giovedì 26 ottobre 2017

IT, il festival del teatro indipendente / Il teatro danza e le opere totali


IT, il festival del teatro indipendente

Il teatro danza e le opere totali

2 LUGLIO 2014, 
FRANCO ROMANÒ
La Fabbrica del vapore, a Milano, è un vasto complesso di palazzine industriali, basse e lunghe, distribuite a rettangolo intorno a un ampio cortile interno. Furono costruite alla fine del diciannovesimo secolo ed erano la sede dalla Ditta Carminati, che produceva materiale per la costruzione di ferrovie e tranvie. Il processo di deindustrializzazione ha fatto di quest'area uno dei tanti non luoghi che si formano all'interno delle grandi città europee, vere e proprie voragini aperte nel tessuto urbano, spesso riempite dalla speculazione edilizia. Non in questo caso, fortunatamente, perché l'area è stata bonificata ed è diventata la sede di un progetto giovani che ha visto il coinvolgimento di istituzioni pubbliche e private, divenendo un luogo di produzione artistica, di allestimento di mostre e altro.
È in questo complesso di edifici che si è svolta la seconda edizione di Itfestival, nei giorni 2,3 e 4 maggio scorsi. La rassegna ha confermato che nel teatro italiano, oltre che nel cinema, qualcosa di buono continua a muoversi, a crearsi e a ricrearsi e che vi è un fermento di giovani, un proliferare di compagnie e iniziative che si muovono in controtendenza rispetto ad altri settori artistici. L'idea nacque, come recita l'opuscolo di presentazione del programma di quest'anno, “da un gruppo di artisti e organizzatori che ha avuto la voglia di provare a dare visibilità al mondo dell'underground teatrale milanese.”
Gestito dall'associazione IT che sta per Indipendent Theatre il festival ha visto la partecipazione di 100 compagnie per un coinvolgimento di 450 persone che hanno dato vita a una tre giorni molto intensa di spettacoli che si avvicendavano dalle ore 18 fino a mezzanotte. Le serate si concludevano sempre con un confronto finale cui partecipavano autori, critici e pubblico: una specie di microfono aperto che costituiva pure un momento di critica estemporanea e di confronto, sempre assai stimolanti. Gli spettacoli erano distribuiti in molte sale, il biglietto di 5 euro copriva l'intera programmazione di una serata.
Gli elementi maggiormente caratterizzanti sono stati a mio avviso tre, di cui il primo e cioè il coinvolgimento di operatori e addetti al lavoro, era presente anche nella prima edizione. Diversamente dal secondo e cioè un originale modo di fare critica teatrale; infine, la scelta di mettere in scena lavori che non andassero oltre i venti minuti. La presenza degli operatori ha sgomberato il campo da un rischio: quello di una passerella che desse visibilità al lavoro artistico delle compagne, ma senza nessuno sbocco possibile, oltre la rassegna stessa. Per gli artisti coinvolti, invece, è stato un momento di primo confronto con il pubblico, ma anche di possibilità di uscire dal circuito dell'underground. La scelta di corti teatrali, obbligata per allargare il numero delle presenze e delle proposte, ha una tradizione di tutto rispetto (si pensi alle fulminanti commedie in poche battute dei Achille Campanile) e viene rilanciata oggi sempre di più, anche ragioni di bilancio.
Infine la critica, coinvolta anche in passato, ma cui quest'anno si chiedeva di lavorare su due piani diversi. Una prima recensione dello spettacolo appena visto, di non più di cento parole, veniva inviata subito, per mezzo di cellulari, alla redazione, che provvedeva a inserirla nel sito della rassegna. Tale scritto orientava il pubblico che non aveva ancora visto la rappresentazione, in attesa della replica. A fine serata, i critici venivano invitati a produrre, entro il mezzogiorno successivo, due recensioni più ampie (2000 battute), dedicate ai due lavori che avevano maggiormente apprezzato. Pubblico e operatori che vogliano ancora oggi visitare il sito di IT trovano un ampio ventaglio di riflessioni critiche e possono farsi un'idea della rassegna.

