martedì 30 luglio 2019

Ma gli androidi sognano pecore elettroniche? Saggio di Gabriele Frasca

Philip K. Dick
T.A.


MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRONICHE? 

Paesaggio con rovine ed elettrodomestici

Saggio di Gabriele Frasca


… mas tù y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.
—LUIS DE GÓNGORA
E non c’è cosa che non torni polvere. Un fitto unico strato sottilissimo di materia trita, trionfo di quanto residua a malapena come rifiuto, discarica, cicca, nell’inarrestabile postentropica desertificazione della palta, il kipple del testo originale, cui senza possibile rimedio sarà dato poggiarsi a falde larghe, una scoria dopo l’altra, e ogni giorno un po’ di più, sulle carcasse scarnate dei grandi edifici cittadini, dove, negli appartamenti abbandonati e negli androni sfumati in una squallida penombra artificiale, come un’interminabile scarica statica fruscia sensibile il vuoto, e sugli organismi calcificati degli animali, che vanno sfarinandosi nell’incolmabile fossa, utero e tomba, in cui tutti con Mercer si sprofonda, e infine sui circuiti contorti e bruciacchiati dai quali, incantate nel loro guasto, continueranno a belare, per l’eterno ritorno del loop, le pecore elettriche che nessun androide potrà mai sognare. Questo è il grande paesaggio secentista con rovine di Do Androids Dream of Electric Sheep? Questa la grande allegoria, se ogni allegoria non può che giungere dal «regno del lutto» (Walter Benjamin), tirata su con la sua cartapesta e le sue macchine sceniche da Philip K. Dick in un anno per altri cosi carico di valenze utopiche e improrogabili sorti progressive, il 1968 appunto.

Già, il 1968. Potrà apparire quanto meno strano, nella pluralità in cui in quegli anni (e in quell’anno) si è declinato il sogno ‘alternativo’ del nostro Occidente opulento (fra i rebbi di tutte le possibili ipotesi rivoluzionarie, dal libretto rosso di Mao alla foschia purpurea dell’acido lisergico, dall’estensione dei consumi alla gioiosa metastasi massmediale), scoprire in Dick, pure calato, e generosamente, nelle utopie di quella generazione, una visione di mondo futuro così tanto singolarmente distopica. E addirittura potrebbe risultare imbarazzante, alla luce di una considerazione quanto meno elementare fra i cultori dell’opera di Dick, quella insomma che vede il nostro autore impegnato a scrivere e riscrivere, malgrado le ambientazioni futuribili (o piuttosto da mondo alternativo), solo il suo presente, provare a ricercare giusto in quegli anni, per noi così tanto significativi e forieri di speranze e innovazioni sociali (molte delle quali siamo soliti ritenere patrimonio comune dei nostri anni), quegl’indizi, o addirittura quegli eventi, allegorizzati nel grande paesaggio con rovine in cui Rick Deckard è chiamato, da quel tecnico professionista che in fin dei conti è, a ‘ritirare’ una mezza dozzina di ‘elettrodomestici’ difettosi, soltanto per accorgersi che tutto ciò che gli è richiesto è continuare a essere una figura del «flagello», o piuttosto di quell’«antica maledizione» che continua a pretendere da ciascuno di noi un tributo di «cose sbagliate».
