lunedì 29 novembre 2021

Ricordando Mario Benedetti

 

Mario Benedetti


Ricordando Mario Benedetti

Nel centenario dalla nascita del grande scrittore

13 OTTOBRE 2020, 


Il 2020 è stato, e continua ad essere, un anno difficile, un anno che sta mettendo tutti noi a dura prova. Possiamo dire di aver imparato molto in questi mesi e in particolare, di aver imparato a resistere, giorno dopo giorno, alla sfida della quarantena.

Molti di noi (io compresa) sono sopravvissuti grazie alla letteratura, altri grazie alla musica, all’arte. Insomma, ci siamo resi conto che la cultura è essenziale. Che cosa avremmo fatto senza in questo periodo?

E quindi oggi mi sento di celebrare la cultura, ricordando uno scrittore fondamentale, nientemeno che Mario Benedetti. Una volta, un amico mi disse che ricordare è vivere e così vorrei festeggiare, attraverso la memoria, il centenario della nascita di Mario.

Conosciuto in tutto il mondo e tradotto a più di 20 lingue, Mario Benedetti è l’amico della porta accanto, un amico che tutti noi avremmo voluto avere. La semplicità, la calma, l’umiltà e l’umore fanno di Mario uno scrittore, o meglio, un poeta universale.

Nasce un 14 settembre 1920 a Paso de los Toros, una cittadina dell’Uruguay. Fin da piccolo, gli è chiara l’attrazione verso la scrittura e forte è l’ambizione di diventare scrittore. La sua famiglia, piuttosto povera, si trasferisce in città, a Montevideo, quando lui era ancora un ragazzino. A causa degli spostamenti e la mancanza di denaro, attraversa un’infanzia turbolenta, ma si concentra nella lettura e, prima di iniziare ad andare a scuola, Mario sa già leggere e scrivere. La scuola non è di suo gradimento e lascia gli studi incompleti per iniziare a lavorare e occuparsi della sua famiglia. Fa svariati lavori: come impiegato in un’azienda d’auto, in un’agenzia immobiliare, come impiegato pubblico e tutto ciò influisce sulla percezione della realtà e si riflette nella quotidianità dei personaggi dei suoi libri e delle sue poesie.

Poemas de la oficina (1956) è un chiaro esempio: sono delle poesie che si basano su problemi quotidiani, su preoccupazioni, speranze e frustrazioni, emozioni insomma tipicamente umane.

Per la prima volta nella letteratura del suo Paese, Mario introduce l’universo dell’ufficio e della classe media della città di Montevideo. E fu una novità all’epoca perché questi temi erano ritenuti poco poetici. Non si rispecchia, infatti, nella poesia ermetica e misteriosa del tempo. Vuole chiarezza e comunicazione con il lettore, non distanza. Da qui, il suo successo e il successo di questa nuova essenza poetica, come lui stesso la definisce1. Il lettore inizia a sentirsi subito identificato, non solo per le avventure e tragedie delle storie e dei personaggi, ma soprattutto per la loro carica emozionale e la loro umanità. C’è preoccupazione sociale, preoccupazione verso la sua gente, e che troviamo in tutte le sue opere, come Montevideanos e La tregua, uno dei romanzi più famosi a livello mondiale. La sua letteratura ha un obiettivo comune: svegliare gli amati concittadini dalla routine che porta all’alienazione. Svegliare e scuotere questa realtà alienante in cui viviamo per non lasciare che ci sommerga.

Mario non riuscì solamente in questo intento. Ma in molto altro ancora. Ha vari pregi che lo rendono così universale tra cui la già nominata umanità, la vicinanza alle inquietudini esistenziali e una resilienza al sentimento dell’amore.

Mario esalta nella poesia la forza dell’amore. Lo ritiene uno degli elementi emblematici della vita che rimane sempre alla base di qualsiasi relazione umana (anche se a volte ce ne dimentichiamo) ed è l’unica possibilità per far fronte all’idea della morte.

Il libro El amor, las mujeres y la vida, tradotto recentemente da Stefania Marinoni (Nottetempo, 2019) con il titolo, L’amore, le donne e la vita, raccoglie una selezione di poesie d’amore scritte nell’arco di cinquant’anni. Il titolo fa riferimento al libro del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, L’arte di trattare le donne (Adelphi, 2000) da cui Mario si dissocia per la posizione negativa del filosofo verso l’amore. El amor, las mujeres y la vida è un libro che avvolge, una testimonianza di quanto l’amore possa darci immensa speranza.

Luna congelada (Luna congelata)

[…]
con questa solitudine
inservibile
vuota

si può qualche volta
comprendere
l’amore.

Estados de ánimos (Stati d’animo)

[…]
sereno nella speranza
sperando che una sera
ti avvicini e mi vedi
e nel vedermi ti guardi.

Credo

[…]
a questo punto della vita
credo agli occhi e alle mani del popolo
in generale
e ai tuoi occhi e alle tue mani
in particolare.

Una svolta arriva nel 1973. Mario fu sempre coinvolto nella politica dell’Uruguay e proprio per questo motivo, il colpo di stato lo costringe all’esilio. Questa rottura con la realtà quotidiana di Montevideo, con la sua gente e la lontananza da sua moglie, Luz López Alegre, lo segna profondamente: il non-contatto e il vivere, esiliato in corpo e mente, in altri Paesi provocano un cambio a livello letterario. Ciò che non cambia, però, è la volontà di scrivere, di ricordare il suo Paese e il suo popolo, ora disperso nei quattro punti cardinali, ma che continua a ispirarlo. Un grande senso di comunità, di patria e la resistenza alle avversità è ciò che gli fa onore. Mario Benedetti è un poeta del popolo, un poeta umile e di anima pura.

E non solo: è il poeta dei giovani. Sono i giovani che hanno sostenuto, e continuano a sostenere, la sua poesia in tutti questi anni. Sarà per il linguaggio semplice, ma una cosa è certa: la sua scrittura arriva direttamente al cuore, come una carezza, senza passare per la mente. Quando ci si inoltra nel mondo poetico e letterario di Mario, non c’è agitazione mentale, solo il battito forte del cuore che dice: “Ecco, è proprio ciò che sento”. Perché alla fine un po' tutti siamo Mario Benedetti: un poeta che credeva nella relazione obbligatoria tra la mano, la penna e la creatività poetica, il triangolo amoroso, e che fino all’ultimo giorno camminò per le strade di Montevideo con un taccuino in tasca, perché l’ispirazione arriva in qualsiasi momento.

Io non so cosa avrei fatto senza la letteratura e senza i miei scrittori e scrittrici preferiti, da cui sempre torno nei momenti difficili. Come mi succede con Mario Benedetti, un rifugio sicuro di saggezza e verità. E lo ricordo, così, come il grande poeta della vita e lo ringrazio per averci regalato le sue parole fatte poesia.

