Melancolia |
La Melancolia di Dürer
L’antico enigma finalmente svelato?
Vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore
(Luca 10,18)
Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell'Abisso; egli aprì il pozzo dell'Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l'atmosfera.
(Apocalisse 9, 1.2)
Warbur, Benjamin, Panosfsky, Calvesi, e alcuni altri fra i migliori iconologici e studiosi dei linguaggi estetici e artistici si sono come smarriti di fronte all’enigma di una delle immagini più ricche di dettagli e nel contempo più semanticamente sfuggente fra tutti i capolavori dell’arte antica: l’incisione Melancolia I di Albrecht Dürer (1514). Cosa la rende così difficile da decrittare? Certamente il coacervo di numerosi ed eterogenei elementi e l’assenza di un riferimento univoco evidente. Cosa c'entra una cometa con un angelo che sembra triste o irato? Perché un cane arrotolato e magro vicino ad una macina? E quel bambino che scrive su una tavoletta? Per non parlare del golfo marino e di quel crogiuolo da fonditura dei metalli! Che senso ha nella sua unità questa rappresentazione?
Nonostante la loro acutezza e la loro sensibilità raffinata gli studiosi sopra citati, eccellenti per i loro studi iconologici di rilievo storico ed universale, si sono però come arresi in una sorta di “malinconia saturnina” di fronte alla sfida della risoluzione del significato di questa singola opera, come assorbendo quell’umore “da bile nera” a cui allude il titolo dell’opera e il sembiante dell’angelo seduto. Cosa è accaduto? E’ accaduto che ci si sia ermeneuticamente autocensurati in rapporto alla possibilità di risolvere il senso complessivo e preciso dell’incisione e ci sia limitati ad “utilizzarla” quale occasione per ragionamenti di filosofia dell’immagine, pur raffinati e profondi, assai interessanti ma altri rispetto alla questione della semantica del racconto visivo.
La Melancolia I è stata così trasformata in un’icona neoromantica, o postmoderna ante litteram, dell’inconoscibilità degli enigmi estetici, del mistero insito in ogni immagine artistica, nella sfuggevolezza intrinseca in ogni racconto simbolico. Un ottimo saggio della studiosa Alice Barale (La malinconia dell’immagine, Firenze University Press, 2009) ha sintetizzato efficacemente la “linguistica” formatasi su questa celebre immagine, la quale ha portato avanzamenti a livello di “teoria del simbolo”, ma ha pure confermato uno scenario pessimistico a livello di metodo/metodologia pratica e a livello di ermeneutica. Warburg è rimasto chiuso nella sua stessa concezione di pathosformulae che in questo caso non si rivela efficace in quanto l’incisione di Dürer rappresenta un apax narrativo, senza altri precedenti. Warburg ha poi ondeggiato verso al sua concezione di “idolo” indugiando a ragionare sul senso di immagine “incantatoria” e “prodigiosa” che sembra essere questo angelo “saturnino”.
Ma anche questa volta si è trattato di un “uso” dell’immagine quale occasione per fare filosofia del linguaggio e non di uno sforzo ermeneutico interno alla specifica opera. Benjanmin è rimasto anch’egli sull’utilizzo pedagogico dell’immagine della Melancolia I quale icona della dialettica ambigua e dinamica fra significato e rappresentazione. Panofsky e Salxs ne hanno indagato comparativamente le analogie e le concordanze con l’immaginario saturnino a livello di gesti, segni, funzioni espressive (pathosformulae) e simboli, ma non hanno risolto la questione centrale dell’identità semantica specifica della rappresentazione. L’artista rinascimentale infatti spesso utilizza e manipola un deposito linguistico ma pure lo rinnova, lo declina, lo usa e modifica al fine di precisare un codice espressivo-comunicativo focalizzante, individualizzante, magari pensato unicamente per quell’opera. Questa circostanza non è stata considerata da nessun iconologo, come se la Melancolia I fosse solo espressione di un deposito immaginale già dato, come fosse solo “saturnina”, e basta!
