L’amica geniale è molto diverso dai romanzi precedenti di Elena Ferrante. È un bellissimo Bildungsroman, anzi due, anzi più di due. Il romanzo di una generazione di amici-nemici. Per intervistare Elena Ferrante bisogna ricorrere alla mediazione degli editori, Sandro Ferri e Sandra Ozzola. Dunque, domande per mail, risposte per mail.
Elena Ferrante, in che modo ha maturato il passaggio da un tipo di romanzo psicologico-familiare (vedi «L’amore molesto» e «I giorni dell’abbandono») a un romanzo, come questo, che promette di essere multiplo (il primo di una trilogia o quadrilogia) e che è insieme così centrifugo e così centripeto per l’intreccio e per lo stile?
«Non sento questo romanzo tanto diverso dai precedenti. Parecchi anni fa mi venne in mente di raccontare l’intenzione di una persona anziana di sparire — che non significa morire —, senza lasciare traccia della propria esistenza. Mi seduceva l’idea di un racconto che mostrasse quanto è difficile cancellarsi, alla lettera, dalla faccia della terra. Poi la storia si è complicata. Ho introdotto un’amica d’infanzia che facesse da testimone inflessibile di ogni piccolo o grande evento della vita dell’altra. Infine mi sono resa conto che ciò che mi interessava era scavare dentro due vite femminili ricche di affinità e tuttavia divergenti. Alla fine è ciò che ho fatto. Certo, si tratta di un progetto complesso, la storia abbraccia una sessantina d’anni. Ma Lila e Elena sono fatte con la stessa pasta che ha nutrito gli altri romanzi».
Le due amiche di cui si racconta l’infanzia, Elena Greco, l’io narrante, e la sua amica-nemica Lila Cerullo, sono simili e diverse. Si sovrappongano di continuo proprio quando sembrano prendere le distanze. Un romanzo sull’amicizia e su come un incontro possa determinare una vita? Ma anche di come l’attrazione per il cattivo esempio aiuti a maturare un’identità?
«Chi impone la propria personalità, in genere, nel farlo, rende opaco l’altro. La personalità più forte, più ricca, copre quella più debole, nella vita e forse ancor più nei romanzi. Ma nella relazione tra Elena e Lila accade che Elena, la subalterna, ricavi proprio dalla sua subalternità una sorta di brillantezza che disorienta, che abbaglia Lila. È un movimento difficile da raccontare, ma mi ha interessata per questo. Diciamo così: i moltissimi fatti della vita di Lila e Elena mostreranno come l’una tragga forza dall’altra. Ma attenzione: non solo nel senso di aiutarsi, ma anche nel senso di saccheggiarsi, rubarsi sentimento e intelligenza, levarsi reciprocamente energia».
Come hanno agito la memoria e il tempo trascorso, la distanza (temporale e forse spaziale), nell’elaborazione del libro?
«Credo che “mettere distanza” tra esperienza e racconto sia un po’ un luogo comune. Il problema, per chi scrive, è spesso il contrario: colmare la distanza; sentire fisicamente l’urto della materia da narrare, avvicinare il passato delle persone a cui abbiamo voluto bene, delle vite come le abbiamo osservate, come ci sono state raccontate. Una storia, per prendere forma, ha bisogno di superare moltissimi filtri. Spesso cominciamo a scriverla troppo presto e le pagine vengono fredde. Solo quando la storia ce la sentiamo addosso in ogni suo momento o angolo (e a volte ci vogliono anni), essa si lascia scrivere bene».
«L’amica geniale» è anche un romanzo sulla violenza della famiglia e della società. Il romanzo racconta come si riesca (o si riuscisse) a crescere sulla violenza e/o nonostante la violenza?
«Certo, si cresce parando colpi, restituendoli, anche accettando di riceverne con stoica generosità. Nel caso dell’Amica geniale, il mondo in cui le ragazze crescono ha alcuni tratti visibilmente violenti e altri nascostamente violenti. A me interessano soprattutto questi ultimi, anche se i primi non mancano».
A pagina 126 c’è una bella frase, a proposito di Lila: «Prendeva i fatti e li rendeva con naturalezza carichi di tensione; rinforzava la realtà mentre la riduceva a parole…». E poi a pagina 222: «La voce incastonata nella scrittura mi travolse… era del tutto depurata dalle scorie di quando si parla». È una sua dichiarazione di stile?