1 Hortensia Campanella, “Mario Benedetti: A ras de sueño”, Anthropos, Mario Benedetti. Literatura y creación social de la realidad. La utopía, empresa y revolución de la historia, n.º 132, Barcelona, maggio 1992, p. 28.

WSI




venerdì 26 novembre 2021

Binyavanga Wainaina, lo scrittore keniano che ha insegnato al mondo ‘come scrivere sull'Africa’, muore a 48 anni

 

Lo scrittore keniano Binyavanga Wainaina al Brooklyn Book Fest, 2009. Wainaina, 48 anni, è morto il 21 maggio scorso a Nairobi, in Kenya. Foto di Nightscream, CC BY 3.0 via Wikimedia Commons.

Binyavanga Wainaina, lo scrittore keniano che ha insegnato al mondo ‘come scrivere sull'Africa’, muore a 48 anni

È passato poco tempo da quando lo scrittore keniano Binyavanga Wainaina ha lasciato questo mondo, ma la sua presenza ed il suo impatto continuano a riecheggiare.

Lo scrittore, schietto e apertamente gay, ha fatto ramanzine e sfidato lo status quo, dando il via ad una rivoluzione letteraria che ha potuto aprire le porte a migliaia di aspiranti scrittori pronti a cambiare la narrativa in e riguardo l'Africa.

Lo scrittore, educatore ed attivista LGBT, Binyavanga Wainaina è morto [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] lo scorso 21 maggio a Nairobi, in Kenya, all'età di 48 anni e dopo una breve malattia.

Oggi ho pensato: che significato avrà la vita quando sarà tutto finito? La morte di Binyavanga mi ha fatto pensare a chi ero circa 5 anni fa, e anche a chi era lui per noi, giovani africani entusiasti e affamati di un paradigma diverso per il nostro continente e per noi stessi.

Pochi minuti dopo la notizia della morte, gli amici di Wainaina, i seguaci e gli ammiratori hanno inondato i social media per scambiare tributi e ricordi, discutendo su quale dei suoi prolifici scritti abbia avuto la maggiore influenza.

Wainaina è conosciuto in particolare per il suo saggio provocatorio “Come scrivere sull'Africa,” pubblicato sul giornale Granta nel 2006. È anche conosciuto per la sua autobiografia del 2012, “Un giorno scriverò su questo luogo” ed il saggio “Mamma, sono omosessuale”, pubblicati simultaneamente su Chimurenga e anche Africa is a Country nel 2014. Il saggio ha causato un potente fermento su Twitter, mentre le persone provavano a distinguere la realtà dalla finzione, e successivamente, il Time ha nominato Wainaina come una delle 100 persone più influenti al mondo.

All'interno di “Come scrivere sull'Africa”, Wainaina ha accusato i mass media occidentali e l'industria umanitaria – entrambi particolarmente presenti a Nairobi, di perpetuare stereotipi negativi sul continente africano, attraverso una feroce satira.

Mai avere l'immagine di un africano psicologicamente sano sulla copertina del tuo libro, o all'interno, a meno che questo africano non abbia vinto il Premio Nobel. Un AK-47, costole sporgenti, seni nudi: usa questi. Se devi includere un africano, assicurati di trovarlo con un vestito tipico Masai o Zulu o Dogon.

“Il suo sarcasmo era gocciolante – uno scalpello stellare” scrive lo scrittore nigeriano Nwachukwu Egbunike.

Saggiamente citato da accademie, organizzazioni non governative e operatori umanitari, il saggio – pubblicato anche come libricino – ha avuto un profondo impatto sulle percezioni dell'Africa e continua a circolare, sorprendere e provocare.

Riguardo il suo impatto, la giornalista Pernille Bærendtsen scrive:

Personalmente, questo saggio mi ha seguito sin da quando lo ricevetti come regalo da un amico keniano nel 2008. Appartenevo chiaramente al gruppo di persone a cui si indirizzava Binyavanga: una lavoratrice in crescita, impiegata per una ONG danese in Tanzania, che scriveva riguardo il suo ‘impatto’. Questo accade nel punto in cui lo sviluppo e l'industria umanitaria affilarono la loro retorica a favore della raccolta fondi a costo di mostrare la diversità contrastante sul campo. Avevo molte ragioni per sentirmi imbarazzata, ma anche tempo per pianificare un cambiamento.

Binyavanga ha spiegato successivamente, all'interno del giornale Bidoun, come questo saggio aveva preso casualmente vita con un duplice effetto: esponendo e descrivendo l'insicurezza dei “romanzieri, lavoratori delle ONG, musicisti rock, ambientalisti, studenti e scrittori di viaggio”, che leggono queste “linee guida” su come – o forse come non – scrivere sull'Africa, essi hanno poi iniziato a chiedere il suo sostegno.

Wainaina, figlio di padre keniano e madre ugandese, ha continuato a sfidare gli stereotipi sull'Africa con la sua rivoluzionaria autobiografia del 2012, “Un giorno scriverò su questo luogo.” Attraverso ricchi e violenti dettagli, ha trasportato i lettori dalla sua infanzia in Kenya negli anni '70 e ai suoi giorni da studente in Sudafrica, dove ha trascorso molti anni in esilio.

I critici hanno definito il libro crudo ed onesto, ma Wainaina ha ammesso in seguito di aver tralasciato un importante capitolo – la sua vita sentimentale.

Con “Mamma, sono omosessuale”, Wainaina è diventato il primo keniano di alto profilo a dichiararsi apertamente gay sui social media, scatenando una valanga di opinioni sociali. Considerandolo “il capitolo perduto” della sua autobiografia, Wainaina immaginava di fare coming out come gay alla madre in punto di morte. Il suo saggio è arrivato puntuale, mentre l'onda di crociate e legislazioni anti gay venivano proposta in Uganda e poi in Tanzania, dove gli atteggiamenti omosessuali rimangono perseguibili.

Comunque, a differenza di altri scrittori mandati in esilio, Wainaina era tornato a casa, e come Nanjala Nyabola per la BBC fa notare su Twitter, “questo è stato rilevante”:

Per quelli di noi che sono cresciuti con “i migliori scrittori keniani” (qualsiasi cosa significhi) vissuti in esilio, incarcerati o perseguitati, o poveri e sottovalutati, o pesantemente censurati, lui era ritornato e questo è stato rilevante. Lui era un uomo complesso, ma credo che per questo si meriti eterna gratitudine.

