venerdì 31 maggio 2019

Hans Christian Andersen / Il compagno di viaggio




Il compagno di viaggio
Una fiaba di Hans Christian Andersen

Il povero Giovanni era molto triste perché suo padre era gravemente malato e presto sarebbe morto. Non c'era nessun altro nella stanza oltre a loro due, la lampada sul tavolo si stava spegnendo, e eragià sera tardi.

«Sei stato un bravo figlio, Giovanni!» disse il vecchio «il Signore ti sarà d'aiuto in questo mondo!» e lo guardò con uno sguardo dolce e serio, poi respirò profondamente e morì; era come se dormisse. Giovanni pianse, ora non aveva più nessuno al mondo, né padre né madre, né sorelle né fratelli. Povero Giovanni!

Rimase inginocchiato accanto al letto e baciò la mano del padre morto, pianse molte lacrime, ma alla fine gli si chiusero gli occhi e lui si addormentò con la testa sulla dura asse del letto.

Fece uno strano sogno: vide che il sole e la luna si inchinavano davanti a lui, vide suo padre ancora vivo e sano e lo sentì ridere, come faceva sempre quando era divertito. Una graziosa fanciulla, con una corona d'oro posata sui bei capelli, tese la mano verso Giovanni, e suo padre esclamò: «Vedi la sposa per te? È la più bella del mondo». Poi si svegliò e tutta quella meraviglia era svanita, suo padre giaceva gelido e senza vita nel letto e non c'era nessun altro; povero Giovanni!

La settimana dopo il morto venne seppellito; Giovanni camminava proprio dietro la bara, ormai non poteva più vedere il buon padre che gli aveva voluto così bene; sentì che gettavano la terra sulla bara, ne vide un ultimo angolo, ma alla successiva palata di terra anche questo sparì. Era tanto addolorato che gli sembrava che il cuore gli scoppiasse. Tutt'intorno cantavano un salmo, risuonava così dolce che a Giovanni vennero le lacrime agli occhi; pianse e questo gli fece bene. Il sole brillava tra i verdi alberi e pareva volesse dire: "Non devi essere così addolorato, Giovanni! Vedi com'è bello il cielo! Tuo padre è ormai lassù e prega il buon Dio che tutto ti vada bene!"

"Voglio restare sempre buono!" disse Giovanni "così anch'io andrò da mio padre e sarà una gioia quando ci rivedremo di nuovo. Quante cose avrò da raccontargli, e lui mi mostrerà tante cose, mi insegnerà tutte le bellezze del cielo, come mi aveva insegnato sulla terra. Oh! sarà proprio una gioia!."

Giovanni immaginò tutto con tanta chiarezza che si ritrovò a sorridere, mentre le lacrime gli scorrevano ancora lungo le guance. Gli uccellini stavano appollaiati sui castagni e cinguettavano, erano contenti anche se erano a un funerale; sapevano che il defunto era ormai su nel cielo, aveva le ali, ali molto più belle e robuste delle loro, e era felice, perché era stato buono sulla terra. Per questo erano contenti. Giovanni li vide volar via dai verdi rami lontano verso il mondo e venne anche a lui voglia di volar via con loro. Prima però tagliò una grande croce di legno da mettere sulla tomba di suo padre e, quando alla sera la portò al cimitero, la tomba era stata ricoperta di sabbia e di fiori. Erano stati certo degli estranei che avevano voluto bene a suo padre, ormai morto.

La mattina dopo, molto presto, Giovanni preparò le sue poche cose e nascose nella cintura tutta la sua eredità, cinquanta talleri e poche monete d'argento; con quelli voleva andare per il mondo.

Ma prima andò al cimitero, alla tomba di suo padre, recitò il Padre Nostro e disse: «Addio, caro padre! Voglio essere sempre buono, così tu potrai pregare il buon Dio affinché tutto mi vada bene!».

Nei campi che Giovanni attraversava c'erano bei fiori freschi, illuminati dal sole, che si piegavano al vento come per dire: "Benvenuto nel verde! Non è bello qui?." Ma Giovanni si voltò ancora una volta per vedere la vecchia chiesa dove da piccolo era stato battezzato, dove ogni domenica era andato col padre e aveva cantato i salmi. Vide così, proprio in cima al campanile, in una fessura, il folletto della chiesa, col suo cappellino rosso a punta: lo teneva sollevato per ripararsi dal sole. Giovanni gli fece un cenno di saluto e il folletto agitò il cappellino rosso, posò una mano sul cuore e gli mandò con le dita tanti baci, per mostrargli quanta fortuna gli augurava e perché facesse un buon viaggio.

Giovanni pensò a quante meraviglie avrebbe ora visto nel grande e splendido mondo, e se ne andò lontano, lontano dove non era mai stato prima; non conosceva le città che attraversava, e neppure le persone che incontrava; era circondato da estranei.

La prima notte dormì su un mucchio di fieno, non aveva altro giaciglio. Ma gli andò bene ugualmente, anzi pensò che il re non ne aveva certo uno migliore. Il campo, col ruscello, il mucchio di fieno e il cielo azzurro, era proprio una bella stanza da letto. L'erbetta verde con i fiorellini rossi e bianchi faceva da tappeto, i cespugli di sambuco e le siepi di rose selvatiche erano i mazzi di fiori, e come catino d'acqua c'era il ruscello intero con la sua acqua fresca e trasparente, dove le canne si piegavano dicendo buon giorno e buona sera. La luna fungeva da grande lampada, appesa in alto al soffitto blu, e non appiccava fuoco alle tendine. Giovanni poteva dormire tranquillo e così infatti fece, si svegliò quando il sole si levò in cielo e tutti gli uccellini si misero a cantare: "Buon giorno! Buon giorno! Non sei ancora alzato?."

Le campane col loro rintocco invitavano la gente in chiesa, era domenica. Tutti andarono a sentire il pastore e Giovanni li seguì, cantò il salmo e ascoltò la parola di Dio. Gli sembrò di essere nella sua chiesa, dove era stato battezzato e dove aveva cantato i salmi con suo padre.

Nel cimitero c'erano molte tombe e su alcune l'erba cresceva alta. Allora Giovanni pensò alla tomba di suo padre, che sarebbe diventata come quelle, poiché lui non poteva più ripulirla dalle erbacce né curarla. Così si mise a strappare l'erba, rialzò le croci di legno che erano cadute e rimise a posto le corone che il vento aveva spostato dalle tombe, e intanto pensava che forse qualcuno avrebbe fatto lo stesso alla tomba di suo padre, ora che non poteva farlo lui.

All'ingresso del cimitero c'era un vecchio mendicante, che si reggeva con una stampella: Giovanni gli diede le monete d'argento che aveva con sé e se ne ripartì felice per il vasto mondo.

Verso sera venne un tempo spaventoso, Giovanni si affrettò perché voleva trovare un rifugio, ma in un attimo fu buio pesto; infine raggiunse una chiesetta che si trovava tutta sola in cima a un'altura, la porta era socchiusa e così egli si infilò dentro: ci sarebbe rimasto finché il brutto tempo fosse passato.

"Mi metterò qui in un angolo" pensò "sono proprio stanco e ho bisogno di riposarmi." Sedette, giunse le mani e recitò la preghiera della sera, e prima ancora di accorgersene, stava già dormendo e sognava, mentre fuori lampeggiava e tuonava.

Quando si risvegliò era ancora notte, ma il brutto tempo era passato, ora la luna lo illuminava attraverso la finestra. In mezzo alla chiesa c'era una bara aperta, con dentro un morto, che non era stato ancora seppellito. Giovanni non era affatto spaventato, perché aveva la coscienza tranquilla; sapeva che i morti non fanno del male; sono i vivi, i cattivi, che fanno del male. E proprio due persone, vive e cattive, si trovavano vicine al morto e volevano fare del male, lo volevano togliere dalla bara e gettare fuori dalla chiesa; povero morto!

«Perché volete farlo?» chiese Giovanni. «È male! Lasciatelo in pace nel nome di Gesù!»