Se scopo del suo allestire mondi futuri o paralleli (e allegorici per questo) è sempre stato per Dick, come esplicitano fin troppo perentoriamente le sue pagine teoriche, quello di consentire al sempre ipocrita lettore di perforare l’eterna festa disneylandese dell’«asilo globale» (Marshall McLuhan) per incrociare un livello più nascosto (e oscuro se non orribile) della realtà, è allora ancora nostro (di noi tutti lettori che siamo sopravvissuti a tale disperato progetto, col suo conseguenziale corredo di «triste scienza») il compito di ritrovare, accostandoci ad ogni romanzo dickiano, gli anelli di congiunzione fra il mondo di partenza (quello in cui era immerso l’autore nell’atto di scrivere la sua storia) e quello d’arrivo (il mondo alternativo e futuro in cui si agitano, nel loro consueto immalinconire domestico, le larve dei personaggi). Sta dunque a noi, se veramente vogliamo intendere ciascuno di questi mondi che non sono (se non in prospettiva), riorganizzare i dedalei incubi della storia che hanno condotto da A a B, e quindi, in questo caso, dai sogni, lo si dica pure, in plastica variopinta del ‘68 alle rovine cadenti e polverose del 3 gennaio 1992, giorno e anno in cui si consuma in questo mondo alternativo la storia che abbiamo letto (e se mai qualcuno di noi fosse portato a tirare un bel sospiro di sollievo, perché in fin dei conti nel nostro mondo il ‘91 è stato ben diverso, e meno oscuro, ripensi solo un momento al grande deserto occidentale che ha esteso i suoi confini giusto quell’anno, con tanto di terra santa in Krajna, e «capitale delle rovine» a Vukovar). In definitiva, per chi voglia saltar giù dall’allegoria, vale sempre la pena di chiedersi, in prima battuta, quali possono essere state per Dick le linee ‘evolutive’ che lo hanno condotto dal suo ‘68 al ‘92 di Deckard; o, meglio, dove mai occorre ancora intravedere in azione quel quid intermedio intorno al quale sono stati messi a ruotare i fondali allegorici di Ma gli androidi… Perché, come sa chi è solito frequentare questo autore, ogni qualvolta s’incontra un mondo alternativo dickiano, bisogna concedersi quell’attimo di pausa necessario a formulare un’imprescindibile domanda: da quale piega comune ai due mondi hanno preso a ricadere sul nostro le false creazioni della Scimmia di Dio?
Per cominciare a rispondere, sarà necessario sottrarci alla nostra rilettura di quegli anni (solitamente trionfalistica, come sempre quando si riattraversano le fasi dell’inarrestabile ‘rivoluzione’ borghese), ribadendo una volta per tutte che il ‘68 europeo, per quanti collegamenti possa avere avuto con le lotte radicali emerse in America negli anni Sessanta, non può oramai che apparirci (con il senno della sua apparente sconfitta, o vittoria) l’estrema ma conclusiva tipologia culturale propria (ed esclusivamente) del Vecchio Continente (traendo essa difatti linfa dall’ultima autentica manifestazione del pensiero europeo, quella di derivazione dialettica e dunque marxista). Da questo punto di vista, il crollo (europeo) dell’ideologia sessantottina (o, meglio, il suo disperdersi nelle pieghe del pensiero unico) segna per davvero la nascita di una del tutto nuova e inglobante cultura occidentale, senza alcun radicamento territoriale che non sia piuttosto una modalità di produzione (basata, in buona sostanza, sull’uniformità ‘simultanea’ dei consumi; sicché, ad esempio, alla faccia dell’’ottusità’ dei luoghi geografici, è ‘Occidente’ il Giappone, e ‘Oriente’ l’Albania). Ben diversi, come si sa, appaiono i movimenti radicali americani, lì dove i gruppi giovanili (e in misura minore razziali), diciamo così, ‘in rivolta’ rappresentano, a ben vedere, le frange più oltranziste della prima generazione formata dal medium televisivo (Joshua Meyrowitz), tutte protese dunque (con i dovuti distinguo) non già ad una sorta di palingenesi sociale (con tanto di lotta di classe) quanto piuttosto all’affermazione di rinnovati ‘modelli di comportamento’ (la lotta, se lotta vi è stata, non prefigurava alcun rivolgimento sociale, se mai direttamente la conquista del potere). Da questo punto di vista le agitazioni nei campus americani (e gli stessi scontri alla Convention del Partito Democratico a Chicago) parrebbero contrassegnare, malgrado le immediate e appariscenti sconfitte politiche cui andò incontro il ‘movimento’, la data in cui in realtà si assiste a un autentico passaggio di consegne fra una cultura ancora di tipo alfabetico (l’elefantiaco establishment del governo americano, per lo meno fino a Johnson) e quella di tipo, diciamo così, ‘elettrico’ (come le pecore di Dick) che è giunta poi, con tutte le sue modificazioni (quanto spirito radical nei primi personal computer!), fino a noi. Né può apparire allora un caso che il ‘68 in America sia non soltanto l’anno dell’uccisione di Martin Luther King (e di Bob Kennedy; nonché, in Vietnam, dell’offensiva del Tet), segnando dunque la fine stessa di un ‘sogno’ (non già il suo inizio), ma anche, e soprattutto, dell’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di uno dei più smaliziati assertori dell’uso ‘a tutto campo’ dei media elettrici, Richard Nixon intendo (o Tricky Dicky piuttosto), con il quale non a caso Philip K. Dick (come tanti della sua generazione) sentirà sempre di avere, e paranoicamente, un conto in sospeso. L’America apparentemente più reazionaria, che parrebbe aver disperso le istanze democratiche e libertarie dei movimenti radicali degli anni Sessanta, se vinse, come vinse, lo fece soltanto perché assorbì quelle stesse istanze, impossessandosi innanzitutto degli stessi strumenti (di fuga, di ‘viaggio’) con cui si era nutrito il nuovo ‘sogno’ americano. Anzi, quella stessa America reazionaria si sarebbe offerta ben presto come la realizzazione di quel sogno, e avrebbe dato a tutti la Luna… magari come ennesima terra promessa e primo sdoganamento per l’«ultima frontiera».