‘Dobbiamo liberare le nostre immaginazioni’

Mentre ironicamente Binyavanga attraeva ammirazione dal variegato pubblico internazionale che criticava, a casa sentiva la pressione di nonsentirsi bene dentro cornici prestabilite. Binyavanga chiedeva spazi liberi ed immaginazione. Coraggiosamente – all'interno di una comunità in crescita a sostegno degli LGBTQ – lui ha insistito per piegare queste cornici.

In risposta a tutto il rumore e i contraccolpi, quello stesso anno Wainaina ha prodotto “Dobbiamo liberare le nostre immaginazioni,” una serie di Youtube divisa in sei parti in cui descrive le sue idee di libertà e immaginazione. “Voglio vivere una vita di libera immaginazione”, ha dichiarato nella prima parte.

Voglio che questa generazione di giovani genitori abbia figli che vedano gli africani che scrivono le loro storie – questo semplice atto è il più politico che si possa avere. Voglio vedere un continente dove l'immaginazione di ogni persona non debba cercare di… essere permessa. Sono un panafricanista, voglio vedere questo continente cambiare.

Wainaina ha spesso incarnato il desiderio di cambiamento attraverso il suo attivismo letterario, l'educazione e la leadership. Nel 2002, dopo aver vinto il prestigioso Premio Caine per il suo saggio “Scoprendo casa”, ha usato i soldi del premio per co-fondare Kwani?, una rivista letteraria che promuove nuove voci e nuove idee emergenti all'interno del continente.

Kwani? si è evoluto poco a poco in una casa editrice e in un network letterario che mette in connessione scrittori emergenti e consolidati da Lagos a Nairobi, da Mogadishu ad Accra.

Dopo aver, senza rimorsi, scosso le convenzioni sociali keniane – dichiarandosi gay e, in seguito, rivelando il suo stato di sieropositivo all'HIV su Twitter nel giorno mondiale dell'AIDS nel 2016 – spesso si trovava con contraccolpi, stanco e dolorante.

Wainaina era una persona controcorrente che ha sfidato la depressione e spesso ha lottato con il suo complicato ruolo di personaggio pubblico. Aveva i suoi fan ma ha anche dovuto affrontare delle critiche, come quella dell’ illustre scrittrice keniana Shailja Patel, che ha accusato Wainaina di “lesbofobia tossica.”

L'utente di Twitter Néo Músangi si è scontrato con la fallibilità del carattere di Wainaina in questo tweet:

Non ho sufficienti energie per ingranare adesso ma, sono una binya in lutto, come i miei amici più cari. In tutte le mie essere queer e femminista. Sarò per sempre dispiaciuta che lui abbia ferito gli altri. Mi dispiace che li abbia ‘umanizzati’ in questi modi. Lui doveva odiarci mentre santificava questo.

Lo scrittore Bwesigye Mwsigire, direttore del Writivism Festival in Uganda, ha affrontato queste contraddizioni in un tributo su Facebook:

Il suo stile era trasgressione. Trasgressione bella e gratuita. … Le persone da cui siamo ossessionati per il loro lavoro e le loro idee, sono persone dopo tutto. Sono umani. Saremo mai pronti ad amarli nella loro complessità?

Per ora, è stato detto molto su di lui. Non c'è bisogno di ripetere ciò che è stato detto. I promemoria del danno che ha sostenuto sono stati ascoltati…

Questo non porta via il sentimento di dolore per la sua morte.

C'è un solo Binyavanga Wainaina. È un antenato adesso. Celebriamo la sua vita.

Un ‘genio creativo’

Icona della stranezza, Binya – come era affettuosamente chiamato – ha ricevuto spesso fiumi di retorica anti gay al vetriolo, che è culminata online con la notizia della sua morte, diffusa attraverso vari canali.

L'attivista keniano Boniface Mwangi ha scritto su Twitter che dopo aver pubblicato su Facebook un tributo a Wainaina, commenti omofobi e di odio ha fatto sviare il suo messaggio: Wainaina era un genio creativo che deve essere ricordato:

Ho fatto un breve post su Facebook su #RIPBinyavanga e i commenti sono stati i più vili che abbia mai letto. Neanche i ladri che hanno rubato i nostri taxi e ucciso persone sono arrivati a tanto. La verità è che Binya era un genio creativo, e dovrà essere letto e ricordato.

La femminista e scrittrice ugandese Rosebell Kagumire ha sintetizzato le lezioni che ha imparato dal coraggio di Wainaina nel far sentire la propria voce:

Non permettere la paura. Non limitarti. Fai discorsi che hanno bisogno di essere fatti. Meglio se già scritti. Vivi la verità e con il tuo cuore. Quando spirerai l'ultimo respiro, ci saranno milioni di parole in cui hai portato così tanto significato.

Attraverso la sua vita e le sue lettere, ha dato a sé stesso e ad infiniti altri il permesso di immaginare che la vita possa essere diversa, e la sua morte improvvisa ha inspirato poetiche riflessioni:

Un giorno scriverò sui tuoi splendidi capelli

Un giorno scriverò sulla tua risata

Un giorno scriverò sulla tua ingovernabilità

Un giorno scriverò sul tuo piacere nell'immaginare

Un giorno scriverò sui tuoi rifiuti

Oggi, scrivo

Grazie

La scrittrice keniana Yvonne Adhiambo Owuor, autrice di “Polvere” e amica letteraria di Wainaina, lo ha chiamato in un ultimo lamento:

“Chi ti ha detto che potevi andartene? Sgattaiolare fuori dal tuo corpo di notte senza lasciare un nuovo indirizzo?”

Viso inclinato, occhi bucati, lui ha detto: “Hai esattamente 3 secondi per riorganizzare questa cazzata.” Tu, qui. Tu! Chi ti ha detto che potevi andartene? Sgattaiolare fuori dal tuo corpo di notte senza lasciare un nuovo indirizzo? Adesso da chi va chi è impaurito e tremante con la prima bozza dei manoscritti?

Adesso che lui è tra le stelle, puoi unirti a “Pianet Binya”, un archivio completo del suo lavoro.

GLOBAL VOICES





lunedì 22 novembre 2021

Pier Paolo Pasolini, l'uomo, l'artista, l'intellettuale / Un volume in digitale dell'Espresso

 

Pier Paolo Pasolini



Pier Paolo Pasolini, l'uomo, l'artista, l'intellettuale: un volume in digitale dell'Espresso

Una raccolta di articoli sull'intellettuale ucciso nel 1975 con le grandi firme dello storico settimanale


15 NOVEMBRE 2021


Da quella notte, da quell’infame notte del 2 novembre 1975, sono passati ormai 46 anni. E ancora ci domandiamo chi fosse Pier Paolo Pasolini. Chi fosse, insomma, quell’intellettuale – “Un poeta, e ne nascono pochi in un secolo, uno o due al massimo” gridò all’epoca Alberto Moravia – morto in un modo misterioso, violento, quasi in un modo simbolico dopo una vita vissuta sfidando le convenzioni sociali, i registri stilistici dell'arte e la politica.

