EYES WIDE SHUT: KUBRICK’S EYE 

Speciale Cineforum

Mesto, rigido e cerimoniale o La vita sessuale nel tardo capitalismo

GIORGIO CREMONINI
Eyes Wide Shut
Titolo originale: id. Regia: Stanley Kubrick. Soggetto: dal racconto «Doppio sogno» di Arthur Schnitzler. Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Frederic Raphael. Fotografia: Larry Smith. Montaggio: Nigel Galt. Musica: Jocelyn Pook. Brani musicali: Gyorgy Ligeti. «Musica Ricercata II: Mesto. Rigido e Cerimoniale»: Dmitri Shostakovic. «Waltz 2 from Jazz Sui­te»; Chris Isaak. «Baby Did a Bad Bad Thing». Scenografia: Les Tomkins, Roy Walker. Costumi: Marit Allen. Interpreti: Tom Cruise (Bill Harford), Nicole Kidman (Alice Harford), Sydney Pollack (Victor Ziegler), Marie Richardson (Marion Nathanson), Rade Sherbedgia (Milich), Todd Field (Nick Nightingale), Vinessa Shaw (Domino), Alan Cumming (il portiere d’albergo), Sky Dumont (Sandor Szavost), Fay Masterson (Sally), Leelee Sobieski (la figlia di Milich), Tho­mas Gibson (Carl), Madison Eginton (Helena Harford), Leon Vitali (l’officiante in rosso), Julienne Davis (Mandy), Louise Taylor (Gayle), Stewart Thorndyke (Nuala), Florian Windorfer (il maître del Cafè Sonata), Abigail Good (la don­na misteriosa), Togo Igawa, Eiji Kusuhara (i due giappone­si), Gary Goba (l’ufficiale di marina), Carmela Marner (la cameriera del Gillespie’s), Sam Douglas (il tassista), Angus Maclnnes (l’uomo al cancello), Brian W. Cook (il maggiordo­mo alto), Cindy Dolenc (la ragazza dello Sharky’s), Phil Davies (il pedinatore), Clark Hayes (la receptionist dell’o­spedale), Treva Etienne (l’inserviente dell’obitorio), Marian­na Hewett (Rosa), Michael Doven (il segretario di Ziegler), Leslie Lowe (Illona Ziegler), Jackie Sawiris (Roz), Kevin Connealy (Lou Nathanson), Lisa Leone (Lisa), Peter Benson (il direttore della band alla festa di Ziegler). Produzione:Stanley Kubrick per Warner Bros. Distribuzione: Warner Bros. Durata: 159′. Origine:Gran Bretagna, 1999.
Alice si lascia cadere il vestito, è nuda. Si prepara per uscire col marito, il dottor William Harford. Lasciano la loro bam­bina Helena con la babysitter. Alla festa, da Victor Ziegler, Alice viene avvicinata da un corteggiatore di origini unghe­resi; suo marito Bill, da due modelle molto disponibili. Bill riconosce in Nick, il pianista dell’orchestrina, un suo ex-compagno di college. Gli promette di andarlo a trovare nel locale dove suona. Il padrone di casa fa chiamare Bill di sopra, nel suo bagno: una donna nuda, drogata, ha perso conoscenza. Bill resta con lei fino a che si riprende. In casa, Bill e Alice parlano del loro rapporto, di gelosia, desiderio e sesso. Alice racconta di un incontro con un ufficiale di marina da cui si è sentita attratta. Di notte, Bill, chiamato da una telefonata, deve uscire. Un suo paziente è morto. Nella camera del morto, la figlia che sta per sposarsi dichiara a Bill il suo amore. Per le strade di New York, Bill rivede mentalmente l’incontro d’amore tra la moglie e l’uffi­ciale. Viene avvicinato da una prostituta, Domino, che lo invita in casa. Ma Bill è chiamato al telefonino da Alice. Paga ugualmente la prostituta e torna in strada. Entra nel locale dove suona Nick. Questi gli rivela che, quella stessa notte, dovrà suonare, bendato, durante un’orgia. Per parteci­pare, servono la parola d’ordine, «Fidelio», un costume e una maschera. Bill cerca un negozio di costumi dove affitta man­tello e maschera. Si sentono dei rumori: dietro un divano, il proprietario del negozio scopre la figlia seminuda con due giapponesi, anch’essi seminudi.

Bill va in taxi alla villa dell’orgia. I convenuti hanno tutti quanti il volto coperto da maschere veneziane. Una donna sembra riconoscere Bill e gli consiglia di andarsene. Bill resta e passa di stanza in stanza osservando le coppie che fanno sesso con meccanica ritualità. Quando gli viene chie­sta una seconda parola d’ordine per partecipare al rito, Bill viene smascherato. La donna che l’aveva messo in guardia si dice pronta a riscattarlo. Bill viene messo alla porta. A casa, Alice ride nel sonno. Lei gli racconta il sogno: faceva l’amore con l’ufficiale e con altri uomini davanti al marito e rideva per ridicolizzarlo. Terminato il racconto, scoppia in sin­ghiozzi abbracciandolo.
Bill va a cercare Nick, ma al suo albergo apprende che è par­tito con due uomini. Quindi, riporta i costumi al negozio: manca la maschera. Arriva la figlia del proprietario, in vestaglia, seguita dai due uomini che erano con lei la notte precedente. Il padre offre la figlia a un esterrefatto Bill. In auto, Bill si reca alla villa. Gli viene consegnata una busta in cui lo si invita a non immischiarsi. Bill, nel suo studio, ripensa alla scena di Alice che fa l’amore con l’ufficiale. Chiama al telefono la donna cui è morto il padre. Gli rispon­de il fidanzato di lei. Bill riattacca. Va a cercare la prostitu­ta, Domino. Una sua collega, Sally, lo avverte che Domino ha saputo di essere sieropositiva.
