mercoledì 13 gennaio 2021

A proposito di niente / L’autobiografia di Woody Allen sembra un film di Sergio Leone

 



I Migliori Libri

Lui e Ronan

L’autobiografia di Woody Allen sembra un film di Sergio Leone

Personaggi, crimini e misfatti di “A proposito di niente”, il memoir dell’84enne regista americano. La vita, i film, Diane Keaton, ma la scena è tutta per Mia Farrow e suo figlio



Guia Soncini
25 Marzo 2020

Il miglior nuovo libro che possiate leggere a librerie chiuse l’ha scritto uno che di mestiere scrive altro (sceneggiature, pièce, monologhi) ma che, soprattutto, non ha paura dell’uomo più potente di Hollywood. Il libro s’intitola “A proposito di niente”, lo pubblica La nave di Teseo. L’uomo più potente di Hollywood in questo secolo non è mai stato, come avrete letto molte recenti volte da cronisti convinti di vivere negli anni Novanta, Harvey Weinstein. Il titolo appartiene attualmente a Ronan Farrow, motore non esattamente immobile del MeToo (l’unico marchio di successo non tratto da fumetti degli ultimi decenni), forse figlio dell’autore del libro. L’autore del libro si chiama Woody Allen, e non vi sorprenderà apprendere che la sua autobiografia è praticamente già un film. Fate conto: un film di Sergio Leone coi dialoghi di Woody Allen – riuscite a immaginare niente di più irresistibile?Personaggi, in ordine sparso.





Soon-Yi Previn: non la preferita d’una madre che adottava figli come noialtre ordiniamo su Yoox, restituendoli con la stessa disinvoltura: «Una volta andò in Texas con Soon-Yi per adottare un bambino messicano, ma dopo qualche giorno lo rimandò indietro per ragioni a me sconosciute. Ricordo anche di un bambino con la spina bifida che rimase qualche settimana nella sua casa a New York, ma Fletcher ne era infastidito e così tornò in qualche istituto. Non so se ci furono altri episodi analoghi – ripeto, abitavo dall’altro lato del parco. Più o meno in quel periodo mi disse che anziché adottare un altro bambino avrebbe preferito rimanere incinta. Mi girai per vedere a chi stesse parlando, ma si stava rivolgendo a me» (pagina 234). Se pensate che Harry (quello che ha
rinunciato al trono d’Inghilterra che peraltro non sarebbe mai stato suo) si sia accuratamente scelto Meghan perché poteva portarlo via da una famiglia reale che odia da quando gli ha ammazzato la madre, allora potete applicare la stessa lettura da tragedia greca (manca solo il coro di La dea dell’amore) a Soon-Yi, che quando si scoccia d’essere trattata come la figlia della serva dall’adottatrice compulsiva Farrow gli porta via il moroso. Come diceva appunto il coro di quel film alleniano (del 1995: quando la saga familiare Allen/Farrow pareva archiviata, quando tutti ignoravamo che nel secolo successivo sarebbe stata considerata materiale fresco), Edipo giacque con sua madre e una nuova professione era nata, da duecento dollari l’ora, ore di cinquanta minuti perdipiù. Rispetto all’antica Grecia, la modernità ha il vantaggio di internet, gigantesco coro di telefoni senza fili e diffamazioni senza senso: per Mia, Soon-Yi era “ritardata” (cuore di mamma); per quelli che non sanno niente ma hanno un’opinione su tutto, era la figlia di Allen, incestuoso come neanche i cattivi dei cartoni animati. Allen non s’illude certo di convincerli: «C’era ancora chi, contro ogni logica, non voleva capire e, per qualche motivo, sembrava convinto che io avessi violentato la figlia minorenne e ritardata di Mia». (André Previn, padre adottivo di Soon-Yi e già marito di Mia, morto l’anno scorso, farà poi una breve comparsa in questa vicenda: un marito rubato, in quella che è una storia di donne). Sono passati ventotto anni dal tradimento: Allen e la ragazza dello scandalo (ormai quasi cinquantenne) sono ancora sposati, le loro figlie vanno all’università.