Un poeta, certo, ma anche un regista, un romanziere, un saggista e chissà quante altre cose. Un artista a tutto tondo, nel senso che tutte le arti e le forme d’espressione che ha attraversato descrivono lo stesso uomo. Semplice e scontroso ma anche capace di slanci di gioia e di passioni irrefrenabili – si pensi, tanto per dirne una, al calcio.

Un uomo che l’Espresso, dagli anni Sessanta ai giorni nostri, ha raccontato grazie alle sue grandi firme. E una raccolta di quegli articoli è contenuta nel volume “Pier Paolo Pasolini, l’uomo, l’artista, l’intellettuale che si può leggere in digitale a soli 3,99 euro (si può acquistare qui)

Intellettuale controverso, regista provocatorio, scrittore e poeta di straordinaria sensibilità, giornalista acuto, Pasolini ha segnato il Novecento con il graffio di un pensiero scomodo. Da riscoprire in un'opera straordinaria con le introduzioni inedite di Marco Belpoliti e Alberto Asor Rosa. "Le opere letterarie. I film. Gli articoli per i giornali. Pier Paolo Pasolini moltiplica stili e generi, ma lascia sempre un segno inconfondibile. Ed eretico”.

“II libro che pubblica “l’Espresso” è il più completo e impressionante corpus di articoli, testimonianze, valutazioni critiche e polemiche di e su Pier Paolo Pasolini” scrive Alberto Asor Rosa. “Come un antico sovrano Pasolini possiede un corpo doppio. Il corpo fatto di parole è prima di tutto quello della poesia. Pasolini ha scritto quasi ogni giorno della sua vita versi, un immenso corpus poetico, quasi un diario della sua esistenza: idee, emozioni, sentimenti, progetti, fantasie, realtà”, sottolinea Marco Belpoliti.


LA REPUBBLICA




venerdì 19 novembre 2021

Pier Paolo Pasolini / Scrittore ribelle

 

Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini, scrittore ribelle

Dìconmi, dìsserogli criminale, depravato, dìconmi, dicèvangli

23 SETTEMBRE 2021,
ANTONIO ARÉVALO


Pier Paolo Pasolini, scrittore ribelle, processato per pubblico scandalo, omosessuale dichiarato, marxista e accanito polemista. La sua incessante attività, la sua eccezionale creatività, avevano scatenato polemiche intellettuali destinate a provocare reazioni violentissime.

Inseriti in architetture veloci in cui lo vediamo o ci immaginiamo di entrare ed uscire da sottoscala metropolitane o palazzine abbandonate dopo quella che sembra una guerra nucleare, e da cui iniziano i riti quotidiani: come lo svegliarsi da un letargo durato una intera stagione, per poi vestirsi ed assumere in questi elementi strutturali, gesti tracciati con una intenzionale calligrafia a rendere più stridente e ironica la futilità dei movimenti, in cui le figure maschili, quasi iconografiche, appaiono ossessive come l’unica resistenza con cui si oppone al vuoto.

Bisogna avere uno sguardo sempre attento al suo cinema che ricopre un ruolo molto importante, soprattutto per quanto riguarda la qualità delle sensazioni, la stessa sensazione mi lasciano i suoi scritti corsari.

Il fallimento dei miti rivoluzionari, oltre alla stessa diversità psico/sessuale portata come baluardo contro la spersonalizzazione dell'individuo in una società, una civiltà consumistica, la passione persistente, tutto ciò che componeva la sua stessa retorica è stato generato dal suo assassinio e il suo assassino.

Vìderolo sgozzare una colomba, succhiare il suo sangue, dopo dìconmi fècesi il segno della croce.

A due anni dal suo arrivo a Roma, i ragazzi della periferia, popolarono gran parte della sua esistenza. L'universo romano sarebbe diventato il centro della sua creazione.

Per loro, i miei coetanei, i figli in una folla meravigliosa per le montagne e le valli, per le strade e le piazze, tengo accesa la fiamma della mia vita.

Pasolini si è consegnato agli occhi e alle bocche di tutti, scandalosamente, apparendo davanti agli altri come un esempio impudico a cui dover provocare il martirio.

Era infatti una mattina di domenica, chiamata anche una domenica di fango dopo una notte piovosa, quando il corpo del poeta venne trovato “trucidato in una stradina sterrata dell’Idroscalo, a due passi da Tor San Michele a Ostia”.

Com'è diversa questa immagine da quella del giovane Rimbaud della provincia friulana, che in un'alba d'inverno partì per la Roma barocca, la Roma imperiale con i suoi grandi palazzi aristocratici, la Roma Capitale, quella Roma di Fellini che dilaga senza nessuna pianificazione, anarchica e caotica verso le periferie, Centocelle, Tiburtina, Appia, Flaminia; che si propaga come un fuoco contro il cielo. La stessa Roma che oggi chiamata da una di quelle contraddizioni che ha il destino: "Pasoliniana".

Facce dalla pelle scura, ansie di periferia. Chi lo ha ucciso potrebbe essere il vero protagonista di questa storia, dal momento che ha ucciso per una causa collettiva. Una sorta di presagio.

E questo si vede nelle poche foto che sono apparse il giorno dopo sui giornali, un volto sbiadito, la nostalgia del suo sguardo smarrito e quella profonda "rabbia di poesia nel petto”.

Dìconmi, dìsserogli criminale depravato, dìconmi, dicèvangli.

Quello che trasforma ogni cosa è l'istinto, la veemenza che attraverso il medium, trasmette l’evento temporale, che trasforma tutto in dramma o accadimento. Narrazioni sospese in cui nulla è definito, paesaggi abissali, ma anche rottura temporale di quella narrazione, la tragedia ed il senso del ludico della storia si fondono in un amalgama che conferisce alla visone una singolarità prodigiosa.

Percorrere zone periferiche, per poi finalmente ritornare al guscio da cui è si è usciti per vivere un mondo minimo, glaciale, marmoreo, quasi metafisico. Tutte sensazioni e gesti che sono accomunati nel concepire un terreno sul quale gli strati più eterogenei possono essere compresi all’interno di questa emotività scatenata. Ed è proprio l’emotività - e soprattutto la rivendicazione assoluta di tale emotività, intesa quasi come una metafisica - l’elemento che potrebbe costituire la caratteristica di questo insieme di visioni.

Una di quelle ombre che deambulano per la notte sotto i lampioni strusciandosi succhiandosi baciandosi aspergendo di seme il fiore di sperma il colore oscuro della Luna.