«Oh! Quante storie!» risposero i due malvagi. «Ci ha imbrogliato! Ci doveva dei soldi, e non potè pagarli e adesso per di più è morto, così non avremo più neppure un soldo. Per questo ci vogliamo vendicare, e lui giacerà come un cane fuori dalla chiesa!»

«Ho solo 50 talleri» disse Giovanni «è tutta la mia eredità, ma ve li darò volentieri se mi prometterete sinceramente che lascerete in pace quel povero morto. Io ce la farò anche senza quei soldi, ho un fisico forte e sano e il Signore mi aiuterà.»

«Va bene» risposero i malvagi «se proprio vuoi pagare il suo debito, non gli faremo niente, puoi stare certo» e presero i soldi che Giovanni offriva, ridendo sguaiatamente della sua bontà, poi se ne andarono. Giovanni ricompose il cadavere nella bara, gli giunse le mani, disse addio e si avviò felice nel grande bosco.

Tutt'intorno, dove la luna splendeva tra gli alberi, vide i graziosi elfi giocare e divertirsi in libertà; non si sentivano disturbati perché sapevano che lui era una persona senza colpe, solo le persone cattive non riescono a vedere gli elfi. Alcuni non erano più alti di un dito e avevano i lunghi capelli biondi raccolti con dei pettini dorati; a due a due si dondolavano sulle grosse gocce di rugiada che si trovavano sulle foglie e tra l'erba alta. A volte la goccia scendeva giù, così anche loro cadevano tra i lunghi fili d'erba, e le altre creaturine ridevano facendo un gran chiasso. Com'era divertente! Cantavano e Giovanni conosceva molto bene tutte quelle belle canzoni, che aveva imparato da bambino. Grossi ragni variopinti con una corona d'argento in testa tessevano da un cespuglio all'altro i lunghi ponti pensili e palazzi che, quando cadeva la rugiada, brillavano al chiaro di luna come fossero di vetro. Tutto questo durava finché non sorgeva il sole. Allora i piccoli elfi rientravano nei boccioli dei fiori e il vento portava via i loro ponti e i loro castelli, che si agitavano all'aria come grosse ragnatele.

Giovanni era uscito dal bosco quando una possente voce gridò: «Salve, compagno! Dove sei diretto?».

«Per il mondo!» rispose Giovanni. «Non ho più né padre, né madre, sono un povero ragazzo, ma il Signore mi aiuterà.»

«Anch'io sto andando per il mondo» esclamò lo straniero. «Potremmo proseguire insieme.»

«Certo» rispose Giovanni, e così si unirono. Dopo breve tempo erano già molto affiatati, perché erano entrambi due brave persone. Ma Giovanni notò che lo straniero era molto più intelligente di lui, aveva già viaggiato per quasi tutto il mondo e sapeva raccontare di tutte le cose esistenti.

Il sole era già alto quando sedettero sotto un grosso albero per fare colazione; in quel mentre giunse una vecchia. Era proprio vecchia e camminava tutta curva, si appoggiava a una stampella e portava sulla schiena un fascio di legna da bruciare, che aveva raccolto nel bosco. Il grembiule era sollevato e Giovanni vide che sotto c'erano tre grosse verghe di salice e felce intrecciate. Quando ormai era vicinissima a loro, le scivolò un piede; cadde gridando forte, perché si era rotta la gamba, quella povera vecchia.

Giovanni disse subito che dovevano portarla a casa, ma lo straniero aprì il suo fagotto, tirò fuori un barattolo e spiegò che aveva un unguento che le avrebbe subito guarito la gamba, così sarebbe potuta andare a casa da sola, proprio come se non se la fosse mai rotta. Ma pretendeva che lei gli desse le tre verghe che aveva sotto il grembiule.

«È un buon prezzo!» commentò la vecchia e fece un cenno strano con la testa. Non era contenta di separarsi dalle sue verghe, ma non era certo piacevole starsene con una gamba rotta. Così gli diede le verghe e non appena l'unguento venne spalmato sulla gamba, la vecchia si rialzò e potè camminare meglio di prima. L'unguento aveva questo potere, ma non era certo qualcosa che si potesse trovare in farmacia!

«Cosa vuoi fartene delle verghe?» chiese Giovanni al suo compagno di viaggio.

«Sono tre bei manici di scopa, e mi piacciono: sono un tipo strano, io.»

Poi proseguirono un altro tratto.

«Che tempo si prepara!» disse Giovanni indicando proprio davanti a loro. «Ci sono nuvole terribilmente cariche di pioggia.»

«No!» spiegò il compagno di viaggio. «Non sono nuvole, sono montagne. Belle e alte montagne, su cui si sta sopra le nuvole, nell'aria fresca. È proprio splendido, credimi. Domani saremo certamente là.»

Non era però vicino come sembrava; ci volle tutto un giorno di cammino prima che arrivassero alle montagne. Là i boschi scuri crescevano proprio verso il cielo, e le pietre erano grosse come villaggi interi. Sarebbe certo stata una bella fatica arrivare fino in cima: Giovanni e il compagno di viaggio si fermarono in una locanda per riposarsi e raccogliere le forze per la camminata dell'indomani.

Nel salone della locanda c'erano molte persone perché un uomo faceva il teatro delle marionette. Aveva già preparato il teatro e la gente s'era seduta intorno per vedere lo spettacolo; davanti a tutti sedeva un vecchio e grosso macellaio, che si era assicurato il posto migliore. Il suo grosso mastino - oh! che aspetto feroce! - gli stava seduto accanto e faceva tanto d'occhi, come tutti gli altri.

Lo spettacolo cominciò; era una bella storia, con un re e una regina che sedevano su un trono bellissimo, con la corona d'oro in testa e lunghi strascichi ai vestiti, dato che se lo potevano permettere. Le più belle marionette di legno, con occhi di vetro e grandi baffi, stavano alle diverse porte che aprivano e chiudevano per far entrare aria fresca nella stanza. Era proprio una bella commedia, e non era affatto triste; ma quando la regina si alzò e avanzò sul pavimento, il grosso mastino, Dio solo sa che cosa pensava, dato che non era tenuto dal macellaio fece un balzo proprio nel teatrino, prese la regina per la vita sottile e "cric! crac!": fu proprio terribile!

Il povero burattinaio si spaventò molto e si rattristò per la regina, che era la sua marionetta preferita; e ora quel brutto mastino le aveva staccato la testa con un morso! Quando la gente se ne fu andata, lo straniero che era arrivato con Giovanni disse che l'avrebbe riaggiustata. Prese il suo barattolo e unse la marionetta coll'unguento che aveva aiutato la vecchietta con la gamba rotta. Non appena la marionetta fu spalmata, tornò sana e tutta intera, e in più si poteva muovere da sola, senza che si dovessero tirare i fili: era come una persona viva, se solo avesse saputo parlare! Il proprietario del teatro si rallegrò moltissimo di non doverla più guidare, ora che sapeva danzare da sola. Nessuno degli altri era in grado di farlo.

A notte inoltrata, quando tutti nella locanda erano andati a letto, ci fu uno che sospirò così profondamente e così a lungo che tutti si alzarono per vedere chi fosse. Il burattinaio si diresse verso il teatrino, perché era lì che qualcuno sospirava. Tutte le marionette di legno giacevano una sull'altra, anche il re e il suo seguito; erano loro che sospiravano disperati, con i grandi occhi di vetro spalancati. Volevano anch'essi venire unti un pochino come la regina, affinché anche loro potessero muoversi da soli. La regina era inginocchiata e sollevò la sua bella corona d'oro, pregando: «Prendila, ma ungi il mio sposo e la mia corte!»; il povero burattinaio e tutte le altre marionette non poterono fare a meno di piangere, perché soffrivano veramente. Il burattinaio promise subito al compagno di viaggio che gli avrebbe consegnato tutto l'incasso dello spettacolo della sera dopo, se avesse unto quattro o cinque delle marionette più belle. Il compagno di viaggio replicò che non voleva altro che la grossa spada che lui aveva al fianco; ottenutala, unse sei marionette che subito si misero a danzare così bene che tutte le ragazze, quelle vere, vedendole, si misero a ballare anche loro. Ballarono il cocchiere e la cuoca, ballarono il cameriere e la cameriera, tutti gli stranieri e anche le molle del camino e le palette, ma queste caddero al primo salto. Fu proprio una notte allegra!

