Cattivi di talento
Il senso di colpa di chi apprezza il genio artistico di quelli con la fedina sporca
Per un fan, la possibilità di distinguere l’autore dalla sua arte è la via più facile per continuare a godersi prodotti culturali mantenendo la coscienza pulita. Per alcuni, però, questo non basta: tra questi figura Claire Dederer che racconta il suo percorso di (non) perdono in “Mostri” del nuovo marchio Altrecose del Post
Continuavo a ripetermi che Polanski era un genio, fine della storia, problema risolto. E tuttavia, mentre scorrevano i fotogrammi, non potevo ignorare qualcosa di fastidiosamente simile a una fitta. Peggio di una fitta, a dir la verità. La voce della coscienza non mi dava pace. Lo spettro del crimine di Polanski non se ne voleva andare.
Scoprii che non bastava pensare per risolvere il problema Roman Polanski. Il poeta William Empson scrive che la vita ci costringe a mantenerci in equilibrio tra contraddizioni che non possono essere risolte grazie a una semplice analisi. E io mi trovavo al centro di una di quelle contraddizioni.
Polanski non sarebbe affatto un problema per lo spettatore – ma soltanto l’ennesimo esempio di come certi uomini siano dei buchi neri – se i suoi film fossero brutti. Ma non lo sono. Non c’è altra figura contemporanea che sappia mantenere in perfetto equilibrio due forze così contrastanti: una mostruosità assoluta e un genio assoluto.
Polanski ha diretto Chinatown, uno dei più grandi film della storia del cinema. Polanski ha drogato e sodomizzato la tredicenne Samantha Gailey. I fatti sono questi, inconciliabili. Come potevo sanare dentro di me la contraddizione?
Il comodo divano del mio soggiorno era diventato un letto di chiodi. Non sapevo cosa fare riguardo a Polanski; e però sentivo, seppure in modo vago, che qualcosa andava fatto. Che bisognava prendere una decisione.
Speravo che un pensatore, un filosofo o qualcuno del genere, si fosse già occupato del problema e l’avesse risolto al posto mio. Al college avevo studiato storia delle idee, ma non mi veniva in mente nessuno che avesse affrontato apertamente la questione. Così un pomeriggio inviai un’email al responsabile didattico del mio corso di laurea, uno storico, un intellettuale, un uomo con i baffi allegro e brillante come il personaggio di un romanzo di David Lodge. Dopo avere premuto Invia sentii di avere la coscienza a posto; di certo il mio amato professore avrebbe risolto quella spinosa questione una volta per tutte.
Ripensandoci, trovo affascinante il mio istinto di rivolgermi subito a un esperto, che per giunta era maschio e bianco. Avevo l’urgenza di delegare il problema a qualcun altro, di trovare un’autorità. L’idea che quell’autorità non esistesse non mi aveva nemmeno sfiorata.
Caro John [scrissi], spero che tu stia bene. Mi rivolgo a te come mio mentore, nella speranza che tu possa aiutarmi a risolvere una questione. […]
Sto scrivendo un lungo testo (esito a chiamarlo libro) su Roman Polanski. […]>
Uno dei punti cruciali emersi: il problema dell’artista di cui ammiriamo l’opera pur disprezzandone la condotta morale. Sono sicura che su questo argomento sono state scritte molte cose, ma non saprei da dove cominciare, a parte il libro di Arianna Huffington su Picasso. Hai qualche consiglio? Spero non ti dispiaccia se approfitto della tua competenza senza farmi troppi scrupoli. […]
Con affetto, C.
Be’, John non mi fu di grande aiuto. Mi rispose consigliandomi di informarmi su V.S. Naipaul, che era un individuo orribile, o di pensare a grandi artisti simpatizzanti del fascismo, come Ezra Pound. No, non era esattamente quello che volevo. Avevo passato la vita a sentirmi delusa da artisti maschi che adoravo: John Lennon picchiava la moglie; T.S. Eliot era un antisemita; Lou Reed è stato accusato di maltrattamenti, razzismo e antisemitismo (accuse così poco originali, a parte tutto). Non volevo compilare un catalogo di mostri: esisteva già e si chiamava storia dell’arte. Ebbi un’epifania: quello che mi interessava capire non riguardava gli artisti, ma il pubblico. Polanski non era un problema per sé, ma per me. E se avessi scritto un’autobiografia del pubblico?
Un libro del genere mi sembrava alquanto nebuloso. Dove ambientarlo, esattamente? Nella mia testa? Nel mio soggiorno, mentre leggevo o guardavo la tv? Nella mia auto, mentre ascoltavo musica? A teatro, al museo, in un locale per concerti? A un tratto tutti quei posti banali mi apparvero come il palcoscenico di un dramma.
Se volevo scrivere un’onesta autobiografia del pubblico – e intendo il pubblico delle opere di uomini mostruosi – il libro si sarebbe dovuto mantenere in equilibrio tra due elementi: la grandezza dell’opera e l’atrocità del crimine commesso. Avrei tanto desiderato trovare in rete una calcolatrice inventata per l’occasione: inserisci il nome di un artista e, dopo aver valutato la nefandezza del suo crimine e la grandezza del suo lavoro, la calcolatrice emette un verdetto: puoi/non puoi fruire del suo lavoro.
L’idea della calcolatrice è ridicola, non sta in piedi. Eppure doveva esserci un modo per raggiungere un equilibrio tra senso morale e amore per l’arte (la Liebe zur Kunst tedesca). Volevo che fosse un equilibrio universale, basato su un verdetto univoco, anche se sospettavo che chiunque, in fondo, avesse il proprio. Una mia amica, che alle superiori ha subito uno stupro di gruppo, sostiene che tutte le opere di qualsiasi artista che abbia sfruttato o maltrattato le donne dovrebbero essere distrutte. Un mio amico gay, la cui adolescenza è stata salvata dall’amore per l’arte, sostiene che l’opera e la biografia dell’artista vadano sempre tenute separate. È possibile che entrambe queste persone abbiano ragione. Non sempre amiamo chi o cosa dovremmo amare. Woody Allen stesso ha citato la celebre frase di Emily Dickinson: «Il cuore vuole ciò che vuole». Auden lo ha detto meglio, ma ha detto meglio quasi tutto: I desideri del cuore sono contorti come cavatappi. I desideri del cuore del pubblico sono contorti come cavatappi. Continuiamo ad amare ciò che dovremmo odiare. A quanto pare non possiamo spegnere l’amore.
Cominciai ad accorgermi che quelle domande mi perseguitavano da anni – come critica cinematografica e letteraria, o anche solo come spettatrice e appassionata d’arte. Per molto tempo mi era sembrata una questione privata: un enigma solitario tra piacere e responsabilità, quasi una specie di hobby, come lavorare a maglia o giocare a calcetto. L’avevo sempre considerato un interrogativo personale dalle risposte contingenti: potevano variare a seconda del mio umore, dell’artista e dell’opera specifica.
In quegli anni, prima del 2016, non sapevo che stavamo entrando in un territorio inesplorato, dove gli eroi sarebbero caduti l’uno dopo l’altro e la reazione alla loro caduta non sarebbe più stata la tristezza privata, ma l’indignazione collettiva. Non sapevo che il nostro dolore personale stava per diventare politico, né che il mondo ci sarebbe apparso molto più fragile. Negli anni seguenti la sua crudeltà sarebbe diventata molto più visibile. Sembrò quasi apparire all’improvviso, come il cattivo che sbuca dal lato sinistro del palco. Ma ovviamente quella crudeltà non era nuova: era sempre stata lì. Semplicemente, alcuni di noi l’avevano sempre ignorata.
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