Lui è alla ricerca di quell’angelo perduto, la quinta essenza dell’ispirazione, quella che gli suggerisce la narrazione, ricordandogliene l'essenza, ma anche quella che gli permette di canalizzare il suo vissuto e di trasformarlo. Come a voler sottolineare la storia del nostro recente passato e le sue conseguenze.

Ne emerge una visione del mondo che passa attraverso una concezione eminentemente formale, e con la sua forte stilizzazione costituisce la sintesi ideale, è come in un romanzo di Bolaño, sembra solo uno dei tanti luoghi in cui un male pervasivo e sotterraneo è salito in superficie inteso come sguardo sul vuoto, nell’abisso.

Resterà il dorato sull’asfalto che lasciò il passaggio del martirio.


WSI




 

mercoledì 17 novembre 2021

martedì 16 novembre 2021

Biografia / Wilbur Smith

Wilbur Smith



BIOGRAFIA
La vita di Wilbur Smith

INFANZIA

Sono nato il 9 gennaio 1933 nella Rhodesia del Nord, l’attuale Zambia, in Africa centrale.

A diciotto mesi, colpito dalla malaria cerebrale, delirai per dieci giorni. I medici dissero ai miei genitori che era meglio augurarsi che io morissi perché, se anche fossi sopravvissuto, avrei subito danni irreversibili al cervello. Nonostante le strutture mediche primitive dell’Africa di quei tempi, la loro prognosi si è dimostrata corretta: sono sopravvissuto e ora sono un po’ matto. Il che è un bene: bisogna avere un pizzico di follia per procacciarsi il pane scrivendo romanzi.

Ho trascorso i primi anni della mia vita nel ranch di mio padre. Per parco giochi avevo 12.000 ettari (o se preferite 25.000 acri) di foresta, colline e savana. I miei compagni di giochi erano i figli di quelli che lavoravano al ranch, ragazzini neri con interessi e preoccupazioni identici ai miei. Primo fra tutti: evitare la disciplina e l’interferenza irragionevole degli adulti. Armati di fionda e accompagnati da un branco di cani bastardini vagavamo nella boscaglia, andando a caccia di uccelli e piccoli mammiferi. Poi li cucinavamo su falò improvvisati e li divoravamo con immenso gusto. Tornavo a casa la sera all’ora che mi andava, con le ginocchia nude graffiate e sanguinanti per le spine uncinate dei roveti, puzzando di legna bruciata e di sudore asciugato sulla pelle, martoriato dalle zecche che proliferavano tra gli arbusti.

Mi era concesso, di tanto in tanto, di viaggiare sul retro del camioncino di mio padre mentre badava agli affari di un allevatore di bestiame. Col tempo, dopo che lui mi aveva insegnato a non parlare troppo e a non essere “una rottura infinita”, mi è stato permesso di cavalcare con i pastori e di accompagnare il bestiame al bagno o alla marchiatura. Visto che diventavo sempre più utile, mi è stato gradualmente permesso di trascorrere più tempo con lui.

Il mio vecchio era severo, un padre Vittoriano DOC. Se lo riteneva necessario, non esitava a sfilarsi la cintura e a darmi un assaggio della fibbia. Non mi lamentavo. Di solito me le meritavo, e un paio di sculacciate assestate sulle chiappe magre costituivano un piccolo prezzo da pagare per stare vicino a lui. Per me era Dio in terra. Lo adoravo.

Quando compii otto anni mi regalò un fucile a ripetitore Remington, calibro 22. Era appartenuto a mio nonno prima di lui, e aveva 122 tacche sul calcio. Mi insegnò poi a sparare in modo sicuro e a rispettare il codice d’onore del cacciatore. Presto sul calcio non c’era più spazio per le mie tacche. È stato l’inizio della mia storia d’amore con le armi da fuoco, che dura da una vita.

Il precedente proprietario del fucile, mio nonno, aveva un magnifico paio di baffi macchiati solo leggermente dal tabacco. Poteva centrare la sputacchiera a cinque passi di distanza senza sbagliare mai la mira. Era così bravo a raccontare storie da far schizzare fuori dalle orbite gli occhi di un bambino di otto anni per la meraviglia. In gioventù era stato un potente Nimrod e un guerriero. Aveva comandato una squadra di pistoleri Maxim durante le guerre Zulu. Il suo nome era Courteney James Smith. Più tardi, presi a prestito il suo nome, Courteney, per l’eroe del mio primo romanzo, “Il destino del leone”.

Se il mio vecchio era Dio, mia madre era un angelo caduto del cielo. Mi proteggeva dalla rabbia di mio padre, fino a quando non si calmava. Mi ha insegnato ad amare tutta la natura. Mi ha aperto gli occhi alla bellezza selvaggia del mondo intorno a me. Era un’artista, e fino almeno all’età di 93 anni, ha dipinto ad acquerello alberi e animali.

Amava i libri sopra a ogni cosa. Prima che potessi leggere da solo mi ha insegnato a riverire i libri e la parola scritta. Ogni sera mi leggeva storie della buona notte, e queste sessioni divennero i momenti più belli delle mie lunghe, emozionanti giornate al ranch.

Grazie a lei sono diventato un lettore molto precoce. Ho iniziato con libri per ragazzi (‘Biggles’ e ‘Just William’). Ben presto sono passato ai romanzi di Cecil Scott Forester, Ryder Haggard e John Buchan. Da quel momento, ho sempre avuto un libro rilegato in tasca.

Secondo mio padre, la mia ossessione per i libri era innaturale e malsana. Ero costretto a leggere di nascosto. Trascorrevo così tanto tempo chiuso nella latrina, dove tenevo in segreto una pila dei miei libri preferiti, che mio padre intimò a mia mamma di somministrarmi dosi regolari e abbondanti di olio di ricino.


GLI ANNI DI SCUOLA

COME QUESTA IDILLIACA ESISTENZA BRUTALMENTE FINÌ

Ecco come la vita meravigliosa che conducevo allora ebbe una fine improvvisa. Uno dei miei compagni venne mandato in collegio. Avevo solo un vaga idea di quello che volesse dire, ma sembrava una cosa molto eccitante. Suggerii quindi ai miei genitori che sarei dovuto andare in collegio anch’io. Mia madre scoppiò in lacrime di fronte alla prospettiva di perdere il suo bambino. Mio padre stabilì invece che l’esperienza mi avrebbe reso un uomo, e così, finii nel collegio Cordwalles, a Natal, Sud Africa.

Tutto ciò aveva comportato un viaggio in treno di tre giorni attraverso gran parte del Paese. Apprezzai immensamente la novità, nella prima settimana o giù di lì. Molto presto il cibo, le docce fredde, la disciplina e le funzioni religiose interminabili cominciarono a fiaccare il mio entusiasmo. Poi ricevetti la mia prima fustigazione: tre colpi su tutta la schiena con una canna sottile, per il crimine efferato di aver parlato dopo che erano state spente le luci nel dormitorio. Mio padre non sarebbe mai stato così ingiusto.

