Orient Express
Diario d'affari a Istanbul
Appena tornato dal mio primo viaggio prettamente commerciale, a Istanbul, fatto con la Dyane 4 ancora in rodaggio e in compagnia di Giorgio Mantovani, mi affretto a vendere tutta la merce e a organizzarne subito un secondo. Giorgio ha preferito spendere il ricavato in montagna, a Sestola con Mara, la sua ragazza. Considerando che siamo sotto Natale, sarebbe più logico seguire il suo esempio. Tuttavia, ho intravisto la possibilità di guadagnare bene viaggiando e voglio approfittare del momento favorevole. Il motivo di tanta urgenza è semplice: dopo le feste i negozi smettono di comprare. Questa volta vorrei poter fare un acquisto più consistente, ma ho bisogno di una cifra di cui non dispongo. Dopo avere chiesto inutilmente un prestito a mio padre, faccio il giro dei colleghi odontotecnici nei vari laboratori. A chi mi presta 50.000 lire prometto un pellicciotto di montone in regalo: con tale somma ne posso comprare tre. Racimolo così 720.000 lire, con un milione si acquista un appartamento!
Decido di fare il viaggio in treno con l’Orient Express che passa da Verona e arriva a Istanbul in due giorni; conto di tornare per l’ultimo giorno dell’anno, il 31.12. 1970. Il viaggio (26 Dicembre). Lascio i sedili posteriori dell’auto a Modena, per guadagnare spazio, e la Dyane nel parcheggio della stazione di Verona. Nello scompartimento sono in compagnia di tre ragazzi di Padova, decisi a passar le feste a Istanbul. Da Belgrado sino ad oltre Sofia le rotaie sono sepolte dalla neve e si procede molto lentamente; arriviamo così a Istanbul la mattina del 28, con una notte di ritardo. La permanenza. Alloggio al Pirlanta Hotel, nell’affascinante quartiere di Sultanhamed. Trascorro la giornata in giro per le fabbriche attorno al Bazaar alla ricerca dei capi più belli, con la solita contrattazione sui prezzi. Saper negoziare è indispensabile da queste parti, per essere rispettati. Il ‘boss’ Doan insiste perché concluda affari con lui, ma la sua merce è scadente. Mi faccio così un antipatico nemico. Al tramonto incontro Nedim con dei ragazzi triestini e passiamo una serata particolarmente piacevole ed allegra in un tipico ristorantino nei pressi dell’albergo. Il giorno dopo i due triestini mi seguono incuriositi dal mio metodo levantino di combinare affari. Incontriamo il frenetico ma attento Yalcin, che mi conduce nella fabbrica degli armeni, dietro al Pudding Shop e, finalmente, trovo ciò che cercavo. Sono sheepskin, pellicciotti di colore marrone scuro o grigio a tinta unita senza ricami, ben conciati, senza odore, ed imbottiti da un bel pelo lungo e soffice. Il prezzo è più alto, ma adeguato alla qualità. Li faccio indossare al mite Yildiz, li esamino accuratamente e scelgo i migliori. Posso comperarne 36 e, con l’aiuto dei fratelli armeni, confezioniamo tre enormi pacchi da 12 pezzi l’uno. Il ritorno (30 Dicembre). In mattinata porto i pacchi alla stazione; Yalcin e i triestini mi accompagnano per darmi una mano, tutti accalcati in un unico taxi.
Al cancello d’ingresso ai binari il controllore non vuole far passare i cartoni, tuttavia, dopo una breve contrattazione e un piccolo obolo il blocco è superato. A disposizione dei viaggiatori europei una sola carrozza senza cuccette. Metto i grossi pacchi sulla rastrelliera portabagagli di tre scompartimenti diversi, poi saluto l’amico Yalcin, che non vuole attendere la partenza perché si commuove, e resto con i ragazzi di Trieste sino a che il treno si muove. Il “vagone europeo” è pieno di freak stravolti di ritorno dall’Oriente, ed è probabilmente questo il motivo per il quale noi siamo accalcati in un’unica carrozza, mentre le altre, riservate ai turchi, sono semivuote: una sorta di apartheid. Giro per i tre scompartimenti nei quali ho depositato i pacchi e le persone con le quali lego subito sono due olandesi provenienti dall’Afganistan, intenti a rollare joint (“canne”) senza sosta; nell’altro scompartimento chiacchiero con una coppia di francesi, appena più lucidi degli olandesi e con un marinaio di Genova che, per qualche strano motivo ha lasciato la nave in Turchia, mentre nello scompartimento successivo trovo una giovane donna greca ed uno studente somalo che parla italiano.
