venerdì 2 gennaio 2015

Javier Marías / Mentre le donne dormono


MENTRE LE DONNE DORMONO
JAVIER MARÍAS
Traduzione di Valerio Nardoni
Einaudi, 2014
Figure evanescenti, ambigue – fantasmi, spie, guardie del corpo, sosia, criminali – infestano i racconti di Javier Marías, ognuno con il suo segreto, ognuno con la sua ossessione o maledizione (ammesso che, nella vita come nel suo proseguimento spettrale, sia possibile distinguere le due categorie). Ma alla fine il posto da cui tutti loro rifiutano di andare via, impossibili da cancellare, è la nostra memoria di lettori.
Un fantasma degli anni Trenta piú spaventato dei malcapitati a cui compare, un capitano dell’esercito di Napoleone durante la campagna di Russia, il protagonista de L’uomo sentimentale ritratto quando era ancora bambino, un maggiordomo bloccato in un ascensore, un caso di «doppio» a Barcellona che porterà alla rovina, un caso di «doppio» in Inghilterra che porterà all’orrore, un «ciccione schifoso» in adorante contemplazione di una donna dalla bellezza tanto ideale da apparire irreale… Sono solo alcuni dei personaggi di questi racconti scritti nell’arco di trent’anni che testimoniano un percorso narrativo in costante ascesa: superbo tessitore di romanzi, anche monumentali, Javier Marías dimostra di saper raggiungere, nello spazio di poche pagine, un grado di tensione e profondità degno dei grandi maestri della forma breve, senza rinunciare alla scrittura sensuale e meditativa che ne ha fatto uno degli scrittori contemporanei piú amati nel mondo.
JM BY N


Marías prima che diventasse Marías
Non è scontato che un grande romanziere sia anche un grande autore di racconti. Nel caso di Javier Marías, però, la grandezza sembra avere a che fare solo col fatto stesso di scrivere: vale per i romanzi di sempre, vale per i saggi, vale anche per i racconti. Einaudi ha appena pubblicato la prima raccolta dello scrittore spagnolo, uscita in patria nel 1990. Si intitola Mentre le donne dormono (traduzione di Valerio Nardoni), e contiene dodici storie poco meno che perfette.
L’indagine introspettiva e psicologica è ciò che caratterizza maggiormente la narrativa di Marías, e quasi per paradosso pare che accadano più cose in questi pochi racconti che nei suoi formidabili romanzi. La cosa più impressionante, ad ogni modo, è la sua abilità nel maneggiare diversi registri, diversi ritmi e diverse profondità. Sarebbe difficile appaiare per stile e spessore due dei racconti di Mentre le donne dormono, ma allo stesso tempo esiste come uno spirito sotterraneo che fa di questi frammenti un corpo unico in grado di muoversi e comunicare da solo.
L’ossessione per la morte e per le infinite possibilità del caso, proprie del grosso dell’opera di Marías, emerge limpidamente in quest’antologia che dopotutto, cronologicamente, anticipa la maggior parte dei suoi lavori migliori. La morte, il tempo, i fantasmi, l’antitesi quasi ontologica tra Madrid e Barcellona, il tema del doppio e la forza e la fragilità delle donne: tutto, in una maniera o nell’altra, sarebbe tornato più avanti.
Molto semplicemente, leggere Marías è un piacere enorme. In questi racconti gioca coi paradossi del vivere e del morire, con le paranoie degli uomini, e naturalmente con la letteratura. Ogni volta adopera tratti diversi, come un pittore che si volesse cimentare con tutta la sua scorta di pennelli e colori per illustrare una processione di vicende fatte di rompicapi e inganni. E omaggia, in via diretta (il vorticoso e benetiano Le dimissioni di Santiesteban dedicate a Juan Benet) o indiretta (lo spettro di Zapata di Saranno nostalgie, che chiude la rassegna, potrebbe essere uscito da una storia di Gabo Márquez), e lascia sempre qualcosa in sospeso, come i grandi illusionisti sanno fare.
Mentre le donne dormono è Marías che era già Marías prima che diventasse Marías, ma questo in fondo è solo motivo di curiosità. Il valore di questi racconti appartiene appieno a essi stessi, per ciò che dicono e per come lo dicono. Un recupero doveroso, a un quarto di secolo di distanza, e di cui essere ben felici.
GIOVANNI DOZZINI
Europa, 6 Febbraio 2014