Dal teatro danza al teatro di parola, fino all'opera totale

La scelta compiuta dagli organizzatori non ha privilegiato alcuna poetica teatrale, ma lasciato spazio a ogni genere. Tuttavia, un'analisi dettagliata del programma, mi induce a considerazioni intorno ad alcune tendenze. Prima di tutto la forte presenza di un teatro di parola, in alcuni casi di classici del secondo '900 come Il calapranzi di Pinter e Le serve di Jean Genet, oppure ispirati da testi letterari come Animal Farm di Orwell o addirittura dalla poesia di Andrea Zanzotto e Amelia Rosselli. Per chi scrive è una buona notizia che anche compagnie giovani si rivolgano a questo genere di teatro, spesso con esiti felici; in particolare alcuni lavori comici al femminile, capaci di drammatizzare la condizione sociale delle donne, oppure di mettere alla berlina pregiudizi e cliché, ma anche di prendersi in giro (Barbie è mortaTra mozziconi e reggiseni).
Tutto ciò che non aveva al centro la parola lo dividerei in due grandi categorie: teatro danza e opere totali. Chiarisco subito che l'uso di questi due termini è mio e non degli organizzatori che usano invece la parola inglese body per indicare i lavori teatrali con una forte presenza del movimento corporeo, mentre il secondo termine non compare in alcuna forma. Eppure, non saprei come definire diversamente lavori in cui l'interazione fra espressioni artistiche diverse come musica, video, danza e addirittura il computer, talvolta con esiti notevoli come per We BulliDarkroomMi e ti, era il dato stilistico saliente.
I temi più fortemente presenti, al netto di alcuni lavori onirici e visionari, come Arie di carta, giravano intorno alle difficili relazioni fra i generi, il degrado della vita sociale osservato e indagato spesso con le lenti del grottesco. Il linguaggio dei testi privilegiava la presa diretta, il registro colloquiale più comune oppure rifaceva il verso agli stereotipi televisivi o a quelli frequenti nelle comunicazioni nel social network. Il corto circuito fra realtà virtuale e reale è stato particolarmente felice in alcuni casi, come il già citato We Bulli. La cronaca è stata un'altra fonte ispiratrice per molti lavori, mentre la crisi economica e morale italiana entrava di striscio in alcune rappresentazioni, ma soltanto Darkroom (fra gli spettacoli che ho potuto seguire) mi è parso convincente nel trattarne tutti gli aspetti, mescolando abilmente reale e surreale.
Il tipo di rassegna non si prestava a invenzioni registiche di particolare interesse: gli spazi utilizzati erano più adatti in generale a una mise en scene piuttosto che a una rappresentazione vera e proprio e il rapido avvicendarsi delle compagnie non consentiva l'allestimento di macchine teatrali complesse. Eppure, in alcuni casi come in Mi e ti e alcuni altri lavori già citati, tale vincolo non è parso un limite, ma una risorsa. Non è un caso che si tratta di testi pensati ad hoc per il festival, oppure preesistenti, ma scritti e pensati per una durata di venti minuti. Sono apparsi meno convincenti in generale quei lavori che erano una via di mezzo fra il promo di una rappresentazione più ampia, oppure la riduzione a venti minuti di spettacoli più lunghi. Infine gli interpreti. La natura del festival non permetteva a chi si occupava di critica di vedere se non una porzione limitata di spettacoli, ma a meno di essere stato particolarmente fortunato, le prestazioni fornite degli attori sono state l'aspetto più convincente perché assai omogeneo nel livello, dell'intera rassegna.


Un bilancio complessivo

Il Festival è stato un indubbio successo, testimoniato anche dall'attribuzione del Premio-Hystrio-Provincia di Milano, proprio a IT Festival e alla Compagnia Teatrale FavolaFolle. Chiedo a Maddalena Giovannelli, che ha coordinato il lavoro della redazione critica, qualche lume in più sui programmi futuri:

“Mi pare che l'idea di continuare ci sia senz'altro!” risponde prontamente Giovannelli e conclude: “si tratta solo di riflettere sulle modalità: ma per questo immagino ci sarà uno spazio di riflessione da settembre.”
Naturalmente, come tutto, si può migliorare e ben venga una riflessione comune. Per chi si è occupato di critica, per esempio, non è stato facile confrontarsi con lavori così diversi in una stessa serata, dal momento che valutare uno spettacolo completo, pur nel limite dei venti minuti, è assai diverso che esprimersi su un promo, oppure su lavori che erano più vicini al cabaret che al teatro, o video che presentavano degli spettacoli piuttosto che rappresentarli. Forse, un'attenzione maggiore a questo aspetto va presa in considerazione; anche un giorno in più di festival, senza però alzare il numero delle rappresentazioni, potrebbe aiutare a seguire meglio il tutto. Il valore del festival, tuttavia, va anche messo in relazione con lo stato del teatro e in generale del modo in cui viene trattata la produzione culturale nell'Italia odierna.
Questo tema è stato largamente trattato nei dibattiti serali. Il festival, come ha più volte sottolineato Arianna Bianchi, fra le responsabili dell'intero progetto, è nato anche dall'esigenza di “fare rete” in una situazione di difficoltà che è comune non solo a compagnie teatrali, ma anche a orchestre e artisti singoli. È su questo che si sofferma la riflessione di Bianchi, che infatti così prosegue:

“Proseguiamo l'anno prossimo con l'idea di fare meglio, con la speranza di avere al nostro fianco un sostegno comunale più solido e con la voglia di creare un evento ancor più coinvolgente tanto sotto il profilo della proposta artistica, quanto dal punto di vista dell'impatto sulla città (e in ottica Expo, il tema del rapporto con Milano e con la cittadinanza diviene particolarmente sensibile). A dire la verità, i lavori alla prossima edizione sono già cominciati, e con entusiasmo! E bisogna ammettere che la recente vittoria del Premio Hystrio ha contribuito ha consolidare il buonumore e la spinta all'operosità!
L'accenno al sostegno comunale è un passaggio chiave. Guardando alla situazione nel suo complesso, abbiamo da un lato le grandi istituzioni che sono una specie di area blindata, un bunker che arranca anch'esso sotto il peso di tagli di spesa e mancanza di investimenti, ma che anche in tempi migliori non sempre ha svolto il ruolo di filtro necessario a favorire l'ingresso di compagnie giovani e testi contemporanei; dall'altro un proliferare caotico, magmatico, fatto di attori che escono da accademie e scuole, compagnie che nascono e cercano di farsi largo fra le mille difficoltà. Quello che manca è un livello intermedio fra la grande istituzione e tutto questo. Il festival è un pezzo di tale cammino che però deve prevederne altri.


Ciò che serve non è sempre e solo il denaro, gli investimenti possono essere di altra natura: per esempio, mettere a disposizione spazi inutilizzati e degradati senza oneri generali per un lasso di tempo ragionevole, in cambio del loro risanamento, lasciando poi a chi lo fa di autogestirsi e rendersi autonomo anche da un punto di vista economico. In altri paesi europei tutto questo è largamente praticato. Anche i privati però possono avere un ruolo se per esempio verranno introdotte norme chiare sulla defiscalizzazione degli investimenti in campo culturale: così come sarebbe opportuno capire che finanziare con cifre anche modeste un gruppo di giovani che vuole fare e ha i titoli per farlo, è più conveniente a lungo termine, che spendere cifre ingenti per una solo grande evento prestigioso. Alcune iniziative più spontanee tuttavia, sono altrettanto apprezzabili: per esempio la diffusione di concerti e spettacoli che si tengono in spazi domestici.
Infine, il ruolo degli artisti che non possono sempre accontentarsi della cosiddetta visibilità. Il principio che l'artista come qualunque altro lavoratore della cultura debba essere pagato, va difeso anche da loro, da un lato; dall'altro, diventare imprenditori di se stessi, o meglio autonomi gestori della propria creatività, è altrettanto necessario.



domenica 22 ottobre 2017

Man Booker Prize a George Saunders

George Saunders


Man Booker Prize a George Saunders

Lo scrittore americano si aggiudica il più prestigioso riconoscimento letterario inglese con il romanzo «Lincoln nel Bardo» (Feltrinelli)

17 ottobre 2017 (modifica il 19 ottobre 2017 | 21:19)

George Saunders è il vincitore del Man Booker Prize 2017, il secondo scrittore americano — dopo Paul Beatty, vincitore della scorsa edizione — ad aggiudicarsi il più importante riconoscimento anglosassone dedicato agli autori di libri in lingua inglese (quindi anche americani) pubblicati nel Regno Unito. L’autore, celebre per le sue raccolte di racconti, ha vinto il premio con il primo romanzo Lincoln nel Bardo (edito in Italia da Feltrinelli).


