domenica 28 giugno 2015

James Salter / Niente paura se si vende poco

James Salter
Poster di T.A.

James Salter: niente paura se si vende poco

Stefania Vitulli - Mar, 21/03/2006 - 00:00

In un racconto di Colette, che James Salter ha riletto almeno una dozzina di volte, si narra la storia della piccola Nana Bouilloux, la ragazza più bella del paese. Tutti la desiderano. Tutti vorrebbero essere come lei. Ma la bellissima non si sposerà mai, perché nessuno sarà mai abbastanza per lei. E quando Colette trentottenne tornerà in paese, vedrà una donna della sua stessa età attraversarle la strada: è Nana, la più bella ragazza della scuola. Sta aspettando il principe azzurro che non arriverà mai a portarla via.
Lo scrittore americano James Salter - del quale Rizzoli traduce ora in Italia per la prima volta un romanzo del 1967, Un gioco e un passatempo - e la giovane Nana hanno molto in comune: Salter è un grande. Molti lo ammirano, affermano di volergli assomigliare: l’estate scorsa, in un lungo articolo sulla New York Review of Books in occasione dell’uscita di Last Night, la sua nuova raccolta di racconti, Joyce Carl Oates scrive che si vorrebbe che le sue storie fossero più lunghe, allo stesso modo in cui si desidera che la vita, attraverso l’arte, acquisti in vastità. E nella postfazione di John Irving a Un gioco e un passatempo, si legge: «In James Salter ogni frase è intima e discreta: l’effetto finale è di esattezza elegante, una cifra di scrittura che, tristemente, ora non usa più, difficilissima da imitare».
Come Nana, Salter si è mosso così lentamente da apparire fermo: in cinquant’anni ha scritto soltanto cinque romanzi e due raccolte di racconti. Più che scrivere, rivede incessantemente: «un processo mimetico in cui vado alla ricerca di me stesso», perché la scrittura, spiega nella sua straordinaria autobiografia Burning the days, «serve a mettere in salvo la vita dal tempo». A differenza della giovane Nana, però, Salter ha portato la bellezza a completa fioritura e per farlo ha diviso la sua vita in due. Nato James Horowitz nel 1925 e cresciuto a New York, si diploma a West Point, come suo padre. Dodici anni da ufficiale nell’Air Force, cento missioni come pilota da combattimento nella guerra di Corea. «Ma il tempo trascorso in volo non conta - ha raccontato più volte -. Non mi sono ribellato, non rinnego nulla. Ho soltanto divorziato. Ci si accorge di non poter più continuare insieme. Non ci sono vere colpe. Si divorzia». E per sancire il taglio col passato, cambiò persino nome.
Forse accadde perché prese a coltivare la sua parte femminile: «La mascolinità pura è tedio e inadeguatezza. Le mancano arte e bellezza. E i veri eroi sono le donne». Forse accadde perché sentì uno strappo violento: «Percepii che dovevo scrivere o la parte più importante di me sarebbe morta per sempre». Fatto sta che accadde: dopo un paio di romanzi d’avviamento in cui narra di piloti e missioni, inizia il suo capolavoro, Un gioco e un passatempo, languido love affair ambientato in Borgogna tra una commessa francese diciottenne e uno studente di Yale. «Un romanzo esplicitamente erotico, che parla del desiderio bruciante di un voyeur», scrive sempre Irving. Il romanzo in cui si ritrova uno dei più strepitosi parallelismi tra sesso e scrittura: «Nella stanza si svestono separatamente, come russi che dividono lo scompartimento di un treno. Poi si girano faccia a faccia. “Ah” mormora lei. “Cosa?” “È una grossa machine a écrire”».
Così, con quello che divenne un cult book per Philip Roth e Susan Sontag, iniziò per Salter il quarto di secolo in cui il numero totale di Martini bevuti teneva il passo con la media di copie vendute da ciascuno dei suoi libri: ottomilasettecento nel 1993. «La speranza, non l’entusiasmo, è lo stato d’animo appropriato per uno scrittore», ama sussurrare. In quello stesso periodo si arrangiò in molti altri modi per mantenere i tre figli avuti dai due matrimoni: vendette piscine, scrisse copioni per Hollywood. Nel 1977 anche Robert Redford gliene commissionò uno, sui rocciatori, ma non gli piacque. Il copione divenne poi un libro, Solo Faces, il più amato da Peter Mathiessen. «Redford non si vedeva nel ruolo - racconta Salter -. E d’altra parte, anche gli anni nel cinema furono tempo perso. Lo sceneggiatore è come una party girl. Finché sei una novità, sempre in forma, le possibilità sembrano infinite. Ma non dura. E in un attimo, ti scartano».




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