Il mattino dopo Giovanni e il suo compagno di viaggio salutarono gli altri e si incamminarono verso le alte montagne attraverso grandi boschi di abeti. Giunsero così in alto che i campanili che stavano in basso, sotto di loro, sembravano piccole bacche rosse, in mezzo a tutto quel verde, e potevano vedere lontano, per miglia e miglia di distanza, dove non erano mai stati! Tante bellezze di questo mondo meraviglioso Giovanni non le aveva mai viste in una volta sola, il sole scaldava l'aria fresca e si sentivano i cacciatori soffiare i corni tra le montagne. Tutto era così bello e benedetto che gli vennero le lacrime agli occhi per la gioia e non potè trattenersi dall'esclamare: «Oh, buon Signore! Vorrei poterti baciare, perché sei così buono con noi tutti e ci hai donato tutta questa meraviglia che c'è nel mondo!».

Anche il compagno ammirava, con le mani giunte, il paesaggio al di là del bosco e delle città, nel caldo sole. In quel momento, sopra di loro, si sentì un suono straordinariamente dolce, guardarono verso l'alto: un grande cigno bianco volava nell'aria, era splendido e cantava come mai avevano sentito cantare nessun uccello, ma divenne sempre più debole, piegò il capo e cadde lentamente ai loro piedi. Lì giacque morto, quel meraviglioso uccello.

«Due ali così belle!» esclamò il compagno di viaggio. «Ali così grandi e bianche come quelle di questo uccello valgono molto, le voglio portare con me. Vedi che è stato un bene aver preso la spada» e con un colpo solo tagliò via le due ali del cigno morto e le conservò.

Camminarono poi per molte altre miglia, oltre le montagne, e alla fine videro davanti a loro una grande città, con più di cento torri che brillavano come argento alla luce del sole. In mezzo alla città si innalzava uno splendido castello di marmo, ricoperto di oro rosso; lì abitava il re.

Giovanni e il compagno non vollero entrare subito in città, si fermarono in una locanda un poco fuori, per rimettersi dal viaggio, preferendo apparire in ordine quando fossero andati per le strade. L'oste raccontò che il re era proprio una brava persona e non aveva mai fatto del male a nessuno. Sua figlia invece, Dio ci protegga! era proprio una pessima principessa. Era più che bella, nessuna era graziosa e affascinante come lei, ma a cosa serviva? era proprio cattiva, una strega malvagia, e era colpa sua se molti ottimi principi avevano perso la vita. Aveva permesso a tutti gli uomini di chiederle la mano; chiunque lo poteva, principe o straccione, era lo stesso. Doveva solo indovinare tre cose che lei gli chiedeva; se avesse indovinato, l'avrebbe sposata e sarebbe diventato re di tutto il paese, alla morte del re suo padre, ma se non riusciva a indovinare le tre cose, sarebbe stato impiccato o decapitato; tanto era cattiva la bella principessa! Suo padre, il vecchio re, ne era molto addolorato, ma non poteva impedirle di essere così malvagia, perché una volta aveva dichiarato che non avrebbe mai voluto avere a che fare con i suoi pretendenti: doveva pensarci lei stessa e fare quello che voleva. Nessun principe che aveva tentato di indovinare c'era riuscito, e quindi erano stati tutti impiccati o decapitati. Erano sempre stati avvertiti in tempo, e avrebbero potuto evitare di presentarsi. Il vecchio re era così addolorato per tutte quelle morti e quei drammi che ogni anno per un giorno intero restava in ginocchio con tutti i suoi soldati a pregare affinché la principessa diventasse buona, ma lei non lo voleva affatto. Le vecchie abituate a bere l'acquavite la coloravano di nero, prima di berla, per sembrare anche loro in lutto. Di più non potevano fare.

«Che principessa malvagia!» disse Giovanni. «Dovrebbe prendersi qualche vergata, le farebbe bene. Se fossi il vecchio re, allora gliel'insegnerei io!»

In quello stesso momento si sentì la folla gridare: Urrà! La principessa passava di lì e era così bella che tutti dimenticarono quanto fosse cattiva, perciò gridavano: Urrà! Dodici graziose damigelle, vestite di seta bianca e con un tulipano giallo in mano, le cavalcavano al fianco montando cavalli neri come il carbone. La principessa invece aveva un cavallo bianco come il gesso, ornato di rubini e diamanti; il suo vestito era d'oro zecchino e la frusta che teneva in mano sembrava fatta coi raggi del sole. La corona d'oro era come fatta da stelline del cielo e il mantello era cucito con più di mille splendide ali di farfalla, ma nonostante tutto, lei era molto più bella dei suoi vestiti.

Quando Giovanni la vide, divenne tutto rosso in volto, come se colasse sangue, e non potè dire una sola parola. La principessa sembrava proprio quella graziosa fanciulla con la corona d'oro che lui aveva sognato la notte in cui il padre era morto. Gli parve così bella che non potè evitare di volerle bene. Non poteva essere vero, pensava, che fosse una strega malvagia che faceva impiccare o decapitare chi non era in grado di risolvere i suoi indovinelli.

«Ciascuno può chiederle la mano, anche il più straccione; voglio andare al castello, non posso farne ameno!»

Tutti dissero che non avrebbe dovuto farlo, che gli sarebbe successo come a tutti gli altri. Il compagno di viaggio stesso gli consigliò di rinunciarvi, ma Giovanni era sicuro che sarebbe andata bene; spazzolò le scarpe e il vestito, si lavò il viso e le mani, si pettinò i bei capelli biondi e s'incamminò da solo per la città verso il castello.

«Avanti» disse il vecchio re quando Giovanni bussò alla porta. Giovanni aprì e il vecchio re, in vestaglia e con le pantofole ricamate, gli andò incontro. Aveva la corona d'oro sul capo, lo scettro in una mano e il globo imperiale nell'altra. «Aspetta un momento!» disse, e mise il globo sotto l'altro braccio per poter dare la mano a Giovanni. Ma non appena ebbe saputo che era un pretendente, cominciò a piangere così forte che sia lo scettro che il globo gli caddero sul pavimento, e lui dovette asciugarsi gli occhi nella vestaglia. Povero vecchio re!

«Lascia perdere!» esclamò «finirai male, come tutti gli altri! Vieni a vedere!» e portò Giovanni nel giardino della principessa. Che orrore! A ogni albero pendevano tre, quattro figli di re che avevano chiesto la mano della principessa ma che non avevano saputo risolvere gli indovinelli. Ogni volta che si alzava il vento, gli scheletri si agitavano e gli uccellini si spaventavano talmente che non osavano più tornare nel giardino. Tutti i fiori avevano come sostegni ossa umane e nei vasi sghignazzavano i teschi. Era proprio un giardino per una principessa!

«Vedi!» disse il vecchio re «ti succederà come a tutti gli altri; rinuncia, è meglio! Mi faresti molto infelice, perché io soffro tanto per queste cose!»

Giovanni baciò la mano al buon vecchio re e disse che sarebbe certo andato tutto bene, poiché lui amava tanto la bella principessa.

In quel mentre la principessa, con tutte le sue damigelle, entrava cavalcando nel cortile del castello, così andarono a salutarla. Era molto graziosa e quando diede la mano a Giovanni, lui la amò ancora più di prima: non poteva essere una strega malvagia, come tutti dicevano di lei. Andarono nel salone dove i paggetti offrirono marmellata e panpepato, ma il vecchio re era così afflitto che non potè assolutamente mangiare nulla: il panpepato poi era troppo duro per lui.