JAVIER MARÍAS


sabato 13 dicembre 2014

Valie Export / Quando l'arte è autodeterminazione


Valie Export

Valie Export

Quando l'arte è autodeterminazione

13 DICEMBRE 2014, 
GIOVANNA LACEDRA
La sessualità femminile fa paura perché vuole autodeterminarsi.
(Valie Export)

Corpo peccante. Corpo peccaminoso.

Errante nel ribaltamento delle logiche. Immorale nel rovesciamento di assiomi che nulla hanno a che vedere con la più vera, intima e primordiale natura d’ogni donna. Perché ogni donna nasce libera. Libera di sentire, di desiderare, di scegliere e fluire. Fino a quando non viene irretita dalla tagliola di una mentalità che da sempre la vuole succube e subalterna. Di chi? Ma del maschio ovviamente! Perché il maschio impugna il potere. Il maschio desidera. Il maschio prende. Il maschio domina. Il maschio sta sopra.

Valie Export. Figur actions


Eppure, a un certo punto della storia, può accadere che il corpo femminile decida di peccare. Per sfida o godimento. Per prendersi – o riprendersi – quanto gli è stato tolto. Il corpo pecca per autodeterminarsi. Per congiurare un paradigma costituito nei secoli dei secoli. Abolisce l’amen e attua una nuova riforma contro flaccide indulgenze. È l’identità femminile – quella più autentica, quella più forte, quella più stanca – a scegliere il corpo per “dire”. Per “eccedere” rivendicando. Per “spingere” contro gli argini. Per “rivoluzionare” un intero mondo. E poter finalmente “essere”.

Valie Export

L’austriaca Valie Export – al secolo Waltraud Höllinger – è stata una vera e propria icona di questa rivolta avvenuta sul finire degli anni ’60 e l’albeggiare dei ’70. Nata a Linz nel 1940, ha fatto del proprio corpo un vero e proprio dispositivo rivoluzionario. Educata in un convento sino alla piena adolescenza, ha trepidamente rifiutato il ruolo dimesso e relegato che le veniva imposto, pretendendo sin da subito il diritto ad essere se stessa e la possibilità di autodeterminarsi in quanto persona con una propria identità, propri sogni e bisogni, proprie ambizioni e propri desideri. E ha deciso di utilizzare il linguaggio del corpo nell’arte per poter denunciare una società di stampo patriarcale.
Valie Export. Smart Export, 1970

Quando scelse di modificare il suo nome in uno pseudonimo citante una allora nota marca di sigarette, Valie aveva già chiara l’impronta che avrebbe dato al suo lavoro. Sapeva che avrebbe messo in scena azioni comportamentali pronte a evidenziare il maschilismo vigente per poi ribaltarlo. L’azione stessa di rinunciare al cognome paterno, nonché a quello del marito, ne è una prima forte testimonianza. La fotografia scattata nel 1970 che la vede ritratta con un atipico pacchetto di Smart Export riportante il suo nome e il suo volto, è l’opera che sancisce la sua nuova identità artistica. Valie “esporta” se stessa dalla tana del padre-amante-padrone. In tal senso, il 1968 è stato un anno molto importante per lei: l’anno in cui ha abbracciato le teorie della seconda ondata femminista, quella che mirava a una effettiva definizione delle differenze tra i generi. La donna era altra cosa dall’uomo. Non inferiore, non superiore. Semplicemente altra.
Lo sradicamento della discriminazione, determinata dalle differenze sessuali, e il rispetto della diversità erano i due macro-obiettivi del Secondo Femminismo. La donna non doveva più essere subordinata all’uomo. E dunque anche l’erotismo diveniva emancipante. In un’epoca gremita di contestazioni d’ogni genere, la voce del corpo femminile gridava contro ogni forma di prevaricazione. Erano gli ultimi scampoli degli anni ’60 ed era ancora in vigore il Diritto d'Onore che permetteva all'uomo – padre, marito, fratello – di uccidere per difendere la propria dignità, e di essere poi assolto. I casi di donne picchiate tra le mura domestiche, semplicemente perché non avevano lavato i piatti, erano numerosissimi. Soltanto con il Diritto di Famiglia del 1975 che riconosceva la parità dei coniugi all'interno del matrimonio, si è potuto assistere a un effettivo, ma non radicale, cambiamento. E questo perché un cambiamento non può esser radicale sino a quando non estirpa alla radice, un retaggio culturale.