Il vincitore del Man Booker Prize 2017 George Saunders, secondo da sinistra, con la duchessa di Cornovaglia Camilla
(Foto Chris Jackson)


Gli altri cinque finalisti del premio, che prevede per il vincitore una somma di 50 mila sterline (circa 55 mila euro), sono stati annunciati attraverso una shortlist lo scorso 13 settembre. Tra questi Paul Auster con il romanzo 4321(pubblicato in Italia da Einaudi), Mohsin Hamid con Exit West (Einaudi), Ali Smith con Autumn (il suo ultimo libro uscito in Italia è L’una e l’altrapubblicato da Sur), e due autrici al debutto letterario, Emily Fridlund con il romanzo History of Wolves e Fiona Mozley con Elmet.

CORRIERE DELLA SERA







sabato 21 ottobre 2017

George Saunders esplora i legami Il padre, il figlio e il dolore dell’addio


George Saunders esplora i legami
Il padre, il figlio e il dolore dell’addio

L’opera ha consacrato lo scrittore texano come un grande della letteratura americana
La veglia del presidente Usa sulla salma del bimbo, prima che l’anima voli verso l’aldilà

Marco Missiroli
20 agosto 2017 (modifica il 29 agosto 2017 | 21:14)


Un padre, e suo figlio. Un padre disperato, presidente degli Stati Uniti, e suo figlio che muore a undici anni e si trova confinato in un purgatorio. È questo, Lincoln nel Bardo (Feltrinelli), il romanzo di George Saunders che consacra l’autore statunitense come uno dei grandi della letteratura contemporanea. Leggerlo è lasciare questa terra, approdando in una landa di mezzo — il Bardo secondo la filosofia tibetana — in cui le anime transitano finché si è pronti a distaccarsi dal mondo dei vivi.

Saunders ha scritto la sua meraviglia, permettendo al lettore un viaggio verso Abramo Lincoln, l’uomo privato, e Willie, il suo ragazzo che è già un ometto saggio e un punto di riferimento per tutti. Il rischio sarebbe stato un romanzo storico su una vicenda conosciuta, invece l’autore texano fa qualcosa di eccezionale: «scompone» la narrazione in più voci — i due protagonisti e le altre presenze del Bardo — ricostruendo i fatti e l’amore invisibile. Il risultato è un mosaico di testimonianze che aiutano Willie nel trapasso, mettendosi al servizio di Abramo attraverso piccoli segni che fanno arrivare ai vivi. Un romanzo corale, dunque, che unisce per l’ultima volta un papà e la sua creatura. Non è una Spoon River, nemmeno un esperimento drammaturgico, è qualcosa di indefinibile e l’effetto finale è la rivelazione sentimentale: siamo i padri e siamo i figli, siamo il loro legame.

Negli Stati Uniti il romanzo è stato accolto come un capolavoro, George Saunders prima di scriverlo l’ha pensato per venti anni, «cercando di evitarlo. Negli anni Novanta avevo sentito un aneddoto su Lincoln, colpito dal dolore per il lutto, che era entrato nella cripta di suo figlio e, a quanto pare, aveva abbracciato il suo corpo. Il materiale mi spaventava — soprattutto mi sembrava che richiedesse di essere trattato con molta serietà. Così, ho continuato a rimandare. Un giorno del 2012 — avevo appena finito Dieci dicembre e stavo aspettando che uscisse — ho pensato che voltarmi dall’altra parte sarebbe stato come una specie di resa artistica. Così mi sono detto, “Oh, che cavolo, un po’ di cose le ho fatte. Se fallisco in questa, chi se ne importa?”».

La sfida di Saunders era trovare una forma che riverberasse la freschezza della vita, che spazzasse via la noia e desse verosimiglianza. Ce l’ha fatta, dopo qualche pagina di spaesamento, il lettore va incontro a una epifania narrativa e a una discesa nelle profondità dell’animo. È un libro pregno di simbolismi e di prospettive orientali, gli studi sul buddhismo di Saunders lo hanno condizionato anche nell’immaginare il Bardo come incipit di tutto: «Era un punto di partenza. Adoro l’idea, per esempio, che qualsiasi cosa saremo nella morte somiglierà a chi siamo adesso e che l’attaccamento ci possa precludere l’ingresso in Paradiso, magari che il nostro pensiero e i nostri processi attuali s’ingigantiscano dopo la morte. (Beh, non è che io ami quest’idea, ma mi sembra interessante — e terrificante —). Da questo punto di vista sono partito da alcune idee tibetane di base ma poi ho osservato il testo stesso per capire che tipo di luogo voleva essere. In questo senso, era molto simile a scrivere una storia di fantascienza. Le regole interessanti non sono quelle che uno pensa all’inizio, ma quelle che si rivelano via via che si scrive. E si rivelano attraverso le azioni e le conseguenze».

