domenica 3 gennaio 2021

Minacce, ma anche idee / Gli scrittori e la paura dei social

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Illustrazione di Antonello Silverini
Minacce, ma anche idee: gli scrittori e la paura dei social
Cristina Taglietti


Minacce, insulti, provocazioni: a volte i social si trasformano da piazza virtuale, aperta al dibattito e allo scambio di idee, in palestra di bullismo e prevaricazione. Tra gli scrittori c’è chi li utilizza, nella convinzione che possano essere uno strumento utile per combattere certe battaglie, chi li rifiuta come fonte di equivoci e malintesi. Fanno paura i social? Lo abbiamo chiesto a cinque scrittori italiani — Edoardo Albinati, Melania Mazzucco, Michela Murgia, Alessandro Piperno, Sandro Veronesi — che dal 21 al 26 settembre parleranno di paura al Romaeuropa Festival.

Sandro Veronesi usa spesso Twitter per condurre le sue battaglie su un tema che gli sta a cuore: il salvataggio dei migranti in mare. «L’odio verbale non mi fa nessuna paura. Con Roberto Saviano sono stato taggato per mesi e mi è arrivato di tutto: insulti, minacce di morte. Ma la mia è più una paura sociologica, antropologica: del dottor Jekyll da tastiera che c’è dentro queste persone. Anche se si limitano a dire cose terribili senza farle, comunque queste cose abitano in loro. Mi spaventa l’idea che ci sia chi scrive “ti auguro che tua figlia venga stuprata”, poi magari ha un negozio di ferramenta, entro io, chiedo dei bulloni, me li dà e chiacchieriamo come se nulla fosse. Grazie a Dio penso che sia un’immagine molto falsa, barocca che danno di sé, ma che poi nella realtà non siano così. Tendono però a quello, perché quando sono sotto stress e vanno “a gallina”, come si dice dalle mie parti, e cioè sbroccano, non si sa che cosa può succedere. Se scrivevi quelle cose, per me potresti essere uno di quelli che va in piazza e spara. Sta succedendo in America: è bastato un presidente irresponsabile e si è aperto un vaso molto pericoloso. Più che una paura personale è una paura politica, sociale. Stare sui social mi permette di monitorarla sulla mia pelle».

Edoardo Albinati, invece, non ha «né tempo né voglia» di occuparsi dei social: «Mi pare che ci sia solo la triste scelta se essere chi colpisce o un bersaglio. Io un bersaglio lo sono stato molto episodicamente — per quanto sia stato attaccato dal ministro dell’Interno — e ho molta simpatia per chi si trova a portare spesso questa croce. È una modalità molto facile per chi la pratica, molto sicura. Esistono figure sintomatiche di un’epoca e gli haters lo sono della nostra. Sono tutti giustizieri della notte, convinti di raddrizzare dei torti. Però sul tema generale vorrei essere radicale: sui social ci sono anche cose interessanti, ma mi pare un’attività per perditempo. La preoccupante disponibilità di tempo libero crea questi problemi».

È radicale anche Alessandro Piperno che non riesce a concepire nessuna esposizione sui social. «È il posto dove tu non hai nessun tipo di controllo. L’idea di mettere in scena istanti della mia intimità domestica e vedere che qualcuno mi dice se gli piaccio o non gli piaccio, sarebbe come l’inveramento di un incubo. Io detesto l’orrenda capziosità dei giustizialisti per esempio, perché prendono un pezzo della tua vita e lo trasformano, per dimostrare che sei un criminale. Lo fanno senza nessuna misericordia, senza nessuna indulgenza, senza nessuna moralità. Pur di sottrarmi al loro influsso sono disposto a una assoluta discrezione».

Neppure Melania Mazzucco è frequentatrice di social, però, dice: «Lo sono le persone intorno a me e quindi ne conosco bene la centralità, l’importanza e il pericolo. Fanno paura gli insulti? A me fanno paura quelli che ho detto, più che quelli che ho ricevuto. Nell’infanzia ricordo di averne subito un’infinità e di averne pronunciato uno. Però la persona che ho insultato me la ricordo ancora e se la vedessi per strada gli andrei a chiedere scusa».

Michela Murgia, invece, i social li frequenta tutti: Instagram, Twitter, Facebook. «Non ho paura dello strumento in sé, ho paura semmai delle persone, di quello che sono capaci di fare quando sanno che possono agire con una certa impunità. Non sono tanto gli haters, matti o disgraziati, a spaventarmi, ma il fatto che spesso la somma di queste violazioni passa per esercizio della libertà di pensiero, trova cornici in cui viene legittimata. Quelli che ti odiavano c’erano anche prima, ma nessuno aveva dato loro un posto dove radunarsi, organizzarsi, muoversi in branco come fanno i cani. A me non impediscono di fare le mie battaglie, posso permettermi di ignorare le provocazioni e gli insulti, però lo impediscono a molte persone che vorrebbero interagire pacatamente e non sopportano questa dinamica. In un contesto in cui predomina il registro dell’odio solo chi lo utilizza può esprimersi».

   

CORRIERE DELLA SERA



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