Leslie Jamison una volta ha interpretato la paziente Stephanie Phillips di fronte a una fila di dottori che dovevano capire che cosa avesse: era un’attrice medica e l’esame serviva a capire se i dottori sapessero fare le domande necessarie alla diagnosi. Per un periodo ha intrattenuto una corrispondenza con un uomo in prigione e, quando è andata a trovarlo, hanno mangiato snack comprati alle macchinette per tutta la durata del loro colloquio. Lo aveva conosciuto anni prima, durante una ultramaratona in cui correva anche suo fratello, un percorso da compiere cinque volte che comprendeva tunnel di cemento sotterranei e rovi che scorticavano i polpacci, immaginato per poter essere completato solo a costo della propria integrità fisica. Il mese dopo aver deciso di sottoporsi a un aborto, Jamison ha subito una delicata operazione al cuore. Ha fatto un tour delle zone di Los Angeles governate dalle gang, si è trovata in stanzoni dove decine di persone discutevano di una malattia che si erano autodiagnosticate, ha ricostruito la storia di tre ragazzi accusati di omicidio e poi scarcerati senza ricevere scuse. Ognuna di queste storie ha a che vedere con il dolore, con il suo racconto: Esami di empatia riflette su come parliamo della sofferenza, su come la replichiamo, la comprendiamo, su come ci facciamo attraversare dal dolore altrui - e su perché lo facciamo, a cosa questo serva.
La prima volta che ho letto la raccolta di saggi di Leslie Jamison ero una studentessa con un’inclinazione per la letteratura che parlava di dolore e ambizione poetica; avevo il cuore spezzato come lo si ha solo a vent’anni e mi ero appena tatuata addosso un paio di versi di canzoni che avevo l’impressione descrivessero meglio di me come mi sentivo in quel momento. Avevo letto Grande teoria unificata del dolore femminile, il capitolo che chiude il libro, per caso su internet e mi ero sentita vista da questa scrittrice che si autoaccusava di essere “una DJ che mescola vari testi di angoscia adolescenziale femminile”; mi sentivo anche io una rabdomante del dolore altrui, ma mi sembrava che mi aiutasse a mettere a fuoco qualcosa di me che avevo ignorato fino a quel punto. Come Jamison, non riuscivo a decidermi se quell’intensità fosse un peccato o qualcosa da rivendicare.
Sono passati sette anni da quel periodo e quando devo spiegare perché ho la parola marked tatuata sull’avambraccio dico che un tempo era una persona intensa, che ero stata capace di vestirmi per un anno intero solo di nero, ma che per fortuna poi ero sopravvissuta a me stessa - il colmo per una che pensava che tutto avrebbe lasciato un segno indelebile. Come succede sempre, se mi guardo indietro mi sembra di essere cambiata del tutto o niente affatto, eppure, oggi che Esami di empatia esce in Italia grazie a NR Edizioni (con la traduzione di Simona Siri), mi chiedo se forse nel frattempo ad essere cambiata profondamente non sia io, ma la maniera in cui parliamo di sofferenza, di espressione di sé, di esperienza personale.
Al tempo della pubblicazione Esami di empatia aveva rappresentato una sorta di testamento della new sincerity, il movimento letterario che a tutta l’ironia e il distacco postmoderno aveva contrapposto una sincera e un po’ sdolcinata espressione dei propri sentimenti; ma anche un saggio che, pur senza farlo direttamente, si inseriva nella discussione sui memoir e i personal essay che a poco a poco stavano invadendo il mercato letterario. Il termine empatia, quel desiderio di farsi attraversare dai sentimenti, il corpo un circuito elettrico, anche se implicava il dolore degli altri, era un modo per riappropriarsi della propria storia, per rivendicare quel ruolo di fragilità in cui la figura della giovane donna era stata storicamente relegata. “La tristezza rendeva ‘interessanti’,” scriveva Susan Sontag, ripresa qui da Jamison. “Era un segno di raffinatezza, di sensibilità, di essere tristi. Cioè essere impotenti.” Sontag si riferiva alla narrativa ottocentesca, ma va bene per tutto, da Sofia Coppola a Sally Rooney, a Olivia Rodrigo.