Decisero che Giovanni sarebbe tornato al castello il mattino dopo, allora i giudici e tutto il consiglio si sarebbero riuniti per sentire come se la sarebbe cavata con gli indovinelli. Se ci fosse riuscito, sarebbe venuto altre due volte; ma non c'era mai stato nessuno che aveva indovinato la prima volta e così avevano tutti perso la vita.

Giovanni non era affatto preoccupato di come gli sarebbe andata, era così contento, pensava solo alla bella principessa e era certo che il buon Dio lo avrebbe aiutato, anche se non sapeva che cosa avrebbe dovuto fare e neppure voleva pensarci. Ballò per la strada maestra tornando alla locanda dove lo aspettava il compagno di viaggio.

Giovanni non finiva mai di raccontare quanto la principessa era stata gentile con lui, e quant'era bella; aspettava con ansia il giorno dopo, perché sarebbe andato al castello a tentare la sorte con l'enigma.

Il compagno scrollò il capo con molta tristezza. «Ti voglio bene» disse «avremmo potuto stare ancora tanto tempo insieme, e invece devo già perderti. Povero caro Giovanni! Vorrei piangere, ma non voglio rovinare la tua gioia l'ultima sera in cui, probabilmente, saremo insieme. Dobbiamo stare allegri, il più possibile. Domani, quando te ne sarai andato potrò finalmente piangere.»

Tutti gli abitanti della città vennero subito a sapere che era giunto un nuovo pretendente per la principessa, e ci fu per questo grande afflizione. Il teatro venne chiuso, le venditrici di dolci legarono nastri neri ai loro porcellini di zucchero, il re e i preti si inginocchiarono in chiesa; c'era tanta disperazione perché a Giovanni non poteva certo andar meglio che a tutti gli altri pretendenti.

A tarda sera il compagno di viaggio preparò un buon punch e disse a Giovanni che dovevano divertirsi e brindare alla principessa. Ma non appena Giovanni ne ebbe bevuti due bicchieri, gli venne un tale sonno che non riuscì a tenere gli occhi aperti; così si addormentò. Il compagno di viaggio lo sollevò dolcemente dalla sedia e lo portò a letto, quando poi fu buio, prese le due grandi ali che aveva staccato dal cigno e se le fissò alle spalle, infilò in tasca la più grossa delle verghe che aveva ricevuto dalla vecchia, aprì la finestra e volò in città, fino al castello. Lì si fermò in un angolo proprio sotto la finestra che portava nella camera da letto della principessa.

In tutta la città c'era una quiete straordinaria; la campana batté le undici e tre quarti e la finestra si aprì. La principessa volò, avvolta in un gran mantello bianco e con grandi ali nere sulla città, verso un'alta montagna; il compagno di viaggio si rese invisibile così che lei non lo potesse vedere, e la seguì in volo, colpendola con la verga, finché non uscì sangue dove lui picchiava. Oh! che volo fu quello: il vento soffiava nel suo mantello e lo gonfiava da ogni parte, come fosse stato una grande vela, e la luna brillava attraverso le pieghe.

«Come grandina! come grandina!» esclamava la principessa a ogni colpo di verga; le stava proprio bene! Finalmente arrivò alla montagna e bussò. Sembrava che tuonasse quando la montagna si aprì; la principessa entrò e il compagno di viaggio la seguì, dato che nessuno poteva vederlo poiché era invisibile. Passarono attraverso un lungo e ampio corridoio dove le pareti brillavano in modo molto strano: erano ricoperte da migliaia di ragni lucenti che correvano su e giù, facendo luce come il fuoco. Entrarono poi in un grande salone fatto di oro e di argento, con fiori rossi e blu, grossi come girasoli, che brillavano alle pareti. Ma nessuno poteva cogliere quel fiori, perché i gambi erano in realtà ripugnanti serpenti velenosi e i fiori erano il fuoco che usciva dalle loro bocche. Il soffitto era ricoperto di lucciole splendenti e di pipistrelli azzurri che battevano le ali sottili. Che strana visione! In mezzo al salone c'era un trono, sorretto da quattro carcasse di cavallo i cui finimenti erano formati da ragni color rosso fuoco; il trono era di vetro bianco latte e i cuscini per sedersi erano topolini neri che si mordevano la coda a vicenda. Sopra c'era una tettoia di ragnatele rosa, ornata con bei moscerini verdi che brillavano come pietre preziose. Sul trono sedeva un vecchio Troll, con la corona sull'orribile testa e uno scettro in mano. Baciò la fronte della principessa e la fece sedere accanto a lui su quel trono prezioso; in quel momento cominciò la musica.

Enormi cavallette nere suonavano lo scacciapensieri e il gufo, non avendo un tamburo, si batteva la pancia. Era proprio uno strano concerto. Folletti neri ballavano nel salone, tenendo un fuoco fatuo nel berretto. Nessuno potè scorgere il compagno di viaggio, che si era messo dietro il trono e da lì poteva vedere e sentire ogni cosa.

I cortigiani che entrarono in quel momento erano proprio belli e distinti, ma chi era in grado di guardar bene scopriva com'erano fatti. Non erano altro che manici di scopa, con un cavolo in testa; il Troll li aveva stregati dando loro la vita e ricoprendoli di abiti ricamati. Tanto non cambiava niente, erano usati solo per le feste.

Quando ebbero ballato un po', la principessa raccontò al Troll che era arrivato un nuovo pretendente e gli chiese a che cosa avrebbe dovuto pensare l'indomani, quando lo avesse ricevuto al castello.

«Ascolta!» disse il Troll. «Adesso te lo dico! Devi scegliere qualcosa di molto semplice, così non indovina di certo. Pensa a una tua scarpa: non indovinerà! Poi fagli tagliare la testa, ma non dimenticare, quando domani notte tornerai a trovarmi, di portarmi i suoi occhi, così me li mangio!»

La principessa si inchinò profondamente e disse che non avrebbe dimenticato gli occhi. Il Troll riaprì la montagna e lei se ne volò di nuovo a casa, ma il compagno di viaggio la seguì e la colpì con una tale forza con la verga, che lei sospirò profondamente per quella violenta grandinata e si affrettò più che potè a raggiungere la finestra della sua camera; allora il compagno di viaggio tornò alla locanda dove Giovanni ancora dormiva, si tolse le ali e si mise a letto: era stanco e aveva ragione di esserlo.

Giovanni si svegliò presto il mattino dopo, anche il compagno si alzò e raccontò di aver fatto quella notte un sogno strano con la principessa e la sua scarpa; poi lo pregò di chiedere alla principessa se per caso non aveva pensato alla sua scarpa. Era naturalmente quello che aveva sentito dal Troll nella montagna, ma non voleva raccontarlo a Giovanni, così gli disse solo di chiederle se aveva pensato alla sua scarpa.

«Per quanto mi riguarda, posso chiederle qualunque cosa» disse Giovanni «forse è vero quello che hai sognato, e io credo proprio che il Signore mi aiuterà! Ma adesso ti dico addio: se sbaglierò a indovinare, non mi rivedrai mai più.»

Si baciarono e Giovanni andò in città, fino al castello. Tutta la sala era piena di gente, i giudici erano seduti in poltrona con cuscini di piuma dietro la testa: avevano tante cose a cui pensare! Il vecchio re si stava asciugando gli occhi con un fazzoletto bianco. Entrò la principessa, era molto più bella del giorno prima e salutò con affetto tutti quanti; a Giovanni invece diede la mano e disse: «Ciao!».

Ora Giovanni doveva indovinare quello a cui lei aveva pensato. Lei lo guardava con molto affetto, ma non appena lo sentì pronunciare quella sola parola "Scarpa" impallidì in volto e si mise a tremare per tutto il corpo; ma nessuno poteva aiutarla, perché lui aveva indovinato!

Accidenti, come fu contento il vecchio re! Fece una capriola come non aveva mai fatto e tutti batterono le mani sia a lui che a Giovanni, che aveva superato il primo indovinello.

Anche il compagno di viaggio fu contento quando venne a sapere che era andata così bene, ma Giovanni giunse le mani e ringraziò il buon Dio che certamente lo avrebbe aiutato anche le altre due volte. Il giorno dopo doveva indovinare di nuovo.

