martedì 28 maggio 2019

La notte di Michelangelo Antonioni


LA NOTTE

di Michelangelo Antonioni



Sesso, arte e denaro. In La notte, Michelangelo Antonioni presenta la sua lucida, essenziale analisi di tre fondamentali problemi borghesi. Senza offrire soluzioni, tanto non ce ne sono. Al Palazzo delle Esposizioni per la rassegna Bergman 100, organizzata da CSC-Cineteca Nazionale e La farfalla sul mirino.

L’alba dell’uomo

La crisi sentimentale di Giovanni e della moglie Lidia diventa una parabola simbolica del diffuso mal di vivere della società moderna, tra la visita in ospedale a un amico morente, la presentazione di un libro e una festa mondana, Antonioni mette in scena la crisi esistenziale e la solitudine dell’uomo… [sinossi]
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Ludwig Wittgenstein
«Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Così sanciva già nell’introduzione del Tractatus logico-philosophicus Ludwig Wittgenstein segnalando come prima cosa il limite, il confine in cui il suo lavoro trovava fine e da cui al tempo stesso tutto poteva prendere inizio.
Ci sono cose dunque di cui il linguaggio non riesce a comunicare l’essenza. Tra queste, la fede e i sentimenti rivestono un ruolo centrale, sia nelle preoccupazioni del filosofo che in quelle dell’artista. Non è certo un caso che due dei maggiori autori della storia del cinema, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni (che la sorte ha voluto lasciassero questa terra nello stesso giorno, il 30 luglio 2007), abbiano dedicato a questi due argomenti (la fede e sentimenti) due fondamentali trilogie di film, cronologicamente coeve e portate avanti col medesimo, caparbio scandaglio.
Da un lato abbiamo dunque la cosiddetta Trilogia del silenzio di Dio di Bergman, composta da Come in uno specchio (1961), Il silenzio (1963) e Luci d’inverno (1963), mentre dall’altra, la Trilogia dei sentimenti (o anche dell’incomunicabilità) di Antonioni formata da L’avventura (1959), La notte (1961) e L’eclisse (1962).
Magari non pensava esattamente a Wittgenstein, ma quando nel finale di Eyes Wide Shut Stanley Kubrick chiariva senza appello che l’unica risposta al dissertare d’amore è scopare, di certo però faceva riferimento all’epilogo di uno dei film che amava di più: La notte di Michelangelo Antonioni. Scopare, questo è l’imperativo di Alice Harford/Nicole Kidman alla fine di una lunga notte di tormentosi dubbi, tradimenti sognati o forse realizzati, e questo è l’unico impulso (in)sensato, l’ultimo gesto di possesso (della propria donna, del proprio ruolo e della propria identità) per Giovanni/Marcello Mastroianni, al termine di una notte di bagordi attraversati e vissuti, insieme alla moglie Lidia (Jeanne Moreau) nella villa in Brianza di un ricco industriale. Basta parlare, ritorniamo all’unica cosa vera, all’espressione corporea, perché tanto non ci capiremo nè spiegheremo mai del tutto e, mentre tentiamo di comunicare, l’amore fugge. E così, quando Giovanni, scrittore di successo, non riesce più nemmeno a riconoscersi come l’autore di una potente lettera d’amore, non gli resta che l’afasia, il rantolo sessuale, imerso in una sorta di alba dell’uomo, al confine tra l’inizio e la fine di tutto, dove regnano infine il silenzio e il latteo, ottuso biancore del cielo.
Capitolo centrale della trilogia dei sentimenti, premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino, La notte è il resoconto di una giornata, dal mattino fino all’alba del giorno successivo, di una coppia. Giovanni, scrittore di successo il cui nuovo romanzo, La stagione è in procinto di uscire, e Lidia, si recano dapprima a visitare, in una bella clinica, l’amico morente Tommaso (Bernhard Wicki), il cui nuovo saggio su Adorno, forse proprio in vista dell’incombenza della sua morte, è appena apparso sulle pagine di un quotidiano. Durante la visita, Lidia non riesce a sostenere il dolore per questa perdita imminente, per lei Tommaso è stato un mentore, un maestro, cui ha negato i piaceri del talamo, preferendo sposare il di lui amico Giovanni. Quest’ultimo, invece, prima accetta di brindare alla morte imminente dell’amico, poi si lascia abbordare da una ferina ninfomane, paziente anch’essa della clinica. Segue la liturgia obbligata di una presentazione del libro di Giovanni, cui presenzia una sguaiata intellighentia milanese (si segnala la presenza di Salvatore Quasimodo), tra tartine, bicchieri di vino e l’obbligata domanda all’autore «Cosa ci sta preparando di nuovo?». «Niente», è la risposta. Lidia si allontana di nuovo e questa volta per immergersi nella città, in un lungo peregrinare muto e sensoriale, fatto di rumori del traffico, silenzi della periferia, manifestazioni di ruspante virilità, razzi lanciati verso lo spazio, squame di ruggine che si staccano dai cancelli, rovine di una guerra ancora vicina, nonostante il boom economico in corso. Al termine della flânerie urbana di Lidia, ha inizio la lunga notte che da il titolo al film: dapprima la coppia si reca in un locale notturno, dove una splendida ed esotica ballerina si esibisce in una danza erotico-acrobatica con un cocktail in bilico su varie parti del suo corpo, infine la meta diventa la villa dell’industriale Gherardini, in Brianza. Qui, al cospetto di una umanità chiassosa pronta a scatenarsi sulle dissonanze ardite di un jazz diventato oramai patrimonio dell’alta borghesia (sempre attento al versante musicale dei suoi film, Antonioni si affida a Giorgio Gaslini, in scena per buona parte del film con la sua orchestra), Lidia spinge Giovanni tra le braccia di Valentina (Monica Vitti) e tenta invano di fare lo stesso con uno sconosciuto. Infine, quando l’alba è ormai conclamata, Lidia parla al marito della loro unione, che reputa finita, e lo fa usando le sue stesse parole. Ma Giovanni non le riconosce.


