lunedì 17 agosto 2015

Jonathan Franzen / La purezza è impossibile




Franzen, la purezza è impossibile

«Purity» è un romanzo dickensiano: a settembre negli Usa lo scrittore 
non processa più l’America, ma tutti noi

di MATTEO PERSIVALE



18 luglio 2015 (modifica il 18 luglio 2015 | 22:32)

Gore Vidal, facendo un bilancio della sua lunga vita di lettore — e di critico —, era solito dire che l’America aveva sì avuto, nel Novecento, molti bravi scrittori che avevano scritto molti bei libri. Ma che bastava paragonarli, per esempio, a Thomas Mann, per vedere come la loro statura venisse subito ridimensionata (giudizio non disinteressato, peraltro: Vidal, da ragazzo, poco dopo la guerra, aveva conosciuto Mann, e ne ricordava le parole di simpatia per il suo romanzo La statua di sale , il cui tema, l’omosessualità, aveva allora fatto scandalo). Quello di Vidal, ovviamente, è un test pericoloso: paragonare un autore a Mann, a Faulkner, a Joyce ci fa guardare con occhi diversi tanti scrittori del Novecento, non soltanto americani (una curiosità: tra i suoi contemporanei, Vidal pensava che il più grande di tutti fosse stato un italiano, l’amico Italo Calvino).

Viene da pensare al «test di Vidal» sfogliando Purity (edito negli Usa da Farrar, Straus & Giroux), il nuovo romanzo di Jonathan Franzen che uscirà negli Stati Uniti il 1° settembre e che «la Lettura» ha letto in anteprima. C’è una caratteristica di Franzen che attraverso la sua narrativa — questo è il suo quinto romanzo — diventa via via sempre più evidente: la sua ambizione. Il terzo romanzo, nel 2001,Le correzioni (Einaudi) è stato quello del grande balzo in avanti — non soltanto in termini di fama, ma in termini di profondità dell’analisi e di bravura nell’esecuzione. Con Libertà, cinque anni fa (sempre Einaudi), un altro balzo in avanti — in quel libro Franzen parte da una storia familiare per raccontarci l’America del suo tempo. Purity, fin dalle prime pagine — non sono quelle anticipate dal «New Yorker» qualche settimana fa: la rivista ha pubblicato un estratto del secondo maxi-capitolo, non l’incipit —, fa capire al lettore che gli strumenti dell’autore vanno sempre più in profondità, raccontando il rapporto terribile della protagonista, Purity — una neolaureata che vive con un gruppo di squatter e lavora in un call center —, con la sua terribile madre (i genitori in questo libro umano ma spietato sono assenti, inutili, fuggitivi, litigiosi, agorafobici, di fatto psicopatici o peggio, e destinati a fare del male e a finire male: con l’unica madre decente che è in realtà una madre mancata, senza figli).


la copertinaÈ un libro che, tra le tante cose, racconta anche la costante e fatale delusione delle nostre necessità affettive di figli — siamo tutti come il povero Charlie Brown, tutti intenti a sperare che questa volta Lucy non sposti il pallone da football e ce lo lasci calciare lontano, come Charlie Brown siamo destinati a franare al suolo, schienati, ancora una volta. Purity è un libro sulla purezza come utopia, sulla sua impossibilità: più ne abbiamo bisogno e più lei si rivela distante, crudele, corrotta o menzognera — o tutte queste cose insieme. Franzen scopre le carte dickensiane senza timori reverenziali e trova per la sua Purity il soprannome «Pip», come il protagonista di Grandi speranze. Uno scrittore meno ambizioso e meno sicuro dei suoi (mostruosi) mezzi tecnici avrebbe evitato il riferimento, lui invece raddoppia mettendo in bocca a un romanziere frustrato e bloccato — letteralmente: è finito in sedia a rotelle dopo un incidente di moto — una battuta sarcastica sulle «grandi speranze» che nutre per Pip. A Franzen non è sfuggita la nascita di un neologismo creato dai colleghi — comprensibilmente invidiosi delle sue recensioni, delle sue vendite e della sua copertina di «Time» — la cosiddettaFranzenfreude, variante della Schadenfreude che indica il cattivo umore di chi apprende che a Franzen sono capitate cose belle.