Valie Export and Peter-Weibel. Aus der Mappe der Hundigkeit, 1968

Simultaneamente, nell’Austria delle sperimentazioni artistiche post-moderne e post-umane, esplodeva il fenomeno dell’Azionismo Viennese: artisti come Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler e Otto Mühl abbandonavano il mezzo pittorico per trasformare il corpo in opera, sottoponendolo ad azioni sadomasochistiche o autolesionistiche. Il corpo veniva sfidato nei limiti di sopportazione del dolore e dell’umiliazione, fino a sfiorare il rito parareligioso, come nel caso di azioni messe in scena da Hermann Nitsch nel suo Teatro delle orge e dei misteri. In una Vienna che aveva visto sbocciare le psicanalisi di Freud e le teorie di Jung, il rapporto dell’uomo con il proprio corpo e con la propria identità passava, nell’arte, attraverso l’estremismo di azioni tanto cruente e sanguinose da rasentare il suicidio.
Valie, però, non ha scelto di dirigere la propria ricerca in quella direzione. Piuttosto, ha spostato lo sguardo altrove, occupandosi in maniera diversa della violenza, sia psicologica che fisica, talvolta anche con una certa ironia. Già nel 1968 ha realizzato una prima azione in luogo pubblico, portando il proprio compagno, Peter Weibel, al guinzaglio per le strade di Vienna. L’uomo camminava a quattro zampe come fosse un cane addomesticato, e lei sorrideva ai passanti. Una delle sue immagini più celebri e più esposte è invece quella che la ritrae seduta, a gambe divaricate, con la vagina bene in vista a causa di uno squarcio operato nei pantaloni. Aktionshose: Genitalpanik , meglio ricordata come “pantaloni d’azione, panico genitale”, è una performance risalente al 1969, durante la quale la donna si fa oggetto e kamikaze: sbatte in faccia al maschio il suo oggetto del desiderio, ma lo fa in maniera inaspettata: lo rende tanto vicino e tanto evidente da generare un sentimento di panico nell’altro virile. Pare che questa performance sia stata realizzata all’interno di un cinema porno a Monaco di Baviera. Con i suoi pantaloni squarciati e il clitoride in vista, Valie ha fatto il giro del pubblico maschile accomodato in attesa del film, infine si è seduta, ha spalancato le gambe ed è rimasta lì a fissare l’obiettivo, brandendo una mitragliatrice. Con questa azione il cortocircuito da lei voluto è stato attivato. E quest’opera è diventata tanto celebre ed importante per la storia della Performance Art da spingere Marina Abramovic a riproporla come omaggio alla Export, presso il Guggenheim di New York, esattamente nel 2006.
Valie Export. Genitalpanik