Eppure l’allegorismo può essere anche materiale di lavoro, oggetto di manipolazione, e non solo risultato finale. Ogni opera d’arte importante è sempre la risultante di una fenomenologia tipologica e di un'invenzione che produce una singolarità nella stessa declinazione del modello citato. L’ipertrofia segnica e allegoristica dell’opera ha sviato l’interprete inducendo l’idea che si trattasse di un allegorismo fine a se stesso, o volutamente paradossale, oppure solo endo-saturnino. Eppure non siamo in presenza del canone rappresentativo proprio dei “trionfi”, né di fronte ad altre forme di “aggregazioni semantiche” già date come le “sacre conversazioni” o i tarocchi. Se per Warbur la Melancolia di Dürer per la sua speciale e “fiera compostezza assorta” diventa icona dell’atto contemplativo, del processo stesso del pensiero, tale da visualizzare lo “spazio del pensiero”, per Benjamin è il fattore “tempo” a trovarsi esaltato dall’incisione quale dimensione naturale delle forme simboliche che sintetizzano più tempi assorbendo il dinamismo dell’“onda” temporale nella sua dinamica dialettica fra il “già” e il “non ancora”.
Leggere l’angelo di Dürer in senso psicologico o come visualizzazione di un’atmosfera, di una suggestione è un operazione moderna, appropriativa, manipolativa. Tutti cadono nel “vizio” di un andamento ermeneutico centrifugo che elude il suo stesso oggetto annichilendone la singolarità, mentre andrebbe operato un movimento euristico opposto, cioè focalizzante l’unicità della rappresentazione quale composizione narrativa e oggetto semantico specifico. Non solo: tutti danno per scontato che il senso dell’opera sia da ricercarsi solo all’interno dell’immaginario saturnino, della fenomenologia immaginativa degli umori aristotelici. Ma l’analogia tipologica può annullare l’indubbia singolarità di un’opera così originale? Il simbolo può anche fissare una varianza, una declinazione, rispetto ai modelli già conosciuti.
L’artista potrebbe usare un immaginario per raccontare qualcosa d’altro, così come Porfirio allude commentando Omero. L’allegorismo cioè potrebbe non solo essere oggettivizzato nei dettagli ma pure reggere uno specifico racconto visivo, tutto da ricostruire. Il caos della scena potrebbe essere solo apparente e dato dalla non evidenza della chiave di lettura e non rappresentare un limite irrisolvibile e indicibile, né voluto. Perché sovrapporre contesto e intenzione? Perché dimenticare la narratività dell’arte rinascimentale? Il simbolo poi è in una certa misura sempre ambiguo ma la sua indeterminatezza non è mai assoluta e indefinita, in quanto il simbolo è anche sempre un determinato corpo narrativo, con un suo tessuto connettivo e una sua struttura, non permeabile a indefinite potenzialità ma compatibile con un numerus clausus di declinazioni e possibilità semantiche e valoriali.
Se ci limitiamo poi ad esaltare l’ambiguità dialettica di questa incisione ne facciamo sì un simbolo universale di tipo linguistico ma sarà un simbolo “vuoto”, come una funzione matematica o come lo stesso denaro quale funzione simbolica di rapporto e di scambio. Non andrebbe invece posto un postulato senza prima tentare in ogni modo la strada più semplice della decrittazione narrativo-semantica. Qui vogliamo infatti superare il pessimismo estetizzante e proponiamo invece un percorso di lettura del tutto diverso. Procediamo per piccoli passi nella speranza di poter giungere, ragionando dentro l’immagine, e senza farci prendere dal demone dell’analogia (Mario Praz), ad una tesi che possa risolvere positivamente il primo e basilare quesito posto: che cosa significa?
Non pretendiamo di spiegare tutto, e rimandiamo agli autori citati per approfondire i singoli dettagli dell’opera, ma siamo convinti di aver centrato l’obbiettivo principale fino ad ora eluso, cioè risolvere e chiarire con precisione il senso generale della rappresentazione. I grandi studiosi di fronte a quest’opera di Dürer hanno avuto la loro stessa grande cultura ed erudizione quale forza di resistenza e di ostacolo ad uno sguardo lucido e penetrante sull’opera stessa! Chi invece accetta, ma in modo socratico, la propria ignoranza, quale istanza di partenza, quale postulato metodologico, invece di giungervi quale irrisolutezza finale, forse in certi casi può aprire nuovi scenari di analisi e di senso! Prima spieghiamo il senso specifico della rappresentazione, dopo concentriamoci su certi dettagli, quando il dettaglio non è essenziale alla ricostruzione del senso unitario dell’opera. Ecco il mio stile. Non solo: i grandi studiosi sono riusciti a dirci cose sensibilissime e acutissime sui singoli dettagli di questa rappresentazione ma non sono riusciti a riportarla alla sua genetica unità. Ottimi nello sviscerare la grammatica dell’immagine (come Calvesi sul quadrato numerico), ma troppo pessimisti nel non volere fino in fondo affrontare la “sintassi” dell’immagine stessa e la sua radice motivazionale-comunicativa.
