The Raid di John Steinbeck
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Marita Lorenz e Fidel Castro |
Novembre 29, 2016
NEW YORK. – Alcuni la ricordano come il più grande amore di Fidel Castro, la donna segreta che sembra uscita da un film di spionaggio: è Marita Lorenz, cittadina americana originaria della Germania che quando aveva 19 anni è stata stregata dal Líder Máximo, e oggi è “devastata” dalla sua morte.
Era il 1959 quando Marita incontrò Castro mentre era in crociera sul transatlantico MS Berlin: il padre, infatti, era capitano della nave, e lei viaggiava spesso per il mondo con lui. Il giorno in cui conobbe Fidel, e cadde ai suoi piedi, la MS Berlin era al porto de L’Avana, Castro aveva appena preso il potere e aveva divorziato dalla prima moglie Mirta Diaz Balart.
In una delle cabine della nave scattò il primo bacio e quando lei tre giorni dopo fece ritorno a New York, dove viveva, il leader cubano la tempestò di chiamate chiedendole di tornare a Cuba, mandando anche un aereo a prenderla. Marita visse alcuni mesi sull’isola caraibica insieme a lui, in una suite dell’Habana Hilton, anche se Fidel le disse subito: “Io sono sposato con Cuba”.
Questo non gli impedì di lasciarla incinta, ma quando era al settimo mese di gravidanza fu drogata, costretta a partorire e il piccolo le venne portato via.
Circa un anno dopo il loro primo incontro, la giovane fu reclutata dalla Cia per assassinare Fidel con del veleno ma lui riuscì a sedurla un’ultima volta, sventando il piano e spingendola a confessargli tutto. “Quando l’ho incontrato ero sopraffatta dalle emozioni”, ha detto la stessa Marita alcuni anni fa in un’intervista.
Quindi ha spiegato che ha potuto vedere il bambino avuto con Castro soltanto due volte, l’ultima delle quali nel 1981. Un anno prima, nel 1980, il Líder Máximo aveva sposato segretamente Dalia Soto del Valle, sua compagna dal 1961 e dalla quale ha avuto cinque figli.
Dopo la fine della storia con Fidel, la donna è tornata alla ribalta per una relazione con il dittatore venezuelano Marcos Pérez Jimenez e per la testimonianza davanti al Congresso sull’assassinio dell’ex presidente americano John F. Kennedy, come si racconta nel suo libro di memorie.
Oggi Lorenz ha 77 anni, vive nel Queens, e la sorella ha raccontato al New York Post che “è devastata” per la morte di Castro. “Ha il cuore spezzato – ha spiegato – E’ stata innamorata di lui per tutta la vita”.
(di Valeria Robecco/ANSA)
GUIA SONCINI
1 Ottobre 2020
A chi appartiene una storia? Se pensate che la risposta sia facile («a chi l’ha vissuta»), state sottovalutando un dettaglio: tutto ciò che raccontiamo (non necessariamente in un libro: valgono anche le storie con cui intratteniamo i commensali) non ci è successo da soli. Le storie che vale la pena raccontare coinvolgono in genere conversazioni, sentimenti, litigi, riappacificazioni; insomma: coinvolgono altri.
A parte il mal di testa (che, ci ricordava Vasco Rossi, quando ce l’ho «ce l’ho io, mica te», e se lo racconto non sto rubando storie altrui), tutto quel che raccontiamo si appropria di storie (anche) altrui. Chi ha diritto di raccontare una storia? Toccherà a chi trova per primo una chiave per farlo? O a chi è più abile come affabulatore? Forse a chi è più prepotente?In un film francese d’un paio d’anni fa, uscito in Italia con il terribilissimo titolo “Il gioco delle coppie”, alla presentazione d’un libro un lettore chiedeva conto all’autore d’una polemica: la sua ex moglie era furiosa per il suo ultimo romanzo, autobiografico. E aveva ragione, ipotizzava il lettore: ora, se lei volesse scrivere quella storia, non potrebbe più farlo. Lui gliel’ha sottratta. Non aveva diritto di usare una storia che forse apparteneva a lei. Il tapino obiettava che la sua vita erano le relazioni che aveva con gli altri: se si toglievano quelle, non gli restava materiale narrativo.