Al 1970 risale Body sign action, il celebre tatuaggio della clip di una giarrettiera realizzato sulla coscia sinistra. Simbolo banalizzante di una seduzione remissiva, quella clip tatuata voleva essere una scelta sarcastica e denunciante. "Il mio corpo era lo strumento più importante. Sentivo che, da un punto di vista politico, era importante utilizzare il corpo femminile per fare arte." Per Valie, quindi, il corpo doveva operare una rivoluzione culturale. Il ruolo della donna nella società, i soprusi sotterranei e quelli lampanti, la dignità ferita, l’abuso autorizzato, erano tutti temi sui quali si interrogava di continuo. Nello stesso momento storico in cui una poetessa come Anne Sexton spremeva il proprio inconscio per farne straordinarie composizioni Confessional, Valie faceva del proprio corpo un discorso di protesta. “La poesia è l’ascia che rompe il mare ghiacciato dentro di noi”, sosteneva la Sexton. Valie invece considerava l’azione comportamentale quale arma da brandire per arrivare alle coscienze.
Nel 1971 ha messo in scena un’altra performance interattiva, intitolata Tapp Und Tastkino, durante la quale indossava una scatola lignea che sul petto si apriva attraverso una tendina. Così “vestita” l’artista si muoveva per le strade della sua città, invitando i passanti ad infilare le mani nella scatola per toccarle i seni nudi. “Questa scatola è una sala cinematografica, Il mio corpo è lo schermo.” In questo modo la Export creava il Touch Cinema, ovvero cinema da palpare. Il suo seno, infatti, non poteva essere visto… ma poteva, invece, essere toccato! E a dispetto del divieto alla pornografia, quel seno nudo lo si poteva palpare pubblicamente, anche se per un tempo limite di 13 secondi.

Valie Export. Figur actions

Il leitmotiv del suo lavoro è stato, per quarant’anni, sempre lo stesso. La Export ha realizzato performance, installazioni, video, testi, fotografie sempre costantemente riflettendo sulla condizione femminile e sull’abuso sotterraneo o a cielo aperto. Nel 2007 per la Biennale di Venezia ha realizzato Glottis, un’installazione di schermi televisivi sui quali è visibile un loop della sua laringe ripresa da un laringoscopio, mentre descrive le proprietà della voce. La voce come attestazione della propria presenza, ma anche la voce delle donne, ancora oggi poco ascoltata.
Valie Export vive in Germania, a Colonia, dove insegna presso un Istituto d’arte.

E dove continua a creare.


WSI



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Suzanne Valadon e la Belle Époque / Dai ritratti all’indagine della nudità
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giovedì 13 novembre 2014

Suzanne Valadon e la Belle Époque / Dai ritratti all’indagine della nudità

Suzanne Valadon e la Belle Époque

Dai ritratti all’indagine della nudità

13 NOVEMBRE 2014, 
Ho trovato me stessa, ho creato me stessa

e ho detto ciò che avevo da dire.

Suzanne Valadon

A quanto pare era bella. Di una bellezza eburnea e cristallina. Una bellezza acquatica e felina. Occhi azzurri, corpo sinuoso e sensuale. E un insolito impulso alla trasgressione. Suzanne, al secolo Marie-Clémentine, non conobbe mai le sue autentiche origini e neppure le cercò, ma raccontò spesso di esser stata abbandonata ancora in fasce davanti al portale della cattedrale di di Limoges. In verità era nata a Bessines-sur-Gartempe il 23 settembre 1865, da una relazione segreta tra sua madre, allora vedova, e uno sconosciuto che taluni identificano come lavandaio e tal altri come ingegnere ferroviario. Visse un’infanzia infelice, fatta di stenti e povertà, fino a quando le due donne non si trasferirono in una località rurale a nord di Parigi, vicinissima al nucleo urbano. Era la collina di Montmartre, un luogo in aperta campagna. Insospettabile preludio al suo futuro di modella e artista.
Pierre August Renoir. The braid (Suzanne Valadon), 1886