La Luna, appunto. Il 1968 è l’anno in cui i primi tre astronauti la circumnavigano per intero; le varie missioni che si sono succedute nel corso del tempo (Orbiter, Ranger, Surveyor e infine Apollo) l’hanno completamente monitorata, con un corredo di immagini sempre più ravvicinate. Le prime sonde automatiche (Surveyor, Luna, Lunachod) oramai vanno e vengono, allunano, ripartono, tornando con un carico di detriti, rocce di tipo basaltico, anortosotiche, KREEP, regolith, e dunque polvere… quella stessa polvere che da lì a un anno si sarebbe sollevata per ricadere lentamente ad ogni saltello di un’indimenticabile ‘passeggiata’, picco d’ascolto di ogni palinsesto e primo grande evento televisivo globale, nonché prova generale di un mondo fatto uno dalla possibilità concessa ‘democraticamente’ ad ogni spettatore di viaggiare ‘in loco’, per un proprio moto surplace, per un fremito verso l’infinito da far scorrere come un brivido nel corpo da tenere fermo. Ed è proprio questa polvere, a ben vedere, questa polvere che ha fatto della Luna un coperchio, o piuttosto la volta oppressiva che ha chiuso definitivamente l’epoca dei ‘viaggi’ spaziali (iniziati e conclusi esattamente quel 21 luglio del ‘69, come hanno mostrato i tanti anni, con la loro penosa teoria d’insuccessi, che ci dilungano da quella data), è proprio insomma questa polvere a traslare nella palta, nel kippleche ricopre il mondo dell’ennesimo squarcio allegorico dickiano, dove opera l’ultimo grande ‘riparatore’ di elettrodomestici di questo Occidente invecchiato, Rick Deckard. Le ‘entusiasmanti’ fasi della conquista della Luna (come evento spettacolare, ostentazione di potenza e al contempo tentativo di riconciliazione ‘nazionale’) mostravano insomma a chi sapeva trarre gli auspici del domani dagli abbagli dell’oggi (ai pochi in definitiva ancora in grado di distinguere sogno da sogno) che i confini esistono, e schiacciano la Terra nella sua solitudine, o nell’infinito «silenzio dei mondi» (Stanisław Lem). E se l’altro grande ‘viaggio’ allegorico del ‘68 (mi riferisco a 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick) convergeva sulla curvatura (ancora un confine) che dallo spazio riconduce al tempo, al punto che l’unico possibile ‘viaggio’ non poteva che essere quell’abbaglio che siamo di volta in volta invitati a scorgere riflesso nel casco e nell’occhio esterrefatto dell’ultimo Ulisse (l’astronauta David, insomma, l’eroe condannato all’eterno ritorno), non può apparire allora un caso che nella terra desolata di Ma gli androidi…, a fronte di una colonizzazione di mondi ostili cui a malapena si accenna (come ‘infelice’ punto di fuga) nel romanzo, l’unico ‘viaggio’ possibile è quello di faccia allo schermo, fra le risate registrate che accompagnano le mordaci battute dello smaliziato ‘illuminista’ Buster Friendly, o sulla scoscesa montagna piuttosto dove arrampicarsi e soffrire, in consapevole unio mystica, col campione dello ‘spiritualismo’ Wilbur Mercer. Insomma, c’è di che sentirsi a casa, non è così?
