James Salter |
Addio allo scandaloso James Salter Un autore amato dagli scrittori
Scomparso a novant’anni una delle voci più significative d’America
di Matteo Persivale
21 giugno 2015 | 18:47
21 giugno 2015 | 18:47
James Salter, ora è chiaro, poteva morire soltanto come è morto: a
90 anni appena compiuti, in palestra, accasciandosi all’improvviso mentre si
allenava, vicino alla sua bella casa sul mare di Sag Harbor, dove aveva passato
tanti anni a chiacchierare e bere dopo una partita a tennis con i suoi
amici-scrittori del cuore (Peter Matthiessen, William Styron, George Plimpton e
E.L. Doctorow: ora è rimasto solo Doctorow, ultimo moschettiere di quel
cenacolo irripetibile). Nel 1945, a 19 anni, quando Salter ancora si chiamava
con il suo vero cognome, Horowitz, aspirante pilota di caccia appena uscito da
West Point, nella fretta di farsi mandare a combattere al fronte della guerra
che stava per finire, durante un’esercitazione si schiantò con l’aereo da
addestramento in una cascina del Massachusetts. Era il V-E Day, 8 maggio 1945,
il giorno della cessazione del conflitto in Europa. Riuscì non solo a non farsi
congedare con disonore, ma diventò pilota di caccia e alla fine al fronte ci
finì davvero, in Corea, qualche anno dopo. E l’esperienza di quelle missioni
passate a duellare con i Mig sovietici sul fiume Yalu lo spinse a scrivere un
romanzo, di nascosto da commilitoni e ufficiali per evitare il disprezzo
riservato agli intellettuali (una lezione imparata a West Point dove lui, tra i
pochissimi cadetti ebrei, andava di venerdì sera a celebrare lo Shabbat di
nascosto nel ginnasio con altri correligionari carbonari, finendo regolarmente
punito al sabato mattina). Il ragazzo Horowitz non era mai stato un
intellettuale.
Leggeva riviste pulp dedicate alla guerra, meglio ancora se di
aviazione. Ma nel 1956 ecco The Hunters, il debutto che ancora oggi appare
abbagliante nella bellezza e precisione della sua prosa, e che fece scoprire
all’America un nuovo scrittore. Dieci anni dopo esce Un gioco e un passatempo
(Bur), subito stroncato dai critici e di fatto bandito dalle università per le
numerose e allora scandalose scene di sesso: è riconosciuto ora come un
classico. Salter fu amico di tanti scrittori, e dagli scrittori amatissimo: tra
i suoi ammiratori Richard Ford e Edna O’Brien, John Irving e Jhumpa Lahiri,
Joyce Carol Oates e Reynolds Price, John Banville e Bret Easton Ellis. A
tenerlo lontano dal cuore dei critici americani (a parte il maestro Harold
Bloom, che l’ha incluso nel Canone) fu anche la scelta di lavorare, molto ben
pagato, per il cinema. Come sceneggiatore di film non memorabili e che lui anni
dopo liquidò come «spazzatura» (Gli spericolati, La virtù sdraiata, Noi tre
soltanto, A cuore aperto). Ma nel 1975, con il romanzo Una perfetta felicità
(edito in Italia da Guanda), il primo capolavoro riconosciuto: la storia di un
matrimonio in lenta e inevitabile dissoluzione raccontato con una prosa
inimitabile, di semplicità hemingwayana, ma attraversata da lampi di intuizione
e osservazione proustiana. Salter racconta il sogno americano in modo poco
americano: attraverso la delusione, i sogni infranti contro la
mediocrità.
Analizzando i
fallimenti umani come pochissimi scrittori americani — Richard Yates, John
Cheever — hanno fatto. Nel
1988, con i racconti di Dusk, l’unico premio importante in patria, il
Pen/Faulkner; l’autobiografia Burning the Days nel 1997 e ancora i racconti di
Last Night nel 2005 per il suo ottantesimo compleanno, quando escono anche una
raccolta dei suoi articoli di viaggio (Salter ha raccontato la Francia come nessun
americano: oltre il romanticismo un po’ finto di Parigi) e un libro di cucina
firmato con la moglie. Una straordinaria vecchiaia, nella quale Salter pur
avendo abbandonato il romanzo, dimostrò di essere diventato sempre più bravo,
voce profondamente americana, maestro del dettaglio (un suo personaggio fissa
l’interlocutore tenendo la testa un po’ arretrata, «come se fosse un menu»),
immune al sentimentalismo ma capace di commuovere con la semplice morte di un
uccellino, quando si ferma «quel cuore non più grande d’un seme d’arancia». Due
anni fa, quando pareva aver abbandonato il romanzo, pubblicò Tutto quel che è
la vita (Guanda), che secondo molti è il capolavoro — alla vigilia del
novantesimo anno — e il passo d’addio della sua vita e della sua carriera
straordinarie. Salter, a un intervistatore della «Paris Review» (fondata dai
suoi amici Matthiessen e Plimpton) che gli chiedeva perché scrivesse, rispose:
«Perché tutto questo sta per scomparire. Resteranno solo la prosa, la poesia, i
libri. Senza libri il passato scomparirebbe, e non ci resterebbe nulla. Ci
ritroveremmo soli, e nudi, su questa terra».
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