Per strada, Bill si accorge di essere seguito. Su un giornale legge la notizia di una modella ricoverata per overdose. Si tratta di Mandy, la ragazza soccorsa da Bill al party di Ziegler. Va in ospedale, dove apprende che la ragazza è morta nel pomeriggio. Bill ne vede il cadavere all’obitorio. Va da Ziegler, il quale sa tutto sull’orgia, lo sconsiglia di indagare oltre (vi potrebbero essere coinvolti imprecisati personaggi di spicco), tenta di fargli credere che si trattava di una messin­scena e che la morte per overdose della donna nulla ha a che vedere con quanto accaduto alla villa. Al ritorno a casa, Bill trova la sua maschera sul cuscino, vicino ad Alice addormentata. Bill si mette a piangere, Alice si sveglia, Bill le rac­conta tutto.
Bill, Alice e la loro bambina, in un negozio di giocattoli per acquistare i regali di Natale. Marito e moglie si dichiarano il loro amore. Lei gli dice che hanno una cosa molto importante da fare subito: scopare.
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Il 12 luglio, in occasione dell’anteprima di Eyes Wide Shut, «la Repubblica» titola così il pezzo di Irene Bignardi: «Kubrick, più noia che scandalo». Una stroncatura non è un dramma, tanto più se viene da chi ha detto «Signori, questo è cinema!» a proposito di Lelouch. Tuttavia aspettarsi da Kubrick un film porno, sia pure un «blue movie d’autore», è il massimo, ma così è la stampa, baby, e non puoi farci niente: prima costruisce lo scoop dello scandalo e poi, di conseguenza, quello dell’assenza dello scandalo.
Non sono un dramma nemmeno le reazioni istericamente negative della stampa americana. Come dice giustamente Alberto Crespi, riparliamone fra dieci anni. Kubrick, del resto, ci ha abituati ad avere pazienza. Ma anche la stronca­tura è un’arte e, come tale, non è da tutti: un certo Louis Menand, professore di letteratura inglese a New York, non solo accusa Eyes Wide Shut di essere il peggiore dei film di Kubrick, tra i quali salva il solo Stranamore – e sin qui passi, perché tutto è relativo – ma lo fa con imputazioni come questa, che riguar­da la musica: «Il pericolo viene segnalato con una nota acuta suonata ripetutamente al pianoforte: PING PING PING PING. Difficile immaginare che Kubrick, uomo dall’istinto musicale non comune, potesse ricorrere a una tale trovata in modo così stucchevole» (1). Ora si dà il caso che il pezzo in questione sia semplicemente la coda del brano che ricorre con maggiore frequenza nel film, ovvero di «Musica ricercata II» di György Ligeti, da cui lo stesso Kubrick ha attinto già altre volte (2001 e Shining). Dire che il silenzio è d’oro è sin troppo facile.
2 + 2 + 2…
Eyes Wide Shut non è un film d’amore. E una ricognizione nel deside­rio, nell’insoddisfazione, nel dissidio fra inconscio e vita, fra le ennesime variazioni dell’opposizione natura/cultura, nell’inadeguatezza dell’uomo, che Kubrick ha sempre visto come un contenitore di pulsioni al tempo stesso simmetriche e asimmetriche, complementari e contraddittorie.
Tutto Eyes Wide Shut è una continua associazione binaria di figure speculari, a partire dall’opposizione contenuta nel titolo (wide/shut), per proseguire con la sequenza in cui i due prota­gonisti sono seduti, seminudi, davanti a uno specchio, e la steadycam avanza fino ad escluderli e a inquadrare solo la loro immagine, la loro duplicità sdoppiata; i loro corpi rosa si stagliano contro uno sfondo azzurro, mentre più avanti (quando Alice racconta il suo sogno) è lo sfondo a essere illuminato da colori caldi e i loro corpi sono lividi. Ha inizio qui, attraverso lo specchio, il viaggio di Eyes Wide Shut e naturalmente non è un caso che la protagonista si chiami Alice, anche se poi a viaggiare è soprattutto Bill, in uno dei tanti scambi simmetrici-asimmetrici del film.
Lo specchio, la coppia, il doppio – insomma il numero due: il legame è insistente, stretto, quasi ossessivo, in una parola strutturale: il suo ceppo è Arancia meccanicaDue sono i protagonisti, due i sogni che li tormentano. Il protagonista Bill Harford incontra due volte il ricco deus ex machina Victor Ziegler e due volte Milich, il gestore del negozio «Rainbow», che ha una figlia che fa strani giochi con due giapponesi. Due sono le ragazze che vogliono mostrare a Bill «dove finisce l’arcobaleno», destinato a duplicarsi poi nel nome dello stesso negozio. Due sono gli uomini che vanno a prelevare di notte il pianista Nick Nightingale dal suo albergo. Due sono le volte che Bill vede Mandy, la ragazza prima salvata in casa Ziegler e ritrovata nella camera mortuaria, dopo essere stata forse sacrificata nell’orgia. Due sono le confessioni, di Alice e di Bill, due gli incontri con la droga, quello eccessivo di Mandy (un cocktail di eroina e cocaina) e quello morigeratamente wasp di Alice (soltanto marijuana). Duesono le prostitute da cui Bill si lascia inutilmente sedurre, Domino e Sally. E due sono in fondo le fughe di Bill da Marion (la seconda è solo una telefonata a vuoto, ma fa da corollario in negativo del primo incontro).
Le facce dell’uomo sono sempre due, tanto simili quanto inconciliabili, il prodotto di una dialettica imperfetta: la dua­lità dell’essere umano di Full Metal Jacket, la doppia vita di Jack Torrance in Shining, la ripetizione-ritorsione della via crucis di Alex in Arancia meccanica, l’ascesa e la caduta di Barry Lyndon, ecc. Comunque sia, tertium non datur. La vita è una condanna adialettica alla sospensione, all’ambiguità, alla imperfezione.
