Cormac McCarthy |
Morto Cormac McCarthy: la frontiera della letteratura
Scomparso a 89 anni l’autore di «La strada» e «Non è un paese per vecchi». Ha raccolto l’eredità di Faulkner, ha vissuto recluso, è riapparso con «The Passenger
Cowboy. Addio, Cormac McCarthy. È morto il 13 giugno lo scrittore che cosparse di luce la letteratura contemporanea, raccogliendo l’eredità di Faulkner e raccontando le leggi crudeli di questa terra. La tenebra del creato, la supremazia della natura, un Dio parsimonioso nella misericordia.
È stato la scrittura, Cormac McCarthy. Per la sua lingua materica, come se ogni parola fosse impastata dalla vita, e per il mistero che lo avvolse da quando esordì a trentadue anni con Il guardiano del frutteto. È il 1965, McCarthy getta al mondo questo romanzo che restituisce un seme biblico mal digerito dalla critica: sembra un passo indietro verso la fame di modernità con cui i nuovi Philip Roth e Thomas Pynchon stanno svezzando il dopoguerra. Ma McCarthy viene da più lontano, lande desolate e anime imprigionate nei corpi, pistole puntate in segno di preghiera. L’assoluto distacco con il tempo presente a favore del tempo eterno.
Cormac McCarthy è figlio di un avvocato e di una fervente cattolica che gli diedero cinque fratelli. Si trasferirono dal Rhode Island al Tennessee quando non aveva ancora quattro anni. Deserti, ranch, polvere da sparo e cavalli dalle criniere argentee. Donne e uomini che razzolano, oscillando tra l’amore e la prevaricazione. Sono esseri viventi il cui silenzio è la stessa sostanza miliare di questo scrittore così parsimonioso nella produzione e così repellente al circo mediatico. Si tenne sempre alla larga da tutto, McCarthy, arrivando a sparare colpi in aria come monito a chi si avvicinava per strappargli un’intervista.
E si innamorò sempre: si sposò la prima volta nel 1961 per poi diventare padre di Cullen. Sono gli anni del ritorno universitario dopo essersi arruolato nell’Air Force e dopo aver reciso con la famiglia di origine, sfidando la miseria. Dormire nei fienili dismessi, racimolare il vitto prestandosi a lavori di manodopera pesante, finché con la moglie non si trasferisce a Chicago grazie ai dollari di un premio vinto per due racconti. Il trasloco dura poco, perché Cormac è inghiottito dalla città e ne esce con le ossa rotte. Vuole tornare in Tennessee ma la sua sposa rifiuta e lo lascia: è il momento in cui comincia il peregrinaggio giovanile. Vive solo, agguantando borse di studio che gli permettono di sbarcare il lunario e di viaggiare.
Quattro anni più tardi è in Irlanda, un ritorno agli antenati, dove perde la testa per Anne, cantante che sposa in Inghilterra. Andranno a Ibiza per permettergli di scrivere Il buio fuori, sua seconda opera che dipana nella totalità il codice mccarthyano: è l’inno alla Natura e ai legami che gli si oppongono. Una donna, un figlio generato dal peccato. Può mai un figlio essere generato dal peccato? Questo dubbio è la potenza di McCarthy e si rivolge alle colpe degli uomini e alla loro assoluzione, animali devoti al solo comandamento degli istinti. E se i suoi personaggi intaccano la materia biblica, come in Flannery O’Connor e Faulkner, è la lingua sputata dalle viscere a infrangere la mistica.
Leggere a voce alta Il buio fuori e un qualsiasi romanzo di McCarthy è un fatto alchemico, quasi si materializzasse l’energia che il suono evoca, quasi si compisse un processo chimico millenario. Lui lo disse: «Un paragrafo e arrivo a scorticarmi». Questa lacerazione confluisce nella densità di racconto che Harold Bloom definì prossima alla Divina Commedia. Ma c’è altro, ovviamente, e gira intorno alla parola «figlio». Figlio come venire al mondo. Figlio come essere sottoposti al tormento del mondo. Figlio come salvezza nel mondo. Nelle tre declinazioni c’è il conflitto su cui si battono gli antieroi di McCarthy, eredi della solitudine.