Lincoln nel Bardo è un canto alla vita, dedicato alle sue imprevedibilità, anche per il narratore che l’ha scritto. «Era tutto molto misterioso e meraviglioso: i personaggi finivano improvvisamente in situazioni in cui dovevano decidere se restare egoisti o crescere. E continuavano a decidere di crescere, non necessariamente perché lo volevo io, ma perché era più drammatico, più vivo. E allora... li ho lasciati fare». In che modo li abbia lasciati fare è un altro capitolo importante di come lavora questo scrittore che cambia ogni volta la sua officina narrativa: «Scrivere Lincoln nel Bardo è stata sinceramente un’esperienza molto bella — avevo sentito gli scrittori dire che i loro libri si scrivevano da soli e così via, e pensavo fosse tutto assurdo. Ma in questo caso, tutte le mattine io mi avviavo un po’ pigramente verso la rimessa in cui scrivo e una volta arrivato... succedeva qualcosa di potente. Niente di mistico, ma mi ritrovavo ad avere opinioni molto forti e mi muovevo con certezza, sapendo sempre (beh, quasi sempre) se una cosa era buona o cattiva. Non era proprio come “scrivere sotto dettatura”, ma non avevo molte incertezze, né mi capitava di perdermi lungo la strada. Sapevo cosa mi piaceva — credo di poterlo dire così — e questo rendeva la scrittura molto divertente».

Come per Dieci dicembre (edito in Italia da minimum fax nel 2013), Saunders ha messo al servizio della storia un modo di sentire diverso, sia dei personaggi sia del narratore, innescando un meccanismo unico. Qui si nota la formazione scientifica dell’autore texano, che cuce sapientemente la matematica del plot e le sommosse dell’anima. La commozione è il sintomo di questo libro, che è anche ironico, sfrontato, ma che non dimentica mai la lacerazione tra un figlio e un padre. Per essere più realista possibile, Saunders si è documentato su alcune fonti del tempo, risalendo a dichiarazioni dell’entourage di Lincoln riguardo al lutto del presidente. Lo stesso è avvenuto per ritrarre il bambino, «un piccino tanto bravo, quasi saggio», che colpì anche Napoleone III in visita alla Casa Bianca. È l’esigenza di essere fedele alla Storia durante la lotta più feroce: l’accettazione della morte. Di più: l’inferno della mancanza. Qui Willie diventa genitore del genitore, padre mio, non piangere, sono qui accanto a te. La preghiera è soltanto questa e traccia un bivio per tutti, dimenticare chi non c’è più o farlo vivere in noi. Saunders va oltre, e indaga lo spazio e il tempo oltre la perdita. Si parla di fantasmi? Mai e poi mai. Si parla di noi.

George Saunders


È il senso di divertimento che scalfisce i personaggi, anche dopo il trapasso rimangono impertinenti e terreni, sempre poetici. Come se Saunders avesse scoperto sì una nuova forma del racconto, ma anche una nuova consapevolezza di chi racconta. «Qualche volta paragono lo scrittore a un giocoliere che costruisce i suoi birilli per poi lanciarli in aria. La seconda parte di una storia consiste nel ricordare quali birilli abbiamo lanciato e poi riprenderli, con un po’ di fantasia. Con questo libro mi sembrava che i birilli si moltiplicassero in aria: quelli che venivano giù erano molti di più di quelli che io avevo lanciato. E quando arrivava il momento di riprenderli, sembrava che a me crescessero nuove mani».


Saunders giocoliere di una nuova narrativa e al tempo stesso di una materia classica. Il risultato è un’acrobazia che gli riesce senza timori, completando un percorso iniziato assieme a David Foster Wallace e Jonathan Franzen, assolvendo tutti insieme a un imperativo crudele: scrivi di ciò che ti spaventa. I legami umani interrotti, elemosinati, le persone che inventano nuovi codici per stare insieme. È vincere la morte, in fondo a tutto. Come la disperazione di Abramo Lincoln, non il presidente, non il politico, non il padre di famiglia, solo l’uomo che un giorno di febbraio del 1862 si fa aprire la cripta dove il corpo del figlio giace, imbalsamato come si usava allora. È notte e Lincoln ha appena realizzato ciò che è accaduto, vuole vedere un’ultima volta il suo bambino. Willie ha la pelle chiara come la luna e il volto che riposa. È pronto a lasciarlo andare? Non lo sarà mai. Ma adesso ha la sua preghiera: sperare che il proprio amore guiderà il figlio nella terra del trapasso. Non sa — e qui Saunders compie la letteratura — che è il figlio a condurre il suo papà, anche adesso, nella penombra della cripta. Lincoln si sente perduto, noi sappiamo che è il contrario. E questo, nell’addio più oscuro, riluce di salvezza.


