sabato 27 giugno 2015

Addio allo scandaloso James Salter / Un autore amato dagli scrittori

James Salter

Addio allo scandaloso James Salter Un autore amato dagli scrittori

Scomparso a novant’anni una delle voci più significative d’America
di Matteo Persivale
21 giugno 2015 | 18:47
James Salter, ora è chiaro, poteva morire soltanto come è morto: a 90 anni appena compiuti, in palestra, accasciandosi all’improvviso mentre si allenava, vicino alla sua bella casa sul mare di Sag Harbor, dove aveva passato tanti anni a chiacchierare e bere dopo una partita a tennis con i suoi amici-scrittori del cuore (Peter Matthiessen, William Styron, George Plimpton e E.L. Doctorow: ora è rimasto solo Doctorow, ultimo moschettiere di quel cenacolo irripetibile). Nel 1945, a 19 anni, quando Salter ancora si chiamava con il suo vero cognome, Horowitz, aspirante pilota di caccia appena uscito da West Point, nella fretta di farsi mandare a combattere al fronte della guerra che stava per finire, durante un’esercitazione si schiantò con l’aereo da addestramento in una cascina del Massachusetts. Era il V-E Day, 8 maggio 1945, il giorno della cessazione del conflitto in Europa. Riuscì non solo a non farsi congedare con disonore, ma diventò pilota di caccia e alla fine al fronte ci finì davvero, in Corea, qualche anno dopo. E l’esperienza di quelle missioni passate a duellare con i Mig sovietici sul fiume Yalu lo spinse a scrivere un romanzo, di nascosto da commilitoni e ufficiali per evitare il disprezzo riservato agli intellettuali (una lezione imparata a West Point dove lui, tra i pochissimi cadetti ebrei, andava di venerdì sera a celebrare lo Shabbat di nascosto nel ginnasio con altri correligionari carbonari, finendo regolarmente punito al sabato mattina). Il ragazzo Horowitz non era mai stato un intellettuale. 

Leggeva riviste pulp dedicate alla guerra, meglio ancora se di aviazione. Ma nel 1956 ecco The Hunters, il debutto che ancora oggi appare abbagliante nella bellezza e precisione della sua prosa, e che fece scoprire all’America un nuovo scrittore. Dieci anni dopo esce Un gioco e un passatempo (Bur), subito stroncato dai critici e di fatto bandito dalle università per le numerose e allora scandalose scene di sesso: è riconosciuto ora come un classico. Salter fu amico di tanti scrittori, e dagli scrittori amatissimo: tra i suoi ammiratori Richard Ford e Edna O’Brien, John Irving e Jhumpa Lahiri, Joyce Carol Oates e Reynolds Price, John Banville e Bret Easton Ellis. A tenerlo lontano dal cuore dei critici americani (a parte il maestro Harold Bloom, che l’ha incluso nel Canone) fu anche la scelta di lavorare, molto ben pagato, per il cinema. Come sceneggiatore di film non memorabili e che lui anni dopo liquidò come «spazzatura» (Gli spericolati, La virtù sdraiata, Noi tre soltanto, A cuore aperto). Ma nel 1975, con il romanzo Una perfetta felicità (edito in Italia da Guanda), il primo capolavoro riconosciuto: la storia di un matrimonio in lenta e inevitabile dissoluzione raccontato con una prosa inimitabile, di semplicità hemingwayana, ma attraversata da lampi di intuizione e osservazione proustiana. Salter racconta il sogno americano in modo poco americano: attraverso la delusione, i sogni infranti contro la mediocrità. 

Analizzando i fallimenti umani come pochissimi scrittori americani — Richard Yates, John Cheever — hanno fatto. Nel 1988, con i racconti di Dusk, l’unico premio importante in patria, il Pen/Faulkner; l’autobiografia Burning the Days nel 1997 e ancora i racconti di Last Night nel 2005 per il suo ottantesimo compleanno, quando escono anche una raccolta dei suoi articoli di viaggio (Salter ha raccontato la Francia come nessun americano: oltre il romanticismo un po’ finto di Parigi) e un libro di cucina firmato con la moglie. Una straordinaria vecchiaia, nella quale Salter pur avendo abbandonato il romanzo, dimostrò di essere diventato sempre più bravo, voce profondamente americana, maestro del dettaglio (un suo personaggio fissa l’interlocutore tenendo la testa un po’ arretrata, «come se fosse un menu»), immune al sentimentalismo ma capace di commuovere con la semplice morte di un uccellino, quando si ferma «quel cuore non più grande d’un seme d’arancia». Due anni fa, quando pareva aver abbandonato il romanzo, pubblicò Tutto quel che è la vita (Guanda), che secondo molti è il capolavoro — alla vigilia del novantesimo anno — e il passo d’addio della sua vita e della sua carriera straordinarie. Salter, a un intervistatore della «Paris Review» (fondata dai suoi amici Matthiessen e Plimpton) che gli chiedeva perché scrivesse, rispose: «Perché tutto questo sta per scomparire. Resteranno solo la prosa, la poesia, i libri. Senza libri il passato scomparirebbe, e non ci resterebbe nulla. Ci ritroveremmo soli, e nudi, su questa terra».








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