«La regina degli scacchi», il conflitto tra talento e prezzo da pagare
«Quelle come te non hanno vita facile. Sei due facce della stessa medaglia; da una parte il talento, dall’altra il prezzo da pagare. Non si può dire quale sarà il tuo di prezzo, avrai il tuo momento di gloria, ma questo non durerà, tu hai così tanta rabbia dentro, devi fare attenzione». Chi parla è Scheibel, il vecchio custode di un orfanotrofio che sta insegnando alla piccola Beth Harmon il gioco degli scacchi. Basata sull’omonimo romanzo di Walter Tevis (titolo originale: «The Queen’s Gambit»), «La regina degli scacchi» (Netflix) racconta la vita di una bambina prodigio abbandonata e accolta da un orfanotrofio nel Kentucky alla fine degli anni ‘50. La giovane scopre di avere un’incredibile predisposizione per gli scacchi, che a poco a poco diventeranno le armi con cui comincerà a farsi strada nei tornei e nella vita.
Nel cinema (ne «Il settimo sigillo» di Ingmar Bergman il cavaliere Antonius Block gioca a scacchi con la morte) e nella letteratura («Attraverso lo specchio» di Lewis Carroll si basa sulle mosse di pezzi di scacchi che prendono vita), gli scacchi sono stati spesso usati come allegoria della vita: sono un gioco di strategia, dove non basta una buona mossa, occorre un buon piano, una visione del mondo e, soprattutto, un nemico da battere. Chiunque esso sia. La bravura dell’ideatore e regista Scott Frank è stata quella di innestare nelle sfide della scacchiera i traumi, le ossessioni, il desiderio di riscatto e di affermazione di Beth (Anya Taylor-Joy), come se ogni mossa facesse parte di una tessitura narrativa. Per la ragazza gli scacchi sono un «gioco» che incanala, e nello stesso tempo esaspera, un’aggressività implacabile. Le partite, anche per chi non ne conosce le regole, diventano così la storia di un conflitto insanabile tra talento e prezzo da pagare. Gli abiti che Beth indossa sono splendidi: visivamente, anche il glamour fa parte del suo momento di gloria.
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