La sera andò come quella precedente. Quando Giovanni si addormentò il compagno volò dietro la principessa fino alla montagna e la picchiò ancora più forte del giorno prima: aveva preso due verghe. Nessuno lo vide, ma lui sentì ogni cosa. La principessa doveva pensare al suo guanto, e lui lo raccontò a Giovanni come se fosse stato un sogno; Giovanni indovinò di nuovo e ci fu grande allegria al castello. Tutta la corte fece le capriole, come il re aveva fatto la prima volta, ma la principessa giaceva sul divano e non volle dire una sola parola. Tutto dipendeva dal fatto che Giovanni indovinasse la terza prova. Se ci fosse riuscito, avrebbe sposato la bella principessa e ereditato il regno alla morte del vecchio re; se avesse sbagliato avrebbe perso la vita e il Troll avrebbe mangiato i suoi occhi azzurri.

La sera Giovanni andò a dormire presto, recitò la preghiera della sera e dormì abbastanza tranquillo; il compagno di viaggio invece si fissò le ali alla schiena, legò la spada al fianco e prese con sé le tre verghe, poi volò al castello.

Era una notte veramente buia, c'era una tempesta che staccava le tegole dai tetti, e gli alberi del giardino da cui pendevano gli scheletri ondeggiavano come canne al vento; lampeggiava continuamente e i tuoni si susseguirono senza sosta tutta la notte. Si aprì la finestra e la principessa volò fuori, era pallida come la morte, ma rideva per il brutto tempo; pensava addirittura che non fosse abbastanza cattivo; il suo bianco mantello svolazzava nell'aria come una vela, ma il compagno la colpì così forte con le tre verghe, che il sangue gocciolò sul terreno e lei non riuscì quasi a proseguire il volo. Finalmente giunse alla montagna.

«Grandina e c'è tempesta!» disse «non sono mai stata fuori con un tempo simile!»

«È vero, il troppo può far male!» commentò il Troll. Lei gli raccontò che Giovanni aveva indovinato anche la seconda volta, e che se l'avesse fatto anche il mattino dopo avrebbe vinto, e lei non sarebbe più potuta venire alla montagna, non avrebbe più potuto compiere i sortilegi, e per tutto questo era molto triste.

«Non deve indovinare!» disse il Troll. «Troverò io qualcosa a cui non ha mai pensato! A meno che non sia un mago più potente di me. Ma adesso stiamo allegri!» Prese per mano la principessa e si mise a ballare con tutti i folletti e i fuochi fatui che erano nel salone. I ragni rossi cominciarono a saltare su e giù dalla parete e sembrò che i fiori di fuoco facessero scintille. Il gufo batté il tamburo, i grilli fischiarono e le cavallette nere soffiarono nei loro scacciapensieri. Era proprio un ballo allegro!

Quando ebbero ballato abbastanza, la principessa dovette tornare a casa, altrimenti al castello si sarebbero accorti della sua assenza. Il Troll disse che l'avrebbe accompagnata, così sarebbero stati insieme più a lungo.

Volarono nel brutto tempo e il compagno consumò le tre verghe sulle loro schiene; mai il Troll aveva provato una tale grandinata! Giunti al castello, egli salutò la principessa e le sussurrò: «Pensa alla mia testa!», ma il compagno sentì ugualmente e non appena la principessa fu entrata di nuovo nella sua stanza, quando il Troll stava girandosi per andarsene, lo afferrò per la lunga barba nera e gli tagliò via l'orribile testa con la spada: il Troll non ebbe neppure il tempo di vederlo. Poi gettò il corpo ai pesci del lago e sciacquò nell'acqua la testa che avvolse nel suo fazzoletto di seta. La portò con sé alla locanda e se ne andò a dormire.

Il mattino dopo diede a Giovanni quel fazzoletto, ma gli raccomandò di non aprirlo prima che la principessa avesse chiesto a che cosa aveva pensato.

C'erano tantissime persone nel grande salone del castello e stavano una sull'altra, come ravanelli legati a mazzi; il consiglio aveva preso posto sulle sedie con quei morbidi cuscini e il vecchio re indossava abiti nuovi, e aveva la corona d'oro e lo scettro lucidati. Stava proprio bene! La principessa invece era pallidissima e indossava un abito nero, come se fosse stata a un funerale.

«A che cosa ho pensato?» chiese a Giovanni, che subito aprì il fazzoletto e si spaventò enormemente nel vedere quella orribile testa del Troll. Tutti quanti rabbrividirono, perché era ripugnante a vedersi, ma la principessa impietrì e non riuscì a dire una sola parola; alla fine, si alzò e diede la mano a Giovanni, perché aveva indovinato. Non guardò nessuno, e sospirò profondamente: «Tu sei il mio signore! Stasera celebreremo il matrimonio».

«Questo mi piace!» esclamò il vecchio re. «Così deve essere.» Tutti gridarono: Urrà, la banda militare suonò per le strade, le campane suonarono e le venditrici di dolci tolsero i nastri neri ai maialini di zucchero: ora bisognava stare allegri! Tre grossi buoi arrostiti e ripieni di anatre e polli vennero portati in piazza, e ognuno potè prendersene un pezzo; nelle fontane cominciò a scorrere il vino più buono; e se si comprava una ciambellina da un soldo si ricevevano in dono sei grossi panini con l'uva sultanina.

Di sera la città venne tutta illuminata, i soldati spararono coi cannoni e i ragazzi i loro petardi, si mangiò e si bevve, si brindò e si ballò al castello, tutti i distinti cavalieri e le graziose damigelle ballarono insieme; fin da molto lontano si poteva sentir cantare:

Qui ci sono molte graziose fanciulle,
che vogliono ballare,
seguono il suono del tamburello
bella fanciulla girati un po',
balla e batti il tempo
finché i tacchi perderai.

Ma la principessa era ancora una strega e non voleva affatto bene a Giovanni. Il compagno di viaggio lo sapeva e quindi diede al suo amico tre piume delle ali del cigno e una bottiglietta contenente alcune gocce. Gli disse che doveva preparare vicino al letto nuziale una grossa vasca piena d'acqua; quando la principessa voleva andare a letto, doveva darle una spinta e farla cadere nell'acqua, poi doveva immergerla tre volte dopo aver gettato nell'acqua le tre piume e le gocce. In questo modo si sarebbe liberata dall'incantesimo e gli avrebbe voluto molto bene.

Giovanni fece tutto quello che il suo compagno gli aveva consigliato. La principessa gridò forte quando venne immersa nell'acqua e gli sfuggì dalle mani nelle sembianze di un grande cigno nero con gli occhi lucenti. Quando poi uscì dall'acqua per la seconda volta era diventata un cigno bianco con un unico anello nero intorno al collo.

Giovanni pregò devotamente il Signore e gettò per la terza volta nell'acqua il cigno che in quel momento si tramutò in una splendida principessa. Era ancora più bella di prima e lo ringraziò con le lacrime perché era stata liberata dall'incantesimo.

Il mattino dopo arrivò il vecchio re con tutta la sua corte e ci furono congratulazioni per quasi tutta la giornata. Per ultimo giunse il compagno di viaggio di Giovanni, col bastone in mano e il fagotto sulle spalle. Giovanni lo baciò più volte e gli chiese di non partire, di rimanere con lui, dato che a lui doveva tutta la sua felicità. Ma il compagno scosse il capo e gli disse con dolcezza e affetto: «No, il tempo a mia disposizione è finito Ho semplicemente pagato il mio debito. Ricordi il morto a cui quegli uomini malvagi volevano fare del male? Tu desti loro tutto quel che possedevi affinché egli potesse riposare in pace nella sua tomba. Quel morto sono io.»

In quello stesso momento era sparito!