E allora, senza nessuna falsa modestia, mette in bocca al frustratissimo scrittore in sedia a rotelle un rude commento su Jonathan Safran Foer (al quale, per sfregio, storpia il nome) e una stoccata contro tutti gli scrittori americani di successo che si chiamano «Jonathan». Non ricordiamo un caso simile, almeno in anni recenti — uno scrittore di enorme successo che dà elegantemente, ma senza perifrasi, dei poveracci ai suoi colleghi antipatizzanti. Purity è un libro spietato. Franzen mette sotto la lente del suo microscopio i miliardari americani come i ragazzi di Occupy (molto intenti a straparlare di nuovi mondi impossibili), i tristi apparatchik della Ddr come i loro ambiguissimi oppositori: non è mai un bello spettacolo. I macro-capitoli non sono numerati ma hanno dei bei titoli ottocenteschi (tra i quali «Purity a Oakland», «La Repubblica del cattivo gusto», «L’assassino», «Arriva la pioggia») e attraverso di loro Franzen viaggia avanti e indietro nel tempo: dai giorni nostri, la California della povera (letteralmente: è sommersa dai debiti contratti per laurearsi) Pip, ecco la Germania Est del crepuscolo del comunismo, e poi il Sudamerica di oggi dove si è rifugiato Andreas Wolf (altro cognome dickensiano che più dickensiano non si può), una specie di via di mezzo tra Julian Assange e Edward Snowden, fondatore di una sorta di WikiLeaks basata sul culto della sua personalità (c’è da temere che queste pagine tech non piaceranno a qualche critico americano: Paese dove la divisione rigidissima e cieca tra generi letterari in «nobili» e «di consumo» fa a volte elogiare autori mediocri purché ombelicalissimi e ignorare maestri del noir e del thriller).

Franzen ci porta anche in Texas, con una giornalista (Leila Helou, di origine libanese, stesso cognome del presidente libanese della Guerra dei sei giorni e degli infelicissimi Accordi del Cairo con l’Olp: continua il gioco al gatto e al topo di Franzen con lo spirito dickensiano del Natale passato) che insegue una testata nucleare sottratta da una base militare. Proprio questa parte del romanzo — è un libro dal plot ottimo e abbondante, che anche il più severo lettore affetto daFranzenfreude non potrà non ammirare almeno per la precisione con cui è stato progettato — ci richiama al tema della guerra fredda così ossessivamente presente nei flashback relativi alla Ddr e agli anni tedeschi del lupino Andreas Wolf, quando Purity-Cappuccetto Rosso non era ancora nata. La bomba atomica, per Saul Bellow, era una specie di minaccia vuota poiché «ne muoiono più di crepacuore»; Franzen ne libera una per Amarillo, Texas, con l’apocalisse sfiorata per gioco e sciatteria e avidità: tutto senza trasformarsi in un imitatore di Tom Clancy, ma affidandosi al plot con la tranquillità di chi ha imparato a raccontare storie in modo classico e sa che non esistono trame di serie B ma soltanto scrittori di serie B. Franzen ci racconta un mondo, quello attuale, più strettamente sorvegliato di quello della Ddr. Proprio nella rievocazione della Ddr, Franzen trova pagine bellissime, anche senza avere a disposizione un personaggio insopportabilmente travolgente come Pip (allora non era ancora nata), ma il meno memorabile Andreas.

L’autore ci racconta la Ddr come un Leviatano con l’artrosi che, pur destinato a rapida scomparsa, continua a spiare le vite degli altri cercando di puntellare l’utopia del Comunismo — qui l’ammirazione del germanista Franzen per lo spirito tedesco traspare con una certa amara allegria — come un ingegnere edile ostinato a fare il suo dovere fino in fondo. A dispetto dei materiali scadenti a disposizione, del terremoto in arrivo, e della logica stessa. Franzen non inanella pezzi di bravura perché il pezzo di bravura è il libro nel suo insieme, nella sua architettura inizialmente bizzarra che diventa di pagina in pagina, di macro-capitolo in macro-capitolo, sempre più chiara, affascinante, luminosa. In attesa dell’agnizione — immancabile in un romanzo in cui la protagonista cerca suo padre: oggi sembra uno stratagemma da soap opera ma ne parlava Aristotele nellaPoetica — il quinto romanzo di Jonathan Franzen attraversa sei decenni, sorvola i continenti, si traveste da thriller, da poliziesco, da saggio di tecnologia e da romanzo d’appendice. E solo Franzen, oggi, poteva scrivere le pagine finali diPurity : nelle quali ritorna la preoccupazione centrale de Le correzioni e di Libertà, il tema che all’autore — umanista sotto mentite, gelide spoglie — sta più a cuore: non tanto la necessità di perdonare i nostri genitori ma l’indispensabilità, per l’igiene della nostra anima e la nostra salute mentale, di saper andare oltre. Oltre i loro limiti, oltre la loro involontaria crudeltà. Un romanzo nel quale una ragazza impiega quasi seicento pagine a ritrovare suo padre e riportarlo da sua madre finisce con la scoperta che «le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo in frantumi si stavano dicendo — gridando — cose terribili». Dopo Le correzioni Libertà Franzen non è più interessato a raccontare — o a processare — soltanto l’America: ora racconta, e processa, tutti noi.

CORRIERE DELLA SERA




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