sabato 5 dicembre 2020

Il Nobel Orhan Pamuk: "Il mio nuovo libro sarà sulla peste"

Orhan Pamuk


Il Nobel Orhan Pamuk: "Il mio nuovo libro sarà sulla peste"


A colloquio da Istanbul con il direttore dell'Espresso Marco Damilano, il grande scrittore turco anticipa il tema del prossimo romanzo: la pestilenza che colpì il suo Paese nell'Ottocento. "Durò dieci anni, ma il finale della pandemia attuale è più ottimistico"

di Lara Crinò

24 Novembre 2020

“Sto finendo di scrivere il mio nuovo libro che parla, guardi un po’, proprio di un’epidemia di peste che ha colpito la Turchia alla fine dell’Ottocento ed è durata la bellezza di dieci anni prima che si potesse tornare a una situazione di normalità. Gli antibiotici che servono per combattere la pestilenza sono stati sintetizzati solo a mezzo secolo di distanza. La storia della pandemia del coronavirus avrà spero un finale più ottimistico. Mi pare di aver perso la mia tristezza e adesso credo che abbiamo motivi di ottimismo”. Così il premio Nobel per la letteratura 2006, Orhan Pamuk, anticipa la sua nuova opera letteraria durante il colloquio con Marco Damilano, direttore dell’Espresso, nel corso della prima puntata della nuova serie dei Dialoghi del nostro tempo (a cura di Silvia Barbagallo e della redazione dell'Espresso).

Lo scrittore ha trascorso a New York la prima fase della pandemia e ora si trova a Instabul. Dalla sua casa sul Bosforo ha risposto alle domande di Marco Damilano, riflettendo sul significato profondo della pandemia e su un altro virus politico che è tornato nel nostro tempo: il nazionalismo. Pandemia e nazionalismo hanno in comune la chiusura, l’isolamento, ha notato Damilano: la pandemia ci chiude in casa, il nazionalismo chiude interi popoli all’interno dei propri confini. Che cosa significa questo duplice ritorno del passato? Pamuk ha risposto notando come “la reazione umana a una pandemia, sia la peste, il colera o il coronavirus, è sempre la stessa. Prima c’è la negazione. Poi la domanda: da dove è venuta? Si conclude sempre che è venuta da fuori, si dà la colpa agli influssi internazionali, agli stranieri e ci si richiude in se stessi. In questo senso la pandemia di quest’anno ha spianato la strada ai vari nazionalismi, perché è facile, i nazionalisti sanno che possono accusare chi viene da fuori di aver diffuso la peste o il coronavirus”.

Il mondo ha rallentato ed è successa una cosa inedita:  “Io a marzo ero a insegnare alla Columbia di New York e sono tornato a casa, in Turchia. E così altri amici, che magari insegnano a Parigi. Molti intellettuali, molti studiosi hanno due nazioni. E ora bisogna scegliere: questa impossibilità di viaggiare costringe tutti noi a tornare alla propria radice? Alla fine dei conti tutti noi quando ci sentiamo minacciati cerchiamo di tornare nel luogo in cui ci sentiamo a casa nostra. Dov’è la prima linea per resistere meglio? A casa propria: semplice, indiscutibile. Ma a me il mondo globale, interconnesso com’era, dove si viaggiava tanto, piaceva: lo rivoglio quel mondo e ora intravedo uno spiraglio di speranza”.

Pamuk dichiara che di fronte a un mondo intero invaso dal senso della perdita, ciò che nei suoi libri definisce uzon, lui ha ormai superato la malinconia e guarda con ottimismo a ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi, grazie alla vaccinazione di massa che ci libererebbe un po’ alla volta dal covid. Nel suo celebre Museo dell’Innocenza, per raccontare questa pandemia, sceglierebbe di mettere una mascherina. Un oggetto cruciale, con cui ha avuto inizialmente una relazione problematica. Ora, spiega, “mi sono rassegnato, sono persino contento di portarla”.

REPPUBLICA




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