Dev’essere un problema assai sentito in Francia, la proprietà delle storie. E la natura delle storie.Almeno a guardare il caso Carrère.
Prologo. Emmanuel Carrère pubblica un libro, “Yoga”. In esso si raccontano il suo esaurimento nervoso e la fine del suo matrimonio (riporto, fidandomi, dagli articoli francesi: io aspetto l’edizione pastellata Adelphi per leggerlo; uscirà l’anno prossimo). “Yoga” esce in Francia il 23 di agosto, e tre settimane dopo comincia a dipanarsi lo scandalo.
Parte dalla radio, dove un altro scrittore parla di «cause legali minacciate»; prosegue su un sito che allude a modifiche al testo fatte su richiesta degli avvocati; e infine arriva su un quotidiano che spiega che Hélène Devynck, già moglie dell’autore, non ha approvato i passaggi che la riguardano.
Chi si ricorda di “Affari di cuore” avrà un déjà-vu. Nora Ephron (sceneggiatrice, regista, eroina delle sentimentali con uso d’umorismo) e Carl Bernstein (quello del Watergate) divorziarono dopo che lui ebbe la gentilezza di cornificarla mentre lei era incinta.
Lei ci scrisse un romanzo (come non capirla): cambiò i nomi, ma tutti sapevano che era lui quello «che sarebbe capace di scoparsi gli scuri della finestra». Il cornificatore dichiarò che certo, avrebbe preferito il libro non fosse stato scritto, «ma ho sempre saputo che scrive i fatti suoi: Nora va al supermercato e lo usa come materiale narrativo» (come non capirla).
Quando il romanzo stava per diventare un film, però, Bernstein pretese che nell’accordo di divorzio venisse inserita una clausola che tutelasse la sua immagine: aveva diritto a leggere le stesure della sceneggiatura, a vedere il primo montaggio, a pretendere d’essere rappresentato come un buon padre.
Sebbene sappia che Jack Nicholson fu un rimpiazzo (la prima scelta per interpretare Bernstein non funzionò), mi piace credere fosse invece una delle condizioni imposte dal vanesio ma bruttino Carl: «Potete fare il film solo se m’interpreta quello strafigo di Jack».
Se un anatroccolo può cercare d’impedire la realizzazione d’un film in cui lo interpreta il più cigno dei cigni, figuriamoci se l’ex signora Carrère non può stizzirsi per come la racconta il suo ex.
Finché non era ex, ha portato pazienza. Finché stavano insieme, «Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, tuffarsi nel mio lutto, nei miei dolori, nella mia sessualità». Era perché, se devi litigare per chi porta giù l’umido, non puoi metterti a litigare anche sugli autobiografismi, con tutti i diritti d’autore che ne arrivano sul conto comune? Macché: era perché il tutto era fatto con amore, e il modo in cui il materiale veniva lavorato le assicurava «d’essere rappresentata in un modo che si attagliava a entrambi».
Già vedo le femministe dei cancelletti agitarsi: si tratta chiaramente d’una donna plagiata, vessata, sfruttata. Macché: la signora ha tutta l’aria di sapersi difendere.
Quando si lasciano, gli fa firmare un contratto. (E qui ci dividiamo in due. Le sfruttatrici di materiale autobiografico pregano che a nessun loro amante venga mai in mente di pretendere un contratto. Le sfruttate da scrittori si chiedono: maledizione, perché non m’è mai venuto in mente di farmi fare un contratto per il ruolo d’ispiratrice, di musa, di materiale narrativo?).
Quando l’ha firmato, però, le arriva il manoscritto di “Yoga”. Con un biglietto in cui Emmanuel, re dei paraculi, ha scritto «Non dovrebbe essere una sopresa, per te, ch’io scriva libri autobiografici. Questa storia risulterebbe incomprensibile senza il contesto».