Se diamo uno sguardo agli elettrodomestici che arredano gli scenari sociali del 1992 di Ma gli androidi…, difatti, non possiamo evitare di scorgere dismisurati (come in ogni allegoria) gli elementi propri del nostro vivere quotidiano, così come si è andato strutturando, con tutte le sue brave protesi mediali, dall’anno di pubblicazione del romanzo in poi. Ai vecchi media radiotelevisivi generalisti e al contempo vivaci assertori del disincanto del pensiero unico postborghese (un solo canale possibile in questo mondo alternativo privo di zapping, e un unico infinito talk show, radiofonico e televisivo, praticamente in onda per l’intera giornata, Buster Friendly and His Friendly Friends) si contrappone l’esperienza interattiva, comunitaria e ‘religiosa’ degli empathy boxes provvisti di uno schermo (si tratta sempre del caro vecchio tubo a raggi catodici) e di un paio di manopole attraverso le quali soffrire, con Wilbur Mercer e tutti gl’infiniti eventuali interconnessi, l’ascesa senza redenzione (perché il credo di questa religione è esattamente che «there is no salvation», mai, e che ogni creazione è già la sua disfatta) da cui sempre, e tutt’insieme, si precipiterà «into the tomb world» (o nel womb-tombemblema dell’allucinato barocco inglese). Se da un lato, dunque, appare fin troppo facile rintracciare prefigurato in questo scontro mediale quello proprio dei nostri anni (con l’apparente conflitto fra i vecchi media generalisti impegnati in un palinsesto praticamente unico e uniformante, con cui registrare le risate interiori di spettatori annichiliti, e la «coreografia dei corpi angelici», come direbbe Pierre Lévy, empatica e compartecipativa del computer, caro vecchio tubo a raggi catodici, e della rete), dall’altro non potrà stupire che tale presunto scontro cospiri in realtà, in quel mondo come nel nostro, per la creazione di un ibridodi compromesso, insomma di un ‘questo e quello’ adialettico e simultaneo. Gli spettatori dello show di Buster Friendly, pronti a ridacchiare alle acide battute con cui l’amichevole anchorman ridicolizza Mercer e i suoi seguaci, sono gli stessi che un attimo dopo impugneranno le manopole con le quali scoprire, attraverso la ‘reale’ sofferenza, che tutto il festevole mondo di Buster è falso, e che è vero (vero come le ferite che i sassi ‘virtuali’ aprono nei loro corpi) solo il dolore, se mai per rilassarsi, dopo una simile terribile agnizione, con qualche oretta trascorsa dinanzi alla TV. Il tutto, naturalmente, secondo il primo assioma del teorema «viva Las Vegas!» col quale anche nel nostro mondo ci si conduce nell’esistenza: il principio di ‘non (vi è mai) contraddizione’.