I festeggiamenti per il matrimonio durarono un mese intero. Giovanni e la principessa si vollero molto bene e il vecchio re visse molti giorni felici lasciando che i suoi nipotini gli saltassero sulle ginocchia e giocassero col suo scettro; Giovanni diventò re di tutto il paese.





giovedì 30 maggio 2019

Hans Christian Andersen / Il tenace soldatino di stagno



Il tenace soldatino di stagno

Una fiaba di Hans Christian Andersen


C'erano una volta venticinque soldati di stagno, tutti fratelli tra loro perché erano nati da un vecchio cucchiaio di stagno. Tenevano il fucile in mano, e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu. La prima cosa che sentirono in questo mondo, quando il coperchio della scatola in cui erano venne sollevata, fu l'esclamazione: «Soldatini di stagno!» gridata da un bambino che batteva le mani; li aveva ricevuti perché era il suo compleanno, e li allineò sul tavolo.
I soldatini si assomigliavano in ogni particolare, solo l'ultimo era un po' diverso: aveva una gamba sola perché era stato fuso per ultimo e non c'era stato stagno a sufficienza! Comunque stava ben dritto sulla sua unica gamba come gli altri sulle loro due gambe e proprio lui ebbe una strana sorte.
Sul tavolo dove erano stati appoggiati c'erano molti altri giocattoli, ma quello che più attirava l'attenzione era un grazioso castello di carta. Attraverso le finestrelle si poteva vedere nelle sale. All'esterno si trovavano molti alberelli intorno a uno specchietto che doveva essere un lago; vi nuotavano sopra e vi si rispecchiavano cigni di cera. Tutto era molto grazioso, ma la cosa più carina era una fanciulla, in piedi sulla porta aperta del castello; anche lei era fatta di carta, ma aveva la gonna di lino finissimo e un piccolo nastro azzurro drappeggiato sulle spalle con al centro un lustrino splendente, grande come il suo viso. La fanciulla aveva entrambe le mani tese in alto, perché era una ballerina, e aveva una gamba sollevata così in alto che il soldatino di stagno, non vedendola, credette che anch'ella avesse una gamba sola, proprio come lui. "Quella sarebbe la sposa per me!" pensò "ma è molto elegante e abita in un castello; io invece ho solo una scatola e ci abitiamo in venticinque, non è certo un posto per lei! comunque devo cercare di fare conoscenza!" Si stese lungo com'era dietro una tabacchiera che si trovava sul tavolo; da lì poteva vedere bene la graziosa fanciulla che continuava a stare su una gamba sola, senza perdere l'equilibrio.
A sera inoltrata gli altri soldatini di stagno entrarono nella scatola e gli abitanti della casa andarono a letto. Allora i giocattoli cominciarono a divertirsi: si scambiavano visite ballavano, giocavano alla guerra. I soldatini di stagno rumoreggiavano nella scatola, perché desideravano partecipare ai divertimenti, ma non riuscirono a togliere il coperchio. Lo schiaccianoci faceva le capriole e il gesso si divertiva sulla lavagna, facevano un tale rumore che il canarino si svegliò e cominciò a parlare in versi.
Gli unici che non si mossero affatto furono il soldatino di stagno e la piccola ballerina; lei si teneva ritta sulla punta del piede con le due braccia alzate, lui con pari tenacia restava dritto sulla sua unica gamba e gli occhi non si spostavano un solo momento da lei.
Suonò mezzanotte e tac... si sollevò il coperchio della tabacchiera, ma dentro non c'era tabacco, bensì un piccolissimo troll nero, perché era una scatola a sorpresa.
«Soldato!» disse il troll «smettila di guardare gli altri!»
Ma il soldatino fìnse di non sentire.
«Aspetta domani e vedrai!» gli disse il troll.
Quando l'indomani i bambini si alzarono, il soldatino fu messo vicino alla finestra e, non so se fu il troll o una folata di vento, la finestra si aprì e il soldatino cadde a testa in giù dal terzo piano. Fu un volo terribile, a gambe all'aria, poi cadde sul berretto infilando la baionetta tra le pietre.
La domestica e il ragazzino scesero subito a cercarlo, ma sebbene stessero per calpestarlo, non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato: "Sono qui!" lo avrebbero certamente trovato, ma lui pensò che non fosse bene gridare a voce alta perché era in uniforme. Cominciò a piovere, le gocce cadevano sempre più fitte e venne un bell'acquazzone: quando finalmente smise di piovere arrivarono due monelli.
«Guarda!» disse uno «c'è un soldatino di stagno! adesso lo facciamo andare in barca.»
Fecero una barchetta con un giornale, vi misero dentro ii soldatino e lo fecero navigare lungo un rigagnolo; gli correvano dietro battendo le mani. Dio ci salvi! che ondate c'erano nel rigagnolo, e che corrente! Tutto a causa dell'acquazzone. La barchetta andava su e giù e ogni tanto girava su se stessa così velocemente che il soldatino tremava tutto, ma ciò nonostante, tenace com'era, non batté ciglio, guardò sempre davanti a sé e tenne il fucile sotto il braccio.
Improvvisamente la barchetta si infilò in un passaggio sotterraneo della fogna; era così buio che al soldatino sembrava d'essere nella sua scatola.
"Dove sto andando?" pensò. "Sì, tutta colpa del troll! Ah, se solo la fanciulla fosse qui sulla barca con me, allora non mi importerebbe che fosse anche più buio."
In quel mentre sbucò fuori un grosso ratto, che abitava nella fogna.
«Hai il passaporto?» chiese. «Tira fuori il passaporto!» Ma il soldatino restò zitto e tenne il fucile ancora più stretto. La barchetta passò oltre e il ratto si mise a seguirla. Hu! come digrignava i denti e gridava alle pagliuzze e ai trucioli: «Fermatelo! Fermatelo! non ha pagato la dogana! non ha mostrato il passaporto!».
Ma la corrente si fece sempre più forte e il soldatino scorgeva già la luce del giorno alla fine della fogna, quando sentì un rumore terribile, che faceva paura anche a un uomo coraggioso; pensate, il rigagnolo finiva in un grande canale, e per il soldatino era pericoloso come per noi capitare su una grande cascata.
Ormai era così vicino che gli era impossibile fermarsi. Si irrigidì più che potè, perché nessuno potesse dire che aveva avuto paura. La barchetta girò su se stessa tre, quattro volte e ormai era piena di acqua fino all'orlo e stava per affondare. Il soldatino sentiva l'acqua arrivargli alla gola, e la barchetta affondava sempre più; la carta intanto si disfaceva. L'acqua gli coprì anche la testa -allora pensò alla graziosa ballerina che non avrebbe rivisto mai più, e si sentì risuonare nelle orecchie:
Addio, bel soldatino morir dovrai anche tu
La carta si disfece del tutto e il soldatino di stagno andò a fondo, ma subito venne inghiottito da un grosso pesce.
Oh, com'era buio là dentro! ancora più buio che nella fogna, e poi era così stretto; ma il soldatino era tenace e restò lì disteso col fucile in spalla.
Il pesce si agitava in modo terribile, poi si calmò e fu come se un lampo lo attraversasse. La luce ormai splendeva e qualcuno gridò: «Il soldatino di stagno!». Il pesce era stato pescato, portato al mercato, venduto e portato in cucina dove una ragazza lo aveva tagliato con un grosso coltello. Prese con due dita il soldatino e lo portò in salotto dove tutti volevano vedere quell'uomo straordinario che aveva viaggiato nella pancia di un pesce; ma lui non si insuperbì. Lo misero sul tavolo e... oh, che stranezze succedono nel mondo! il soldatino si trovò nella stessa sala in cui era stato prima, vide gli stessi bambini e i giocattoli che erano sul tavolo, il bel castello di carta con la graziosa ballerina, che ancora stava ritta su un piede solo e teneva l'altro sollevato; anche lei era tenace e questo commosse il soldatino che stava per piangere lacrime di stagno, ma questo non gli si addiceva. La guardò, e lei guardò lui, ma non dissero una sola parola.
In quel mentre uno dei bambini più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella stufa, e proprio senza alcun motivo, sicuramente era colpa del troll della tabacchiera.
Il soldatino vide una gran luce e sentì un gran calore, era insopportabile, ma lui non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell'amore. I suoi colori erano ormai sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la pena d'amore? Il soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla. Intanto una porta si spalancò e il vento afferrò la ballerina che volò come una silfide proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente. Quando il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il lustrino tutto bruciacchiato e annerito.