All’interno di quell’equilibrio-convivenza di opposti che è la coppia, lo spazio maggiore è riservato a Bill, come in Shining era riservato a Jack Torrance. Kubrick predilige l’anello più debole della catena. Bill è poco più che un manichino, incapa­ce di prendere iniziative: aspetta solo qualcuno che lo guidi, dalle due modelle alla prostituta che lo aggancia per strada e infine alla moglie. E impacciato, non sa mai che cosa dire: «Non mi dai mai uno straccio di risposta chiara» lo rimprove­ra lei. I suoi rapporti col mondo si rifugiano continuamente in un cerimoniale meccanico e perbenista – oltre che, come vedremo, monetario – che riduce la comunicazione a puro esercizio fatico: all’inizio, quando lui le dice che è bellissima, lei protesta che in realtà non l’ha nemmeno guardata. E della comunicazione fatica fanno parte la sua abitudine di ripetere sempre, in forma di domanda, l’ultima parte del precedente discorso dell’interlocutore (un esempio per tutti: «Sogno sem­pre cose strane» dice Alice – e lui: «Cose strane?») – ma soprattutto i convenevoli scambiati con Marion davanti al ca­davere del padre. Non c’è bisogno di spingere il pedale del grottesco per afferrare l’ironia della scena. Finché può farlo, Bill sceglie la fuga, e quando non può più farlo ed è costretto a scoprire il proprio vuoto (la maschera sul cuscino, in quello che dovrebbe essere il suo posto accanto a lei), scoppia in un pianto infantile, nemmeno tanto liberatorio, dopo il quale non sa far altro che chiedere di nuovo che fare. Bill è quello che, fra i molti riferimenti mitteleuropei del film, Musil chiamerebbe un «Uomo senza qualità». Il brano di Ligeti sopra ricor­dato ha un sottotitolo che basterebbe da solo a spiegare l’inte­ro personaggio e l’intero film: «Mesto, rigido e cerimoniale».
Dall’altra parte della coppia anche Alice costruisce il pro­prio comportamento sulle buone maniere, fino a usarle per prendersi civettuolamente gioco di un tombeur de femmes ungherese che sembra uscito da un vecchio numero di «Grand Hotel»: ma è comunque a lei che toccano gli unici slanci (la “sparata” a favore dell’individualità femminile, una trascinante risata, nonché il pragmatico e consapevole invito fina­le) e soprattutto il desiderio di quanto più vicino alla natura possa concepire l’uomo moderno. Ancora prima dei titoli di testa, la caduta di una sottoveste rivela il suo corpo nudo. L’incipit ricorda apparentemente la spoliazione d’apertura di Full Metal Jacket, solo che questa era coatta e ripetuta, annichilimento dell’individuo nel corpo omogeneo dei marines, con tutti i suoi riti d’obbligo – mentre in Eyes Wide Shut la donna è sola e il suo gesto esprime un’intenzione, una ricerca di verità che in parte passerà attraverso la marijuana, vissuta con una partecipazione molto maggiore di lui, e riaffiorerà nel racconto dell’incubo (entrambi nudi nella città deserta, la stessa città in cui il marito si aggira alla ricerca di una maschera, di un nuovo abito che gli permetta un paradossale ingresso in società).
Ancora una volta e come spesso in Kubrick, l’opposizione è contraddittoria e paradossale: all’apparenza Tom Cruise è bruno e vitale quanto Nicole Kidman è fredda e stilizzata, ma in realtà il suo Bill non sembra portare con sé altro che un incombente rigor mortis: l’incontro con Marion davanti al cadavere del padre di lei, morto nel sonno, che tra l’altro è il luogo dei sogni; la sieropositività di Domino; il sacrificio di Mandy, presentata dapprima in pericolo di vita per overdose, poi – forse – nell’orgia e infine nella camera mortuaria – una sequenza molto più inquietante, nella sua più che allusiva necrofilia, di quella dell’orgia, cioè di un affresco in campo lungo (ben lontano quindi dalle leggi della pornografia) in cui uomini e donne non solo tendono a disperdersi, ma funziona­no di fatto come vere e proprie macchine celibi.
L’orgia, il Natale, la maschera
Qualcuno ha scritto che le orge non sono così, che nessuno pagherebbe o rischierebbe per prendervi parte. Non ho espe­rienza al riguardo e non posso quindi mettere in dubbio la validità di tale affermazione, ma Eyes Wide Shut non è un promo erotico-turistico. Non è un caso tuttavia che Forgia occupi un posto centrale nella struttura a specchio del film, vero e proprio spartiacque simbolico dopo il quale si ripeterà tutto quello che è successo prima (gli incontri con Milich, con Domino divenuta Sally, con Mandy e con Ziegler). L’orgia non richiama tuttavia il ses­so, che esibisce al contrario in lontananza, ma la maschera, il rito, il cerimoniale: è il momento e il luogo – il cronotopo, direbbe Bachtin – in cui si dispiega il rituale come sostituto-feticcio del rapporto umano.
Le belle maschere impenetrabili e glacial­mente sexy, così come i corpi statuari che le reggono, non mettono in scena una festa, una liberazione sessuale, ma solo un rituale fuori dal tempo: non sono l’esplosione del carnevale contro la quaresima, ma il prolungamento metaforico di questa. Attraverso il rito e la sua essenziale ripetizione invariata la cultura ha sterilizzato la natura, annullato il tempo e cancellato le differenze fra la New York dei nostri giorni e la Vienna di Schnitzler, facen­do dell’una la continuazione non storica, ma ideale, dell’altra: settant’anni nella storia dell’uomo non sono poi tanti (ricordate il passag­gio osso/astronave di 2001?). Non è una novità che l’uomo di Kubrick non sappia fare la sto­ria: è un feto astrale che non germoglia (2001), uno zoppo che può essere solo inchio­dato in un freeze grottesco (Barry Lyndon), un padre Abramo condannato a cercare di uccide­re il figlio e ad esserne ucciso (Shining), un bambino che non cresce (Full Metal Jacket) e l’insanata e insanabile contraddizione natu­ra/cultura (Arancia meccanica).
L’orgia è il punctum centrale del film, come la cura Ludovico per Arancia meccanica: è lo specchio in cui si riflettono anche le immagini quasi ossessive del Natale, con le sue decora­zioni sparse a piene mani per le strade deser­te e nelle case desolatamente vuote o si­lenziose: una New York che continua quella iperrealista di Scorsese (Taxi Driver e Fuori orario), ma con una stridente spruzzata disneyana (2). Non si respira mai aria di festa, perché il Natale non è più una festa, ma il doppio dell’orgia, un palinsesto che com­prende riunioni familiari sotto l’albero e in mezzo a pacchetti-regalo anziché donne nude e copulazioni. Se si preferisce, è una parola d’ordine – come il «Fidelio» che bisogna pro­nunciare per essere ammessi all’orgia (3).
