MA NON LI SENTI I CANI ABBAIARE?
Tratto da La pianura in fiamme di Juan Rulfo – a cura di Matteo Rimondini Andrés Ríos
Juan Rulfo nasce nel 1918 a Sayula in Messico, e, anche se pubblica solo due opere letterarie, En Llano en llamas (1953) e Pedro Páramo (1955), il suo unico romanzo, è considerato uno degli autori più rappresentativi del suo paese. Scrittore non di professione, si alterna infatti fra mansioni di funzionario e di rappresentante di pneumatici ma fonda diverse riviste e intrattiene rapporti importanti con tutti i principali autori latino-americani dell’epoca, cercando già in vita uno spazio nel dibattito letterario. Senza alcun dubbio può figurare insieme ai grandi nomi che popolano la produzione letteraria degli anni ’50 e ’60 in America Latina, nella generazione di scrittori compresa fra L’ombelico della luna di Carlos Fuentes nel 1958 sino a Cent’anni di solitudine di solitudine di Gabriél García Márquez del 1967. Rulfo vive un periodo florido in campo letterario e pieno di mutamenti in ambito storico-sociale per tutto il continente, che egli assorbe e fa proprio in una personalissima descrizione del proprio paese. Come T.S. Eliot, infatti, sin dai titoli si può osservare uno stretto collegamento alla geografia dei paesaggi (a partire dal rifermento alla pianura del Llano); la passione per la fotografia gli permette di descrivere il Messico nello sviluppo da paese rurale a urbano. Anche la storia ha una grande influenza nella produzione letteraria: la Rivoluzione messicana, oramai lontana di un paio di decenni, rimane in lui come memoria sfocata e disillusa. Tutto questo influenza la poetica di un autore che descrive gli spazi in modo crudo e secco ma li popola di personaggi che appaiono come ombre profetiche, al punto di essere considerato il capostipite del “realismo magico” ispano-americano. In Italia lo conosciamo solo per le edizioni Einaudi delle sue due opere, e qui si propone un nuova traduzione di un racconto tratto da La Pianura in fiamme. Questa traduzione ha una duplice particolarità: ravvivare l’interesse per un autore che ha forse vissuto all’ombra dei grandi nomi a lui contemporanei; inoltre è il frutto di un esperimento letterario di traduzione non professionale. Essa, infatti, è stata svolta a quattro mani da me e Andrés Ríos, compagno di avventure in una mia esperienza di studio in terra tedesca, nativo di Guadalajara, città dove Rulfo spese gran parte della sua vita. Da un lato, dunque, c’è un madrelingua ispano-messicano, che mi ha aiutato a interpretare la lingua, specialmente nei suoi passi caratteristici, al limite del dialettale, dall’altro, supportato da una conoscenza base dello spagnolo e da anni di traduzione dalle lingue antiche, ho provato a trasporre il racconto in una nuova e aggiornata versione italiana. Insomma, è chiaro che l’intento non è scientifico, ma forte della convinzione che la letteratura (e la traduzione, quel vertere che mette in contatto con un’altra lingua avendone a cuore il “genio”) possa muoversi anche sulle direttrici che uniscono due amici, una sera, davanti a un libro.
Quando Enea fugge da Troia, strappa il padre Anchise dalle fiamme che imperversano per la città per portarlo in salvo e se lo carica sulle spalle, a costo di lasciare per sempre la moglie. Anchise morirà poi sulle coste di Drepano, lasciando il figlio alla volta del mare, guidato dagli dei. È avendo in mente tale immagine che si propone qui la nostra nuova traduzione.
MA NON LI SENTI I CANI ABBAIARE?
-Tu che stai lassù, Ignacio, dimmi se senti qualche segnale o se vedi una luce da qualche parte.
-Non si vede niente.
-Ora dovremmo essere vicini.
-Sì, ma non si sente niente.
-Guarda bene.
-Non si vede niente.
-Povero te, Ignacio.
L’ombra lunga e nera degli uomini continuò a muoversi dall’alto verso il basso, arrampicandosi sulle pietre, rimpicciolendo e ingrandendosi secondo il corso del ruscello. Era un’ombra unica e traballante. La luna stava uscendo dalla terra, come una fiamma circolare.