Marie-Clémentine crebbe senza padre e con una madre poco presente, che non fu per lei né un modello né un punto di riferimento. Fu un’adolescente ribelle e curiosa, offesa dall’indifferenza materna e dagli affanni in cui era costretta a vivere. Prese a trasgredire le regole del buon costume, fino a farsi espellere per cattiva condotta dal convento dove stava portando a termine gli studi primari. A 15 anni iniziò a lavorare. Prima come pasticciera, poi come sarta e fiorista. Infine fu sedotta dalla vita circense, tanto da divenire trapezista, acrobata e cavallerizza. Ma in seguito a un incidente fu costretta a smettere, ritrovandosi quasi per caso a posare per alcuni pittori. Pittori con i quali intrecciò legami. Alcuni di questi furono amici, altri consiglieri in ambito artistico. Altri ancora, amanti. Fu il caso di Toulouse-Lautrec, che per lei ideò lo pseudonimo di Suzanne Valadon, ritenendo che la bella e avvenente creatura, così delicatamente spregiudicata, provocasse negli artisti che la ritraevano la medesima reazione che la Susanna dell’episodio biblico aveva causato nei “vecchioni”.
Suzanne Valadon. La bambola abbandonata, 1921

Nel frattempo Montmartre da collinetta agreste quale era stata sino a quel momento, si trasformò in una vera e propria alcova di artisti e poeti bohemienne. Integrata nel tessuto urbano dal Barone Hausmann, urbanista di Napoleone III, questa località divenne per antonomasia il luogo in cui si svolgeva la vita dissoluta parigina. Vennero aperti cabaret come il Moulin Rouge o Le Chat Noir e artisti come Pisarro, Van Gogh e lo stesso Lautrec (autore dei manifesti illustrati del Moulin Rouge) presero a frequentarla assiduamente. Marie-Clémentine, oramai Suzanne, si lasciò presto travolgere dall’edonismo della Belle Époque. Era l’ultimo ventennio dell’Ottocento. Erano gli anni del movimento Impressionista, dell’apertura delle frontiere nipponiche, dell’uso sempre più arbitrario e simbolico del colore, del primitivismo di Gauguin, del pre-espressionismo di Van Gogh. Gli anni in cui sbocciava e si consumava una delle più celebri e dannate storie d’amore: quella tra August Rodin e Camille Claudel. La Parigi di fine Ottocento e inizi Novecento accompagnava la pittura lungo un percorso rivoluzionario che dal Realismo alle Avanguardie si era fatta sempre più sperimentale. Il colore, soprattutto, veniva usato in modo assolutamente arbitrario e sovente finalizzato a raccontare dinamiche interiori, soggettive, emozionali. Contro il concetto di mimesi, dunque, e passando dalla più lucida razionalizzazione a una espressività estrema.
Suzanne Valadon. Donna con seno nudo

Suzanne iniziò a dipingere in questo clima, trovando in Edgar Degas un grande maestro ed estimatore. Degas credeva in lei. Ne riconosceva il talento. Le insegnò alcuni segreti tecnici e divenne il suo primo collezionista. Il rapporto che nacque fra loro fu simile a quello che può instaurarsi tra un padre e la propria figlia. Probabilmente Suzanne vide in lui il genitore che non aveva mai avuto. Intanto continuava a fare la modella. Posò nuda per Puvis de Chavannes, Toulouse-Lautrec e gli italiani Federico Zandomeneghi e Giuseppe De Nittis. La sua immagine è rintracciabile nelle Bagnanti di Renoir. A diciannove anni rimase incinta. Alcuni ritengono che il padre fosse proprio Puvis, ma questi non riconobbe mai il bambino, che invece prese il cognome di un pubblicista spagnolo amico di Suzanne. Figlio di padre ignoto, dunque, con un cognome donatogli per bontà, Maurice Utrillo ebbe lo stesso destino di sua madre. Ma non resse come lei alle intemperie della vita. Mostrò da subito un carattere fragile e difficile. Alcolizzato e depresso, aggrappato – si dice – alla sottana della madre, era spesso preda di crisi nervose e fu più volte ricoverato in case di cura. A seguito di un tentato suicidio, Suzanne lo portò con sé in un castello vicino a Lione per metterlo a più stretto contatto con la natura ed educarlo a dipingere en plein air. Pensò che la pittura potesse lenire il suo dolore, fino a salvarlo dal male di vivere. E in effetti la pittura divenne un’ancora per lui, tanto da renderlo più celebre di sua madre. Tra gli esponenti dell’Ecòle de Paris, Utrillo viene ricordato per i suoi paesaggi accanto ai nudi di Modigliani, alle fiabe di Chagall e ai buoi squartati di Soutine.