Satchel, poi Ronan, Farrow: è un libro pieno di notizie, tra le quali il fatto che Mia, ben prima di trovare le foto di Soon-Yi nuda, di accusare Allen di molestie ai danni d’una bambina, di mandargli cuori trafitti da coltelli da cucina per San Valentino (questo lo sapevamo già: Woody li fece vedere in tv, a 60 minutes, nel 1992, ma fanno comunque impressione), prima di tutto questo Mia aveva già raffreddato i rapporti con Woody. Incinta di Satchel (cui successivamente cambiò nome), gli aveva chiesto indietro la chiave del proprio appartamento (quello di là dal parco in cui lui andava a prenderla per andare a cena o andava a giocare coi bambini), e poi, partorito Satchel (che diverrà Ronan: state prendendo appunti?), non aveva messo il cognome di Allen sul certificato di nascita. Dopo anni (Allen li quantifica in «una mezza dozzina di film») passati a chiedergli d’ingravidarla. «La mia teoria, cui sto finalmente arrivando, è che avevo assolto la mia funzione mettendola incinta ed ero quindi diventato inutile» (pagina 239). Quando Ronan è diventato l’eroe del MeToo e il più veemente accusatore del forse padre (a un certo punto Mia buttò lì che potrebbe essere figlio di Sinatra, con cui era stata sposata in gioventù; «non potrò mai averne la certezza» è il laconico commento di Allen in merito), è diventato anche, appunto, l’uomo più temuto da quelle parti. La telefonata più terrorizzata che abbia ricevuto nella vita era d’una scrittrice americana che mi pregava di non pubblicare la frase che mi aveva detto su Ronan, temendo vendette. La frase era «Ha vinto inspiegabilmente il Pulitzer». Una delle notizie più inedite nel libro, una cosa che gli amici di Allen raccontavano da anni ma nessuno aveva mai osato scrivere – c’è voluto Woody, l’unico supereroe che non ha paura delle ritorsioni di Ronan – riguarda una misteriosa malattia che Ronan avrebbe contratto da ragazzo, durante una missione diplomatica. Non è per quello che stette un anno e mezzo in sedia a rotelle, scrive Allen attribuendo il racconto al figlio Moses (quello che dice che la pazza era Mia e solidarizza con Woody: state prendendo appunti?), ma perché cuore di mamma Farrow, volendo per Ronan una carriera politica, gli fece fare quel dolorosissimo intervento con cui si allungano le ossa delle gambe. «Bisogna essere alti per fare carriera in politica» (pagina 288).

Mia Farrow: c’è un serio problema di casting. A chi assegnare un ruolo così complesso da risultare facilmente inverosimile? Una donna che: da giovanissima si sposa con Frank Sinatra; da vecchia si fidanza con Philip Roth; in mezzo manda al manicomio Dory Previn infilandosi in casa da amica e facendosi ingravidare dal di lei marito, il direttore d’orchestra André Previn; e poi – se si dà retta alla versione di Allen, che è anche l’unica che risulti credibile a chi abbia letto le carte giudiziarie – decide di farla pagare al moroso traditore accusandolo di pedofilia e, per tenere il punto, non esita a fare il lavaggio del cervello alla figlia per trent’anni. La ragione principale per cui alcuni scelgono di credere a Dylan Farrow, quando dice che Woody Allen la molestò settenne, è che è la meno grave delle ipotesi: uno che mette le mani nelle mutande a una bambina è un vecchio porco, ma una madre che fa per decenni il lavaggio del cervello alla figlia per vendicarsi dell’ex è una tragedia che nessun greco avrebbe osato concepire. Ah, e poi ci sarebbe quel dettaglio di far spezzare le gambe al figlio per renderlo più telegenico. E poi c’è la famiglia d’origine. Nel riassunto che ne fa Allen: molestata dei fratelli e forse anche dal padre, padre che una volta Mia piccina colse in flagranza d’adulterio; un fratello morto suicida, uno in un incidente aereo, uno attualmente in galera per pedofilia. Siccome la voce narrante è Woody Allen, mica Ingmar Bergman, è il primo a prendere per il culo il sé così fesso da non fuggire da una così evidentemente piena di problemi e fingersi morto. Non sa neanche lui il perché, dice (Mia somigliava alla sua amatissima seconda moglie, Louise Lasser, ma mica può essere solo questo). «So solo che una personalità affascinante e due occhioni azzurri hanno sempre varato mille navi»; il traduttore italiano aggiunge «come diceva Christopher Marlowe», ma ciò non vi sarà di gran aiuto se non siete abbastanza adusi alle citazioni angolofone da sapere che i versi di Marlowe parlavano di Elena di Troia. Effettivamente, guerre più storiche di quella dei Farrow non se ne ricordano, nell’evo contemporaneo.