-Dovremmo essere arrivati a questo paese, Ignacio. Tu che riesci, sforzati di sentire se i cani abbaiano. Ricorda che ci hanno detto che Tonaya è solo dietro questa collina. È passato molto tempo da quando l’abbiamo lasciata. Ricordati, Ignacio.
-Sì ma non vedo traccia di niente.
-Mi sto stancando.
-Mettimi giù.
Il vecchio indietreggiò fino a trovare un grande muro e si appoggiò senza però liberarsi del peso sulle sue spalle. Anche se le gambe si piegavano, ma non voleva sedersi perché poi non avrebbe più potuto prendere di nuovo il corpo di suo figlio, che qualche ora prima lo avevano aiutato a mettere lì sopra. E così lo stava portando da allora.
-Come ti senti?
-Male.
Parlava poco. Sempre meno. Ogni tanto sembrava dormisse. Ogni tanto sembrava avesse freddo. Si accorgeva del tremolìo di suo figlio per i colpi che dava e perché i piedi gli trafiggevano i fianchi come degli speroni. Poi le mani del figlio, attaccate al collo del padre, scossero la testa come se fosse un sonaglio. Lui stringeva i denti per non mordersi la lingua e quando finì chiese:
-Ti fa molto male?
-Un po’, rispose
Prima gli aveva detto “Fammi scendere qui, lasciami qui. Vai pure da solo, ti raggiungo domani o appena mi sarò riposato un po’”. Glielo aveva ripetuto fino allo sfinimento. Ora, non diceva neanche questo.
Lì stava la luna. Di fronte a loro. Una luna grande e colorata, che riempiva i loro occhi di luce, si allungava e rendeva più scura la sua ombra sulla terra.
-Non vedo dove stiamo andando, disse.
Ma nessuno rispose.
L’altro stava lì in alto ed era tutto illuminato dalla luna, con la sua faccia scolorita, senza sangue, riflettendo una luce opaca.
E quello lì in basso: -Mi hai sentito Ignacio? Ti dico che non vedo bene.
E l’altro stava in silenzio.
Inciampava, ma continuava a camminare. Sistemò il busto, riprese a camminare per poi inciampare di nuovo.
-Questa non è la strada. Ci hanno detto che dietro questa collina c’è Tonaya. Abbiamo già passato la collina. E Tonaya non si vede, né si sente nessun suono che ci dica dove è. Perché non vuoi dirmi cosa vedi, tu che sei lì in alto, Ignacio?
-Fammi scendere, papà.
-Ti senti male?
-Sì.
-Ti porterò a Tonaya a tutti i costi. Lì troverò qualcuno che ti curerà. Dicono ci sia un dottore là. Ti porterò da lui. Ti ho sostenuto per ore e non ti lascerò abbandonato qui per farti uccidere da qualcuno, chiunque esso sia.
Esitò un attimo. Barcollò ma subito tornò dritto.
-Ti porterò a Tonaya.
-Fammi scendere. La sua voce si abbassò, quasi mormorando: -Voglio scendere un attimo.
-Dormi lì. Sei ben sostenuto.
La luna stava salendo, quasi blu, su un cielo nitido. La faccia del vecchio, bagnata di sudore, si riempì di luce. Coprì gli occhi per non guardare avanti, perché non riusciva a chinare la testa, bloccata come era fra le mani di suo figlio.
-Ciò che sto facendo, non è per te. Lo faccio per tua madre, che non c’è più. Perché tu eri suo figlio. Questa è la ragione per cui cammino. Lei non mi avrebbe perdonato se non ti avessi portato via da dove ti ho trovato, e non mi fossi preoccupato di curarti, come sto facendo. È lei che mi dà la forza, non tu. Innanzitutto perché a te non devo che semplici difficoltà, semplici mortificazioni, semplici vergogne.
Parlando, sudava. Ma il vento della notte asciugava il sudore. E sul secco sudore, continuava a sudare.