Da cosa sono partito per rileggere la Melancolia di Dürer? Dal centro, cioè dal problema cardinale dell’identità dell’angelo, la figura principale della scena, attorno a cui tutto sembra ruotare. Siccome esistono intere gerarchie e fenomenologie angeliche mi sono chiesto molto semplicemente: di che angelo si tratta? Aderisco all’opinione di Warburg: il volto non è triste, possiede una sua fierezza. Anzi per me il volto è semplicemente arrabbiato, irato, scuro per la rabbia. L’umore della bile nera, che produce, già per Aristotele, il carattere “malinconico” non coincide del tutto con il concetto moderno di tristezza/malinconia, ma si rivela un insieme di stati più sfumati e più profondi dove alla stasi si mescola una “quasi follia”. Perché questo angelo è arrabbiato? E ancora: perché è immoto?
L’altra stranezza propria di quest’angelo infatti è data dal fatto che è seduto. Non compie alcuna operazione. Eppure è tipico degli angeli un perpetuo dinamismo tanto che si identificano ontologicamente con una precisa sacra funzione. Sono spiriti, non si stancano. Il loro nome indica il loro essere. L’angelo irato di Dürer invece non solo sta seduto e fermo ma mostra vicino alla sua persona altre immagini di stasi: attrezzi per lavorare il legno gettati per terra e un cane sonnacchioso, ad esempio. Che attributi possiede questa figura angelica? Un compasso, delle chiavi e un incensiere, anch’esso stranamente posto, quasi empiamente a terra! Un angelo misuratore. La “misurazione quale atto sacro e rituale è presente nell’immaginario angelico in quanto lo troviamo nelle tradizioni ebraiche relative a Metraton (Libro di Enoch, Talmud) quale potenza di vigilanza e sapienza, e lo troviamo in due importanti passi dell’Apocalisse di Giovanni. Prima nell’angelo che dà a Giovanni una canna per misurare l’atrio del Tempio: "Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: 'Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando' (Ap.11,1) in una precisa visione profetica di un 'tempo dei pagani' che calpestano la 'città santa'".
E poi nell’episodio, simile ma traslato a livello della “Gerusalemme celeste”, dell’angelo che lui stesso si fa mistico misuratore: "Colui che mi parlava aveva come misura una canna d'oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura" (Ap. 21,15). La “misura” è operazione sacra, divina, già in Ezechiele (Ez. 40,3 ss.) e fin dall’antico Egitto con le sue psicostasie e la sua agricoltura ritualizzata sacralmente. Lo strumento di misura infatti simbolicamente può misurare sia uno spazio sacro che un tempo sacro, da Dio definito. Un angelo quindi che sembra inserirsi in uno scenario profetico in cui il fattore tempo sembra un elemento decisivo, risolutivo. Non solo: nella scena vediamo altri segni di misurazione: una bilancia, una clessidra, una campana. Lo stesso bambino che scrive potrebbe computare un lasso di tempo. Lo stesso quadrato “magico” e “gioviale” può alludere, con i suoi numeri, ad una misurazione. Se l’angelo seduto è la figura principale, fatto pacifico, allora non possiamo non dare importanza connettiva al tema della stella che cade dal cielo in modo plateale, quasi teatrale.