Gli incontri
Lincoln nel Bardo di George Saunders esce il 31 agosto per Feltrinelli (traduzione di Cristiana Mennella, pp. 352, e uro 18,50). L’autore sarà al Festivaletteratura di Mantova l’8 settembre (ore 16, Palazzo San Sebastiano) con Marco Malvaldi. Sabato 9 (ore 12, Palazzo San Sebastiano) con Federico Taddia rileggerà I racconti di Isaak Babel. Martedì 12 al Cimitero Monumentale di Milano ci sarà la «presentazione itinerante». Voci di Anna Nogara e Elena Russo Arman, regia di Luca Scarlini

CORRIERE DELLA SERA






venerdì 20 ottobre 2017

"La cognizione del dolore" e la lettura come piacere




"La cognizione del dolore" e la lettura come piacere

Il solo vero romanzo europeo del '900 italiano è molto citato e poco gustato. Ecco perché


Come si scrive un capolavoro? Il capolavoro, intanto, deve friggere al sole della disciplina. Così l'Ingegnere alla sorella, Clara Gadda, il 29 settembre 1937. «Non mi sposerò mai ed è inutile che ti disturbi e ti affanni per questo...
Sono sistematissimo, perché spendo sempre meno di quello di cui posso disporre: ho 100, spendo 90. Non fumo, non bevo, non mi lascio imbarcare in complicazioni di nessun genere: qualche pranzo offerto (in ricambio), un taxi a una signora con cui si è stati da altri, ed è tutto... Sono singolarmente favorito nell'economia dalla assoluta noia che i divertimenti destano in me (cinema, teatri, varietà.) Neppure vado mai al caffè. Solo libri: e qualche concerto. Molte passeggiate a piedi, che mi consumano i tacchi delle scarpe (15 lire ogni 3 mesi per la risolatura)». Vita monastica, niente fumo, niente vino, passeggiate corroboranti, tirchieria salutare, qualche avventura erotica ma nessuna moglie, per carità, non capirebbe l'ossessione da speleologo dei linguaggi: ecco l'autobiografia dello scrittore di capolavori.
Come si sa, l'origine della Cognizione del dolore, il capolavoro di Gadda (lo dice lui: alla domanda «Tra i suoi libri, quale le sembra il più importante?», segue replica, «Mah... forse La cognizione del dolore»), è la morte della madre, Adele Gadda Lehr, spirata il 2 aprile 1936 («Mi ha lasciato in un grande dolore e in una disperata solitudine», scrive lo scrittore a Gianfranco Contini). Da lì, la scrittura mesmerica, catatonica, della Cognizione, che esce a puntate, tra il 1938 e il 1941, su Letteratura, la rivista diretta da Alessandro Bonsanti, e infine, monolite romanzesco, il menhir della letteratura italiana del Novecento, in volume, per Einaudi, nel 1963, a Gadda già plurisessantenne, già celebre e celebrato - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uscito per Garzanti, fu un successo di pubblico, «all'inizio del 1958 può vantare tre edizioni e oltre 10.000 copie vendute» - già tramutato da rospetto ingegnere a «una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren».
Il libro fu esaltato da tutti - «La cognizione del dolore riemerge dopo oltre vent'anni, e si pone naturalmente, senza sforzo, alla punta della letteratura attuale», scrive Guido Piovene - e vinse, nel tripudio di timori di Gadda, che si sentiva «una pupazza agitata dal tirannico volere altrui», «un cencio che svolazza nel buio», il Premio Formentor. Fragrante testimonianza di quei giorni è l'intervista rilasciata alla Rai nel 1963. Gadda si trincera in uno spudorato pudore. Per spiegare la ragione del titolo del suo romanzo, La cognizione del dolore, inforca gli occhiali, abbassa lo sguardo, legge un foglio. Chiede perdono. «Il titolo è troppo lontano da ogni forma di gioia e d'illusione che mi possa valere il consenso di chi deve pur vivere: di ciò chiedo perdono a coloro che vivono e che ancora vivranno». Perché implora - voluttuosamente - perdono, Gadda? Perché «cognizione è anche il procedimento conoscitivo, il graduale avvicinamento a una determinata nozione. Questo procedimento può essere lento, penoso, amaro, può comportare il passaggio attraverso esperienze strazianti della realtà». Scrivere è dire il dolore come non è mai stato detto, straziare la realtà, tramutare i verbi in sentenze di marmo, narrare la «scemenza del mondo», la «bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (così la grottesca e struggente chiusa della Cognizione, dal titolo L'editore chiede venia del recupero chiamando in causa l'autore, in cui Gadda sfotte, serissimo, se stesso).