Quando Bill cede al desiderio di quella che crede essere una trasgressione – entrare in una festa alla quale non è stato invitato – compie un gesto tanto sciocco quanto inutile, ovvero tenta di entrare a far parte di un rito collettivo cui non appartiene, ma al quale, come nel «Castello» di Kafka, non si può sfuggi­re: sarà dapprima imprigionato nel centro di un teatro che sembra non aver provato altro che quella coreografia, poi accusato (con una lunga carrellata laterale verso sinistra che mostra, di spalle, le sagome oscure di alcuni dei presenti, e lui sullo sfondo, come nel processo di Orizzonti di gloria). Il ricordo va, oltre che a Kafka, a un celebre racconto di Dürrenmatt, «La panne». Il rito non sa riprodurre altro che se stesso, come nel Buñuel di L’angelo sterminatore: Bill verrà alla fine liberato, sì, ma proprio grazie all’ennesima compo­nente del rituale, il suo fulcro, il sacrificio, in un melodram­ma che sembra uscito dalle raggelanti dispense di Shining e dal sogno maschile per eccellenza: ci deve essere da qualche parte una donna che muore per noi e quella soltanto potrebbe essere l’amore perfetto – quando è troppo tardi per esserlo veramente.
Nella camera mortuaria Bill scopre, a suo modo, dove fini­sce il suo arcobaleno, cioè la natura morta del proprio deside­rio. Tocca il fondo, approda alle radici dell’inconscio, a quel connubio fatale fra amore e morte che aveva già cercato di sfuggire sfuggendo a Marion. Ancora una volta, due sono i cadaveri – e si accompagnano agli unici momenti di desiderio.
Alice, lo specchio e la cornice
Eyes Wide Shut non è un film facile. Nessun film di Kubrick lo è, ma Eyes Wide Shut non ha la violenza iconoclastica di Il dottor Stranamore, né l’acidità corrosiva di Lolita; non ha le immagini stupe­facenti di 2001, né quelle mirabilmente pittoriche di Barry Lyndon; non ha la violenza di Arancia meccanica né un finale che rimette tutto scopertamente in discussione come in Shi­ning; non contiene battaglie, né lotte individuali. Non siamo chiamati ad assumere responsabilità, a partecipare, perché Eyes Wide Shut è un film sui sentimenti e questi sono un trabocchetto in cui è facile cadere: uno di questi è la storia così esplicativa e perciò così falsa di Ziegler – un’aggiunta, rispetto al roman­zo, che spiazza, nel suo apparente eccesso chiarificatorio (ci si potrebbe, per esempio, chiedere come faccia la donna destina­ta al sacrificio – forse Mandy – a riconoscere Bill sotto la maschera). Siamo chiamati piuttosto a esaminare una serie di campioni dispersi in un puzzle pieno di rimandi interni, di accostamenti a distanza, di allusioni e aperture verso spazi che non vengono mai immediatamente dichiarati – ovvero a navigare, per usare un termine di moda, all’interno di un mondo complesso e dotato di mille spiragli, attraverso i quali si intravede qualcosa che assomiglia più a una domanda che a una spiegazione. E allora bisogna lasciare che le immagini e le suggestioni crescano dentro di noi e trovino la loro collo­cazione: mettere insieme le decorazioni natalizie con la festa in maschera, la crisi matrimoniale dei protagonisti con la morte che accompagna quasi tutte le azioni del film, quei manichini che «sembrano vivi», come dice Milich, con quegli uomini e donne che sembrano tutto fuorché vivi; mettere in­sieme le passeggiate solitarie di Bill e la sua afasia comunica­tiva; e magari accostare il finale pensato originariamente e quello scelto alla fine, che se non altro sposta l’azione (il dia­logo conclusivo fra i coniugi Harford) dalla loro casa a un supermarket per bambini (4).
Qualcuno ha voluto vedervi quasi un happy end, o comun­que un segno di speranza. Tuttavia è il caso di andarci cauti: anche in Arancia meccanicaShining e Full Metal Jacket c’e­ra qualcosa che assomigliava a un happy end, ma era soltan­to la superficie, la maschera, e sotto c’era sempre qualcosa che li contraddiceva. Nella sua ostentazione del consumo e dell’opulenza, il supermarket è la continuazione di casa Harford, il topos della moderna ritualità familiare, fatta di soddisfazione e di sogni preconfezionati, in cui i genitori pas­seggiano pensando ad altro e la bambina prova i suoi fremiti di desiderio. Come tutta la loro vita, è improntato allo stesso modello di contatto attraverso il denaro che Bill ha con il mondo: Eyes Wide Shut abbonda di conti da pagare, dai dollari pagati a Domino a quelli promessi al taxista, dal conteggio accurato con Milich ai compiti della bambina, dalla ricerca del portafo­gli prima di uscire di casa al primo dialogo con Nick in casa Ziegler. Tutto il film trasuda denaro, cioè il feticcio per eccel­lenza, come qualcuno ci ha insegnato qualche tempo fa – il sostituto dei rapporti umani nel mondo moderno. Il su­permarket è, se non l’ideale punto di congiunzione – o, per restare in tema, la somma – del rito natalizio, del denaro e della famiglia – il luogo in cui il futuro, cioè la bambina, scopre la bellezza/maschera di Barbie.
Quella di Kubrick è sempre una visione con­temporaneamente e paradossalmente dispe­rata e problematica. Toc­ca ad Alice chiudere il viaggio di Bill attraverso lo specchio, così come lo ha aperto col proprio denudamento. Le sue sono parole piene di buon senso, ma non più che un pragmatico elogio della sopravvivenza, simile a quello su cui si chiudeva Full Metal Jacket: «Sono vivo e non ho più paura» (in analo­gia con il giornale su cui Bill trova la notizia della morte di Mandy che reca in prima pagina la scritta «Lucky to Be Alive»). Una sopravvivenza istantanea, che rifiuta il «per sempre» invocato da Bill, e ripropone ciò che il rituale ha rimosso e continuerà comunque a rimuovere: «Non ci resta che una cosa da fare: scopare», cioè accontentarsi del contin­gente naturale, convivere con la propria imperfezione, alla giornata, perché verità e natura possono vivere solo per atti­mi, come uno spinello, e il tempo non cambia nulla.