Nella lettera che ha scritto all’edizione francese di Vanity Fair la signora chiosa questo messaggio con le parole «Nel caso, il contesto ero io». («Le contexte, c’était moi» sta tra il «Madame Bovary, c’est moi» di Flaubert e il «L’enfer, c’est les autres» di Sartre: cos’aspetterà Hélène, la vera scrittrice di casa, a fornirci un Rashomon matrimoniale scrivendo la sua versione dei fatti, santo cielo).
La lettera prosegue con altri elementi incendiari per il cancellettismo: «Per aver detto “sì” altre volte, non posso più dire “no”?» (il consenso, il sopruso, il maschilismo tossico; oltretutto, come eroina e simbolo della rivalsa, Hélène è assai più presentabile di Asia).
«Il mio personaggio è stato sputtanato in una fantasia sessuale accompagnata da rivelazioni spiacevoli sulla mia vita privata. È stato sgradevole». Se avete visto “Harry a pezzi”, uno dei più bei film di Woody Allen, non può non venirvi in mente la scena sublime in cui l’ex moglie fa una piazzata all’ex marito che ha scritto un romanzo con tutti i cazzi loro, e il picco dei suoi insulti coincide col momento in cui lo sfruttatore di vite altrui cerca di nascondersi dietro alla formula «liberamente ispirato». «Non dirmi “liberamente”, testa di cazzo: cosa pensi che sia, una di quelle conduttrici televisive ritardate?».
Come insegnano i poeti, l’inferno non conosce furia pari a quella d’una donna tradita, e quindi Hélène provvede a sputtanare Emmanuel: ha raccontato in maniera assai più lieve i suoi episodi psicotici, e ha trasformato in mesi un weekend a Lero a vedere da vicino i profughi. Ma il colpo davvero basso non è questo.
È il passaggio della lettera in cui, come Judy Davis (che interpretava la moglie di Woody Allen), ammette che certo, ci sono degli elementi romanzati nel non romanzo. Per confondere le acque, ma – soprattutto – per strizzare l’occhio al Goncourt.
La polemica era già partita prima della lettera della protagonista tradita: il più prestigioso premio letterario francese forse escluderà “Yoga” dai possibili vincitori, giacché premia romanzi e non memoir (ragione per la quale era stato escluso “La traversata”, il memoir di Philippe Lançon, editorialista di Charlie Hebdo).
Che criterio fesso: come se i romanzi non fossero perlopiù memoir coi nomi cambiati. Come se non fosse tutto autobiografico, «sia che scriva “nacqui nel tal anno nel tal posto”, sia che scriva “c’era un re che aveva tre figli”», diceva un certo Borges.
Ho una proposta alternativa alla cancellazione del maschio tossico dal premio. Dateglielo, il premio. Qualche anno fa Slate calcolò che il Goncourt quintuplica le vendite, e che gli incassi, per la casa editrice che pubblica il vincitore, possono arrivare a tre milioni di euro nelle otto settimane successive all’assegnazione del premio (immagino c’entri anche l’effetto Natale, visto che il vincitore viene proclamato il 10 novembre).
Fate vincere Emmanuel, con la clausola che la sua percentuale dei tre milioni vada a Hélène. Oltre ai soldi che spero già le assegni quel contratto, le cui clausole spero un qualche giornalista investigativo ci sveli presto: abbiamo bisogno di sapere quali sono le tariffe di mercato per continuare a fare da materiale narrativo dopo il divorzio.
https://www.youtube.com/watch?v=m36vXFmr6b0
La bella Emilia (Brigitte Bardot), stufa di discutere con il marito Paolo (Michel Piccoli),
si tuffa completamente nuda nello splendido mare di Capri.