Chiesi udienza al direttore e gli dissi che, se a lui non dispiaceva, avevo pensato che sarebbe stata una buona idea tornare a casa al ranch. Purtroppo, gli dispiaceva, e non pensava affatto che la mia fosse una buona idea. Così ho scontato tutta la sentenza, otto anni di duro, triste lavoro. Se non avevi alcun interesse nell’afferrare o calciare palloni, e se odiavi il latino e la matematica, eri considerato un fannullone. Non era affatto bello essere considerato tale. Ti rendevano un paria. Ma che andassero pure tutti all’inferno. Avevo il mio antidoto: avevo i miei libri.

La biblioteca della scuola aveva un settore speciale, nella galleria al piano superiore, dedicato alla narrativa. Ci saranno stati oltre un migliaio di titoli. Ho iniziato ad un’estremità, avanzando rapidamente fino alla parte opposta della libreria. Il mio insegnante d’inglese era un signore di nome Mr Forbes, non era il suo vero nome. Ripensandoci ora, credo fosse gay. Aveva un registro in cui ogni settimana ci veniva richiesto di elencare tutti i libri che avevamo letto. La media della classe era zero, o uno a testa. In una settimana io arrivavo a sei o sette.

Questa mia attività, insieme al fatto che ero un bel bambino, catturò l’attenzione del sig Forbes. Diventai il suo protetto. Discuteva come me dei libri che leggevo durante la settimana. Mi faceva sentire che essere un topo di biblioteca era lodevole, e non qualcosa di cui vergognarsi profondamente. Mi diceva che i miei scritti avevano grandi potenzialità, e discutevamo su come ottenere effetti drammatici, sviluppare al meglio i personaggi e far procedere la storia. Mi indicava gli autori che mi sarebbero piaciuti e i libri che avrei dovuto leggere. Mi chiamava persino “Wilbur” piuttosto che “Smith”, come se fossi davvero un membro della razza umana.

A fine anno, mi candidò per il premio al miglior elaborato in lingua inglese. Vinsi così il mio primo riconoscimento letterario. Il libro che ricevetti in premio lo aveva scelto il sig Forbes in persona. Ce l’ho ancora; ‘Introduzione alla letteratura inglese moderna’ di W. Somerset Maugham. Fu anche la prima volta che mi frullò in testa l’idea che forse, un giorno, avrei potuto far parte del pantheon degli scrittori, e vivere nell’Olimpo in mezzo a loro. Poi, all’inizio del nuovo semestre fui sconvolto dalla notizia che il signor Forbes aveva lasciato il personale della scuola, in fretta e inaspettatamente. Non seppi mai il motivo, solo ora posso azzardare qualche ipotesi.

Andai alla scuola superiore, Michaelhouse, ossia Accademia di St. Michael per giovani gentiluomini. Era un nome improprio: non c’era un solo gentiluomo tra noi. Era tutto molto simile a prima, tranne che era molto peggio. Il cibo era pessimo e le botte più pesanti e più frequenti. C’era la stessa ossessione per gli sport di squadra e le materie scientifiche. Il college era situato ai piedi dei monti Drakensberg, gli inverni erano artici.

Il mio professore di inglese era anche il professore di scienze, e il suo cuore era totalmente rapito da quest’ultimo ruolo. Non ebbe l’intelligenza di riconoscere del genio letterario quando se lo trovò sotto il naso. Non c’erano più premi di composizione letteraria per me. L’unica esperienza degna di nota è stata quella di aver avviato un giornale della scuola per il quale scrivevo l’intero contenuto, fatta eccezione per le pagine sportive. La mia colonna satirica settimanale era diventata abbastanza famosa, e circolava anche al Wykham Collegiate e a St Annes, le due scuole femminili famose per ospitare le più belle ragazze che esistessero nel raggio di centinaia di miglia.

Alla fine dell’anno, assegnarono il premio “alla Carriera” al ragazzo che azionava la macchina Roneo per stampare il giornale. Il preside mi fece chiamare e mi spiegò che avevano scelto lui come simbolo di tutto il personale del giornale, ovvero me, e inutile dire poi che quel ragazzo era stato capitano della squadra durante il Second Eleven, il più importante campionato di cricket…


LA VITA UNIVERSITARIA

DOPO QUATTRO ANNI DI DURA MISERIA , ECCOMI ALLA RHODES UNIVERSITY, A GRAHAMSTOWN, SUD AFRICA

Si aprono per me le porte del paradiso, perché qui ci sono ragazze che non indossano castigate uniformi da palestra e non raggiungono a piedi la chiesa in formazione anti-coccodrillo. Fino a quel momento non avevo mai immaginato quanto calde e morbide fossero queste splendide creature, o come fosse dolce il loro profumo.

Da quel momento in poi, non pensai a nient’altro che a loro. Persino i libri giacevano dimenticati nella febbrile eccitazione di questa nuova scoperta. Nelle lunghe vacanze durante l’Università lavorai nelle miniere d’oro, sulle navi merci e sulle baleniere. Misi così da parte abbastanza soldi per comprare una Ford T e finanziare le mie sperimentazioni amorose. Tenendo conto di tutte queste attività extra curriculari, mi stupisce ancora che io abbia ottenuto un diploma di laurea.

Uscii anche dalla mia torre d’avorio e piombai nel mondo reale. Capii che non potevo sfruttare mio padre a tempo indeterminato, e che da me ci si aspettava che trovassi prima o poi una qualche forma di occupazione. Decisi allora che sarebbe stato saggio fare quello che mi riusciva meglio. Andai da mio padre e gli annunciai che sarei diventato giornalista, o, se non fossi riuscito nell’intento, cacciatore professionista. Mio padre inorridì.

«Non essere idiota,» mi disse «Morirai di fame. Vai e trovati un lavoro vero.» Finii per fare il commercialista, e poco dopo il marito e il padre di due figli. Avevo ventiquattro anni quando questo matrimonio mal concepito andò all’aria. Il pagamento degli alimenti per il mantenimento dei figli mi aveva lasciato senza un soldo. Il mio lavoro nel reparto delle imposte mi stava spegnendo e le serate erano lunghe e solitarie. Mi volsi ancora una volta al mio primo amore… i romanzi. Ma a quel punto avevo deciso che ne avrei scritto uno invece di leggerlo soltanto. Avevo una fonte immediata di carta a portata di mano, sull’intestazione c’era scritto Ufficio delle Entrate di Sua Maestà La Regina.

