritta da Joyce dopo il Finnegans Wake. Omaggi eruditi ma anche confidenziali: paradossi che rischiavano di essere sin troppo realistici.
Davvero Finnegans Wake è un culmine estremo della letteratura, un esperimento ai limiti della leggibilità, la rottura dovuta a una torsione eccessiva dei canoni letterari? Sì, ma solo da un certo punto di vista. È chiaro che dopo Finnegans Wake non si può più fare letteratura d’intrattenimento, se non ignorando Finnegans Wake. Eppure Joyce, scrivendo a un amico, assicurava: «I veri protagonisti del mio libro sono il tempo e il fiume e il monte. Tuttavia le componenti sono quelle che qualunque altro romanziere potrebbe usare: l'uomo e la donna, la nascita, l'infanzia, la notte, il sonno, il matrimonio, la preghiera, la morte. Non vi è nulla di paradossale in tutto questo».
E allora, cosa c’è di tanto diverso? L’idea che la letteratura corrisponda ai suoi argomenti è abbastanza comune, al giorno d’oggi. Joyce, ecco, non la pensava così. A cambiare non sono i temi – sempre gli stessi, da che mondo è mondo – ma, con il linguaggio, la sensibilità con cui li si tratta. A spiegarlo, anche con una certa semplicità, è stato lo scrittore Michel Butor: «Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili». Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: «Dunque è un ritratto di me stesso che si costituisce quando lascio scorrere lo sguardo su quelle pagine. Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima».
Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake si sia annoverato, oltre a Eco, Marshall McLuhan. L’«Everybody» dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, ha affascinato i primi studiosi di mass-media. Nella sua osteria vedevano convergere la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Avevano torto? Finnegans Wake è stata una scommessa persa?
Joyce ci ha dato altro un secolo per decidere se sia stata una follia. Fra vent’anni, alla scadenza, ci ripenseremo. Ma già oggi possiamo dire che c’era del mitico, in quella follia.
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul Venerdì di Repubblica del 13 gennaio 2017.