Non Rispondere, taci!
E poi, che cosa potresti dire?
So anche troppo bene quel che diresti.
Ma tu non hai il diritto di aggiungere nulla a quel che già dicesti una volta.
Perché sei venuto a infastidirci?
Perché sai anche tu che sei venuto a infastidirci.
Ma sai cosa accadrà domani?
Io non so chi tu sia ne voglio sapere se sia proprio lui o se gli somigli,
ma domani ti condannerò ti brucerò sul rogo come il più empio degli eretici…
Il grande Inquisitore, in I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij
Parlare è una manifestazione violenta, dagli effetti irreversibili, che fa terra bruciata di tutto, specie dei sentimenti. Ne La leggenda dell’Inquisitore, contenuta ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij, si immagina che Cristo sia tornato sulla terra, in Spagna, proprio durante la Santa Inquisizione. Benché acclamato dal popolo, viene arrestato e sottoposto alle domande dell’Inquisitore. Domande a cui lui risponde con il silenzio, necessario per lasciare all’uomo il libero arbitrio, per non turbare un equilibrio, una libertà che le sue parole ridurrebbero in macerie.
La Lidia de La notte, invece, parla. Come altri personaggi femminili che costellano la filmografia di Antonioni, anche lei ha tormenti, ansie, indecisioni, ma a differenza del suo contraltare, Giovanni, sceglie, forse perché esausta da tanta finzione, di rompere il silenzio, di dire la verità, per responsabilità verso se stessa, verso gli altri (Giovanni) e le istituzioni che rappresentano (il matrimonio).
È un film costruito anche sulla parola e la sua assenza La notte, proprio grazie all’utilizzo che fa della sceneggiatura e dei dialoghi, firmati da Antonioni insieme a Tonino Guerra ed Ennio Flaiano, quei dialoghi che in questo caso come in altri film (pensiamo a Il deserto rosso, tra gli altri) sono stati oggetto di critiche, quando non di ludibrio, per via di un’eccessiva ascendenza letteraria, che rischia di farli apparire, specie con il tempo, datati. Sarà anche vero, ma nel corso della visione oggi di La notte non si può non ammirare la pervicacia orgogliosa, spavalda di un autore che, al pari dei maggiori romanzieri del ‘900, rifugge il più possibile il significato, le simbologie, le facili metafore che oggi invece il cinema si sente in dovere di elargire, vittima di un dover significare qualcosa. Antonioni compie il procedimento inverso, punta all’annullamento di un significato unico e intellegibile, il suo lavoro registico va verso una sottrazione del senso, sia esso delle parole o delle immagini, che anelano, come i dipinti di Malevic o come la serie da lui stesso dipinta delle Montagne incantate, a ridiscutere il confine tra il quadro e la sua cornice, tra la raffigurazione e la realtà, tra il dire e il silenzio. E pertanto non possono che rinunciare all’ingombro del significato. Il medium è il messaggio, certo, ma non è solo questo. Giovanni e Lidia sono colti in un frammento della loro esistenza senza filtri né spiegazioni, senza senso né narrazione, e ciò ne fa due personaggi che esistono, ipoteticamente, ma esistono, prima e dopo il film. E in questo il cinema di Antonioni supera definitivamente il Neorealismo a cui sembrava inizialmente appartenere (i documentari N.U.Gente del Po, e poi Tentato suicidio, episodio di L’amore in città) per porsi nel solco di una modernità fatta del dubbio e della sua contemplazione quale oggetto artistico. La forma senza il contenuto, la tecnica come fondamento del gesto artistico, elemento poi centrale in Blow-Up così come nelle già citate Montagne incantate, di fatto ingrandimenti fotografici (frutto dunque di un procedimento chimico) di grandi dimensioni di piccoli acquerelli realizzati da Antonioni.
Questa rivolta di Antonioni contro il dover narrare e il dover rappresentare emerge con forza in La notte e da un punto di vista visivo si esplicita in quelle inquadrature, in quei «raccordi a percezione ritardata» analizzati da Noël Burch [1] che connettono lo stile di Antonioni all’arte contemporanea coeva, specie quella non figurativa, volta all’astrazione geometrica, che va dai dipinti del già citato Malevic alle geometrie di Mondrian, di Klee, alle fenditure di Burri.