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Curzio Malaparte |
Nel 1946, mentre lavorava a La pelle, Curzio Malaparte ebbe un'idea geniale, che nessuno aveva avuto prima e forse neanche dopo: ricavare dalla sua conoscenza della Russia sovietica, verso la quale aveva sempre nutrito un acuto interesse e nella quale aveva soggiornato alcune settimane nel 1929, un romanzo-cronaca sulla vita della nuova «aristocrazia comunista» moscovita che, a suo dire, aveva preso il posto dell'aristocrazia zarista e che sarebbe stata presto inghiottita dai processi e dalle purghe staliniane. Si trattava di lavorare su uno dei più sorprendenti e affascinanti ossimori: era arrivato a Mosca con la convinzione di trovare al potere una classe operaia tutta ideali rivoluzionari e stile puritano e aveva incontrato invece una nobiltà marxista scimmiottante il mondo occidentale, affogata nel vizio e nella corruzione, ad appena pochi anni dalla morte di Lenin. Malaparte intendeva dunque essere il Proust della decadente società comunista, dei suoi vizi, dei suoi scandali, dei suoi intrighi, come egli stesso dichiara nelle pagine introduttive e come appare anche dai titoli progettati per il libro (Du côté de chez Staline, Les princesses de Moscou) prima che approdassero al definitivo Il ballo al Kremlino.
Il romanzo, che si immagina avrebbe potuto costituire insieme con La pelle e Kaputt il terzo pannello di un trittico sulla decadenza dell'Europa, rimase incompiuto e fu pubblicato postumo, nel 1971, nell'ultimo volume delle Opere di Malaparte edite da Vallecchi; né fu più ristampato.
Attraverso un paziente lavoro di riassetto filologico, accompagnato da un prezioso commento che illustra la genesi e la storia complicata del testo, come pure i suoi rapporti con gli altri scritti di Malaparte di argomento sovietico (in particolare Intelligenza di Lenin, Tecnica del colpo di Stato, Le bonhomme Lénine, Il Volga nasce in Europa), l'opera riappare adesso presso Adelphi per la cura di Raffaella Rodondi (Il ballo al Kremlino. Materiale per un romanzo, pagine 418, € 22), quasi in coincidenza con l'uscita in traduzione italiana della vasta, ricca e precisa biografia di Maurizio Serra, originariamente scritta e pubblicata in francese (Malaparte. Vite e leggende, traduzione di Alberto Folin, Marsilio, pagine 592, € 25).
L'edizione Adelphi allinea, insieme con gli abbozzi e con altri frammenti, sei capitoli del libro (più un interessantissimo scritto sull'aura funebre della riproduzione fotografica della natura e sulla vergogna della morte nel mondo sovietico come, in generale, nel mondo moderno, dove «un uomo è un pezzo di ricambio»).
In questa costellazione il lettore incontra inevitabilmente varianti, anacronismi e ripetizioni, tutti perfettamente spiegati dalla curatrice, che peraltro non offuscano l'arte dello scrittore. Essa, più che in certe paradossali elucubrazioni di un romanzo-cronaca che è anche un romanzo-saggio, si manifesta in due generi, poco frequenti nella tradizione letteraria italiana: il ritratto e l'aneddoto.
Indimenticabile è la figura del roseo e biondo Florinski, antico funzionario del ministero degli Esteri zarista divenuto Capo del Protocollo del Commissariato degli Affari esteri della Repubblica dei Soviet, che appare in mezzo al traffico di Mosca su una tarlata carrozza nera tutto incipriato e bistrato, vestito di tela di lino bianca e di calze di seta bianca: un personaggio proustiano, per il quale «il marxismo era una sorta di complemento della sua natura di pervertito».
Più sobrio, ma pur sempre all'opposto dell'ideale d'uomo comunista, è il bellissimo ed enigmatico Karakan, partecipe e anzi protagonista della rivoluzione cinese, che parla con perfetto accento oxfordiano e gioca a tennis soltanto con palle fatte appositamente venire da Londra. Egli è l'amante dell'idolatrata Semënova, prima ballerina del Gran Teatro dell'Opera di Mosca, la cui grazia è scrutata ogni sera dall'occhio interessato dello stesso Stalin ed è oggetto delle chiacchiere di tutte le beauties della capitale. Ma vi sono anche figure già lambite dall'odore della morte, come la grassa e sfatta Madame Kamenev, che «era già in agonia dal giorno in cui suo marito e suo fratello Leon Trozki erano stati arrestati dalle "giacche di cuoio" della Ghepeu».