Gadda, nipote geniale del Manzoni - tra i personaggi dei Promessi sposi sentiva una ironica complicità con Don Abbondio, «il quale non ha altro torto di fronte alla morale illustre se non quello di aver ceduto alla violenza e al terrore di questa violenza» - che sotto il velo di Maya della Provvidenza riteneva che la Storia fosse un tritacarne e che il male fosse il suo scudiero (ripassatevi la Storia della colonna infame poi ci risentiamo), cuginetto di Carlo Dossi, scrive il vero, il solo romanzo pienamente europeo del Novecento italiano, che sta al fianco del Doctor Faustus di Thomas Mann, del caos glossolalico di James Joyce, dell'opera di William Faulkner - con cui condivide l'ossessione per le genealogie e le sferzate linguistiche -, delle ubriacature lessicali di Malcolm Lowry. Il problema è che non ci crediamo. Tutti citano Gadda con deferenza, come si cita la reliquia di un santo di cui ignoriamo l'entità dei prodigi, ma nessuno lo legge. Una edizione economica Garzanti della Cognizione del dolore, pubblicata vent'anni fa, sentiva l'urgenza di specificare, a mo' di sottotitolo, «Un capolavoro del Novecento»; da anni l'Ingegnere è ostaggio degli accademici, è il Frankenstein della critica italiana.
Ne è un esempio la mostruosa edizione stampata da Adelphi (pagg. 384, euro 24), per la cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela: a 210 pagine di romanzo fatto&finito ne seguono 144 di apparati, note e noterelle. Dove, sostanzialmente, non ci sono inediti se non le «due redazioni di una risposta scritta di Gadda a una intervista riguardante i suoi rapporti con la madre» per Oggi, che non risulta pubblicata. Insomma, il tomo è un mattone che non agevola la lettura di un testo linguisticamente intricatissimo, la cui trama si riassume in una frase: siamo nel 1934 e don Gonzalo Pirobuttirro, che abita a Lukones, un villaggio del Maradagàl, attende la visita di un dottore; dicono che don Gonzalo, spesso lontano da casa, sia scorbutico e violento, che maltratti la madre, la quale, alla fine del libro, incompiuto, è nella sua camera, moribonda, dopo una aggressione compiuta non si sa da chi. L'esercizio, piuttosto, è quello di leggere Gadda nel proprio studio, da soli, ma soprattutto di leggerlo a scuola, ogni giorno, usandolo come un talismano, sostituendo la Cognizione del dolore alle lagne di Pavese, alle arlecchinate di Calvino, al civismo spompo di Pasolini.
Parte seconda, capitolo V: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio. Il tuono incombeva sulle cose e le fulgurazioni dell'elettrico si precipitavano all'ira, grigliate in rinnovati attimi dalle stecche delle gelosie chiuse, nell'alto. Ed ecco lo scorpione, risveglio, aveva proceduto, come di lato, come a raggirarla, ed ella, tremando, aveva retroceduto dentro il suo solo essere, distendendo una mano diaccia e stanca, come a volerlo arrestare. I capegli le spiovevano sulla fronte, non osava dir nulla, con labbri secchi, esangui: nessuno, nessuno l'avrebbe udita, sotto il fragore». Basta questo, basta leggere, questo è Gadda, musica, puro bagliore. Vi diranno che non potete capire, che per gli studenti Gadda è troppo complicato, è troppo. Non c'è bisogno di capire. Basta percepire la grandezza. La letteratura è una vertiginosa parete di rocce, senza appigli. L'assoluto non ha misura.