Si pensi in particolare al momento che segna l’inizio del peregrinare urbano di Lidia. L’inquadratura parte da Giovanni disteso su una panca, in casa, intento a scostare la tenda per, immaginiamo, guardare fuori, cosa che in realtà da quella posizione gli è presclusa. Antonioni stacca con il montaggio per realizzare un lungo dolly discendente sulla facciata bianca e vuota di un palazzo e al termine di questa lunga, vertiginosa discesa, fa il suo ingresso, da ultima, la figura umana di Lidia, barlume narrativo in uno spazio cieco (la facciata senza finestre del palazzo), che ristabilisce l’ordine tra cose ed esseri umani e ci comunica da che punto di vista stiamo guardando (quello di nessuno, o di Antonioni, è lo stesso).
Lo stesso effetto lo si trova nella sconvolgente sequenza, contenuta nei primi minuti del film, della ninfomane, anche qui lo spazio, come più tardi avverrà con le superfici riflettenti e le trabeazioni della villa di Gherardini, è frammentato e il punto di vista dello spettatore ripetutamente ingannato, tra raccordi sbagliati e schermi bianchi (le pareti della stanza) dove i personaggi appaiono e scompaiono mossi da una forza primigenia (l’impulso sessuale) che appare incontenibile perfino per l’inquadratura.
C’è una tensione costante in La notte, anche quando nulla apparentemente accade, siamo noi a costruire la storia, parte attiva chiamata in causa da uno stile registico calcolato, enigmistico, consapevole che il linguaggio che si sta usando, quello cinematografico, ha già da tempo, probabilmente dal muto, compiuto la sua maturità, e non può far altro che contemplare l’assenza di significato sublimandola in una vertigine del senso, una plongé infinita, un’eterna caduta in un abisso insondabile.
Rispetto a L’avventura, manca non a caso in La notte il rapporto con il genere (il thriller-mistery, suggerito nel film precedente dalla scomparsa del personaggio di Lea Massari), un orpello narrativo messo da parte per conferire maggiore forza a ciò che si sta osservando e a un finale deprivato di quella speranza presente nel gesto, magnifico, conclusivo di Monica Vitti in L’avventuraLa notte appare dunque oggetto di una lunga spoliazione da tutto ciò che Antonioni reputa superfluo: è la sua poetica resa in maniera più essenziale, messa a nudo. Lo si evince anche dalla connotazione del personaggio maschile che, imperscrutabile, come i grandi anti-eroi del romanzo novecentesco, si lascia vivere, accetta ogni cosa, pur di non dover scegliere, laddove il Sandro (Gabriele Ferzetti) di L’avventura era ancora capace di un gesto terribile e iconoclasta come il distruggere, per invidia virile, il disegno di uno sconosciuto. Probabilmente Giovanni sa di non essere un grande scrittore, ed è proprio da qui che viene il suo snobismo, riconosce la superiorità dell’amico morente ed è pronto ad accettare l’impiego non ben precisato offertogli dal potente industriale. Forse è uno scribacchino, o forse si valuta così, se potesse magari cancellerebbe tutto ciò che ha scritto, proprio come fa Valentina, la giovane figlia dell’imprenditore, che con il suo registratore riavvolge e cancella le proprie parole.
Eppure in quel gesto di Valentina c’è uno slancio verso il futuro che appare invece precluso a Giovanni. In fondo è un atto un po’ punk verrebbe da dire, un po’ no future, legato anche alla consapevolezza, da parte della ragazza, che per lei un futuro c’è, esiste, mentre per Giovanni e poi, soprattutto, per Lidia, che in fondo è una prefigurazione possibile di Valentina tra vent’anni, lo slancio nichilista è diventato rabbia, una rabbia che lei non vuole lasciare del tutto inespressa.
Cancellare (il significato, la narrazione) e cancellarsi è dunque un atto di ribellione e in tal senso viene da interpretare anche la scelta di Giovanni di vendersi all’industriale. Perchè tanto l’intellettuale quello vero, quello che scrive di Adorno, è appena morto nel suo letto madido di sudore, non resta che lui, che ha scritto un romanzo medio intitolato La stagione, perfetto per un pubblico intellettualmente medio di ricchi oziosi, che giustamente lo trattano come un fenomeno circense chiedendogli «raccontami una storia», in perfetta obbedienza al ruolo sociale che ha scelto di incarnare.
Perché l’arte, quella vera, ci dice Antonioni, ha valore solo se slegata dal denaro e persino da un fruitore. Solo così si può raggiungere l’arte per l’arte, il sogno, utopico, magnifico e al tempo stesso annichilente, di ogni autore. Fuori i mercanti dal tempio.
Note
1. Noel Burch, Prassi del cinema, Il Castoro, 2000.
Genere: 






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