Col buio le conversazioni nel vagone diminuiscono d’intensità e ha inizio il sonno collettivo; comincia l’intreccio di gambe alla ricerca di un proprio spazio per la notte. Vado in perlustrazione nella carrozza posteriore e scopro che è incredibilmente vuota. Meravigliato e felice per avere trovato tanto posto a disposizione, mi sdraio sul sedile del primo scompartimento con l’intenzione di rilassarmi un po’, ma la stanchezza e il dondolio del treno fanno il resto: mi addormento profondamente. Mi sveglio di soprassalto, il treno è fermo e intravedo la stazione di un paesino scarsamente illuminato. Assonnato e stanco mi rimetto a dormire tranquillo. Dopo un’ora o forse più, mi risveglio ed il treno è di nuovo fermo. Mi affaccio e vedo lo stesso tetro paesino di prima. Colto da un atroce sospetto, scatto in piedi e faccio per ritornare nella carrozza ‘europea’, ma il treno non c’è più, è sparito!? Il vagone nel quale mi trovo giace abbandonato tra i binari di questa sconosciuta località.
Al pensiero che la mia merce stia viaggiando da sola, diretta chissà dove, vengo colto da un fremito di terrore. Raggiungo il piccolo ufficio nella baracca che funge da stazione e, senza bussare, entro esagitato chiedendo: “Dov’è il treno?”. L’impiegato che sta scrivendo mi risponde seccato per essere stato aggredito senza garbo: “Quale treno”, come per dire “che accidenti vuoi?”. “Il treno, quello di quel vagone laggiù”, soggiungo, indicando col dito. Mi spiega con forzata calma che quel vagone è stato staccato ad Edirne un paio d’ore prima e portato qui da una locomotiva e aggiunge: “Il treno ora è in Bulgaria”. “E qui dove siamo?”, insisto. Mi indica una vecchia mappa della zona attaccata alla parete in legno. Sono in un punto cieco, un deposito sperduto al confine con la Grecia. Da qui non c’è nessun mezzo per Edirne; l’unica possibilità è l’autobus delle sei che parte dal villaggio distante cinque chilometri. Ora sono quasi le cinque, fa freddo e tira un vento boia. Continuo a distogliere l’impiegato con domande incalzanti, gli chiedo se c’è qualcuno con la macchina, se posso telefonare qui e là, sino a quando non mi dice in modo fermo e inequivocabile di lasciarlo in pace, invitandomi a uscire dall’ufficio.
Appena fuori, trovo un altro impiegato che mi indica la via da seguire per il paese e mi consiglia di chiedere aiuto presso un convento di preti europei che si trova poco più avanti. Lo stradone è in terra battuta, trasformato in pantano dalla pioggia del giorno prima: non c'è illuminazione, il cielo è coperto e non vedo neppure dove metto i piedi, che troppo spesso affondano in buche piene d’acqua. Trovo il convento, sopra la porta c’è una lampadina molto flebile, sorretta da un piatto in metallo che col vento sbatte ad intervalli regolari contro il muro; l’atmosfera è quella lugubre, tipica dei Balcani. Busso, urlo, fischio, faccio più rumore possibile, ma nessuno sembra udirmi, così mi rassegno a fare la strada a piedi, a tratti anche di corsa, per non arrivare tardi. Arrivo al paese proprio quando l’autobus sta per partire. Spunta l’alba. Il veicolo pare fermo tanto è lento: ho in testa i tempi del ritardo rispetto al treno e vorrei poter volare.
Finalmente sono a Edirne, dove la notte scorsa è avvenuto il distacco del vagone. Possiedo solo delle monete italiane, le banche sono ancora chiuse e non ho nessuna intenzione di attendere immobile la loro apertura, ma per raggiungere il confine, distante 18 chilometri, occorre un taxi. Salgo su di un taxi, spiego che è importante per me raggiungere il confine e che posso pagare solo con lire italiane, ma l’uomo non accetta. Ripeto la storia con qualche modifica ad un secondo taxista, ma non funziona ugualmente, così salgo deciso su un terzo taxi, posteggiato nell’angolo opposto della piazza, e ordino: “frontiera”. Il driver avvia il motore, magari convinto che, siccome non ho neanche contrattato sul prezzo, com’è d’uso, non bado a spese. Strada facendo gli racconto il motivo della mia fretta per vedere di coinvolgerlo e prepararlo al colpo. Mi faccio portare fino alle sbarre, scendo, gli metto in mano 700 lire di metallo più alcune lire turche e, mentre attraverso il confine, sorridendo gli dico: “mi spiace, ho solo questi, fatteli cambiare, sono buoni”. Mi guarda perplesso, mi chiama con un debole fischio, ma non è arrabbiato. Mi volto e gli urlo: “te li porto la prossima volta”, lui li conta e va via rassegnato. Bravo taxista, in certi momenti si ha bisogno di comprensione e nient’altro. L’inseguimento (31 Dicembre).