«Diciamo che, tra i tanti modi di cui ci serviamo per attribuire un ordine narrativo al mondo, preferisco quello dove la scrittura è nitida, onesta, e i fatti — i fatti della vita comune — a leggerne risultano straordinariamente avvincenti».
C’è un filo rosso più sociologico, l’Italia degli anni del boom, il sogno di benessere che fa i conti con resistenze arcaiche.
«Sì e quel filo arriverà fino a oggi. Ma ho ridotto lo sfondo storico al minimo. Preferisco che tutto sia inscritto nei movimenti esterni e interni dei personaggi. Lila, per esempio, vuol diventare ricca già a sette-otto anni e si tira dietro Elena, la convince che la ricchezza è una meta urgente. In quale modo questo proposito lavori dentro le due amiche, come si modifichi, le orienti o le confonda, mi interessa più dei sociologismi canonici».
Lei cede di rado al colore dialettale: lo fa in poche battute, ma di solito preferisce la formula «lo disse in dialetto». Non ha mai avuto la tentazione di una coloritura più espressionistica?
«Da bambina, da adolescente, il dialetto della mia città mi ha spaventata. Preferisco che echeggi per un attimo nella lingua italiana, ma come se la minacciasse».
I volumi successivi sono già pronti?
«Sì, in uno stato molto provvisorio».
Domanda ovvia ma obbligatoria: quanto c’è di autobiografico nella storia di Elena? E quanto c’è delle sue passioni letterarie nelle letture di Elena?
«Se per autobiografia intende attingere alla propria esperienza per nutrire una storia di invenzione, quasi tutto. Se invece mi sta chiedendo se racconto le mie personalissime vicende, niente. Quanto ai libri, sì, cito sempre testi che amo, personaggi che mi hanno modellata. Didone, per esempio, la regina di Cartagine, è stata una figura femminile fondamentale della mia adolescenza».
Il gioco di allitterazione Elena Ferrante – Elsa Morante (una sua passione) è suggestione? È solo fantasia l’accostamento Ferrante – Ferri (i suoi editori)?
«Assolutamente sì».
Non si è mai pentita di aver scelto l’anonimato? In fondo le recensioni si soffermano più sul mistero-Ferrante che sulle qualità dei suoi libri. Insomma, con risultati opposti rispetto a quelli che lei auspica, cioè enfatizzando la sua ipotetica personalità?
«No, nessun pentimento. A mio modo di vedere, ricavare la personalità di chi scrive dalle storie che propone, dai personaggi che mette in scena, dai paesaggi, dagli oggetti, da interviste come questa, sempre e soltanto insomma dalla tonalità della sua scrittura, è nient’altro che un buon modo di leggere. Ciò che lei chiama enfatizzare, se è fondato sulle opere, sulla energia delle parole, è un onesto enfatizzare. Ben diversa è l’enfatizzazione mediatica, il predominio dell’icona dell’autore sulla sua opera. In quel caso il libro funziona come la canottiera sudata di una popstar, indumento che senza l’aura del divo risulta del tutto insignificante. È quest’ultima enfatizzazione che non mi piace».
Il sospetto che la sua opera sia il frutto di un lavoro a più mani la infastidisce?
«Mi pare un esempio utile per il discorso che stiamo facendo. Siamo abituati a ricavare dall’autore la coerenza delle opere, non dalle opere la coerenza di un autore. I libri li ha scritti quella determinata signora o quel determinato signore e questo basta a farceli considerare tasselli di un percorso. Parleremo tranquillamente dei suoi esordi, di libri riusciti e di altri meno riusciti. Diremo che ha trovato subito la sua strada, che ha sperimentato generi e stili diversi, rintracceremo temi ricorrenti, occorrenze, un’evoluzione o un’involuzione. Mettiamo invece che abbiamo a disposizione Menzogna e sortilegio e Aracoeli, ma non una scrittrice di nome Elsa Morante. In quel caso siamo così poco abituati a muovere dalle opere, a cercare in esse coerenza o disparità, che subito ci confondiamo. Abituati alla supremazia dell’autore, quando l’autore non c’è, o si sottrae, finiamo per vedere mani diverse non solo nel passaggio da un libro all’altro ma addirittura da una pagina all’altra».
Insomma, si può sapere lei chi è?
«Elena Ferrante. Ho pubblicato sei libri in venti anni. Non è sufficiente?».