Non è un caso che sia il terzo romanzo dello scrittore di Providence, Figlio di Dio, a raccontare la coscienza dolente di McCarthy. Pubblicato nel 1973 esplora il cuore di un assassino e il cuore di sua madre, nel Sud degli Stati Uniti d’America. Quando esce in libreria, Cormac McCarthy e la moglie irlandese non hanno il becco di un quattrino e per vivere rimettono a posto un vecchio granaio, lavandosi nel lago poco distante. McCarthy ha trentasette anni e spera sia questo il luogo che lo accoglierà. Non sarà così: «Ovunque ero in trappola, ovunque ero stranamente felice», dirà riguardo a quell’inquietudine.
Il matrimonio con Anne va a picco, lui si trasferisce a El Paso, Texas. Qui scrive un romanzo di matrice autobiografica, Suttree, lavorato per vent’anni e uscito nel 1979, di nuovo in sordina. Comincia l’epoca in cui McCarthy rinforza il suo monachesimo, riluttante a qualsiasi invito o amicizia editoriale, scorbutico tranne che con gli animali, in attesa dell’audacia per una storia che accarezza da anni. Come protagonista dovrebbe avere un ragazzino chiamato «the kid». Che altro? Non sa nient’altro.
È l’albore del suo capolavoro, Meridiano di sangue, venuto sei anni più tardi e scritto grazie a una borsa di studio a cui ha accesso anche grazie a Saul Bellow. Meridiano è un western, dice qualcuno. L’avventura, dicono tutti. Cercano riferimenti con archetipi e generi, intuendo che McCarthy li rivoluziona attraverso la brutalità della giovinezza: leggendolo si sente il sibilo di una frusta, l’esplosione di un proiettile, il sonaglio di un serpente che sta per mordere. Non è una storia di formazione, semmai di deformazione al cospetto del male. L’inferno della Divina Commedia ritorna nel West americano.
Da questo momento, Cormac McCarthy diventa Cormac McCarthy. A lui non cambia niente, alla critica e all’universo letterario cambia tutto: gli avi letterari americani sono approdati alla modernità, è il nuovo Faulkner!, è il nuovo Melville!, si strilla con risvegliata compiacenza. Ed Herman Melville racchiude davvero lo stato nascente delle sue storie. Melville lo accoglie, El Paso lo accoglie, può iniziare lo spicchio di esistenza in cui McCarthy ha pace. L’alfabeto dei cowboy lo libera. Destrieri, lucertole, un maschilismo che consuma sé stesso, la violenza sfogata al galoppo. Umani che cacciano umani. È il sentimento che finisce in Cavalli selvaggi, il romanzo pubblicato nel 1992 che gli vale il National Book Award. Si racconta che furono in due a comunicargli di persona la notizia del premio e che solo uno dei due ebbe il coraggio di avvicinarsi all’abitazione di McCarthy. Suonò, aspettò invano, ritornò, aspettò di nuovo. Poi il Nostro aprì la porta e ascoltò la notizia con assoluta indifferenza.
Cavalli selvaggi è il primo tempo della Trilogia della frontiera che proseguirà nel 1994 con Oltre il confine e si concluderà con Città della pianura nel 1998. Nel frattempo McCarthy si innamora di Jennifer con cui si sposa e ha un figlio, John. La seconda paternità gli muta il corredo narrativo, ma è un mutare lento e irreversibile che non intacca il desiderio di solitudine. Lo scrittore rimane isolato con la famiglia, vive in New Mexico, maturando un’apertura verso l’universo scientifico, anche grazie all’amicizia con il fisico Murray Gell-Mann, fondatore del Santa Fe Institute. Comincia a frequentare l’istituto, terminando il romanzo Non è un paese per vecchi che i fratelli Cohen porteranno sul grande schermo.
Il cinema è un linguaggio che gli interessa, soprattutto per la verbalizzazione della scrittura: il dialogo è la sua ossessione che sfocia in Sunset Limited, un testo pensato per il teatro, sul confronto tra il bene e il male. Conversazioni, scienza, paternità: sono gli anni felici («Di quiete senza attesa») che portano McCarthy a una folgorazione. È una notte del 2003, si trova con il figlio John in un motel a El Paso. Prima di dormire John fa delle domande al padre che lasciano un segno. Durante la stessa notte McCarthy butta giù due pagine di una nuova idea: un padre e un figlio in cammino per la sopravvivenza, in un mondo futuro e raso al suolo. La scriverà in Irlanda, consegnando alle stampe nel 2006: La strada.