Esiste una connessione fra l’inquietante segno celeste, tale era considerata nel medioevo e nel rinascimento la cometa, e il volto irato del nostro essere celeste? E’ possibile. Questa è stata la mia ipotesi/traccia iniziale. Siamo di fronte ad una scena catastrofica, come già aveva intuito Panofsky, e “catastrofica” anche in senso etimologico-letterale, cioè alludente ad un cambio radicale di prospettiva. L’angelo è irato, cade una stella sulla terra, ma notiamo anche un generale senso di attesa. Può un angelo stare seduto a lungo? Può il suo incensiere (non può appartenere ad altri) restare eccezionalmente posto per terra per molto tempo? Qualcosa deve accadere che possa poi portare ad un cambio repentino della situazione descritta. L’unica cosa che sta realmente accadendo nella scena è proprio la caduta della cometa, colta nel suo spettacolare ed evidente fieri. Una stella sta cadendo e tutto è pronto per misurare simbolicamente lo “spaziotempo”: compasso, campana (che può segnare un inizio/fine), clessidra, un orologio (sopra la clessidra), una bilancia.
Alla scena simbolica corrispondono degli strumenti simbolici. Un fatto/segno importante accade (celeste, simbolico, profetico) e un angelo misuratore, che in quanto angelo deve essere in una certa misura anche “profeta”, cioè conoscitore in anticipo, per volontà di Dio, di ciò che sta accadendo e che accadrà entro breve, sta paradossalmente fermo e immoto. E’ arrabbiato in quanto non può intervenire? Vorrebbe subito agire? E’ quindi terribile l’evento che la cometa annuncia o a cui allude? Le stesse “chiavi” dell’angelo le possiamo valutare a livello di segno, di simbolo, quale immagini che possono essere apprezzate a livello temporale. La “chiave” apre e chiude un tempo, uno scenario di vita. Colui che ha la chiave di Davide: "Quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre" (Ap. 3,7): è l’autorivelazione stessa di Cristo nella sua lettera alla Chiesa di Filadelfia!
Nell’incisione abbiamo poi un cane, arrotolato come un serpente, altra allusione, insieme alla sfera, ai cicli dei tempi apocalittici. Il cane è segno di fedele vigilanza. E’ un cane magro, un levriero, un assai dantesco Veltro. Il cane appartiene, come la chiavi, l’incensiere e gli altri strumenti di misurazione, ai mondi dell’angelo seduto e irato. Il volto angelico non è solo oscurato dalla rabbia. I suoi occhi sono attenti, svegli, fissi, prontissimi, a dispetto di un corpo comodamente adagiato. Questa contraddizione di polarità potrebbe alludere al fatto che l’angelo sa quando dovrà intervenire ma sa pure che questo tempo deve ancora venire. Deve prima passare il tempo della stella caduta? Questa dialettica fra fissità e travaglio, forma e lavorìo interiore, la troviamo visualizzata nel crogiolo metallurgico dove il fuoco sfavilla fra i due pesanti e rigidi contenitori. L’oggetto allude ad una trasformazione radicale della materia, della natura.
Lo stesso poligono platonico in evidenza appartiene a quelle forme studiate da Luca Pacioli (I Mistici dell’Occidente, Elemire Zolla) e illustrate da Leonardo e che erano considerate dal famoso matematico allegorie degli elementi naturali. Il genio di Dürer sta nell’aver mescolato due poligoni platonici (compaiono infatti triangoli e pentagoni), cioè il dodecaedro e icosaedro, alludendo ad una mistura di acqua e di aria. Allusione alchemica o segno dello sconvolgimento anticristico degli elementi e del diavolo quale principe delle potenze dell’aria? La cometa introduce un tempo nuovo, eccezionale, fatidico, attraverso il quale avverrà una trasformazione persino cosmica. Se le domande che dobbiamo farci sono a questo punto due ("Che angelo è? Di che 'tempo' stiamo parlando?") dobbiamo pure farci l’altra domanda ermeneutica spesso complicata dalla domanda sul senso, cioè la domanda sul tipo di linguaggio implicato. In che lingua parla la Melancolia? Di che linguaggio è declinazione? Dato per pacifico che si tratta di opera saturata di allegorie dobbiamo meditare sul fatto che non esistono in arte allegorie “pure”, cioè neutrali rispetto ad un determinato tipo di linguaggio culturale. Esisteranno allegorie letterarie, mitologiche, politiche, religiose, scientifiche, ma mai allegorie “fine a se stesse” o autoreferenziali.