-Mi romperò la schiena, ma arriverò con te a Tonaya, così loro ti cureranno questa ferita che ti hanno fatto. E sono sicuro che quando sarai guarito, compirai ancora gli stessi errori. Ma non mi interessa più. L’importante è che te ne vada lontano, dove io non sentirò più niente di te. L’importante è questo… Perché, per quanto mi riguarda, non sei più mio figlio. Maledetto il mio sangue dentro di te. Ho maledetto la parte che mi appartiene. Ho detto “Che ti marcisca nelle vene il sangue che ti ho dato”. Ho detto questo dopo aver saputo che stavi vagando per le strade, rubando e uccidendo persone… E brave persone. E se ripenso al mio amico Tranquilino. Quello che ti tenne a battesimo. Quello che ti ha dato il nome. Anche lui ha avuto la sfortuna di incontrarti. Da quella volta mi sono detto: “Lui non può essere mio figlio”.
-Guarda se vedi qualcosa. O se senti qualcosa. Tu che puoi farlo da lassù, perché non riesco a sentire.
-Non vedo niente.
-Peggio per te, Ignacio.
-Ho sete
-Tienitela! Siamo vicini. Potrebbe essere molto tardi e forse hanno già spento le luci della città. Ma almeno dovresti sentire se i cani stanno abbaiando. Sforzati a sentire.
– Dammi dell’acqua.
– Qui non c’è acqua. Solo pietre. Tienitela. E se ci fosse, non ti farei scendere a bere. Nessuno mi aiuterebbe a farti salire ancora e solo non riuscirei.
-Ho molta sete e molto sonno.
– Ricordo quando sei nato. Eri proprio così anche allora. Ti svegliavi affamato e mangiavi solo per tornare a dormire. E tua madre ti dava l’acqua, perché avevi già finito il suo latte. Niente ti soddisfaceva. Ed eri davvero arrabbiato. Non avrei mai pensato che col tempo questa rabbia ti arrivasse alla testa… Ma così è stato. Tua madre, che riposi in pace, voleva che tu crescessi forte. Credeva che una volta adulto, saresti stato il suo sostegno. Non aveva altri che te. L’altro figlio che stava per avere, la uccise. E tu l’avresti uccisa di nuovo se fosse stata ancora viva.
Sentì che l’uomo che stava portando sulle spalle smetteva di stringere le ginocchia e iniziava a lasciare i piedi, dondolandoli da un lato all’altro. E gi sembrò che la testa, in alto, si scuotesse, come se singhiozzasse.
Sentì che sui capelli cadevano delle grosse gocce, del sapore delle lacrime.
-Cosa fai, piangi, Ignacio? Il ricordo di tua madre ti sta facendo piangere? Davvero? Avessi mai fatto qualcosa per lei! Ci hai sempre ripagato male. Sembrava che, invece che di dolcezza, ti stessimo riempiendo il corpo di cattiveria. Vedi? Adesso loro ti hanno ferito. Cosa è successo ai tuoi amici? Li hanno uccisi tutti. Ma non avevano nessuno. Loro avrebbero potuto ben dire: “Non abbiamo nessuno di cui aver pietà.” Ma tu, Ignacio?
Davanti comparve la città. Vide i tetti brillare sotto la luce della luna. Gli sembrò che il peso di suo figlio lo schiacciasse tanto da sentire la colonna piegarsi nell’ultimo sforzo. Ma raggiungendo le prime case, accostò al parapetto del marciapiede e lasciò il corpo fiacco, come se fosse disarticolato. Staccò a fatica le dita con le quali il figlio si era tenuto e, liberandosi, sentì finalmente i cani abbaiare ovunque.
-E tu non li senti, Ignacio?, disse, Non hai saputo aiutarmi neanche con questa speranza.
BIBLIOGRAFIA: Rulfo Juan, En llano en llamas, Cátedra, Madrid, 2008/La Pianura in fiamme, Einaudi 2012
Wilson Jason, Pedro Páramo, in: The Cambridge Companion to the Latin American Novel, pubb. Kristal Efrain, 2005
Matteo Rimondini nasce e cresce a Castenaso, nella provincia bolognese, ma presto si sposta a Bologna frequentando il liceo classico “M. Minghetti” e la facoltà di lettere classiche, per poi trascorrere un anno di studi presso l’Università di Heidelberg. È stato uno degli organizzatori del festival “Nubi. Lettere dalla periferia”, scrive sulla rivista “Resistenza e Nuove Resistenze” ed è uno dei conduttori del programma radio dal nome “Avamposti” su Radio Leila.
LA MACCHINA SOGNANTE
Nessun commento:
Posta un commento