Entro alla dogana turca, qui mi dicono che i bulgari non fanno passare nessuno a piedi, allora chiedo di fare un salto all’ufficio immigrazione della Bulgaria per ottenere il permesso di transitare in autostop, vista l’eccezionalità del caso. Qui spiego, per l’ennesima volta, l’accaduto, ma poiché per dire “sì” muovono la testa in senso orizzontale e per dire “no” in verticale, in modo opposto al nostro, facciamo parecchia fatica a capirci. Una volta afferrato il problema, i funzionari prendono in mano la situazione con la pesante lentezza burocratica che li contraddistingue. Suggerisco di telefonare alla stazione di Sofia, di spiegare la faccenda e far scaricare i pacchi, cosicché io possa raggiungerli. Di malavoglia, compongono un numero della capitale e cominciano a fare delle urla incredibili alla cornetta, ma non si capiscono, mentre mi osservano terribilmente infastiditi, come se fossi uno da bastonare prima e mettere in galera poi, colpevole di obbligarli a lavorare. Ben presto si stancano e se ne lavano le mani. Decidono di accompagnarmi alla stazione di Svilengrad, distante 13 chilometri e mettermi sul treno, poiché è proibito chiedere passaggi alle auto. Cambio i soldi e mi chiamano un taxi; i militari ci seguono in camionetta.
Giunti alla stazione mi ‘scaldo’ di nuovo cercando di spiegare che in questo modo non potrò mai raggiungere il “mio treno”, che mi precede ormai da cinque ore, così i funzionari locali riprendono in mano il telefono e ripetono la scena di poco prima: tante urla e nessun risultato. Mi viene in mente la rete telefonica del Cairo fatta dai sovietici, certamente identica a quella bulgara, coi cavi ricoperti in gomma e perciò completamente erosi dai topi e quindi fortemente deficitaria. Mi obbligano ad acquistare il biglietto fino a Sofia e infine tre poliziotti altezzosi mi accompagnano al treno e se ne vanno. Siegfried il Magnifico. Salgo da una parte del treno e scendo dall’altra, quasi subito. Faccio un giro lunghissimo per evitare di essere visto ed esco dalla stazione. Cammino poi per un paio di chilometri in direzione opposta al confine, in modo che la camionetta di scorta non possa incrociarmi. Di automobili ne passano pochissime, una ogni 15-20 minuti e sono sempre stracariche di gente, ma è l’unico mezzo col quale possa sperare di raggiungere quel carico acquistato con soldi non miei.
Dopo quasi un’ora, passa un maggiolino Volkswagen con targa tedesca, l’autista mi sorpassa, stagna, ingrana la retromarcia, chiede dove vado e mi fa salire. Gli domando subito dov’è diretto: “Munchen”. Colpo di fortuna insperato. Gli racconto la mia storia e gli propongo uno scambio: se accetta di andare sparato fino a raggiungere l’Orient Express gli pago la benzina. Siegfried è felice di accettare, anzi, gasato com’è, prende la cosa talmente a cuore che, quando attraversiamo i paesini, non rallenta l’andatura, anzi fa addirittura cigolare le gomme nelle curve. Siegfried abita a Monaco di Baviera, dove gestisce una boutique di moda. E’ un ragazzo semplice, alto, biondo ed estroverso, come può esserlo un suonatore di piatti di una fanfara, e anche un tantino bizzarro: è andato ad Istanbul con gli sci sul portapacchi perché, sulla strada del ritorno, finge di essere stato a sciare in Austria e spera così di evitare il controllo doganale sui cinque soprabiti di pelle acquistati in Turchia. Immagino la scena coi doganieri tedeschi e lui pare divertirsi di gusto: “Lei finge di essere stato a sciare, lei viene dalla Turchia, tutti quelli che hanno gli sci vengono dalla Turchia!”.
Attraversiamo con la solita spinta un altro centro abitato; sulla strada principale c’è un fuggi fuggi generale e, ad una curva, è costretto a frenare di colpo per evitare d’investire una coppia d’anziani. La gente coglie l’occasione per maledirci alzando le braccia, ma Siegfried riparte subito facendo stridere le gomme. Nell’ultima curva, all’uscita del medesimo paese, il tedesco “sbaglia un ponte” e finiamo giù per l’argine sassoso del fiume con le ruote anteriori nell’acqua. Senza fiatare, inserisce la retromarcia e risale l’argine fino a tornare sull’asfalto. Da un lato gli sono grato per la solerzia, dall’altro rimango perplesso, tuttavia, nel mio caso specifico meglio di così non poteva andare. Arriviamo a Sofia che il treno è già passato, ma nessuno sa dirci da quando. Qui Siegfried si distrae un po’ e rivela una natura da playboy poiché si mette alla ricerca di una ragazza che ha conosciuto l’anno prima, della quale, però, non ricorda l’indirizzo. Naturalmente per me è solo una perdita di tempo. Mi mostra la foto della sua ragazza di Monaco, che lui considera bellissima.