Fiabe di Andersen
001 L'acciarino
002 Il piccolo Claus e il grande Claus
004 La principessa sul pisello
004 I fiori della piccola Ida
005 Mignolina
006 Il bambino cattivo
Hans Christian Andersen / Il tenace soldatino di stagno
Hans Christian Andersen / La sirenetta


mercoledì 29 maggio 2019

Joan Castejón / Miguel Hernández

Minotaure a Miguel Hernández

 Joan Castejón
MIGUEL HERNÁNDEZ

Eros a Miguel Hernández


Retrat a ple migdia a Miguel Hernández

Mà amb flors a Miguel Hernández

Tanatos a Miguel Hernández


Icar a Miguel Hernández

Caçador Furtiu a Miguel Hernández


JOAN CASTEJON

martedì 28 maggio 2019

La notte di Michelangelo Antonioni


LA NOTTE

di Michelangelo Antonioni



Sesso, arte e denaro. In La notte, Michelangelo Antonioni presenta la sua lucida, essenziale analisi di tre fondamentali problemi borghesi. Senza offrire soluzioni, tanto non ce ne sono. Al Palazzo delle Esposizioni per la rassegna Bergman 100, organizzata da CSC-Cineteca Nazionale e La farfalla sul mirino.

L’alba dell’uomo

La crisi sentimentale di Giovanni e della moglie Lidia diventa una parabola simbolica del diffuso mal di vivere della società moderna, tra la visita in ospedale a un amico morente, la presentazione di un libro e una festa mondana, Antonioni mette in scena la crisi esistenziale e la solitudine dell’uomo… [sinossi]
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Ludwig Wittgenstein
«Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Così sanciva già nell’introduzione del Tractatus logico-philosophicus Ludwig Wittgenstein segnalando come prima cosa il limite, il confine in cui il suo lavoro trovava fine e da cui al tempo stesso tutto poteva prendere inizio.
Ci sono cose dunque di cui il linguaggio non riesce a comunicare l’essenza. Tra queste, la fede e i sentimenti rivestono un ruolo centrale, sia nelle preoccupazioni del filosofo che in quelle dell’artista. Non è certo un caso che due dei maggiori autori della storia del cinema, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni (che la sorte ha voluto lasciassero questa terra nello stesso giorno, il 30 luglio 2007), abbiano dedicato a questi due argomenti (la fede e sentimenti) due fondamentali trilogie di film, cronologicamente coeve e portate avanti col medesimo, caparbio scandaglio.
Da un lato abbiamo dunque la cosiddetta Trilogia del silenzio di Dio di Bergman, composta da Come in uno specchio (1961), Il silenzio (1963) e Luci d’inverno (1963), mentre dall’altra, la Trilogia dei sentimenti (o anche dell’incomunicabilità) di Antonioni formata da L’avventura (1959), La notte (1961) e L’eclisse (1962).
Magari non pensava esattamente a Wittgenstein, ma quando nel finale di Eyes Wide Shut Stanley Kubrick chiariva senza appello che l’unica risposta al dissertare d’amore è scopare, di certo però faceva riferimento all’epilogo di uno dei film che amava di più: La notte di Michelangelo Antonioni. Scopare, questo è l’imperativo di Alice Harford/Nicole Kidman alla fine di una lunga notte di tormentosi dubbi, tradimenti sognati o forse realizzati, e questo è l’unico impulso (in)sensato, l’ultimo gesto di possesso (della propria donna, del proprio ruolo e della propria identità) per Giovanni/Marcello Mastroianni, al termine di una notte di bagordi attraversati e vissuti, insieme alla moglie Lidia (Jeanne Moreau) nella villa in Brianza di un ricco industriale. Basta parlare, ritorniamo all’unica cosa vera, all’espressione corporea, perché tanto non ci capiremo nè spiegheremo mai del tutto e, mentre tentiamo di comunicare, l’amore fugge. E così, quando Giovanni, scrittore di successo, non riesce più nemmeno a riconoscersi come l’autore di una potente lettera d’amore, non gli resta che l’afasia, il rantolo sessuale, imerso in una sorta di alba dell’uomo, al confine tra l’inizio e la fine di tutto, dove regnano infine il silenzio e il latteo, ottuso biancore del cielo.
Capitolo centrale della trilogia dei sentimenti, premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino, La notte è il resoconto di una giornata, dal mattino fino all’alba del giorno successivo, di una coppia. Giovanni, scrittore di successo il cui nuovo romanzo, La stagione è in procinto di uscire, e Lidia, si recano dapprima a visitare, in una bella clinica, l’amico morente Tommaso (Bernhard Wicki), il cui nuovo saggio su Adorno, forse proprio in vista dell’incombenza della sua morte, è appena apparso sulle pagine di un quotidiano. Durante la visita, Lidia non riesce a sostenere il dolore per questa perdita imminente, per lei Tommaso è stato un mentore, un maestro, cui ha negato i piaceri del talamo, preferendo sposare il di lui amico Giovanni. Quest’ultimo, invece, prima accetta di brindare alla morte imminente dell’amico, poi si lascia abbordare da una ferina ninfomane, paziente anch’essa della clinica. Segue la liturgia obbligata di una presentazione del libro di Giovanni, cui presenzia una sguaiata intellighentia milanese (si segnala la presenza di Salvatore Quasimodo), tra tartine, bicchieri di vino e l’obbligata domanda all’autore «Cosa ci sta preparando di nuovo?». «Niente», è la risposta. Lidia si allontana di nuovo e questa volta per immergersi nella città, in un lungo peregrinare muto e sensoriale, fatto di rumori del traffico, silenzi della periferia, manifestazioni di ruspante virilità, razzi lanciati verso lo spazio, squame di ruggine che si staccano dai cancelli, rovine di una guerra ancora vicina, nonostante il boom economico in corso. Al termine della flânerie urbana di Lidia, ha inizio la lunga notte che da il titolo al film: dapprima la coppia si reca in un locale notturno, dove una splendida ed esotica ballerina si esibisce in una danza erotico-acrobatica con un cocktail in bilico su varie parti del suo corpo, infine la meta diventa la villa dell’industriale Gherardini, in Brianza. Qui, al cospetto di una umanità chiassosa pronta a scatenarsi sulle dissonanze ardite di un jazz diventato oramai patrimonio dell’alta borghesia (sempre attento al versante musicale dei suoi film, Antonioni si affida a Giorgio Gaslini, in scena per buona parte del film con la sua orchestra), Lidia spinge Giovanni tra le braccia di Valentina (Monica Vitti) e tenta invano di fare lo stesso con uno sconosciuto. Infine, quando l’alba è ormai conclamata, Lidia parla al marito della loro unione, che reputa finita, e lo fa usando le sue stesse parole. Ma Giovanni non le riconosce.