Suzanne Valadon. Donna nuda seduta sul letto

Quella di Suzanne fu un maternità difficile. Per garantire a suo figlio un tenore di vita privo di stenti e le giuste cure per i suoi disturbi psichici, finì per sposare un uomo che non amava. Ma il matrimonio non durò a lungo. Nel 1914, a un passo dal Primo Conflitto Mondiale, ormai quarantacinquenne si innamorò perdutamente di un artista di soli 23 anni, amico di suo figlio. Per lui chiese il divorzio e con lui si risposò. Era Andrè Utter. È a questo periodo che risalgono le sue opere migliori: i nudi femminili. All’inizio della sua carriera da autodidatta, Suzanne aveva dipinto con tecnica perfezionista animali, per lo più gatti. Poi passò ai ritratti. E infine all’indagine della nudità. I suoi nudi femminili – e talvolta anche maschili – in cui l’incarnato chiaro e compatto viene recintato da un contorno nero e deciso rimandano, per la resa volumetrica, alla lezione cezanniana, mentre per l’uso del colore a quella di Gauguin. Le donne di Suzanne sono donne poderose, a tratti rubensiane. Certamente vigorose. Le cromie scelte sono quasi sempre vivide e luminose, compatte e ben campite. A posare per lei erano spesso donne comuni, avulse dalla loro quotidianità domestica. La cameriera, la portinaia. Donne normali. Che non conducevano vita sregolata e non avevano peculiari velleità. Rimandi all’Orientalismo introdotto dal fauvista Matisse sono invece rintracciabili nella Camera Blu, datata 1923.

Suzanne Valadon. Adamo ed Eva, 1909

Suzanne fu la prima donna a essere ammessa alla Sociètè Nationale des Beaux-Arts. Partecipò anche al Salon des Indépendants nel 1912 e successivamente al Salon d'Automne. Nel 1932 espose presso la Galleria Georges Petit riscuotendo un discreto successo. Destino volle, però, che la produzione pittorica del figlio occultasse la sua. Per questa ragione l’opera di Suzanne è stata messa in secondo piano e quasi dimenticata per una buona fetta di tempo. Si spense il 7 aprile 1938. Era seduta davanti al suo cavalletto quando la morte la colse. Stava semplicemente dipingendo. Stava felicemente dipingendo. Sempre lì, a Montmartre. A 73 anni e facendo la cosa che amava di più.
Suzanne Valadon. Nudo sul divano rosso, 1920

WSI



Lady Optical / Bridget Louise Riley
Ketty La Rocca / Il mio corpo dall'Io al Tu
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Yoko Ono / La bambina dell’oceano diventa una performer
Berthe Morisot / La donna dell'Impressionismo
Suzanne Valadon e la Belle Époque / Dai ritratti all’indagine della nudità
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Orlan / La mia opera d’arte sono Io
Pippa Bacca / Quando la performance diventa missione
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lunedì 13 ottobre 2014

Berthe Morisot / La donna dell'Impressionismo


Edouard Manet, Ritratto di Berthe Morisot


Berthe Morisot

La donna dell'Impressionismo

13 OTTOBRE 2014, 
E chi dice che poiché son donna dovrei negarmi al colore, al miracolo della luce, al pennello e alla tavolozza? Perché mai il mio genere dovrebbe essere una condanna? Perché non dovrei meritare di vivere secondo le mie attitudini e il mio amore per l’arte? Per quale ragione esser femmina dovrebbe significare tutto questo?
Una donna nata nel 1841 in una Francia che nega alle persone di sesso femminile la possibilità di compiere studi artistici, non può che porsi simili domande.
Berthe Morisot, Prima del ballo

Perché non dovrei dipingere?

Perché non dovrei fare ciò che desidero?