Ancora una volta, insomma, Kubrick ci nega il piacere – e la finzione – di un vero, totale e indiscutibile happy end. Ria­pre la storia dove l’ha cominciata: lascia intravedere uno spiraglio, ma solo per la frazione di secondo corrispondente a una sottoveste che scivola dal corpo, a un battito d’occhi, aperti e chiusi quasi allo stesso tempo.
Antropologia del fallimento
Qualcuno, come il già citato prof. Menand, ipotizza che Kubrick non abbia fatto in tempo a ultimare veramente il film ed è anche probabile, vista la sua abitudine di interveni­re fino all’ultimo. In effetti qualche ulteriore limatura non avrebbe guastato, ma ringraziamo i suoi collaboratori e la Warner Bros per non averci provato (5). Ci basta la soppres­sione della debordante voce over prevista dalla sceneggiatu­ra, che forse, nella sua letterarietà, avrebbe acuito l’anacroni­smo che trasporta la Vienna schnitzleriana nella New York di oggi. In ogni caso, considerando che il lavoro kubrickiano di sottrazione e rifinitura ha sempre avuto un grande peso nei suoi film, si può anche affermare che Eyes Wide Shut è un canto del cigno che non possiede la splendida compiutezza delle opere precedenti, ma in cui la mano – e cioè lo stile – di Kubrick è sempre riconoscibile: il gusto per i campi lunghi di imposta­zione scenograficamente teatrale, come nell’orgia o nella festa in casa Ziegler che sembra uscita dal passato dell’Overlook Hotel; l’accostamento violento dei colori caldi e freddi, a partire dalla ricordata prima confessione fra marito e moglie; i movimenti di macchina laterali, e comunque mai in avanti, mai a fingere di superare il distacco antropologico dall’ogget­to; le distorsioni prospettiche operate dalla steadycam, il segno di un mondo sfuggente nella sua sfolgorante ritualità; il clima kafkiano del retrobottega di Milich, con quei due giapponesi prima truccati e poi smascherati, che sembra usci­to dalle pagine più invischianti di «Il processo», con tutte quelle donne che emergono dalle scartoffie e da ogni angolo (a Kafka rimandano anche i due uomini che, nel racconto del groom, vanno a prelevare il pianista Nick, nonché il pedi­namento notturno di Bill, con colori verdognoli che sembrano spalmati da Hopper). E poi la musica, così sen­timentalmente anonima negli evergreen suonati in casa Ziegler e du­rante l’orgia («I’m in the Mood for Love», «When I Fall in Love», «I Only Have Eyes For You», «Strangers in the Night», ecc), così perti­nente nel brano citato di Ligeti o infine così storicamente dissonan­te come nel «Waltz 2» dalla «Jazz Suite» di Shostakovich; e infine il gusto dei rimandi inter­ni, con tutte le simme­trie di cui sopra.
Semmai ci sarebbe da interrogarsi su alcune cose che non ci sono, come quel connubio sog­gettiva/camera look che ha caratterizzato tanto suo cinema da Arancia meccanica a Full Metal Jacket (esemplare al riguardo è la sequenza del labirinto di Shining). Le uniche soggettive sono quelle vir­tuali di Bill che immagina il racconto di Alice e diventa a suo modo narratore di un sogno non suo: non i lampeggiamenti di uno shining rivelatore, ma i segni di un ulteriore spaesamento del protagonista nei meandri di una vita e di un cer­vello che non gli appartengono più, in cui i confini sogno/realtà si dissolvono, come i confini del soggetto in un mondo-oggetto messo in scena con un iperrealismo divenuto totale, indifferentemente esteriore ed interiore. Quello di Kubrick è lo sguardo di un antropologo che non si interroga più sulla differenza fra realtà e sogno (basta il dubbio circa il riconoscimento di Bill da parte di Mandy a lasciarci per sem­pre sul filo impercettibile dell’ambiguità), ma semmai sulla loro continuità. «Un sogno non è mai soltanto un sogno», dice Bill nell’unico barlume di consapevolezza che ha in tutto il film. Il mondo è un insieme di cose e pensieri, di avvenimenti e linguaggio. Nessun limite è più tracciabile, la cultura (del rituale) ha inghiottito la natura (del desiderio), l’ha resa inseparabile da sé, in un intreccio appiattito e fallimentare in cui, disperatamente e problematicamente, continuiamo a cer­care qualcosa che non sappiamo che cosa sia.
(1) L. Menand. Kubrick erotico, «La rivista dei Libri», n. 10, ottobre 1999, p. 13.
(2) Questa incombenza del Natale è presumibilmente una delle ragioni per cui Kubrick ha insistito per togliere ogni traccia di ebraicità alla storia di Schnitzler.
(3) A questo proposito, vogliamo ricordare che l’opera man­cata di Beethoven nasce da un testo teatrale intitolato «Leonore ou L’amour coniugal»? Oppure che «Lo schiaccia­noci» che la bambina chiede di vedere quando i genitori escono è una storia d’amore natalizia che si chiude con la rivelazione del suo essere sogno? «Lo schiaccianoci» sosti­tuisce la fiaba che nel racconto il protagonista racconta alla figlia e, insieme alla storia di Alice e dello specchio, introduce quella dimensione fiabesca che, seppure meno insistentemente che in Shining, permette di non prendere troppo sul serio la storia e la sua sospensione onirica. Sul­l’argomento si veda l’interessante intervento di F. Greco, Perturbanti travelling a procedere, «L’indice», n. 10, otto­bre 1999, p. 47 – con il quale condivido anche l’interpreta­zione del finale e dell’abitudine dei personaggi, soprattut­to di Bill, a ripetere l’ultima frase dell’interlocutore precedente.