La scelta di campo che l’approccio scelto, induttivo, ci induce è quello del linguaggio mistico-religioso. Solo il linguaggio mistico, così ricco di simboli, allegorie, aspetti temporali, e raffinate sfumature, potrebbe esserci utile per rispondere alla nostra esigenza di qualificare l’identità dell’angelo e il tempo simbolico alluso dalla nostra incisione. Potrà allora essere utile allora cercare una soluzione nell’Apocalisse di Giovanni, che abbonda di angeli e di svolte temporali (sia cicliche che progressive), una chiave interpretativa almeno iniziando dal tema dell’identità del nostro angelo. Ci sono angeli con le chiavi e angeli con incensieri nella visione di Giovanni? Sì, ci sono! Uno di essi viene descritto come “angelo che ha potere sul fuoco” ed esso scaglierà la brace divina contro la terra in una delle bibliche punizioni di cui è ricco il racconto apocalittico. "Angeli con incensieri poi prestano servizio perenne nel Tempio celeste di Dio. Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull'altare d'oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi. Poi l'angelo prese l'incensiere, lo riempì del fuoco preso dall'altare e lo gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto" (Ap. 8,3-5).
E’ tramite angeli incensieri che l’Apocalisse divina si dispiega quale evento cosmico di punizione e di purificazione. C’è un momento nell’Apocalisse in cui questi angeli, i sette più vicini a Dio, smettono di prestare questa divina liturgia? Sì: quando il fumo dell’ira di Dio riempie il Tempio e i sette Spiriti/angeli devono uscire fuori: nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli. (Ap., 15.8) A questo straordinario tempo divino sembra corrispondere la mezz’ora di silenzio in Cielo e il dispiegarsi degli ultimi castighi contro la bestia antichistica e i suoi empi adoratori. La stessa Apocalisse quale manifestazione delmysterium iniquitatis viene conclusa dalla figura dell’angelo clavigero che chiude il dragone per mille anni nel pozzo dell’abisso che lui stesso sigilla (Ap, 20,1-3). Il crogiolo allude proprio a questo: al sigillamento delle porte del male, evento angelico che conclude l’apertura profetica segnata dal disigillamento cristico dei sette sigilli delLibro, (Ap. 5,5) che è segno del Tempo stesso, visto da Dio.
Questo scenario precisato con chiarezza dal Libro dell’Apocalisse permette di spiegare con esattezza molti aspetti dell’angelo e della scena descritta dall’incisione. La stella che cade rovinosamente sarà allora il dragone, analogamente alla caduta di Lucifero: Il serpente antico, colui che chiamiamo il Diavolo e Satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. (Ap. 12,9) Non solo: l’angelo con le chiavi che chiuderà il dragone nel pozzo per mille anni è lo stesso che al momento del suono della quinta tromba ha aperto per divino decreto lo stesso pozzo e lo ha fatto in concomitanza con la caduta di un astro sulla terra. Ecco un'altra mistica ragione per l’ira nel volto dell’angelo clavigero: deve liberare il Nemico, affinché sia castigo per purificare la terra, quel nemico che vorrebbe invece distruggere e che, ad una semplice logica creaturale, andrebbe subito distrutto.
La nostra incisione alluderà anche alla vittoria di Michele nella divina e celeste guerra. L’angelo è irato in quanto non può intervenire durante il tempo dell’anticristo e si trova come in uno spaziotempo paradossale e unico fra l’uscita forzata dal Tempio celeste e il momento in cui dovrà chiudere il dragone nel pozzo dell’abisso. La stella cade fra terra e mare per alludere alle due bestie apocalittiche, una che sorge dal mare e una dalla terra. (Ap. 13, 1 e 11). Possiamo trovare conferma di questa nuova lettura della Melancolia nella scala a sette pioli che compare nella scena e nell’allusione alla “metà di un tempo” data dalla bilancia quasi in pareggio, dalla clessidra quasi a metà, dalla campana che taglia in due il quadrato numerico, e dall’orologio-meridiana che segna un'ora fra la prima e la dodicesima. Il preciso tempo simbolico a cui tutto ciò allude è il tempo del dominio dell’anticristo: tre anni e mezzo, cioè 42 mesi (Ap. 11,2; 13,5), cioè 1260 giorni cioè due tempi, un tempo e la metà di un tempo (Ap. 12,14), a sua volta parodia anticristica del divino e cristico numero sette.