È un successo senza precedenti che gli fa vincere il Pulitzer e vendere più di un milione di copie, convincendolo alla sua prima intervista televisiva. Davanti alle telecamere McCarthy guarda a terra, infossato in una poltrona della libreria del Santa Fe Institute dove avviene la conversazione con Oprah Winfrey. Cruciale il momento in cui la giornalista gli chiede per quale motivo non si fosse mai concesso alla televisione. Risposta: «Beh, non penso che sia una cosa buona per la propria testa. Voglio dire, se si passa molto tempo a pensare come scrivere un libro, probabilmente non si dovrebbe parlarne. Bisogna limitarsi a scriverlo». Si dice che McCarthy non firmò la copia alla giornalista, come non firmò nessun altro esemplare tranne i duecento lasciati al figlio e sigillati in soffitta.
È l’addio definitivo alle scene mediatiche, ma non a quelle editoriali. McCarthy si rifugia al Santa Fe Institute, nessuno ha più notizie di lui. Tranne in un’occasione: la leggenda vuole che una mattina abbia incontrato uno studente universitario in una caffetteria di Tesuque. Lo studente lo avvicina, sa che McCarthy non è un tipo affabile ed è intimidito, vuole solo stringerli la mano. Si ritrovano a conversare, poi McCarthy lo invita a pranzo. Rimarranno insieme per due ore e mezza e di quel dialogo è trapelata solo una battuta dell’autore di Meridiano di sangue, a proposito di cosa si sarebbe inventato se non ce l’avesse fatta con la scrittura. «Il cowboy».
Ricomincia così la quiete di questo autore che ha inciso il suo lascito in una frase di Cavalli selvaggi: «Vedete solo quello che volete vedere», quasi mettesse in bocca al Signore l’ammonimento agli uomini refrattari all’occhio della letteratura. Perché esiste un creatore sommo per McCarthy, oltre al dio furioso di Faulkner e al dio terrificante di Melville: è lo spirito dell’imperfezione umana. Mostrando la nostra natura zoppa, si svela la misericordia di cui siamo capaci. È faticosa, certo. Passa dalla vendetta. Ma ha sempre nei figli l’atto salvifico.
Dopo il 2006, McCarthy divorziò per la terza volta e mise basi ancora più solide tra gli scienziati del Sante Fe Institute. Partecipò a convegni, si prodigò per raccolte fondi. A un certo punto scrisse un manuale che aiutasse a redigere testi scientifici in modo semplice. Uno dei consigli a cui teneva di più è Non usare punti esclamativi. Anche se il più importante è il primo e ha come titolo Essenzialità per ottenere chiarezza, che è anche il suggerimento dato a sé stesso ogni volta che si metteva alla scrivania e cominciava a battere a macchina.
Leggere Cormac McCarthy è un movimento di polmoni: se in Italia non avesse avuto traduttori della forza di Raul Montanari, Martina Testa, Maurizia Balmelli (e di Silvia Pareschi e Riccardo Duranti) sarebbe stato disperso il nitore muscolare di questo autore sconfinato. Ora basterà leggerlo e rileggerlo, e tutto sarà compiuto, partendo da The Passenger, l’ultimo suo romanzo appena pubblicato, che assieme a Stella Maris (in uscita a settembre in Italia) chiude il testamento mccarthyano.
Sono i due libri che ha lasciato più a lungo nel cassetto, ribadendo il proprio vangelo del silenzio: anche questa lucidità è il patrimonio di Cormac McCarthy, oltre a una confessione che confidò qualche anno fa, ripensando al proprio destino: «Non c’è essere umano dai tempi di Adamo più fortunato di me. Non mi è successo niente che non fosse giusto. E non lo dico per fare lo spiritoso. Non c’è mai stato un momento in cui non avessi quel tanto di soldi e fossi infelice, un momento in cui qualcosa non capitasse. E questo sempre, sempre, sempre. Ce n’è abbastanza di che renderti superstizioso».
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