Perché non dovrei seguire il mio talento?

Perché dovrei restare marginale?
Sono gli anni Cinquanta del 1800 e una famiglia colta e altolocata lascia Bruges per trasferirsi a Parigi. Sono i Morisot. Nella capitale francese è appena salito al trono Napoleone III, e grazie alla sua volontà la città sta cambiando volto. Uno stravolgente riassetto urbanistico la modernizza, ridisegnandola mediante ampi vialoni chiamati Boulevards. Nel frattempo, pittori come Daumier e Courbet aprono il filone del Realismo, contestando apertamente quelle stagnanti giurie accademiche che – guarda caso –rifiutano le loro opere. Con il Padiglione del Realismo Gustave Courbet rompe gli schemi eludendo le solite, prevedibili scene mitologiche e religiose per raccontare, invece, di una realtà periferica ma pur sempre contemporanea: la realtà “dei villani a un funerale, degli stradaioli che rompono i sassi, dei preti di campagna che tornano mezzo ubriachi da una conferenza clericale”. Intanto nella località di Barbizon, vicina alla foresta di Fontainbleau, alcuni artisti già da qualche anno si ritirano per sperimentare il piacere innovativo di una pittura en plein air, rappresentando la natura in tutta la sua mutevolezza e preannunciando così la nascita della corrente Impressionista. In questa cornice, variegata e rivoluzionaria, si inscrive la figura di una donna che all’arte vuole dedicare la propria vita: Berthe Marie Pauline Morisot.
Berthe Morisot, Eugene Manet e sua figlia in giardino, 1883

Pronipote del pittore rococò Fragonard, Berthe ha l’immediata fortuna di prendere lezioni private all’età di soli 16 anni. È proprio sua madre a chiedere a un pittore di nome Guichard – allievo di Ingres e Delacroix – di insegnare l’arte del disegno alle sue tre figlie femmine. Ma tra queste è lei a dimostrare un innato e prorompente talento. E così, in barba al preconcetto e a una cultura fortemente maschilista, in barba al divieto e al ruolo di cui la società francese del XIX secolo vestiva le donne, si mette a dipingere. Ha vent’anni, è bella, raffinata, eburnea e sfacciata. E sa cosa vuole.
Berthe Morisot, bambina nella veranda

Dopo aver mandato giù l’indigesto boccone del rifiuto all’iscrizione presso l’École des Beaux-Arts, Berthe si affida a un altro grande maestro: il barbizonierre Camille Corot. Grazie a lui scopre l’autentico piacere del contatto con il “vero” e l’amore per la natura. Una natura vibrante e luminosa, da ritrarre immergendosi in essa e portando tela, colori e cavalletto all’aria aperta. Corot educa il suo gesto pittorico, la abitua alla sintesi di una pennellata pregna di luce, fatta di accordi tra gradazioni tonali. La natura, incontrata e poi esplorata con lo sguardo, viene riassunta sulla tela. Berthe scopre così il linguaggio pittorico che più le si addice, senza però dimenticare l’insegnamento dei grandi maestri del passato. Sovente si rifugia nei saloni del museo del Louvre, per esercitarsi in copie dal vero. Un giorno, proprio mentre è intenta a riportare su carta le opulenze di Rubens, un uomo, incuriosito e affascinato, le si avvicina e dopo essersi complimentato per il suo elaborato e per la sua bellezza, si presenta: “Molto piacere signorina, il mio nome è Eduard Manet, sono un pittore … accetterebbe di posare per me?” Berthe risponde di sì e da quel momento diventa la sua più celebre modella. Poi un giorno Eduard le presenta suo fratello minore, Eugene. Berthe se ne innamora e si lega a lui, indissolubilmente. Intanto la sua carriera artistica decolla.
Berthe Morisot, Il riposo