Diane Keaton: amica ed ex fidanzata di Allen, protagonista di alcuni capolavori (Manhattan, Io e Annie) che Allen considera sopravvalutati (nessuno è incapace di giudicare un’opera quanto l’autore dell’opera), autrice della meravigliosa foto sulla quarta di copertina dell’edizione americana (quella che è infine uscita lunedì pubblicata da Arcade, dopo che il gruppo Hachette aveva mandato le copie già stampate al macero e rotto il contratto con Allen giacché sgradite all’uomo più potente da quelle parti: Ronan). Diane, dicevo. Incassatrice della più deliziosa descrizione di audizione cinematografica con un’aliena che diventerà un grande amore: «Penso che, se Huckleberry Finn fosse stato una bella ragazza, sarebbe stato così. Una ragazza che sembra doversi scusare perché sta al mondo, una provincialotta che viene dalla California, amante dei mercati delle pulci e dei sandwich al tonno; una ragazza che è emigrata a Manhattan, dove lavora come guardarobiera, dopo essere stata licenziata dal chiosco dei dolciumi di un cinema di Orange County per essersi mangiata tutte le caramelle […] Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale» (pagina 180). Sarebbe bello un mondo in cui potessimo parlare solo di Woody e Diane, e ogni articolo su A proposito di niente non venisse monopolizzato dal dramma familiare: e invece Farrow ha comunque vinto, il proscenio è comunque suo.

Timothée Chalamet: attor giovane e protagonista überalleniano di Un giorno di pioggia a New York, delizioso film in cui invece di recitare pratica una mimesi del regista. Chalamet è uno di quelli che hanno baciato l’anello di Farrow dichiarandosi pentiti d’aver lavorato col mostro. Allen lo uccide con un’eleganza che non si vedeva da quando James Bond era Sean Connery. «Timothée ha manifestato il rammarico di essere comparso in un mio film e l’intenzione di versare il suo cachet in beneficenza, ma a mia sorella ha giurato di averlo dovuto fare perché era in lizza per l’Oscar con Chiamami col tuo nome, e lui e il suo agente avevano pensato di avere maggiori chance di vincere prendendo le distanze da me, come poi ha fatto. In ogni caso non rimpiango di avere lavorato con lui e non intendo restituire neanche un dollaro del mio compenso». (pagina 390)

Woody Allen, infine: regista, sceneggiatore, padre, ex di una pazza, ex di Diane Keaton. Ma, soprattutto: ottantaquattrenne. Cioè: della generazione di Alberto Arbasino e Paolo Conte. Di quelli che quand’erano piccoli c’era la seconda guerra mondiale e cosa vuoi mai che gliene importi di far delle tragedie sugli inciampi del presente. Se hanno una vocazione, è sdrammatizzare. Il loro basso profilo arriva a essere fastidioso (Allen descrive Settembre, il suo film del 1987, così: «La voglia mi era venuta anni prima, dopo avere visto lo Zio Vanja […] Il problema è che non si può mai mettere in conto l’imponderabile: e così, anche se feci tutto quello che avrebbe fatto Cechov, tralasciai un ingrediente essenziale pur se non quantificabile, il genio. Cechov infondeva automaticamente il genio nelle sue opere – qualcosa che non puoi controllare né imparare. E così, anche se qualcuno come me segue tutte le regole della drammaturgia, la maionese non viene»). Ma la loro determinazione a essere lievi (a non far sporcare le loro opere dalle tragedie del reale, a restare nella favola, dice Paolo Conte) è mirabile.

Allen la spiega citando Un tram che si chiama desiderio, l’opera che nel finale a piccolo questionario del libro è la sua risposta alla domanda «cosa invidi». Dice che lui è Blanche DuBois, che vuole la magia, mica la realtà. Non vuole la provincia, la campagna (il personaggio di Chalamet in Un giorno di pioggia diceva d’aver bisogno di respirare asfalto), il proletariato. Vuole i film che ha visto da piccolo, gente in abito da sera che beve dei martini. «Tutt’oggi, se la prima inquadratura di un film è il dettaglio della bandierina di un tassametro che viene abbassata, rimango. Ma, se è la bandierina di una cassetta della posta, esco». Tradotto dall’americano: non vuole tranquilli sobborghi di provincia e villette a schiera da piccolissima borghesia e buone cose di pessimo gusto. Vuole vedere ciò che racconta e che vive: Manhattan. Se, come dovrebbe, questa biografia avrà un adattamento cinematografico, il finale non potrà che essere quel flashback in cui c’è tutto: il protagonista che non va ai funerali, la pazza che non si sa ancora essere tale, i ristoranti chic, il jazz. «A un funerale non sono mai andato, me lo sono sempre risparmiato. Il primo e unico cadavere che ho visto è stato quello di Thelonious Monk. Stavo andando a cena da Elaine’s e mi fermai in un salone di pompe funebri sulla Terza Avenue per rendergli omaggio. Con me c’era Mia Farrow; era da poco che ci frequentavamo, e accondiscese alla mia richiesta malgrado lo sconcerto; avrebbe dovuto capire subito che stava mettendosi con la persona sbagliata».


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