(4) Il confronto con la sceneggiatura originaria è di quelli che G. De Marinis definisce «stupidi» (The Movie Script Archive, “Cineforum», n. 387, settembre 1999, p. 93). E vero che un film è un film e basta, ma una recensione non si può limitare a dire «mi è piaciuto/non mi è piaciuto» e qualche volta ragionare su come è stato fatto un film può aiutare a capirlo. Il che, nel caso di Kubrick, è essenziale, perché il suo cinema insiste (nemmeno questa è una novità intelligente, ma va ricordata) sul legame occhio-cervello, su una visione che non è estatica, ma cognitiva.
(5) «Abbiamo deciso che non sarebbe stato giusto. Per questo – lo vedrete – il film è imperfetto. Ci sono alcuni attacchi di montaggio che non funzionano e il missaggio delle musiche non è definitivo»: sono le parole del montatore Nick Galt, «L’Indice», cit., p. 47.
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Macrofisica del potere

EMILIANO MORREALE
Alla morte di Stanley Kubrick, sotto il cui segno è impossi­bile non leggere questo film, si sono riproposti e amplificati alcuni gravi equivoci sulla sua opera. Tv e quotidiani hanno presentato la figura di un geniale rilettore dei generi, ipocon­driaco e ossessivo, senza riuscire a far capire perché, al di là del suo anti-mito, Kubrick fosse un grande regista. Specular­mente, alla sua uscita Eyes Wide Shut affrontava il più gran­de fraintendimento critico cui il cinema di Kubrick fosse andato incontro dai tempi di Lolita.
E giusto così. Segno che il cinema di Kubrick è vivo, e migliore del proprio tempo (ammesso che il proprio tempo stia nella massa dei critici da rotocalco). Il paradosso è, però, che mai come in questo film Kubrick ha aspirato, se non a una comunicazione chiara, a un discorso diretto. Diretto e ambiguo: Eyes Wide Shut è il film più difficile realizzato da Kubrick. Il più ostico, respingente, il meno seduttivo. Non è facile amarlo, proprio per le stesse ragioni per le quali non è facile spiegare la grandezza di Kubrick. Che qui è nuda. Non c’è il genere (non il melò, sicuramente), non ci sono le psicolo­gie (un film psicologico su un protagonista stupido è una contraddizione in termini). Il gelo e la morte, la beffa sovrastano il film. Una volta tanto, leggere un film alla luce della morte del suo autore è, oltre che inevitabile, quantomai fecondo.
Stanley Kubrick è il regista che più in profondità ha inda­gato le dinamiche del potere, seguendolo nelle sue articolazio­ni, nel conflitto tra il desiderio e le istituzioni, tra la Storia e il fondo nero dell’uomo, nelle sue mutazioni e metamorfosi, nei suoi scorrimenti sotterranei e nelle sue esplosioni violen­te. Per Kubrick raccontare l’uomo ha sempre significato rac­contare il potere: la storia dell’uomo non è che storia di rapporti di potere. Siano essi quelli di classe e gerarchici (Oriz­zonti di gloriaSpartacus), sessuali e del desiderio (Lolita), politici e culturali nel senso della cultura di massa (Arancia meccanica) fino ad una visione sintetica sulla storia (Barry Lyndon). Nessun dubbio per Kubrick che ci sia in que­sto percorso una fortissima spinta all’autodistruzione (Il dottor Stranamore, ma anche il percorso luttuoso di Rapina a mano armata), e che su questo sfondo vadano visti anche i due film di fuoriuscita dalla Storia e dal Potere, o meglio di confronto tra quell’uomo, indagato con precisione nei film citati, e ciò che sta fuori di esso: Shining e 2001: Odissea nel­lo spazio.
Eyes Wide Shut è, nel suo muoversi dentro i più profondi meccanismi di potere e nel suo denudarli, erede diretto di Arancia meccanica. È il più crudamente e profondamente “politico” tra i film di Kubrick, quello che ha la pretesa forse di dire quel poco (o quel moltissimo) che Kubrick ritiene di avere imparato sul mondo che ci circonda. La novità che aggiunge stavolta è che non solo la Storia è sempre storia di rapporti di potere, ma che, nella loro forma essenziale, questi rapporti di potere sono sempre alla fine potere sui corpi altrui. La scena dell’orgia è ciò che si troverebbe grattando la crosta di una trasmissione prime-time, è una sfilata di moda al grado zero (le attrici sono top model e vengono fatte ancheggiare come tali), ma è anche Auschwitz. E il potere che mette in scena se stesso senza mediazione, il proprio volto osceno, la propria violenza e insieme la sua stilizzazione.
Eyes Wide Shut è un film popolato di servi, domestici, camerieri, sottoposti: la babysitter portoricana, la serva filip­pina di casa Nathanson, il maggiordomo anziano che recapita il messaggio, i buttafuori e gli accompagnatori del castello. E quasi tutti i rapporti sono rapporti tra servi e padroni: la segretaria del dottore, il pianista Nightingale, il tassista, la prostituta strafatta e quella morta vengono sempre in qualche modo pagati dal protagonista o da suoi pari. Il personag­gio di Cruise è anzitutto un soggetto di potere. A questo pun­to, anche la figura della moglie (che non lavora, sta in casa, non fa nulla) è inevitabilmente tinta di questa tonalità. Eyes Wide Shut è un film di fantascienza e di filosofia della storia, ma è anche e innanzitutto un grande film, un’ipotesi di film definitivo, sulla borghesia, a partire da una prospettiva eccentrica come la sessualità. Una scelta che a posteriori appare quasi obbligata per un così sottile analista del potere; Kubrick non ha bisogno di Foucault, e gli bastano i suoi autori del ‘700 per sapere che «la sessualità è originaria­mente, storicamente borghese» (1) e che un film sulla sessualità è anche un film sulla borghesia. Eyes Wide Shut è “Barry Lyndon nel 2001” (Cruise è monocorde e inespressivo come Ryan O’Neal, il suo percorso non è più di “ascesa e caduta” da «Rake’s Progress», ma di discesa “aldilà del principio di piacere” in un mondo che egli non domina più e che gli sfugge di mano, lo sovrasta e lo annichilisce).