Con mio grande stupore, trovai molto rapidamente qualcuno disposto a pagare in contanti i miei sforzi creativi. Vendetti il mio primo racconto alla rivista Argosy per settanta sterline, che era due volte il mio stipendio mensile. Dopo una serie di altri colpi andati a tiro, ero pronto a prendere il largo. Scrissi un romanzo intitolato The Gods First Make Mad (Prima di distruggerti, gli dei ti rendono folle), un titolo atroce per un libro ancora più atroce. Scelsi una società di agenti letterari dall’Almanacco annuale degli Scrittori. Dopo aver loro inviato il mio capolavoro, raccolsero in mia vece una mole impressionante di lettere di rifiuto dai più importanti editori di tutto il mondo. Come il mio matrimonio, la mia carriera di autore best-seller si era schiantata al decollo. Tornai all’invio di accertamenti fiscali. Ben presto però quella sorta di prurito che può essere sedato solo con una penna in mano mi attaccò di nuovo.



I GIORNI PIÙ BELLI

MI METTO A SCRIVERE LA STORIA DI UN RAGAZZO DI NOME SEAN COURTENEY, CRESCIUTO IN UN RANCH IN AFRICA

Cominciai a scrivere di mio padre e della mia adorata mamma, intervallandoli a brani sulla storia africana. Scrissi di gente bianca e di gente nera. Scrissi di spedizioni di caccia e di miniere d’oro, di bordelli e di donne. Scrissi d’amore e di odio. In breve, descrissi tutte le cose che conoscevo bene e avevo amato di più. Eliminai tutti i pensieri immaturi, la politica radicale e gli atteggiamenti ribelli che erano stati la spina dorsale del primo romanzo. Riuscii persino a inventarmi un buon titolo, Il destino del leone.

Inviai il manoscritto alla mia agente, a Londra, Ursula Winant. Seppi poi che aveva telefonato all’amministratore delegato di un’ottima casa editrice, la William Heinemann. Il suo nome era Charles Pick e lei lo interpellò in questo modo:

«Charles, ho un libro che vi farò solo leggere a tre condizioni. In primo luogo, dovete dare allo scrittore un anticipo di mille sterline.»
Al tempo si trattava di una somma inaudita per un primo romanzo.

«In secondo luogo, la prima tiratura deve essere di quattromila copie.»
Era una quantità rispettabile per un autore già conosciuto.

«Infine, devi dargli una royalty del 7,5% sulle vendite successive.»

Charles rispose solo «Mandami il manoscritto, e poi ne parliamo.»

Lesse il romanzo nel fine settimana e telefonò a casa della mia agente la domenica sera:

«Ursula, non posso accettare nessuna delle tue condizioni. Innanzitutto, l’anticipo non sarebbe di mille ma lo alzerei a duemila sterline. Secondo, intenderei partire con una prima tiratura di diecimila copie. Infine, pagherei royalties del 10%.»

Due giorni dopo, il postino pedalava sul vialetto della casa che condividevo nello squallore con altri quattro scapoli. Firmai il ritiro del telegramma. Lo aprii e la mia vita cambiò per sempre.

Una settimana dopo il postino pedalava verso casa mia con un altro telegramma. Il Readers Digest aveva selezionato il mio romanzo per farne uno dei loro celebri Condensed Books. Lasciai di mancia al postino un’intera sterlina.

Nelle settimane successive il postino venne a trovarmi con regolarità. Portò la buona notizia della vendita dei diritti cinematografici a Hollywood, di una selezione per un club del libro, di pubblicazione da parte della Viking Press a New York per una somma allucinante, di nuovi editori in Germania e in Francia, di un tascabile venduto a Pan Books in Inghilterra. Diventammo amici rapidamente, io e il postino. Urlava da fuori, “Un altro, Bwana!”. Quando gli aprivo, aveva già la mano aperta, pronta per la mancia.

Non avevo mai preso ferie dal lavoro per tre anni. Non ero mai stato in grado di permettermi il lusso di una vacanza. Mi congedai e incassai tutto in una volta, abbastanza per vivere di rendita i cinque anni seguenti. Lasciai la contabilità per sempre. Ero così pieno di soldi e di buoni propositi che riprovai a sposarmi, con lo stesso risultato… nacque un bambino poco dopo il divorzio.


I GIORNI PIÙ FRENETICI

VOLO A LONDRA PER INCONTRARE IL MIO EDITORE, CHARLES PICK

Charles mi invitò a trascorrere il fine settimana nella sua casa di Lindfield, a South Downs, vicino a Brighton. Parlammo ininterrottamente dalla mattina alla sera. Era il decano degli editori britannici. Nessuno al mondo ne sapeva più di lui sui libri e sugli autori. Senza riserve, elargiva la sua conoscenza e pillole di saggezza.

Mentre camminavamo sulle colline mi disse: «Hai scritto un solo libro. Un buon primo passo, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Ci vogliono dieci anni perché un autore possa dirsi affermato. Di anno in anno esamineremo insieme i tuoi progressi.» Cinque anni e cinque libri dopo, nello stesso punto dove ci trovavamo quel giorno, tornò sull’argomento:

«Siamo in anticipo di cinque anni rispetto a quello che ti avevo detto, ma d’ora in poi puoi definirti uno scrittore.»

E aggiunse: «Mi raccomando, scrivi solo di quello che conosci bene.»
Da allora, ho scritto solo dell’Africa.

E ancora: «Non scrivere per gli editori o per un lettore immaginario. Scrivi solo per te stesso.» Questo lo avevo imparato già da solo. Charles si limitava a confermarmelo.

Ancora oggi, quando mi siedo a scrivere la prima pagina di un romanzo, nemmeno per un attimo penso a chi finirà per leggerlo.

Mi disse anche: «Non parlare dei tuoi libri con nessuno, nemmeno con me, fino a che non li hai scritti.» Fino a quando non è nero su bianco, un libro è aria fritta. E può essere spazzato via da una parola imprudente. Scrivo da allora i miei libri, mentre tanti aspiranti scrittori, dei loro, si limitano solo a parlarne.

Mi diede altri ottimi consigli: «Dedicati alla tua vocazione, ma leggi tanto e osserva il mondo intorno a te, viaggia e vivi la vita pienamente, facendo così avrai sempre qualcosa di nuovo da scrivere.” Era un consiglio che ho preso molto a cuore. È diventato parte della mia filosofia personale. Quando è il momento di mettersi in gioco, io lo faccio sul serio. Viaggio, vado a caccia, faccio immersioni e scalo montagne cercando di seguire l’insegnamento di Rudyard Kipling; «Occupare ogni minuto inesorabile dando valore a ogni istante che passa». Quando è il momento di scrivere, scrivo con tutto il mio cuore e tutta la mia mente.