Alla vita della pègre dorée, la «mala dorata», contrasta la sorte dell'antica nobiltà esautorata e della borghesia ridotta alla fame, costrette a vendere «le ultime cianfrusaglie del loro antico splendore»: sulla via dell'Arbat un vecchio signore, che è il principe Lwow, cammina curvo portando sulla testa una poltrona dorata; sullo Smolenski Boulevard una dama della Croce rossa in uniforme, ancora giovane e bella, è ridotta ad offrire a Malaparte, «orrenda Veronica», un paio di vecchie mutandine di pizzo.
Ma l'elemento più impressionante del Ballo al Kremlino è dato da quella fosforescenza della decomposizione che si condensa nell'immagine, simbolica e ricorrente, della mummia di Lenin: «Specialisti tedeschi venivano ogni tanto da Berlino per svuotare, raschiare, disinfettare il guscio di quel prezioso crostaceo, quella sacra mummia cui un sudore verdastro, simile a una muffa, velava il bianco viso di porcellana illuminato di lentiggini rosse».
24 Febbraio 2021
«In superficie, Bruce e io non abbiamo molto in comune», spiega l’ex presidente Obama (vi spiace se lo chiamo Barry? Sono di provincia, mi prendo confidenze che nessuno m’ha dato), proseguendo poi a elencare le differenze tra lui e il suo amico – uno degli amici, ci ha già spiegato, con cui ha avuto varie conversazioni su come il 2020 ci ha scombussolati un po’ tutti.
Quando arriva a «lui è un’icona rock, io sono un avvocato e un politico: non altrettanto cool» capisci che eccolo lì, il paraculo: solo chi sa di essere il più cool del mondo si dà dell’uncool (e solo chi sa d’essere il più cool del mondo butta lì, in levare, che uno dei suoi amici si chiama Bruce Springsteen – vi spiace se lo chiamo Bruce? Noialtri davvero uncool ci allarghiamo sempre).Insomma, Barry e Bruce hanno registrato un podcast. Non se n’è saputo niente fino a lunedì sera, quando hanno messo le prime due puntate su Spotify. «Abbiamo aggiunto un terzo partecipante alle nostre conversazioni: un microfono». Se vi dicono che se sei mezzo celebre, una celebrità da concorrente di reality o giù di lì, allora non puoi più fare niente senza che si sappia, dite loro: Barry e Bruce hanno cominciato a luglio scorso a registrare un podcast senza che se ne sapesse niente fino all’altroieri.
Se, come me, siete devote a Springsteen da quand’eravate alle medie, vi addolorerà dover ammettere che il suo amico ex presidente è ben più figo e ben più paraculo di lui. Non è che Bruce non sia entrambe le cose, eh: ma Barry ha fatto della vocazione un mestiere.
Un esempio abbastanza all’inizio della conversazione. Bruce dice che da giovane si sentiva invisibile, e quell’invisibilità era dolorosa. Se non avete pratica dell’archivio springsteeniano, vi esorto a sospendere la lettura, ad andare su YouTube, e a cercare “Springsteen Hammersmith London”. Troverete il più strappamutande dei cantanti, un Bruce ventiseienne, che fa la più strappamutande delle canzoni, Thunder Road. Se avete visto e siete tornate qui, ora siete pronte a sentirmi dire che, se quel tizio lì nel 1975 è invisibile, io sono Wanda Osiris.
Ma, attenzione, il rilancio di Barry è ancora più sfacciato. Lo interrompe e gli dice che quella frase lì è la ragione per cui sono amici, perché Bruce una volta ha detto una cosa così e Barry (’n artro invisibile) si è sentito capito. Poi prosegue spiegando che, quando le loro mogli sono diventate amiche parlando dei difetti dei mariti, Michelle gli diceva lo vedi, Patti mi ha detto che Bruce capisce che non è un bravo marito, tu perché non sei come Bruce e non capisci i tuoi limiti? Se siete uomini (e non siete re dei paraculi come Barry) magari non lo capirete, ma vi assicuro che non c’è una cosa più seduttiva del marito che amorevolmente racconta che la moglie lo tratta come un poveretto. Barry le sa tutte.