Il potere è in effetti anzitutto pote­re sui poveri e sulle donne, sul corpo dei poveri e sul corpo femminile. Nel­la prima parte dell’orgia sono i corpi di donne ad essere sottomessi; solo in un secondo momento gli intrecci di corpi si ingarbugliano e troviamo uomini in posizione di vittima, ma volontariamente, come forma di perversione. Kubrick è certo un regista misogino (ma in quanto misantropo), e si può discutere sul ruolo di garante della con­sistenza corporale attribuito alla Kidman. Purché sia chiaro che appunto di consistenza corporale e non istituzionale (familiare) si tratta: la Kidman è innanzitutto un corpo e un desiderio, si deodora le ascelle, orina e si asciuga il sesso, bar­colla e sogna, invadendo le fantasie del marito. Alla fine è lei a preservare la possibilità di un corpo non offeso e desideran­te, di un fondamento minimo di morale e consistenza laica e materiale. Al «Per sempre» del marito nel finale, risponde: «Non usiamo quella parola» – una delle poche aggiunte di Kubrick alla conclusione di Schnitzler; l’altra, sempre affida­ta alla Kidman, è «Scopare» (nonostante tutto, verrebbe da dire).
Per continuare su questa linea, un po’ provocatoria, della ricostruzione del “messaggio”, diremo che la cosa importante in questo discorso è che esso viene condotto da Kubrick da una posizione sì moralista, ma di moralismo assolutamente laico, ateo e materialista. Nel senso non del materialismo sto­rico, ma proprio in quello del sensismo settecentesco. Nean­che in questo film Kubrick rinuncia ad usare il Settecento come guida. Molto più della Mitteleuropa di Schnitzler, è il Settecento il referente intellettuale di Eyes Wide Shut: e del resto Schnitzler è il più “settecentesco” dei mitteleuropei, con i suoi marivaudages e giochi dell’amore e del caso («Giroton­do») o racconti come «Il ritorno di Casanova» (e lo stesso «Doppio sogno» è costruito su una imagery in parte implicita­mente settecentesca, fin dall’inizio con l’apparizione delle figure in domino rosso). Samuel Johnson, Gainsborough, soprattutto Swift: da Orizzonti di gloria a Stranamore, da Arancia meccanica a Barry Lyndon, il ‘700 è ciò a cui sempre Kubrick torna per sciogliere, o complicare, i temi (come nella morte di Humbert in Lolita o nella “Wunderkammer” del finale di 2001). Ma stavolta è più il ‘700 degli ideologues: non solo la combinatoria dei corpi di Sade, dunque, ma anche l’i­dea dell’«Uomo macchina» di La Mettrie, e insomma tutti coloro che rifiutano l’esistenza di un’anima e si mantengono fedeli ad un sensismo radicale. E il Settecento degli automi e del rapporto tra potere e organizzazione dei corpi, riletto taci­tamente da Kubrick. Anche per Kubrick «l’anima non è un’i­potesi necessaria», l’uomo è un impasto ambiguo di pulsioni e finzioni, di costruzioni sociali e abissi; ma la sua visione etica della civiltà umana, pur non condotta dal punto di vista di una morale cristiana o kantiana, è nettissima e quasi didatti­ca (2).
(Piccola parentesi. Tra i pochissimi film in qualche modo avvicinabili a questo di Kubrick, inspiegabilmente mi sono venuti alla mente due altri film cupamente e mediatamente “settecenteschi”, usciti entrambi nel 1976: Il Casanova di Federico Fellini e Salò o le 120 giornate di Sodoma. È curioso che in quello stesso anno, al principio di una radicale restau­razione culturale prima che politica, tornassero al Settecento Stanley Kubrick con Barry Lyndon, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Gli ultimi due indagandolo anche a partire da una centralità dell’intreccio di sesso e potere, tra marchinge­gni e panopticon; Kubrick ripara adesso alla rarefazione asessuata del suo film di allora. E sempre nel 1976, Michel Foucault pubblica sugli stessi temi «La volontà di sapere», in cui dice di voler «trascrivere in storia la favola dei Bijoux indiscrets»).
Stilisticamente, il “materialismo” kubrickiano significa due cose. Intanto, un rifiuto totale delle psico­logie in nome di una prossimità alle pulsioni e ai corpi e ai labirinti della mente; anzi, in nome di una sorta di idea biologica e appunto sensista dei labirinti e degli abissi della mente. Lo aveva già notato Gilles Deleuze: «Il cervello domina il corpo che è solo una sua escrescenza, ma anche il corpo domina il cervello che è solo una sua parte. (…). Se si considera l’opera di Kubrick, si vede a che punto è il cervello ad essere messo in scena. Gli atteggiamenti di corpo giungono alla massima violenza, ma dipendono dal cervello. In Kubrick infatti il mondo stesso è un cervello, vi è identità tra cervello e mondo» (3). E «il mondo-cervello è stretta­mente inseparabile dalle forze di morte». Gli esterni del film, con una grana pastosa e calda danno parti­colarmente idea di questa sensualizzazione dell’immagine filmica, tanto da far dire a un attonito recensore americano che sembravano delle riprese di prova, insomma dei sopralluoghi (4).
L’altro senso dello stile materialista di Kubrick è, parados­salmente, l’intellettualismo, un intellettualismo che ha come abbiamo visto radici assai complesse. La “freddezza”, il rifiu­to di ogni pathos sono la cifra stilistica costante del film, che si nega ad ogni seduzione nei confronti dello spettatore e costantemente esibisce il fatto di non rimandare a nient’altro che a se stesso. Il visibile è tutto: in questo senso il cinema di Kubrick approda qui alla negazione di ogni “trascendenza nel visibile”, di ogni tentativo di vedere l’invisibile nel visibile. Il rapporto con lo spettatore è mentale, razionale/animale. Potremmo dire che, partendo dall’arte “intellettualistica” del 700, Kubrick arrivi a Brecht (del resto, la “morte dell’arte” che sta alla base delle estetiche delle avanguardie era teoriz­zata da Hegel pensando anche e soprattutto al ‘700 di Dide­rot, Sterne e Hogarth).