C’erano i blog, i siti che pubblicavano saggi che usavano la prima persona (in Italia c’è stata l’esperienza di Abbiamo le prove, di Violetta Bellocchio), l’esplosione della autofiction e, soprattutto, c’era Lena Dunham in Girls a impersonare la paura più profonda di tutta quella letteratura lì: essere una ragazza egocentrica, magari anche talentuosa, ma che trasformava ogni cosa in una storia, in una metafora, per cui ogni fatto parlava di lei. “Sei come una grossa, brutta ferita!” urla una delle protagoniste di Girls all’altra a riprova che il fatto che fosse confessionale, non significava che fosse anche buona letteratura. Gran parte della scrittura di Jamison si domanda questo: per chi sto scrivendo questa storia? È troppo (sentimentale)? Non è abbastanza (buona)?
Oggi, però, le storie personali sono una merce ambita: l’unicità delle esperienze, la presenza di voci prima tenute ai margini del dibattito, le nicchie, le identità, la spinta - su cui non si riflette mai abbastanza in termini critici - ad aderire al proprio passato, alla propria diversità, alla propria ferita, sono il motore della narrazione. Oggi appena accade qualcosa, ci chiediamo: quanti saggi siamo disposti a sopportare che parlino di questo? Quanti tweet lacrimosi?
Quel che è successo dal 2014 in cui Jamison scriveva in poi, è che a imporsi è stata l’attenzione, anche necessaria, alla inclusività, insieme alla proliferazione di strumenti di autorappresentazione: i social sono sostanzialmente esperimenti di autofiction, ognuno con i suoi medium, ognuno con i suoi limiti e cliché. E nessuno si chiede se una storia sia troppo o poco, ma quanto sia stata ancora raccontata.
Nella sua raccolta, Leslie Jamison scriveva a difesa dello zucchero(so), ma tutti gli inni alla positivity, ad amarsi per come si è, le storie esemplari e gli inviti alla consapevolezza, cos’altro sono se non saccarina? L’altra faccia dei social pieni di rabbia è questa dolcezza senza calorie, le storie senza consistenza che durano un attimo appena, perché le polarizzazioni funzionano così - a tratti scrollare Instagram assomiglia a nuotare nella melassa. Guardare ed essere guardati, confidarsi e leggere le confessioni altrui: “l’empatia,” spiega Jamison, “potrebbe essere in fondo, un baratto, una richiesta di affetto dagli altri: mi importa del tuo dolore è un altro modo per dire che mi importa se ti piaccio. Ci preoccupiamo degli altri affinché gli altri si preoccupino di noi”.
Quello che un tempo Jamison difendeva oggi è egemonico, ma la cosa interessante è che proprio questi saggi ci aiutano a capire cosa dobbiamo farci con queste storie, a cosa ci serve il dolore degli altri, da dove viene questa spinta a identificarci con la ferita: dovendone costruire una difesa, Jamison è stata capace di trovare antidoti e controindicazioni. Le storie non mancano, insomma, ma è ancora poco chiaro cosa farcene, a cosa può servire il dolore degli altri.
In un saggio dal titolo L’arte della crudeltà, Maggie Nelson scrive che vedere il dolore non è sufficiente, altrimenti tutte le foto di torture e morte avrebbero già fatto finire le guerre: lo sappiamo bene, perché, circondati dal dolore, ne diventiamo a poco a poco insensibili, persino quando ci riguarda. “Empatia deriva dal greco empatheia - em (dentro) e pathos (sentimento) - una capacità di comprensione, una specie di viaggio. Suggerisce che si entra nel dolore di un’altra persona come si entra in un altro stato, attraverso l’immaginazione e la dogana, attraversando il confine,” spiega Jamison, è credere, proiettarsi, prendere sul serio l’esperienza dell’altro.
Dave, il ragazzo con cui Jamison sta quando decide di abortire e poi quando subisce l’operazione al cuore, sembra suggerire un’idea diversa. Racconta che le sembra distaccato, perché non risponde alle sue richieste di attenzione nel modo in cui vorrebbe lei: “Dave non crede nel soffrire solo perché qualcun altro sta soffrendo. Questa è la sua idea di supporto. Crede nell’ascoltare, nel porre domande e nel tenersi alla larga dai presupposti”. Quando si sveglia dall’anestesia è lì con lei, ma non desidera sentire il suo dolore. Più ci penso, più trovo che Jamison abbia scritto una raccolta che si pone una domanda cruciale per uscire da questo impasse ed è chi ha il diritto di soffrire?
Ne L’esca del diavolo, forse il saggio migliore, Jamison si trova a una conferenza sulla sindrome di Morgellons, una malattia che provoca strane eruzioni cutanee, fili, corpi estranei che sembrano nascere da dentro o da batteri che colonizzano i corpi: non ci sono prove mediche che ne stabiliscano l’origine, né se sia di natura psicosomatica, cioè se esista, in un certo senso. Chi se la autodiagnostica sta soffrendo, però: il suo dolore è reale, ci tiene a dire Jamison, deve essere trattato con rispetto.
I pazienti Morgellons hanno talmente poca fiducia che verranno creduti da inventarsi ferite visibili solo al microscopio? Vogliono attenzione? Hanno paura di ricevere aiuto psicologico, perché esistono sofferenze di serie A e di serie B o non hanno saputo come leggere i problemi che avevano e si erano decisi che era una malattia del corpo e non della mente? Finché nessuno ha dato un nome a Morgellons, ha creato gruppi di supporto, la malattia non esisteva: era una rimozione o la malattia stava nella possibilità di dirla, per cui ogni catalogazione è fonte di un contagio?
Viene da chiedersi se una maggiore fiducia nel dolore altrui - dire ti credo anche in assenza di prove fisiche - possa sciogliere l’enigma, permettere, per esempio, a una malattia probabilmente di origine psichiatrica di rientrare nel giusto percorso di cura - eppure questa non mi sembra una risposta sufficiente, l’attenzione è mal direzionata.
“La belle indifference - appaltare il contenuto emotivo all’espressione fisica - è un modo per sollecitare l’empatia senza chiederla,” scrive Jamison: il fatto è che non accordiamo a tutti lo stesso grado di autorevolezza, di dignità di parola, che certe storie per ottenere la nostra attenzione devono essere più sapide, più urlate, più drammatiche, totalizzanti per almeno un secondo (ma non in tutti i casi, il giorno in cui Jamison si sottopone a un aborto, sa di non dover mostrare sentimenti: che deve sembrare sicura, perché non venga rimandata a casa, lì non deve essere emotiva, per così dire). Queste storie devono lasciare tracce, stimmati sulle mani, ferite come quelle che i rovi lasciavano sulle gambe dei partecipanti all’ultramaratona, che nell’estenuazione fisica cercavano un sollievo.
Dave, probabilmente, era abituato a essere ascoltato, tenuto in considerazione, era per quello che trovava eccessivo il modo in cui Jamison voleva mostrare il suo dolore, per cui aveva finito per dire che se lo inventava: la sua storia di uomo negli Stati Uniti non aveva bisogno di dimostrare la propria unicità per essere accolta, era la norma, ma cosa deve fare chi in quella norma non è compreso? Non è un caso che quasi tutte le storie di Jamison abitino i margini, né che oggi più si diffonde un sentimento di impotenza, più le storie si moltiplicano, diventano emblematiche, metafore, simboli, nella speranza che almeno una spezzi il cerchio, provochi un cambiamento - ci faccia sentire visti.
Cosa serve per essere ascoltati? Cosa per essere creduti? Oggi Esami di empatia sembra rispondere a questa domanda.
BAZAAR
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