A partire dal 1864, Berthe inizia a esporre annualmente presso i Salon parigini. Luce, trasparenza, vibrazione del colore. Questo, il suo vocabolario visivo. Madame Morisot dipinge con una tale grazia e raffinatezza da “fissare sulla tela i riflessi cangianti e le luminescenze che compaiono sulle cose e nell'aria che le avvolge ... il rosa, il verde pallido, la luce vagamente dorata, cantano con un'armonia indescrivibile”. Queste le parole di Gustave Geoffroy. Giungiamo al 1874. Anno determinante per la rivoluzione pittorica francese. Il giorno 15 aprile, presso l’atelier del fotografo Felix Nadar, una trentina di pittori rifiutati dal Salon ufficiale, si riuniscono per esporre le loro opere. Comune denominatore: una tecnica pittorica innovativa e antiaccademica che crea paesaggi e figure, eludendo l’imitazione del dato reale e ricercando l’impressione stessa della realtà mediante l’uso di un tocco di colore dinamico. La natura, principale soggetto di queste opere, viene rigorosamente ritratta en plein air (fatta eccezione per la ricerca di Degas), indagando la relazione tra luce e colore, e il variare di quest’ultimo al mutare della prima. Pennellate accostate e giustapposte, fatte di colori puri e spesso complementari, costruiscono le scene o le vedute di Monet, Degas, Cezanne, Pisarro, Sisley, Renoir, Guillaumin. E tra questi, le opere di una donna: Berthe Morisot. La sola pittrice a esporre in quella prima mostra. Successivamente al gruppo si unirà un altro sguardo femminile, quello di Mary Cassatt.
Berthe Morisot, La culla

Per Berthe il 1874 fu un anno speciale: oltre a esporre nella mostra che vide nascere ufficialmente il movimento Impressionista, sposò Eugene, da cui qualche anno dopo ebbe una figlia: Julie. E anche questo fu un accadimento atipico per una donna del suo tempo, poiché divenne madre a una età allora decisamente tarda: 39 anni! Julie fu uno dei soggetti più ritratti da Berthe. Basti pensare all’opera Bambina che gioca, in cui la piccola è stata immortalata dal tocco cromatico della madre, mentre è intenta a giocare seduta a un tavolo in una veranda. Più generalmente, le tele della Morisot ritraggono donne o bambini immersi in contesti naturali. Si tratta di ambientazioni perlopiù rupestri, ville in campagna, verande o vialetti. A volte anche interni domestici. Nel dipinto titolato Il Riposola pennellata sciolta, compendiaria, sapientemente compone volumi e anatomie, in uno scorcio prospettico laterale in cui la scena è bene equilibrata dalla posizione dei due soggetti – una madre e una bambina – posti l’uno di fronte all’altro su una diagonale. E anche in questo caso la madre e la bambina potrebbero essere la pittrice e sua figlia.

Berthe Morisot, Bambina in abito blu

Ma un altro aspetto che spicca fortemente nella sua produzione è la carica introspettiva e psicologica degli sguardi da lei dipinti. Nel ritratto di suo marito Eugene, colto mentre gioca con la piccola Julie, la luce del sole filtra tra le fronde e pochi tocchi di colore dotano lo sguardo dell’uomo di forte espressività. Il colore è sempre morbido, sempre fluido, sempre lieve, sempre dinamico. Accarezza la tela – come direbbe Renoir – tramutandone ordito e trama in una palpitante e delicata impressione di realtà. Berthe ama usare l’olio e l’acquerello. Talvolta mescola le due tecniche. Realizza inoltre molti pastelli, incisioni a puntasecca e litografie. Le mostre degli Impressionisti si susseguono nei dodici anni che vanno dal 1874 al 1886, e Berthe partecipa a ciascuna di esse, finanziando inoltre la realizzazione di quella conclusiva. La sua abitazione si trasforma presto in un luogo di incontro per artisti e letterati, tra cui spiccano i nomi di Mallarmè e Zola.
La morte, però, la sorprende prematuramente. Ha solo 54 anni quando una polmonite malcurata la uccide. È il 2 marzo 1895 e un certificato di morte ingiustamente la ricorda come una donna “senza professione”.



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