Andiamo poi in un ufficio del centro, dove dovrebbero essere informati sul “nostro treno”. Per accattivarsi la simpatia dell’impiegato mostra pure a lui la foto della sua ragazza; il bulgaro lo guarda preoccupato e ci manda da una giovane impiegata. In sua presenza Siegfried, anziché sedersi sulla sedia, si appoggia mollemente nell’angolo della scrivania sfoderando tutto il suo fascino in modo plateale: una scena comune nei film di Hollywood, proibiti in Bulgaria. Fa questo per mostrarmi che ci sa fare. Apprendiamo che purtroppo il treno è ormai in Jugoslavia; facciamo il pieno e ripartiamo per il nostro folle inseguimento. Anche alla dogana bulgara Siegfried estrae la foto della fidanzata e la mostra ai funzionari: ormai è una prassi quasi d’obbligo. Giunti a Belgrado, nell’ufficio del capostazione ci dicono che il treno è già partito. Arriviamo a Zagabria attorno alle 20, la stazione è grande ed affollata ovunque. Chiediamo in giro, ma Siegfried ha sempre quella foto tra le mani e la gente non capisce se cerchiamo un treno o una ragazza. Alcuni controllori dicono che il treno è già partito, altri che è ancora in stazione, ma non sanno dove.
Nel binario prestabilito c’è un altro treno. Siegfried vuole convincermi ad andare assieme fino a Lubiana per anticiparlo; mi metto invece a discutere con uno studente giordano di Irbid che, con calma e metodo, ci aiuta a trovare il treno in sosta in un binario diverso da quello indicato nel tabellone. Salgo ansioso sul “vagone europeo”: i pacchi sono là, intatti, al loro posto. Avere superato dogane così fiscali senza la presenza di un proprietario ha del miracoloso. I francesi sono i primi a vedermi e, stupiti, mi chiedono dove sono stato, preoccupati per la mia misteriosa scomparsa. Scendo a salutare Siegfried, che appare quasi dispiaciuto di perdere la compagnia. Mi dà il suo indirizzo e vuole il mio; dice di andarlo a trovare che è pieno di donne, così mi farà conoscere anche la sua ragazza! Il treno riparte, i francesi e gli olandesi, che prima non si parlavano, ora giocano a carte assieme, gli altri, invece, stanno sempre per conto proprio. Il viaggio prosegue tranquillo fino a quando il marinaio genovese, che ha molta voglia di fare lo spiritoso, entra nello scompartimento della giovane donna greca e, approfittando della sua incredibile timidezza, cerca di toccarla. Il somalo e io assistiamo alla scena interdetti. Lo accusiamo di essere una bestia, poi il somalo si siede accanto a lei quasi per proteggerla.
A Lubiana, i due decidono di scendere, sembrano essersi affezionati. Ormai siamo in prossimità della frontiera italiana e sorge il problema della dogana, che vorrei eludere per evitare la spesa e per le lungaggini burocratiche, dal momento che mi obbligherebbero a scendere e attendere l’apertura degli uffici. Chiedo ai francesi se possono dichiarare che i pacchi appartengono a loro che sono in transito verso la Francia, ma, giustamente, rifiutano perché temono che glieli segnino sul passaporto. Arriviamo a Trieste che è quasi mezzanotte. E’ Capodanno e il servizio di vigilanza è ridotto al minimo. Il doganiere ha talmente poca voglia di lavorare che non si accorge, o non vuole accorgersi, dell’esistenza dei tre mastodontici pacchi ed io così passo senza problemi. In prossimità di Verona preparo i cartoni nel corridoio e nella breve sosta alla stazione chiamo un facchino, che mi rimprovera perché secondo lui non si può viaggiare con pacchi tanto ingombranti. La strada è ghiacciata e dopo qualche slittata arrivo a casa di Siria, che mi sta aspettando per festeggiare assieme l’anno nuovo. L’iniziazione. Da allora, per due anni ogni quaranta giorni andavo a Istanbul: duemila chilometri andare e duemila a tornare, sempre con indicibili complicazioni d’ogni genere da risolvere, ma ancora oggi traggo beneficio da quei commerci.
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