Se il sette va associato a Dio il massimo male storico va associato alla metà del sette, quale segno di empia superbia e infera incompletezza e instabilità a fronte della stabile pienezza del sacro numero. La straordinarietà mistica di questo simbolico e mistico “tempo” spiega così tutta l’anomalia della rappresentazione: un angelo inattivo e irato, i segni del lavoro sparsi, una sapienza come congelata. Lo stesso rapporto fra Giove e il quadrato numerico può rileggersi quale allusione alla congiunzione Giove-Saturno tradizionalmente connessa con l’Incarnazione del Figlio di Dio e qui ripresa nella resa allusivo-parodistica dell’incarnazione del “figlio della perdizione”. Restano allusivi ed enigmatici alcuni dettagli: la mola su cui è posto il bambino, che potrebbe però alludere all’immagine del castigo apocalittico su Babilonia (Ap.18,21: "Poi un potente angelo sollevò una pietra grossa come una grande macina, e la gettò nel mare dicendo: 'Così, con violenza, sarà precipitata Babilonia, la gran città, e non sarà più trovata'"), lo stesso bambino, che potrebbe alludere al concetto vangelico dello scandalo, della mole asinaria, e dei “piccoli” (Luca 17,2: "è meglio per lui che gli sia messa una pietra da mulino al collo e sia gettato in mare piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli"), il crogiuolo sul fondo, lo stesso edificio alle spalle dell’angelo, che nessuno ha mai considerato e che bisognerebbe invece interrogare nella sua identità (una torre? una fornace? un altare?).
La grandezza di questa incisione è proprio data dalla sublime armonia fra immagine, significato e rappresentazione per cui l’opera anche nella sua struttura appare una vera e propria “realtà aumentata” (augmented reality), come si evince dal raffinato rimando e rispecchiamento fra la sfera a terra e il globo dell’arcobaleno celeste e dal dialogo intenso fra le forme geometriche del braciere, l’ibrido poligono platonico e la sfera stessa. Riguardo al crogiuolo è facile verificare come si tratti di una rappresentazione geometrizzante già conosciuta nell’immaginario alchemico. La figura di un triangolo rovesciato inscritta in una figura tondeggiante quale braciere-crogiuolo si trova ad esempio nelle Dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino, visualizzata all’interno della raffigurazione della prima chiave, e la ritroviamo anche in due manoscritti, uno del 1464, citati da Giovanni Carbonelli nel suo Sulle fonti della chimica e dell’alchimia in Italia (pg. 153-155).
I rapporti fra linguaggio mistico e linguaggio alchemico sono sempre stati reciproci e frequenti, basti pensare all’Aurora consurgens, al Libro della Santa Trinità, all’Apocalisse chimica di Basilio Valentino, alle colorate immagini dei cavalieri apocalittici in Flamel. Il triangolo rovesciato è emblema alchemico dell’acqua, (aqua ardens) ma pure geroglifico del cuore e un cuore su un braciere è sua volta ideogramma dell’Egitto, cioè della Terra di Kemi, o Alchimia, cioè l’“Apocalisse” nel microcosmo.
Giacomo Maria Prati
Giacomo Maria Prati (Tortona, 1971) parallelamente ad una formazione giuridica sviluppa un'attitudine e una passione per i linguaggi simbolici, i testi mistici, l'iconologia, i miti e le strutture narrative di determinati linguaggi, prediligendo il ciclo dei romanzi medioevali del Graal,il patrimonio alchemico, i miti di Sparta. Molte le sue passioni: dalla filosofia del diritto al management dei beni culturali. Nell'aprile 2013 esordisce come traduttore con una nuova traduzione del Cantico dei cantici e dell'Apocalisse, accostati ad immagini del Duomo di Milano e del Cenacolo di Leonardo. Dopo aver analizzato in modo innovativo cinque capolavori di arte antica ora sta concludendo un saggio dedicato ad Hermes e uno studio sull'immaginario della deposizione di Cristo al cui interno, non sappiamo come, cita da Gino Paoli a Pinocchio.
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