«FAUVE»
Matisse, l’anti Picasso
Roma dedica alle Scuderie del Quirinale un omaggio a un grande dell’avanguardia che tuttavia condusse una vita defilata, notarile. L’esatto contrario del padre del Cubismo
di Francesca Bonazzoli
21 marzo 2015
Era il capobranco dei Fauves (delle belve) secondo la definizione del critico Louis Vauxcelles, che nel 1905 battezzò così gli artisti riuniti nella settima sala del Salon des Indépendants: i loro colori violenti, stesi in campiture piatte, senza ombre, apparivano infatti esercizi selvaggi rispetto alle regole accademiche. Eppure a Henri Matisse nulla era più estraneo di una personalità da leone. Era nato a Cateau-Cambrésis nel 1869 e, dopo gli studi giuridici, aveva cominciato il praticantato. Solo in seguito a una lunga convalescenza cominciò a dipingere finendo per ritrovarsi a capo di un movimento d’avanguardia che precedette di due anni il Cubismo. Ma, a differenza di Picasso, lui sì un vero capobranco selvaggio, non diverrà mai un personaggio da rotocalco. Saranno i quadri a parlare per lui. Nelle foto che Brassaï gli scattò nel 1939 nello studio di Nizza, Matisse sembra un «primario d’ospedale»: capelli e barba bianchi, occhiali dalla spessa montatura nera, camicia, gilet e cravatta coperti da un lungo camice bianco. A Matisse quelle foto piacquero, ma si sentì in dovere di spiegare: «Brassaï, io sono un uomo allegro, gioioso. E invece mi trattano come un severo professore e sembro un vecchio noioso».
Matisse |
Del resto fu lo stesso fotografo a raccontare nelle sue memorie che all’entrata dello studio di Nizza c’era un semplice biglietto con scritto «Matisse, suonare due volte»; mentre in rue des Grands-Augustins, a Parigi, l’atelier di Picasso era segnalato sul campanello con un ipertrofico «ICI». Picasso era esibizionista, mondano, egoista, sciupafemmine e comunista. Matisse condusse una vita defilata, notarile, priva di pettegolezzi, e attraversò due guerre mondiali senza che la felicità colorata della sua pittura ne risentisse. Il loro primo incontro avvenne a casa di Gertrude Stein, intellettuale americana lesbo chic che aiutava Picasso e altri artisti in bolletta. Da allora i due campioni dell’avanguardia parigina non smisero mai di studiarsi da lontano. Se uno faceva un’odalisca, l’altro una demoiselle; lo stesso per la colomba, rubata a Matisse per diventare un’icona picassiana, per i libri, le vetrate e molti altri spunti, come messo mirabilmente in luce da una mostra del 2002 a Londra. I due si ammiravano reciprocamente, ma facevano in modo di non farsi complimenti. «Nessuno ha mai guardato i quadri di Matisse più attentamente di me e nessuno ha guardato i miei più attentamente di lui» ammise Picasso. Chissà, forse per questo rimasero entrambi creativi fino alla fine dei loro giorni e Matisse arrivò a una delle sue creazioni più felici, i papiers découpés, proprio negli anni estremi. Entrambi sono autori di due fra le icone più conosciute dell’intera storia dell’arte: Guernica, manifesto mondiale contro le guerre; e La Danse, simbolo per eccellenza della gioia. Proprio in queste due icone è sintetizzata la loro differenza. Mentre Picasso provocava il pubblico affermando «Cosa credete che sia un quadro? Un oggetto da salotto? No, è un’arma da combattimento»; Matisse sognava «un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti […] Un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona dove riposarsi».
E infatti, se per l’interpretazione delle figure dipinte in Guernica sono state scritte migliaia di pagine, per descrivere La Danse bastano tre parole, «joie de vivre», e tre colori: rosso, blu e verde, quello dei pini che si stagliano contro il cielo della Costa Azzurra, spiegò Matisse. Non c’è alcun dubbio che la popolarità della grande tela dell’Ermitage di San Pietroburgo dipenda proprio dalla sua semplicità, dal suo linguaggio immediato, istintivo, come è il segno libero e divagante dell’arabesco che nulla ha a che fare con la razionalità geometrica. Fu Matisse stesso a descrivere le sue opere «di carattere eminentemente decorativo». E a Joséphin Péladan che sulla «Revue Hebdomadaire» rimproverava i Fauves di farsi chiamare «belve» ma di vestirsi come tutti gli altri tanto che la «loro prestanza non emerge più di quella di un caporeparto di grandi magazzini», Matisse rispose tranquillamente: «Il genio dipende da così poco?»
Fino al 21 giugno, alle Scuderie del Quirinale (Roma) la mostra Matisse Arabesque. Proposta dalle Scuderie del Quirinale, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura e Turismo, la rassegna è organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre. Il patrocinio è dell’Ambasciata di Francia. Catalogo: Skira. Curata da Ester Coen, con un comitato scientifico composto da John Elderfield, Remi Labrusse e Olivier Berggruen, «Matisse Arabesque», vuole restituire un’idea delle suggestioni che l’Oriente ebbe nella pittura di Matisse. In esposizione oltre cento opere dell’artista con alcuni capolavori (alcuni per la prima volta in Italia) dai maggiori musei del mondo dalla Tate al MET, MoMa, Puškin o Ermitage, Orari: domenica – giovedì 10-20; venerdì e sabato 10-22.30. Biglietti: € 12-9.50; info e prenotazioni: tel. +39.06.39967500; www.scuderiequirinale.it
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