Pasolini
Sandro Becchetti
Una vita in bianconero
Basterebbe quella foto, unica come tutte ma più unica delle altre, a condensare la magìa dello sguardo e la sensibilità d’autore di Sandro Becchetti. L’immagine è quella, notissima, del viso tormentato e magnetico di un Pier Paolo Pasolini ripreso dietro la copertina del suo “le ceneri di Gramsci”. Basterebbe a farlo entrare nella storia della fotografia italiana se non fosse che, accanto a quella, si snocciolano tutte le altre, quelle dei ritratti dei divi del cinema non solo italiano, del sessantotto e dei successivi nostri anni insanguinati da trame illeggibili e oscure, del terremoto nel Belice, dei baraccati e degli intellettuali.
Becchetti (Roma,1935) è stato un fotografo travagliato e contradditorio nella sua grande passione.
E’ artista prima di diventare, a metà degli anni ’60, fotografo: oggi sono tutti artisti e tutti fotografi contemporaneamente, cosa che esprime una bella differenza, credo. Il linguaggio fotografico lo intriga ma al tempo stesso lo infastidisce. Sandro Becchetti dice che la fotografia racchiude in sé l’inganno del vero, cioè la menzogna, componente essenziale di tutte le verità. E questo atteggiamento, ma sarebbe meglio dire attitudine filosofica, si riflette in immagini che rimandano, come in un gioco di specchi, infiniti interrogativi. I suoi ritratti sono dal taglio deciso, rigorosamente in bianco e nero come tutto il suo lavoro, ma un dettaglio della composizione, la direzione dello sguardo, la lama tagliente della luce aprono su ogni fotogramma nuovi scenari e altre domande. E’ questa la fotografia più intrigante, quella che non si fa bruciare in un attimo, ma ti impegna a riflettere e pensare.
Ho detto che Becchetti è stato fotografo, al passato: non è un errore. Ha lasciato da molti anni la professione per riimmergersi nel mondo più vasto dell’arte, quello dei suoi inizi. Tuttavia il mondo dell’immagine non si è scordato, per fortuna di tutti noi, del suo grande lavoro. Ecco apparire ogni tanto una mostra, come quella qui felicemente presentata, o un libro. A testimonianza che noi ci ricordiamo di lui e lui, sornione e apparentemente distante, di noi che di fotografia lottiamo, amiamo e spesso soffriamo.
Adesso il carattere forte delle sue immagini lo ritroviamo in questo spazio torinese, coraggioso per scelte artistiche non banali. Passiamo da un allucinato ritratto di Joe Dalessandro agli occhi tristi di una Laura Antonelli, forse forieri di una vita già in discesa, da un Carmelo Bene stranito allo splendido Truffaut, dai ritratti dei militanti del movimento ad una lettura, tutta personale, di Cesena.
Il ritratto in sintesi di un fotografo che lascia il segno, l’esatto contrario dello scatto occasionale fatto con l’IPhone senza guardare il soggetto. La coerenza della visione di ieri contro l’impalpabile vacuità dell’oggi.
Mauro Raffini
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