Naturalmente i due parlano anche di temi altissimi, perché non si diventa né Barry né Bruce se non si ha la capacità di dissimulare il fatto che si sta sempre e comunque parlando di sé.
Springsteen racconta dei neri che erano a scuola con lui, al tempo stesso discriminati ed emulati, Obama gli cita Fa’ la cosa giusta, quella scena in cui Spike Lee chiede a John Turturro chi siano i suoi preferiti, nello sport Magic Johnson, nel cinema Eddie Murphy, nella musica Turturro prova a dire Bruce, ma Spike Lee gli dice che dev’essere Prince, perché Turturro è un italiano olivastro coi capelli strani, e insomma è più negro di lui.
Speriamo che, per aver mandato l’audio della scena in cui si dice «nigger this, nigger that», Obama non faccia la fine del giornalista del New York Times – ah, no: per licenziarlo dovrebbe avere un lavoro, e invece ha solo della fighezza.
Le puntate sono otto in tutto (usciranno una a settimana, ci toccherà aspettarle come le puntate degli sceneggiati quand’eravamo piccoli). Nella seconda, parlano di Clarence Clemons, di integrazione, di questione razziale. Un discorso che si potrà affrontare, dice Bruce, solo quando si decostruirà il mito della multiculturalità. Se li sentono da sinistra li linciano più di quanto non abbiano già fatto con lo spot della Jeep, quello mandato durante il Super Bowl, quello in cui Bruce diceva che bisogna abbandonare gli opposti estremismi e incontrarsi al centro.
Parlano anche di riparazioni, cioè della scuola di pensiero secondo cui, essendo la ricchezza americana in parte stata costruita sulla fatica non retribuita dei neri ridotti in schiavitù, i pronipoti di quei neri hanno diritto a essere risarciti.
È sempre una questione di classe sociale ben prima che di colore della pelle, Obama l’ha capito meglio di Jay Z, che lunedì ha venduto la sua etichetta di champagne alla multinazionale del lusso LVMH, e ha detto che era un segno di diversity che l’avessero acquisita: la diversity tra un miliardario nero e dei multimiliardari bianchi.
Obama nel podcast dice che le riparazioni non gli sembrano – che non gli sembravano da presidente – un obiettivo conseguibile, in una nazione che non riesce neanche a garantire scuole decenti ai bambini meno fortunati. Tuttavia dice che l’idea è teoricamente giusta, e che quindi è giusto parlarne anche se non è realizzabile. Ma la realizzabilità in politica è tutto, precisa spiegando che non puoi andare dove vuoi andare se non sai da dove parti, se non conosci «le coordinate attuali». «Una cosa che mi ha scioccato di recente è stata capire che le nostre attuali coordinate non erano solide quanto credevo: non credevo di vedere ancora gente coi cappucci bianchi e le torce», risponde Springsteen; e l’altro, spalla comica di gran talento: «Credevi che il nazismo non fosse più materia di dibattito?» «Sì, qualcosa del genere».
Insomma, dice il più figo del mondo che oltreché figo è anche saggio, «Credo che la traiettoria del genere umano vada avanti e verso l’alto, ma non dritta e non costante: si va a zig zag, e si fanno passi indietro».
Sono due star, forse le due più grandi star viventi, eppure si sforzano di sembrare solo due tizi perbene che ragionano sul mondo. Poi, ogni tanto, si ricordano di sé. Per diventare come loro, dice Springsteen all’inizio della conversazione, per credere valga la pena che milioni di persone sentano la tua voce, «Devi avere un bel po’ d’egotismo». Quell’altro lo interrompe correggendolo, conosce sé e quell’altro pollo, e sa che la parola precisa non è egotismo: «Megalomania»