Quando per Charles fu il momento di andare in pensione, Ursula Winant morì. Lo convinsi a diventare il mio agente letterario. Non credo avrei potuto prendere decisione migliore. Gli anni ci hanno avvicinato sempre di più. La nostra amicizia è uno dei grandi punti di riferimento nella mia vita. Quando morì, nel 1999, lasciò un enorme vuoto che sembrava impossibile da colmare. Ancora una volta si è manifestata ‘la fortuna sfacciata di Wilbur’, e lo stesso figlio di Charles, Martin, si è fatto avanti per prendere il posto del padre. La mia collaborazione con la Charles Pick Consultancy Ltd. e la famiglia Pick continuerà fino alla fine dei giorni.

Dopo le mie due catastrofi matrimoniali, avevo giurato di non sposarmi più. Mio padre era solito dire: «Perché comprare una fattoria di fagioli, se puoi mangiarli gratis?» Ho mangiato un sacco di fagioli senza pagare il conto. Fino a che non mi venne la nausea. Ero stufo di dormire in letti diversi e di svegliarmi con una testa sconosciuta sul cuscino accanto al mio. Cominciavo a desiderare una compagna con la quale condividere tutta la mia felicità e il successo. Era l’unica cosa che mi mancava per rendere completa la mia esistenza.

A questo punto “la Fortuna sfacciata di Wilbur” colpì ancora. Incontrai una giovane divorziata, si chiamava Danielle Thomas. Era nata nella mia città natale e addirittura nella stesso ospedale. Era bella e intelligente. Aveva letto tutti i miei libri, e pensava fossero meravigliosi. Conoscendomi, quello che è successo dopo era inevitabile. Ci siamo sposati nel 1971, e siamo stati insieme per 28 anni. È stato un bel matrimonio. Eravamo un’ottima squadra. “La fortuna sfacciata di Wilbur” non venne mai meno. Scrivevo romanzo dopo romanzo, soddisfatto di tutto. Ogni libro superava il successo del precedente.



I MOMENTI BRUTTI

POI IL DESTINO MANDÒ IL CONTO, E FU UN INFERNO

Arrivò la malattia. Nel 1993 Danielle ebbe un attacco epilettico. La trasportammo in ospedale, ma la diagnosi fu tumore maligno al cervello, il Babau. Si trattava del classico dilemma ‘operare o morire ‘.

«Chi è il miglior neurochirurgo al mondo?», chiesi.

«Il Professor Mitch Berger, responsabile dell’unità di Neurochirurgia dell’Ospedale dell’Università di Denver» mi risposero. Contattai Mitch. Era sul punto di partire per due settimane di ferie. Annullò la vacanza con la famiglia, mise in valigia i suoi strumenti, e salì a bordo del primo aereo che da Denver, Colorado, arrivava a Città del Capo, Sud Africa.

Aveva Danielle davanti a sé sul tavolo operatorio il giorno dopo il suo arrivo. Ci sono volute sette ore, ma riuscì a rimuovere un tumore delle dimensioni di un uovo d’oca dal centro del cervello. Rimase altri due giorni per assicurarsi che lei stesse recuperando bene. Lo accompagnai poi in aeroporto. Durante il tragitto gli chiesi: «Quanto ti devo, Mitch?»

Ma lui rispose: «Sono pagato dall’ospedale della Denver University. Non sono venuto qui per soldi. Sono venuto per cercare di salvare la vita di Danielle.»

Solo più tardi riuscii a convincere quel sant’uomo a portare la moglie e i due figli in Africa per un safari, come mio ospite.

Tuttavia, nonostante l’abilità e la dedizione di Mitch, l’incubo era iniziato. Danielle era andata sotto i ferri come una donna robusta, equilibrata, intelligente e amorevole. È uscita dalla sala operatoria che era una bambina spaventata e confusa.

Mitch aveva dovuto lasciare intatto un piccolo pezzo di tumore. Qualsiasi tentativo di rimuoverlo avrebbe reso Danielle cieca e muta. Dovette perciò sottoporsi alla chemio. Perse tutti i capelli.

Per lenire le ferite terribili al cervello, e prevenire le crisi epilettiche che sicuramente sarebbero seguite, doveva anche assumere un farmaco potentissimo. Tre volte al giorno. Uno degli effetti collaterali era il massiccio aumento di peso. Diventò obesa. Io le dicevo: “Ora che sei così tanta, posso amarti ancora di più.”

Ogni tre mesi il suo cervello doveva essere sottoposto alla tac per rilevare eventuali alterazioni. Queste tac diventarono il perno attorno al quale ruotava la nostra vita.

Alla fine il cancro vince sempre. Il residuo del tumore si era attivato. Volai con lei negli Stati Uniti. Mitch operò di nuovo, ma era l’inizio della fine. Le condizioni di lei cominciarono a diventare critiche a vista d’occhio.

All’inizio del 1999 entrò in coma. Quando morì nel dicembre dello stesso anno ero seduto al suo capezzale e le tenevo la mano. Nella morte sembrava una bambina che dormiva, del tutto serena e tranquilla. Avevo elaborato il lutto nel corso degli ultimi sei anni. La sua morte mi aveva lasciato insensibile e vuoto.




GLI ANNI PERFETTI

POI LA SFACCIATA FORTUNA DI WILBUR È TORNATA A SPLENDERE

Accadde poi qualcosa che riuscì a riempire il vuoto e a riportarmi di nuovo alla vita. In una libreria di Londra ho incontrato una bella ragazza tagika. Il Tagikistan, la sua terra d’origine, è in Asia e confina con l’Afghanistan. Si chiama Mokhiniso Rakhimova. Si è laureata in legge all’Università di Mosca. Per me lei è tutto; bella, intelligente, impegnata, amorevole e fedele. È più giovane di me di 39 anni. L’ho sposata nel maggio 2000. Mi ha riportato in vita. Mi ha insegnato ad amare di nuovo.

Ora, con Mokhiniso accanto a me, guardo all’indomani con entusiasmo. Ha bandito la solitudine. È l’amante e la compagna perfetta. Mi ha fatto sentire giovane e vitale come un tempo. Da quando l’ho incontrata ho scritto quattro dei miei migliori romanzi. La dedica de Il Trionfo del Sole recita:

«Questo libro è per la mia compagna, assistente, anima gemella, moglie e migliore amica, Mokhiniso Rakhimova Smith.»

Il che dice tutto.

In questi giorni sto attento alla dieta. Ho smesso di fumare quarantacinque anni fa, e non ho più toccato da allora una foglia di tabacco. Faccio esercizio fisico, bevo moderatamente e mi sottopongo a controlli medici con regolarità. Sto bene. Mi sto divertendo troppo per pensare alla morte. Mi sento in forma, felice, ottimista e innamorato. Ho ancora un sacco di libri in testa, che chiedono a gran voce di essere scritti.

WILBUR SMITH




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