Se dal livello mediale scivoliamo adesso nella vita quotidiana di questo mondo alternativo, rappresentata dall’estenuante giornata lavorativa di Rick Deckard, possiamo provare a sintetizzare in qualche modo gli ‘arredi’ di questo ‘92 allestito nel ‘68: gli effetti di una guerra mondiale non altrimenti motivata (e finita naturalmente senza vincitori) stanno trasformando il pianeta in un deserto (la Terra, sfruttata e ricoperta di palta, è sempre più come la Luna), costringendo gli uomini ad emigrare per sottrarsi ad un processo degenerativo («defeat of creation») che ha ridotto drasticamente il numero degli animali (alcune specie sono estinte). I pochi abitanti della Terra (che hanno a disposizione, perché anche in questo mondo siamo in piena cultura ‘new age’, un meraviglioso «modulatore d’umore Penfield», insomma uno strumento con cui regolare i propri stati d’animo) vivono concentrati in città fatiscenti e quasi del tutto disabitate, con il rischio costante di subire le conseguenze delle radiazioni e di divenire pertanto «speciali» (minorati psichici ai quali è fatto esplicito divieto di riprodursi). Fra questi uomini ridotti allo stremo ma titillati dalle proprie estensioni mediali si aggirano gli androidi, prodotto tipico della guerra (derivando tutti dal grande prototipo, «the Synthetic Freedom Fighter», insomma dal guerriero sintetico difensore delle ‘libertà’) opportunamente riconvertito per la necessità di manodopera nelle colonie extraterrestri (questa società che si va descrivendo, ci confida acidamente Dick, nutre per un tale prodotto la stessa passione che si era diffusa nell’America degli anni ‘60 per le automobili). Gli androidi, insomma, sono degli elettrodomestici, di durata anche particolarmente limitata (quattro anni parrebbe), dovrebbero svolgere lavori pesanti o fare soltanto un po’ di compagnia, se non che la generazione più evoluta di questi (i Nexus-6 dell’Associazione Rosen) hanno cominciato a sviluppare una strana ansia ‘intellettualistica’ di liberazione (insomma, qualcosa del tipo ‘lavatrici di tutto il mondo, unitevi’). Gli androidi del romanzo, in definitiva, non hanno nulla di prometeico: sono stupidi come le macchine ma non abbastanza tali come gli uomini, e quando parrebbero essere sul punto di sviluppare un pensiero straordinario, un’idea innovativa, un guizzo di vita vera si lasciano tranquillamente fregare dal più elementare tropismo. Per quanta ansia di liberazione spiri in loro, gli androidi possono solo limitarsi a eseguire il loro programma (perché anche quest’ansia di liberazione è stata programmata): il loro mondo è solo una versione un po’ più dismisurata di Disneyland. È proprio questa impietosa declinazione, con venature addirittura luddiste, del mito minaccioso della macchina a segnare, a ben vedere, la differenza sostanziale fra il romanzo di Philip K. Dick e la ‘rilettura’ filmica dei due sceneggiatori (Hampton Fancher e David Peoples) di Blade Runner, tutta tesa in qualche modo ad affrancare gli androidi dalla loro stessa programmazione (e dunque dalla loro ‘origine’ umana, insomma dallo specchio catatonico dell’interfaccia), per far emergere al contrario dalla loro ‘rivolta’ il senso di una discesa agl’inferi edipica e titanica, paragonabile, piuttosto, a quella che venne messa in scena alla metà degli anni Settanta dallo stesso Dick per i tossici di Un oscuro scrutare. Così, la storia d’amore fra Rick Deckard e Rachael, nella versione filmica ‘umanizzata’ del 1982 come in quella ‘cyberorgiastica’ del Director’s Cut del ‘91, rimuove senza alcuna esitazione l’interdetto sessuale che anima invece talune delle pagine più intense del romanzo: l’amore per le proprie protesi mediali, il «narciso come narcosi» di cui parlava Marshall McLuhan già nel 1964 (l’innamorarsi insomma delle proprie estensioni tecnologiche senza più riconoscerle come tali), assume nel film di Ridley Scott una connotazione idillica, come una sorta di sfida alla morte e all’inorganico nel nome di una sentimentalità ‘umana’ capace di cantare la vita anche con il sordo ronzio dei relè.