Non Rispondere, taci!
E poi, che cosa potresti dire?
So anche troppo bene quel che diresti.
Ma tu non hai il diritto di aggiungere nulla a quel che già dicesti una volta.
Perché sei venuto a infastidirci?
Perché sai anche tu che sei venuto a infastidirci.
Ma sai cosa accadrà domani?
Io non so chi tu sia ne voglio sapere se sia proprio lui o se gli somigli,
ma domani ti condannerò ti brucerò sul rogo come il più empio degli eretici…
Il grande Inquisitore, in I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij
Parlare è una manifestazione violenta, dagli effetti irreversibili, che fa terra bruciata di tutto, specie dei sentimenti. Ne La leggenda dell’Inquisitore, contenuta ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij, si immagina che Cristo sia tornato sulla terra, in Spagna, proprio durante la Santa Inquisizione. Benché acclamato dal popolo, viene arrestato e sottoposto alle domande dell’Inquisitore. Domande a cui lui risponde con il silenzio, necessario per lasciare all’uomo il libero arbitrio, per non turbare un equilibrio, una libertà che le sue parole ridurrebbero in macerie.
La Lidia de La notte, invece, parla. Come altri personaggi femminili che costellano la filmografia di Antonioni, anche lei ha tormenti, ansie, indecisioni, ma a differenza del suo contraltare, Giovanni, sceglie, forse perché esausta da tanta finzione, di rompere il silenzio, di dire la verità, per responsabilità verso se stessa, verso gli altri (Giovanni) e le istituzioni che rappresentano (il matrimonio).
È un film costruito anche sulla parola e la sua assenza La notte, proprio grazie all’utilizzo che fa della sceneggiatura e dei dialoghi, firmati da Antonioni insieme a Tonino Guerra ed Ennio Flaiano, quei dialoghi che in questo caso come in altri film (pensiamo a Il deserto rosso, tra gli altri) sono stati oggetto di critiche, quando non di ludibrio, per via di un’eccessiva ascendenza letteraria, che rischia di farli apparire, specie con il tempo, datati. Sarà anche vero, ma nel corso della visione oggi di La notte non si può non ammirare la pervicacia orgogliosa, spavalda di un autore che, al pari dei maggiori romanzieri del ‘900, rifugge il più possibile il significato, le simbologie, le facili metafore che oggi invece il cinema si sente in dovere di elargire, vittima di un dover significare qualcosa. Antonioni compie il procedimento inverso, punta all’annullamento di un significato unico e intellegibile, il suo lavoro registico va verso una sottrazione del senso, sia esso delle parole o delle immagini, che anelano, come i dipinti di Malevic o come la serie da lui stesso dipinta delle Montagne incantate, a ridiscutere il confine tra il quadro e la sua cornice, tra la raffigurazione e la realtà, tra il dire e il silenzio. E pertanto non possono che rinunciare all’ingombro del significato. Il medium è il messaggio, certo, ma non è solo questo. Giovanni e Lidia sono colti in un frammento della loro esistenza senza filtri né spiegazioni, senza senso né narrazione, e ciò ne fa due personaggi che esistono, ipoteticamente, ma esistono, prima e dopo il film. E in questo il cinema di Antonioni supera definitivamente il Neorealismo a cui sembrava inizialmente appartenere (i documentari N.U.Gente del Po, e poi Tentato suicidio, episodio di L’amore in città) per porsi nel solco di una modernità fatta del dubbio e della sua contemplazione quale oggetto artistico. La forma senza il contenuto, la tecnica come fondamento del gesto artistico, elemento poi centrale in Blow-Up così come nelle già citate Montagne incantate, di fatto ingrandimenti fotografici (frutto dunque di un procedimento chimico) di grandi dimensioni di piccoli acquerelli realizzati da Antonioni.
Questa rivolta di Antonioni contro il dover narrare e il dover rappresentare emerge con forza in La notte e da un punto di vista visivo si esplicita in quelle inquadrature, in quei «raccordi a percezione ritardata» analizzati da Noël Burch [1] che connettono lo stile di Antonioni all’arte contemporanea coeva, specie quella non figurativa, volta all’astrazione geometrica, che va dai dipinti del già citato Malevic alle geometrie di Mondrian, di Klee, alle fenditure di Burri.
Si pensi in particolare al momento che segna l’inizio del peregrinare urbano di Lidia. L’inquadratura parte da Giovanni disteso su una panca, in casa, intento a scostare la tenda per, immaginiamo, guardare fuori, cosa che in realtà da quella posizione gli è presclusa. Antonioni stacca con il montaggio per realizzare un lungo dolly discendente sulla facciata bianca e vuota di un palazzo e al termine di questa lunga, vertiginosa discesa, fa il suo ingresso, da ultima, la figura umana di Lidia, barlume narrativo in uno spazio cieco (la facciata senza finestre del palazzo), che ristabilisce l’ordine tra cose ed esseri umani e ci comunica da che punto di vista stiamo guardando (quello di nessuno, o di Antonioni, è lo stesso).
Lo stesso effetto lo si trova nella sconvolgente sequenza, contenuta nei primi minuti del film, della ninfomane, anche qui lo spazio, come più tardi avverrà con le superfici riflettenti e le trabeazioni della villa di Gherardini, è frammentato e il punto di vista dello spettatore ripetutamente ingannato, tra raccordi sbagliati e schermi bianchi (le pareti della stanza) dove i personaggi appaiono e scompaiono mossi da una forza primigenia (l’impulso sessuale) che appare incontenibile perfino per l’inquadratura.
C’è una tensione costante in La notte, anche quando nulla apparentemente accade, siamo noi a costruire la storia, parte attiva chiamata in causa da uno stile registico calcolato, enigmistico, consapevole che il linguaggio che si sta usando, quello cinematografico, ha già da tempo, probabilmente dal muto, compiuto la sua maturità, e non può far altro che contemplare l’assenza di significato sublimandola in una vertigine del senso, una plongé infinita, un’eterna caduta in un abisso insondabile.
Rispetto a L’avventura, manca non a caso in La notte il rapporto con il genere (il thriller-mistery, suggerito nel film precedente dalla scomparsa del personaggio di Lea Massari), un orpello narrativo messo da parte per conferire maggiore forza a ciò che si sta osservando e a un finale deprivato di quella speranza presente nel gesto, magnifico, conclusivo di Monica Vitti in L’avventuraLa notte appare dunque oggetto di una lunga spoliazione da tutto ciò che Antonioni reputa superfluo: è la sua poetica resa in maniera più essenziale, messa a nudo. Lo si evince anche dalla connotazione del personaggio maschile che, imperscrutabile, come i grandi anti-eroi del romanzo novecentesco, si lascia vivere, accetta ogni cosa, pur di non dover scegliere, laddove il Sandro (Gabriele Ferzetti) di L’avventura era ancora capace di un gesto terribile e iconoclasta come il distruggere, per invidia virile, il disegno di uno sconosciuto. Probabilmente Giovanni sa di non essere un grande scrittore, ed è proprio da qui che viene il suo snobismo, riconosce la superiorità dell’amico morente ed è pronto ad accettare l’impiego non ben precisato offertogli dal potente industriale. Forse è uno scribacchino, o forse si valuta così, se potesse magari cancellerebbe tutto ciò che ha scritto, proprio come fa Valentina, la giovane figlia dell’imprenditore, che con il suo registratore riavvolge e cancella le proprie parole.
Eppure in quel gesto di Valentina c’è uno slancio verso il futuro che appare invece precluso a Giovanni. In fondo è un atto un po’ punk verrebbe da dire, un po’ no future, legato anche alla consapevolezza, da parte della ragazza, che per lei un futuro c’è, esiste, mentre per Giovanni e poi, soprattutto, per Lidia, che in fondo è una prefigurazione possibile di Valentina tra vent’anni, lo slancio nichilista è diventato rabbia, una rabbia che lei non vuole lasciare del tutto inespressa.
Cancellare (il significato, la narrazione) e cancellarsi è dunque un atto di ribellione e in tal senso viene da interpretare anche la scelta di Giovanni di vendersi all’industriale. Perchè tanto l’intellettuale quello vero, quello che scrive di Adorno, è appena morto nel suo letto madido di sudore, non resta che lui, che ha scritto un romanzo medio intitolato La stagione, perfetto per un pubblico intellettualmente medio di ricchi oziosi, che giustamente lo trattano come un fenomeno circense chiedendogli «raccontami una storia», in perfetta obbedienza al ruolo sociale che ha scelto di incarnare.
Perché l’arte, quella vera, ci dice Antonioni, ha valore solo se slegata dal denaro e persino da un fruitore. Solo così si può raggiungere l’arte per l’arte, il sogno, utopico, magnifico e al tempo stesso annichilente, di ogni autore. Fuori i mercanti dal tempio.
Note
1. Noel Burch, Prassi del cinema, Il Castoro, 2000.
Genere: