«LA VERGOGNA DI BERGMAN»: DAL SILENZIO DI DIO AL MARE DEI MORTI
di G.B. Cavallaro
Ingmar Bergman ha definito il suo ultimo film, che ha per titolo Skammen (La vergogna) una storia di gente che non ha nessuna fede, nessuna convinzione politica, che non agisce secondo canoni e regole politiche. Questi personaggi candidi, «non hanno cercato di vedere attraverso le cose o di scegliere un colore o un partito. Sono come è generalmente la gente. Seguono la corrente e poi, all’improvviso, si trovano ad essere esposti a pressioni da varie parti. Non ci capiscono niente e non sanno chi sia amico o nemico. Vengono umiliati da tutte le parti».
Girato quest’estate nella stessa isola dove fu realizzato nel 1961 Come in uno specchio (Sasom I en Spegel), e cioè a Gotland, nel Mar Baltico, tra la Svezia e la Finlandia, La vergogna rappresenta un passo ulteriore compiuto dal cinquantenne regista svedese verso i terrori concreti dell’esistenza, dopo il lungo periodo delle angosce e degli scongiuri metafisici. Questo trapasso era già evidente nel precedente L’ora del lupo, dove, traendo spunto da un soggetto non realizzato, dal titolo Mangiatori di uomini, Bergman dava corpo a una immagine della vita come tortura collettiva, in cui ciascuno è demone e vittima. Qui vediamo una coppia di artisti, Eva e Jan, che da quando è scoppiata intorno la guerra hanno lasciato la vita civile e si sono rifugiati in un’isola. Hanno anche rinunciato ad avere figli. Ogni tanto ne parlano e si rammaricano, ma la paura di Jan è invincibile, e i loro rapporti hanno cominciato già ad incrinarsi. Ogni tanto solcano la distanza dall’isola al continente su un traghetto, e portano al mercato, su una vecchia auto, i fiori coltivati accanto alla casa. Essi in qualche misura sono personaggi antichi, con vecchie amicizie e dolci sentimenti. Ma un giorno la guerra arriva dal cielo squarciando quella tregua provvisoria e li coinvolge direttamente. Sono costretti a pronunciarsi fra gruppi diversi di invasori, Eva è accusata di complicità col nemico, sono trascinati da una scuola a un ufficio, sono picchiati e umiliati.
Tornati nella vecchia casa danneggiata, si trovano sempre più immersi nella rovina e compromessi contro la loro volontà. Eva finisce per cedere al sindaco, un vecchio amico ma di classe superiore che in tempo di pace li trattava con qualche sufficienza. Questo è stato messo in carica dai reazionari, e va troppo frequentemente a far visita ai due sempre più amari e incupiti nella loro lotta egoistica per sopravvivere. E Jan, accortosi del tradimento, se ne vendicherà ignobilmente, uccidendo il vecchio a freddo e sottraendogli il denaro che avrebbe potuto riscattarlo. Poi, scendendo sempre più nell’abisso della degradazione, ucciderà un ragazzo, per prendergli le scarpe. Alla fine, con quei soldi insanguinati, pagherà un losco barcaiolo che li sbarchi in terra ferma. Il viaggio è su un mare nebbioso, in una barca che perde uno ad uno i suoi tristi ospiti, e alla fine anche l’infido Caronte. Rimane Eva, che sogna un’altra vita, un bambino fra le braccia, dei fiori rossi, e Jan che spinge inutilmente via dalla prua della barca i morti che si aggrovigliano al remo, impedendo il cammino. «L’inferno – così ha scritto Pietro Bianchi — è già cominciato».
Come quasi tutti i film di Bergman, anche questo nasce da un sogno, una immagine, alla quale si afferrano poi mille fili e risvolti, in un gioco sottile e non sempre riconoscibile di riferimenti. Una immagine che esprime in assoluta aderenza alla realtà la profanazione (il terrore è appunto una violenza che scandalizza e provoca atteggiamenti aggressivi, corrompendoci nell’intimo, e questa è la sostanza della guerra) degli innocenti, di coloro che non fanno parte del gioco e non lo capiscono. «Come artista – ha detto appunto Bergman – sono terribilmente terrorizzato per quanto sta accadendo e non mi è possibile unirmi a nessun sistema». In questo senso, l’orrore de La vergogna è in questo procedere verso la resa, come in una Divina Commedia a rovescio, che conclude sull’assoluto del male. Come del resto dice ancora Bergman: «Stiamo definitivamente vivendo in un mondo crepuscolare. Ma non so quando l’oscurità farà la sua comparsa». Le immagini a cui alludiamo sono almeno due, quella dell’improvvisa invasione dal cielo, come di uccelli che vengano a sbattere alla finestra, e quella della barca assediata di morti. Queste immagini contengono, in forma immediata e sincronica, appunto come immagini-incubo colme di un loro significato, il sentimento fondamentale del film, una angoscia senza fine. Ma l’angoscia di Bergman non è quella, più tragica e determinata, de L’armata a cavallo o de Il silenzio e Il grido del regista ungherese Jancso, il quale pure sembra respirare la stessa disperazione storica e richiamare influssi kafkiani non del tutto dissimili. Infatti Jancso muove su un terreno razionale, sul concreto della storia passata vista con gli occhi disincantati e agghiacciati di oggi. Bergman invece, convertitosi dai cieli e dalle domande teologiche ai problemi della terra, non ha rinunciato ancora a parlare di sé, cioè a fare dell’esistenzialismo collocandosi come protagonista. L’eroe di Jancso deriva il suo orrore dalla constatata non validità delle opposizioni ideologiche, e nella sua disperazione non rinuncia, con un residuo romanticismo, a fare tuttavia una scelta, suicidandosi per qualcuno. Invece la disperazione di Bergman è aprioristica, perché viene prima del giudizio ideologico, anzi, lo rifiuta, ripiegando sul terreno esistenziale, sull’orrore della situazione, impedendosi di dare una voce e un simbolo, una bandiera (c’è, ma larvatissima, pura traccia, una differenziazione) alle parti contendenti. In una parola, La vergogna è concepito come illusione di una realtà possibile, non come bilancio critico, sia pure in chiave di sogno come è il film di Jancso.
Bergman deriva la sua posizione umana di fronte alla guerra, cioè la sua legittima «paura», dal senso del crepuscolo, dalla consapevolezza della inevitabilità della notte. Ma questa è una posizione irrazionale, sotto la quale si agita una coscienza drammaticamente divisa, dolorosamente ambigua, una spaccatura che faticosamente si ricompone. E la stessa ambiguità di quando il prestigioso regista svedese dice che di fronte alla politica uno è il suo atteggiamento privato, e altro è il suo atteggiamento d’artista: «Il mio atteggiamento privato, credo, è cosa con la quale nessuno ha niente a che fare. Come artista, sono terrorizzato per quanto sta accadendo e non mi è possibile unirmi a nessun sistema».
Ma è possibile distinguere i due aspetti, in un mondo come l’attuale? In sostanza, Bergman difende la concezione dell’arte come «specchio» neutrale: «Non sono uno che dipinge la situazione sociale. Ma è chiaro che, indirettamente, io descrivo la società in cui vivo… Io sono soltanto uno specchio che riflette i conflitti, i fenomeni, le tensioni che esistono nella società, nell’educazione ricevuta, nel mondo in cui vivo». E tuttavia, mentre rappresenta questo atteggiamento estetico nel personaggio del violinista Jan, non può fare a meno di mostrarcelo come un egoista, un uomo insensibile al dolore e alla morte che gli sono intorno. Anziché raccontare l’abbiezione che la guerra induce negli esseri umani, rischia di dimostrare l’impossibilità per l’uomo di rimanere in disparte, neutro e indifferente, di fronte ai conflitti che agitano il resto degli uomini. Sembra cioè fare la critica di un comportamento umano, e non descriverlo come inevitabile, determinato dalla situazione. Così, mentre in una intervista lo stesso protagonista del film, l’attore Max von Sydow, afferma (e ne ha tutte le motivazioni) che la tematica è quella della posizione dell’uomo comune di fronte alla guerra, e che la presenza dell’attore «si sviluppa man mano di fronte ad avvenimenti esterni che impegnano la sua precisa volontà», a noi, per lungo tempo, il senso del film sembra essere costituito dalla rappresentazione della condizione dell’uomo che nella falsa pace di oggi (la pace della Svezia, dell’Italia, dei Paesi che non fanno direttamente la guerra) non si rende conto di essere circondato dalla guerra. La vergogna, almeno nella prima parte, che è la migliore, e in quel finale dantesco, sembra ricordare a noi che i morti ci stanno attorno, e che il nostro ignorarli ci fa vivere come in un sogno, ma la realtà è questa. E la vergogna non è tanto la degradazione cui ci spingerà la guerra probabile, ma la vigliaccheria di cui diamo prova oggi, nella guerra reale, difendendo il nostro particolare orticello e fingendo di ignorare la minaccia atomica che sorvola le nostre teste.
Lo stile è la spia immediata di questo conflitto interno, e della deviazione che ne è la conseguenza. Infatti nella prima parte, anche se è subito evidente che si è cercata una facile comprensione e uno stile semplice (forse in ossequio ai finanziatori americani, certo per coerenza con l’argomento trattato) vi è ancora una carica di sogno e uno spessore simbolico, pienamente avvertibili, e abbondano i riferimenti a L’ora del lupo. Ma questa carica si perde per strada, e il racconto procede sul terreno naturalistico dei fatti, seguendo una predisposta curva della degradazione.
Per concludere il discorso dei contenuti (che in un film come questo sono importanti) il film va accolto come confessione autobiografica, vagamente terzaforzista, di chi non ha attraversato il marxismo e si rifiuta alla spaccatura ideologica, alla logica della parte, vista invece come tecnica di violenza, come degradazione, e così via. Riecheggia in parte i motivi isolazionistici, il romanticismo tormentato di altri film precedenti del Nostro, da Il volto a A proposito di quelle signore per finire con L’ora del lupo forse più rivelatore di tutti. Ma qui, forse per la prima volta, vi è appunto il senso di una crisi, derivante dallo scontro fra il problema di sé e quello degli altri. Bergman che ha sentito tanto drammaticamente la difficoltà di restare poeti mantenendo la fiducia in Dio («Quando l’aspetto religioso della mia esistenza fu completamente distrutto, la mia vita divenne molto più facile… perdetti la inibizione nello scrivere. Perdetti il mio complesso di inferiorità letteraria. Feci piazza pulita di tutto ciò che è legato a Gli ospiti della Comunione [Luci d’inverno]. Da allora tutto è filato liscio su questo punto»), ora fa leva su questo nuovo conflitto dove ha di fronte non più Dio, non più i demoni dell’inconscio, ma l’umanità, la storia. È evidente che non risolverà questa questione se non attraverso una crisi non più religiosa ma ideologica, dove al posto del silenzio di Dio c’è il mare dei morti che impediscono il cammino.
Indubbiamente questo film rappresenta uno sblocco, un avanzamento del regista rispetto alle recenti indigestioni di simboli e metafore. Costruito sull’impianto tradizionale, due soli personaggi, un’isola chiusa, solitudine, scambio tra sogno e realtà, volti familiari in ruoli colmi di echi e rispondenze (Liv Ullmann, Max von Sydow, Gunnar Bjornstrand), tuttavia presenta un volto rovesciato rispetto ai precedenti, anche quelli in cui già i simboli della guerra facevano la loro comparsa. I fatti bellici sono rappresentati in termini pressoché naturalistici: lanci di paracadutisti, bombardamenti, incendi, interrogatori e torture, come in ogni onesto film di guerra. La difficoltà di Bergman è di mantenere il precario equilibrio fra mondo immaginario e concreto, creando un mondo incubico con materiali realistici. Di solito, il regista svedese partiva da una intuizione per sviluppare i suoi film, ma senza concedere tanto in senso realistico ai fatti. Il segreto di molti suoi film è la mescolanza, qui pure esistente in larga misura, di sogni realmente vissuti e sogni tradotti e materializzati: («la realtà che viviamo oggi è altrettanto assurda e terribile e amara, e noi ci troviamo altrettanto indifesi di fronte a lei, come lo siamo quando sogniamo; oggi non esistono confini fra il sogno e la realtà; lo sentiamo tutti fortemente»). Dove il film rischia, è quando dà ai sogni uno sviluppo diacronico, storico, anziché di ordine metaforico, simbolico. Accumulare più fatti non porta ad aggiungere molto circa i significati, la crescita è puramente quantitativa e piena di ripetizioni.
Altro è quello che il regista affermava una volta essere il suo stile: «lo – diceva – vivo ogni film che faccio come un sogno, e non è un sogno particolare, ma un conglomerato di sogni, che per me funziona nello stesso modo come fanno i sogni, come una espressione cioè di ricordi, esperienze, tensioni, situazioni, forze strane».
Attribuiamo la scansione più sciolta e naturalistica e forzatamente meno densa e tesa del film anche ai diversi procedimenti adottati, Bergman, ne La vergogna, ha lasciato che gli attori usassero parole di loro propria scelta, mentre di solito egli le razionava rigorosamente. Ha concesso loro di fare ripetizioni, di assumere un tono, in generale, di entrare nel ritmo. Invece di scrivere i dialoghi sulla pagina di destra del copione, si è limitato a dare una indicazione indiretta su quello che doveva essere il parlato nella pagina di sinistra. (Peccalo che questi toni così veri vadano perduti in un doppialo che non ne tiene conto, così come ha appiattito i piani sonori). Poi, il regista ha girato lutto con due macchine da presa, facendo parlare gli attori sul tema indicato.
Ha scritto Max von Sydow: «Bergman ha usato stavolta alcuni elementi di improvvisazione. La macchina da presa è stata quasi sempre fissa in modo che gli attori potevano muoversi con estro».
In verità, questa non è la migliore sua interpretazione, forse anche perché si riflettono proprio su di lui i conflitti di cui dicevamo, il suo personaggio è al tempo stesso responsabile e vittima della sua degradazione, in qualche modo obbligato a binari rigidi, con più di una forzatura. Ma ci interessa segnalare l’avvio di Bergman a una regia di tipo televisivo, centrato sempre più sui volti: «Il mio sogno è di riuscire a fare un lungometraggio con un’unica messa a fuoco. Il mio sogno è di riuscire a tenere fisso l’interesse su un volto per una o due ore». Dopo il film «a due voci» con Fellini, Duetto d’amore, Bergman girerà alcuni telefilm, per i quali si è già impegnato con la televisione di Stoccolma.
Girato quest’estate nella stessa isola dove fu realizzato nel 1961 Come in uno specchio (Sasom I en Spegel), e cioè a Gotland, nel Mar Baltico, tra la Svezia e la Finlandia, La vergogna rappresenta un passo ulteriore compiuto dal cinquantenne regista svedese verso i terrori concreti dell’esistenza, dopo il lungo periodo delle angosce e degli scongiuri metafisici. Questo trapasso era già evidente nel precedente L’ora del lupo, dove, traendo spunto da un soggetto non realizzato, dal titolo Mangiatori di uomini, Bergman dava corpo a una immagine della vita come tortura collettiva, in cui ciascuno è demone e vittima. Qui vediamo una coppia di artisti, Eva e Jan, che da quando è scoppiata intorno la guerra hanno lasciato la vita civile e si sono rifugiati in un’isola. Hanno anche rinunciato ad avere figli. Ogni tanto ne parlano e si rammaricano, ma la paura di Jan è invincibile, e i loro rapporti hanno cominciato già ad incrinarsi. Ogni tanto solcano la distanza dall’isola al continente su un traghetto, e portano al mercato, su una vecchia auto, i fiori coltivati accanto alla casa. Essi in qualche misura sono personaggi antichi, con vecchie amicizie e dolci sentimenti. Ma un giorno la guerra arriva dal cielo squarciando quella tregua provvisoria e li coinvolge direttamente. Sono costretti a pronunciarsi fra gruppi diversi di invasori, Eva è accusata di complicità col nemico, sono trascinati da una scuola a un ufficio, sono picchiati e umiliati.
Tornati nella vecchia casa danneggiata, si trovano sempre più immersi nella rovina e compromessi contro la loro volontà. Eva finisce per cedere al sindaco, un vecchio amico ma di classe superiore che in tempo di pace li trattava con qualche sufficienza. Questo è stato messo in carica dai reazionari, e va troppo frequentemente a far visita ai due sempre più amari e incupiti nella loro lotta egoistica per sopravvivere. E Jan, accortosi del tradimento, se ne vendicherà ignobilmente, uccidendo il vecchio a freddo e sottraendogli il denaro che avrebbe potuto riscattarlo. Poi, scendendo sempre più nell’abisso della degradazione, ucciderà un ragazzo, per prendergli le scarpe. Alla fine, con quei soldi insanguinati, pagherà un losco barcaiolo che li sbarchi in terra ferma. Il viaggio è su un mare nebbioso, in una barca che perde uno ad uno i suoi tristi ospiti, e alla fine anche l’infido Caronte. Rimane Eva, che sogna un’altra vita, un bambino fra le braccia, dei fiori rossi, e Jan che spinge inutilmente via dalla prua della barca i morti che si aggrovigliano al remo, impedendo il cammino. «L’inferno – così ha scritto Pietro Bianchi — è già cominciato».
Come quasi tutti i film di Bergman, anche questo nasce da un sogno, una immagine, alla quale si afferrano poi mille fili e risvolti, in un gioco sottile e non sempre riconoscibile di riferimenti. Una immagine che esprime in assoluta aderenza alla realtà la profanazione (il terrore è appunto una violenza che scandalizza e provoca atteggiamenti aggressivi, corrompendoci nell’intimo, e questa è la sostanza della guerra) degli innocenti, di coloro che non fanno parte del gioco e non lo capiscono. «Come artista – ha detto appunto Bergman – sono terribilmente terrorizzato per quanto sta accadendo e non mi è possibile unirmi a nessun sistema». In questo senso, l’orrore de La vergogna è in questo procedere verso la resa, come in una Divina Commedia a rovescio, che conclude sull’assoluto del male. Come del resto dice ancora Bergman: «Stiamo definitivamente vivendo in un mondo crepuscolare. Ma non so quando l’oscurità farà la sua comparsa». Le immagini a cui alludiamo sono almeno due, quella dell’improvvisa invasione dal cielo, come di uccelli che vengano a sbattere alla finestra, e quella della barca assediata di morti. Queste immagini contengono, in forma immediata e sincronica, appunto come immagini-incubo colme di un loro significato, il sentimento fondamentale del film, una angoscia senza fine. Ma l’angoscia di Bergman non è quella, più tragica e determinata, de L’armata a cavallo o de Il silenzio e Il grido del regista ungherese Jancso, il quale pure sembra respirare la stessa disperazione storica e richiamare influssi kafkiani non del tutto dissimili. Infatti Jancso muove su un terreno razionale, sul concreto della storia passata vista con gli occhi disincantati e agghiacciati di oggi. Bergman invece, convertitosi dai cieli e dalle domande teologiche ai problemi della terra, non ha rinunciato ancora a parlare di sé, cioè a fare dell’esistenzialismo collocandosi come protagonista. L’eroe di Jancso deriva il suo orrore dalla constatata non validità delle opposizioni ideologiche, e nella sua disperazione non rinuncia, con un residuo romanticismo, a fare tuttavia una scelta, suicidandosi per qualcuno. Invece la disperazione di Bergman è aprioristica, perché viene prima del giudizio ideologico, anzi, lo rifiuta, ripiegando sul terreno esistenziale, sull’orrore della situazione, impedendosi di dare una voce e un simbolo, una bandiera (c’è, ma larvatissima, pura traccia, una differenziazione) alle parti contendenti. In una parola, La vergogna è concepito come illusione di una realtà possibile, non come bilancio critico, sia pure in chiave di sogno come è il film di Jancso.
Bergman deriva la sua posizione umana di fronte alla guerra, cioè la sua legittima «paura», dal senso del crepuscolo, dalla consapevolezza della inevitabilità della notte. Ma questa è una posizione irrazionale, sotto la quale si agita una coscienza drammaticamente divisa, dolorosamente ambigua, una spaccatura che faticosamente si ricompone. E la stessa ambiguità di quando il prestigioso regista svedese dice che di fronte alla politica uno è il suo atteggiamento privato, e altro è il suo atteggiamento d’artista: «Il mio atteggiamento privato, credo, è cosa con la quale nessuno ha niente a che fare. Come artista, sono terrorizzato per quanto sta accadendo e non mi è possibile unirmi a nessun sistema».
Ma è possibile distinguere i due aspetti, in un mondo come l’attuale? In sostanza, Bergman difende la concezione dell’arte come «specchio» neutrale: «Non sono uno che dipinge la situazione sociale. Ma è chiaro che, indirettamente, io descrivo la società in cui vivo… Io sono soltanto uno specchio che riflette i conflitti, i fenomeni, le tensioni che esistono nella società, nell’educazione ricevuta, nel mondo in cui vivo». E tuttavia, mentre rappresenta questo atteggiamento estetico nel personaggio del violinista Jan, non può fare a meno di mostrarcelo come un egoista, un uomo insensibile al dolore e alla morte che gli sono intorno. Anziché raccontare l’abbiezione che la guerra induce negli esseri umani, rischia di dimostrare l’impossibilità per l’uomo di rimanere in disparte, neutro e indifferente, di fronte ai conflitti che agitano il resto degli uomini. Sembra cioè fare la critica di un comportamento umano, e non descriverlo come inevitabile, determinato dalla situazione. Così, mentre in una intervista lo stesso protagonista del film, l’attore Max von Sydow, afferma (e ne ha tutte le motivazioni) che la tematica è quella della posizione dell’uomo comune di fronte alla guerra, e che la presenza dell’attore «si sviluppa man mano di fronte ad avvenimenti esterni che impegnano la sua precisa volontà», a noi, per lungo tempo, il senso del film sembra essere costituito dalla rappresentazione della condizione dell’uomo che nella falsa pace di oggi (la pace della Svezia, dell’Italia, dei Paesi che non fanno direttamente la guerra) non si rende conto di essere circondato dalla guerra. La vergogna, almeno nella prima parte, che è la migliore, e in quel finale dantesco, sembra ricordare a noi che i morti ci stanno attorno, e che il nostro ignorarli ci fa vivere come in un sogno, ma la realtà è questa. E la vergogna non è tanto la degradazione cui ci spingerà la guerra probabile, ma la vigliaccheria di cui diamo prova oggi, nella guerra reale, difendendo il nostro particolare orticello e fingendo di ignorare la minaccia atomica che sorvola le nostre teste.
Lo stile è la spia immediata di questo conflitto interno, e della deviazione che ne è la conseguenza. Infatti nella prima parte, anche se è subito evidente che si è cercata una facile comprensione e uno stile semplice (forse in ossequio ai finanziatori americani, certo per coerenza con l’argomento trattato) vi è ancora una carica di sogno e uno spessore simbolico, pienamente avvertibili, e abbondano i riferimenti a L’ora del lupo. Ma questa carica si perde per strada, e il racconto procede sul terreno naturalistico dei fatti, seguendo una predisposta curva della degradazione.
Per concludere il discorso dei contenuti (che in un film come questo sono importanti) il film va accolto come confessione autobiografica, vagamente terzaforzista, di chi non ha attraversato il marxismo e si rifiuta alla spaccatura ideologica, alla logica della parte, vista invece come tecnica di violenza, come degradazione, e così via. Riecheggia in parte i motivi isolazionistici, il romanticismo tormentato di altri film precedenti del Nostro, da Il volto a A proposito di quelle signore per finire con L’ora del lupo forse più rivelatore di tutti. Ma qui, forse per la prima volta, vi è appunto il senso di una crisi, derivante dallo scontro fra il problema di sé e quello degli altri. Bergman che ha sentito tanto drammaticamente la difficoltà di restare poeti mantenendo la fiducia in Dio («Quando l’aspetto religioso della mia esistenza fu completamente distrutto, la mia vita divenne molto più facile… perdetti la inibizione nello scrivere. Perdetti il mio complesso di inferiorità letteraria. Feci piazza pulita di tutto ciò che è legato a Gli ospiti della Comunione [Luci d’inverno]. Da allora tutto è filato liscio su questo punto»), ora fa leva su questo nuovo conflitto dove ha di fronte non più Dio, non più i demoni dell’inconscio, ma l’umanità, la storia. È evidente che non risolverà questa questione se non attraverso una crisi non più religiosa ma ideologica, dove al posto del silenzio di Dio c’è il mare dei morti che impediscono il cammino.
Indubbiamente questo film rappresenta uno sblocco, un avanzamento del regista rispetto alle recenti indigestioni di simboli e metafore. Costruito sull’impianto tradizionale, due soli personaggi, un’isola chiusa, solitudine, scambio tra sogno e realtà, volti familiari in ruoli colmi di echi e rispondenze (Liv Ullmann, Max von Sydow, Gunnar Bjornstrand), tuttavia presenta un volto rovesciato rispetto ai precedenti, anche quelli in cui già i simboli della guerra facevano la loro comparsa. I fatti bellici sono rappresentati in termini pressoché naturalistici: lanci di paracadutisti, bombardamenti, incendi, interrogatori e torture, come in ogni onesto film di guerra. La difficoltà di Bergman è di mantenere il precario equilibrio fra mondo immaginario e concreto, creando un mondo incubico con materiali realistici. Di solito, il regista svedese partiva da una intuizione per sviluppare i suoi film, ma senza concedere tanto in senso realistico ai fatti. Il segreto di molti suoi film è la mescolanza, qui pure esistente in larga misura, di sogni realmente vissuti e sogni tradotti e materializzati: («la realtà che viviamo oggi è altrettanto assurda e terribile e amara, e noi ci troviamo altrettanto indifesi di fronte a lei, come lo siamo quando sogniamo; oggi non esistono confini fra il sogno e la realtà; lo sentiamo tutti fortemente»). Dove il film rischia, è quando dà ai sogni uno sviluppo diacronico, storico, anziché di ordine metaforico, simbolico. Accumulare più fatti non porta ad aggiungere molto circa i significati, la crescita è puramente quantitativa e piena di ripetizioni.
Altro è quello che il regista affermava una volta essere il suo stile: «lo – diceva – vivo ogni film che faccio come un sogno, e non è un sogno particolare, ma un conglomerato di sogni, che per me funziona nello stesso modo come fanno i sogni, come una espressione cioè di ricordi, esperienze, tensioni, situazioni, forze strane».
Attribuiamo la scansione più sciolta e naturalistica e forzatamente meno densa e tesa del film anche ai diversi procedimenti adottati, Bergman, ne La vergogna, ha lasciato che gli attori usassero parole di loro propria scelta, mentre di solito egli le razionava rigorosamente. Ha concesso loro di fare ripetizioni, di assumere un tono, in generale, di entrare nel ritmo. Invece di scrivere i dialoghi sulla pagina di destra del copione, si è limitato a dare una indicazione indiretta su quello che doveva essere il parlato nella pagina di sinistra. (Peccalo che questi toni così veri vadano perduti in un doppialo che non ne tiene conto, così come ha appiattito i piani sonori). Poi, il regista ha girato lutto con due macchine da presa, facendo parlare gli attori sul tema indicato.
Ha scritto Max von Sydow: «Bergman ha usato stavolta alcuni elementi di improvvisazione. La macchina da presa è stata quasi sempre fissa in modo che gli attori potevano muoversi con estro».
In verità, questa non è la migliore sua interpretazione, forse anche perché si riflettono proprio su di lui i conflitti di cui dicevamo, il suo personaggio è al tempo stesso responsabile e vittima della sua degradazione, in qualche modo obbligato a binari rigidi, con più di una forzatura. Ma ci interessa segnalare l’avvio di Bergman a una regia di tipo televisivo, centrato sempre più sui volti: «Il mio sogno è di riuscire a fare un lungometraggio con un’unica messa a fuoco. Il mio sogno è di riuscire a tenere fisso l’interesse su un volto per una o due ore». Dopo il film «a due voci» con Fellini, Duetto d’amore, Bergman girerà alcuni telefilm, per i quali si è già impegnato con la televisione di Stoccolma.
Il Dramma, Febbraio 1969, pp. 97-99
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