A tener conto delle date di questa ‘rilettura’ (1982, e 1991 in seconda battuta), appare fin troppo facile rintracciare in tale sostanziale modificazione di uno dei temi più aspri del paesaggio con rovine dickiano il manifestarsi di quell’intensa «emozione culturale» (Jurij M. Lotman) sortita dalla diffusione domestica, e friendly, dei computer, strumenti questi ultimi nati per l’interazione faccia a faccia e progressivi dispensatori di ‘mondi interiori’, programmati non a caso sempre di più (da cui la stessa ‘estetica’ cyberpunk) per lasciarsi penetrare. Ma nel ‘68 di Ma gli androidi… le macchine, gli elettrodomestici in verità, per quanto forma umana possano assumere, restano ancora quello che sono: una propaggine ‘stupida’ di chi le ha programmate per ripetere il ‘destino’ stampigliato nei loro circuiti, un ‘falso di vita’ insomma fornito dalle grandi concentrazioni capitalistiche (la Rosen di questo mondo sta alla Ford del nostro, e non ancora alla Microsoft) per arredare confortevolmente la vita divenuta falsa, e dunque un prodotto di serie (Pris e Rachael sono identiche, perché sono lo stesso modello; circostanza che costringerà gli sceneggiatori di Blade Runner dare a Pris le connotazioni di Irmgard, non a caso eliminata dalla storia). E quando Rick Deckard giungerà riluttante e frastornato a fare l’amore con una cosa-non-viva, con un’interfaccia in poche parole capace di simulare risposte emotive in base al proprio specifico programma (perché è in verità la Rosen, in un ultimo tentativo di ‘corruzione’, che gli sta offrendo il corpo di Rachael), il ‘lettore ideale’ di Ma gli androidi…, che è naturalmente un ‘alternativo’ americano di quegli anni (uno di quelli in lotta ‘contro il sistema’, la ‘società dei consumi’ e bla bla bla), avrebbe dovuto provare un intenso brivido di disgusto (emozione che nessun lettore di oggi potrà mai richiamare in sé), come se Deckard si fosse fatto convincere, nel fondo di quella sua disperazione sociale che lo sta trasformando, a sua stessa detta, in «an unnatural self», a scoparsi il frigorifero. La scena di sesso fra Deckard e Rachael portava dunque a compimento, nel ‘68, quella lunga teoria di scivolamento verso l’inorganico e l’inanimato descritta lucidamente da McLuhan già in The Mechanical Bride (La sposa meccanica, del 1951 !), e cantata con il suo cipiglio da storiografo espressionista da Thomas Pynchon in V. (1963), dove, non a caso, l’incunearsi della materia morta nella viva (evento posto alla base di tutto l’incubo della storia novecentesca) viene prefigurato, nelle primissime pagine del romanzo, dal rapporto stabilito dalla ragazza a suo modo amata da Benny Profane con un’elegante e potente MG. Profane, che è già solito pensare a lei (in cui si è imbattuto giusto nel momento in cui stava per essere investito dalla sua MG) come un «inanimate object», capace di usare nella sua conversazione solo «inanimate-words», una notte scorge non visto questa seducente ragazza lavare appassionatamente la sua auto, e rivolgerle nel contempo parole d’intenso desiderio, per poi infine scivolarle dentro, e lì prendere a carezzarle delicatamente la strumentazione, fino ad afferrarle il cambio, e masturbarlo, dolcemente. E questa ragazza che desidera l’inanimato, naturalmente, in V. si chiama Rachel (così come, d’altronde, in Un oscuro scrutarea girare a tutta velocità su una MG sarà proprio un’altra eroina mortale costretta a compiere «cose sbagliate», l’ambigua Donna Hawthorne).
L’amore per l’inanimato, l’amore con l’inanimato, è dunque in Ma gli androidi… l’emblema stesso di una complessiva, alla lettera, degenerazione, e risuona tutto nella battuta dispietata e derisoria con cui Rick Deckard, dopo aver ‘ritirato’ la «signora Baty» (Irmgard), reagisce al «grido di dolore» di Roy prima di ucciderlo a sua volta: «E va bene, tu l’amavi, ma anch’io amavo Rachael. E perfino lo speciale amava l’altra Rachael». Perché se gli androidi di Dick sono stupidamente malvagi come vuole il loro programma, non diversamente vanno le cose per i pochi esseri umani che incontriamo in questo paesaggio con rovine, a partire dallo stesso calvo, imbolsito e impiegatizio Deckard (altro che Harrison Ford!), per finire addirittura alle ‘comparse’, come l’insegnante che guida la scolaresca alla mostra di Munch (il cui tono di voce, mentre tiene la sua brava lezione, suona, pensa Rick, esattamente come quello di un androide). Le grandi capacità empatiche che gli esseri umani millantano (al punto tale che il test per scoprire gli androidi ‘infiltrati’ si basa giusto sull’empatia… ma è stato naturalmente preparato dai campioni del meccanicismo stimolo-risposta dell’Istituto Pavlov), così come la stessa passione per i pochi animali sopravvissuti (che tutti desiderano allevare sul tetto di casa), appaiono in realtà solo l’ennesima contraffazione degli autentici sentimenti che, al più, solo rappresentano. Gli animali, in realtà, sono uno status symbol (come gli androidi nelle colonie), e la loro vita è per gli uomini che li posseggono tanto preziosa quanto la loro quotazione sul Catalogo Sidney (ogni animale è esattamente niente più del suo valore, ecco perché esistono le ‘pecore elettriche’ a portata di tutte le tasche, ben prima della telegenica Dolly). Le scatole empatiche, in virtù delle quali gl’interconnessi soffrono all’unisono (al punto tale, ci ricorda sarcasticamente Dick, che i più anziani e malandati ci possono rimettere addirittura la pelle), rimandano in realtà ad immagini (come svela trionfalmente Buster Friendly, che neanche a dirlo è un androide) di un vecchio set hollywoodiano, e lo ieratico Wilbur Mercer è solo un vecchio mediocre attore alcolizzato che ha prestato la sua professionalità per questa ulteriore truffa. Il tutto, si diceva, in un mondo fatto di vuoti e kipple, chiuso nella difesa di quello che sopravvive della vecchia società dei consumi, e attraversato da un unico martellante refrain (che, a pensarci, e mutando solo un po’ l’evidente connotazione, credo risuoni anche nel nostro): «emigrate o degenerate».
Non è allora un caso che anche la lunga giornata lavorativa del bravo ‘elettrotecnico’ Rick Deckard si chiuda con un’ennesima truffa (anche il rospo trovato nell’Oregon oramai sassoso, magari regalo dell’essenza comunque immortale di Wilbur Mercer, che gli si è nel frattempo appiccicata sugli stessi connotati, non è nient’altro che un ulteriore elettrodomestico). In questo pervasivo ‘sogno di un sogno’, generato sì dalla società dei consumi del nostro ‘68, ma solo in quanto opportunamente consumata da questo alternativo ‘92 (e fino al trionfo del kipple, materia residuale di oggetti o addirittura vite che un tempo ebbero un uso), a Deckard non resta che lasciarsi sprofondare come le pietre scagliate da chissà chi («Faccio quel che fanno le pietre, rotolo senza l’intervento della volontà. E senza alcun senso.»); non gli rimane insomma che accettare, come avrebbe detto McLuhan con guizzo finneganiano (e giusto a proposito delle conseguenze sul sensorio umano delle nuove percezioni offerte dai media elettrici), di essere «astoneaged», cioè vecchio («aged»), e poi sprofondato nel proprio deteriorato radicamento genetico («stoneaged»), e infine stupido («astonished») e comunque strafatto come un tossico («stoned»). E se questo ‘sogno di un sogno’ finisce per cospirare, come sempre nelle narrazioni dickiane, per un doloroso risveglio (ma magari Deckard invece andrà a dormire), è perché in una società così dichiaratamente diretta (cioè rigidamente amministrata), di massa, urbana e conservatrice come quella descritta in Ma gli androidi… (o anche negli altri due romanzi ‘funebri’ che precedono e seguono quello di cui si è parlato, Conter-Clock World e Ubik), e come resta pur sempre la nostra (ma ho a bella posta utilizzato gli attributi che sono propri, secondo José Antonio Maravall, della «cultura del Barocco»), forse solo Philip K. Dick, più di ogni altro, è stato in grado di svolgere la funzione che fu di Calderón de la Barca, e allestire uno dopo l’altro scenari cangianti per l’altrimenti immutabile grande teatro del mondo.
E chi fra i lettori, allertato da questo ‘sogno di un sogno’, in conclusione volesse per davvero gettare uno sguardo su quanto rimane di quell’altro ‘sogno’, quello che siamo soliti attribuire all’anno in cui apparve Ma gli androidi…, a parte qualche giovanottino rabbioso dell’epoca, che da tempo ha indossato la dentiera di Buster Friendly, o magari soltanto il parrucchino dei suoi amichevoli amici, non credo che potrebbe scorgere altro che la distesa di un mare della tranquillità di palta. Magnifico panorama, non è vero?
Fonte: Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, traduzione di Riccardo Duranti, introduzione e cura di Carlo Pagetti, postfazione di Gabriele Frasca, collana Collezione Immaginario Dick, Fanucci Editore, 2000, pp. 286
In LA POLLA F.; FITTING P.; PAGETTI C.; FRASCA G., Philip K. Dick e il cinema, Pag.65-80. ROMA Fanucci.



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