Molte parti del film sono assolutamente incomprensibili, sconcertanti se misurate in base alla percezione comune del bello, quella insomma che tacitamente ereditiamo dall’esteti­ca romantica. La lunga tirata di Sydney Pollack, per esempio, che appesantisce la narrazione e banalizza la vicenda (o la ingarbuglia ancora di più, secondo i punti di vista) non rien­tra nelle economie della narrazione che siamo abituati a fre­quentare; e così tutta la seconda parte, in cui Tom Cruise ripercorre i luoghi in cui è già stato, in una specie di monoto­na coazione a ripetere (è probabile peraltro che Kubrick volesse intervenire su quest’ultima parte, fatto sta che comunque il film da un certo punto in poi si ripete) proprio perché non era probabilmente pensata sui tempi delle azioni e degli accadimenti ma su quelli di uno svolgimento mentale-sensuale che ha esigenze e tempi differenti da quelli del cine­ma corrente. Il cinema di Kubrick si rivolge allo stomaco e al cervello, escludendo il “cuore”.
E così si spiega anche quella stravagante passione di Kubrick per i giochi di parole, le allusioni, i falsi indizi, le didascalie, le spiegazioni e le contraddizioni. Quando Cruise entra nella stanza della prostituta, campeggia in primo piano un volumone con la scritta «Introducing Sociology», una spe­cie di cartellone da teatro epico brechtiano (5); senza contare i continui giochi sui nomi dei personaggi, da lei che si chiama Alice (through the mirror) alla parola d’ordine che è «Fidelio» (l’amor coniugale, ma anche un marito che si salva grazie alla moglie, e un crudele apologo sul potere), ai richiami al «Mago di Oz» («Over the Rainbow»)
Avventura dello sguardo
E qui ci avviciniamo ad un secondo punto, più delicato. Men­tre scarnifichiamo ancor di più il testo kubrickiano non dobbia­mo dimenticare che il cuore del suo cinema batte altrove, ed ogni ermeneutica cozza contro le pareti del suo cinema-cervel­lo. Un recensore ha letto il «to fuck» finale del film come una invocazione «contro l’interpretazione», un «richiamo ad un pen­siero – ad un esercizio critico – che la smetta di voler essere ermeneutico, e cerchi di essere erotico. Che non pretenda, cioè, di aver capito e di poter spiegare tutto, ma riesca a sentire e vedere – a farci sentire e vedere – di più. D’altronde, è questo che Kubrick ha sempre fatto con i suoi film abbaglianti» (6).
Kubrick è un sopraffino cineasta dell’ambiguità (7) e in lui il fascino-repulsione delle dinamiche di potere ha una pro­spettiva vertiginosa, un fondo che sfiora quasi i limiti non della Storia ma proprio dello spazio-tempo, perché si intrec­cia inestricabilmente con l’avventura dello sguardo. E il per­corso avventuroso dello sguardo a dettare anzi il ritmo del film, la sua progressione. La esibita “verticalità” anti-postmoderna della vicenda, il suo percorso lineare e inesorabile ad esplorare anfratti, pianerottoli, retrobottega, chioschi, in una visione della metropoli fatiscente e démodée, traccia la storia dell’avventura di uno sguardo, non meno abissale e travol­gente di quella di 2001.
Lo sfasamento e l’incantesimo che dà l’avvio a questo viag­gio è l’improvvisa idea di un altro sguardo, quello della don­na. Perché se la Kidman è corpo, è innanzitutto sguardo. Ali­ce è specchio, fin dalle prime sequenze in cui si guarda e chie­de al marito di essere guardata; è nella ormai famosa scena dell’amplesso allo specchio che questa sua funzione viene espressa quasi allegoricamente. Si guarda ancora nello spec­chio della toeletta prima di svelare il proprio desiderio al marito, nella sequenza che dà l’avvio alla storia, e la vediamo continuamente alle prese con questi occhiali che si mette e si toglie, che scavalca con lo sguardo. E la notte del marito è popolata di sue sosia, doppi speculari appena imbruttiti, ine­betiti, guasti. Non è un caso che sia lei, nella primissima immagine, a denudare/denudarsi, con un gesto ancora una volta ambiguissimo: smascheramento? affermazione del corpo? paradossale richiamo al gesto identico compiuto dalle modelle nell’orgia? Infine, è lei a giacere con accanto la maschera del marito, in un gesto che nel romanzo è chiaro (lui ha dimenticato a casa la maschera) e che Kubrick ambiguizza.
Nonostante Schnitzler, c’è ben poco di freudiano in questo film. Semmai, c’è l’ultimissi­mo Freud o addirittura Lacan, per il quale – ha scritto un interprete recente – «la prova dell’esistenza dell’Altro risiede nella sua jouissance, cioè nel suo godimento» (8). Il percorso di Cruise ha inizio con la confessione della moglie; i piani fissi sul volto attonito di Cruise sono accompagnati dalla musica di Ligeti e non ci stupiremmo di veder apparire sulla sua faccia i riflessi rossi e blu dell’astronauta Bowman oltre l’infinito. Il viaggio è iniziato, preannunciato da una di quelle lacerazioni nel tessuto narrativo che Kubrick affida alla macchina a mano (come le aggressioni di Arancia meccanica, o lo scontro col figliastro in Barry Lyndon). Da allora la bussola di disorienta­mento saranno le impossibili figurazioni del desiderio femmi­nile da parte del protagonista: lui lo vede in bianco e nero, come gli animali vedono il mondo degli uomini.
Ma già il prologo ha messo tutto in chiaro: abbiamo visto il primo corpo offeso (la prostituta), la banalità della seduzione (l’ungherese), la rivendicazione dello sguardo (la serie di gesti con gli occhiali, l’invocazione ad essere guardata); soprattut­to, facendo l’ipotesi di una conformità di massima del mon­taggio alle volontà dell’autore, assai significativo è il fatto che a presentare i personaggi sia questa scena notturna ed enigmatica, e che solo dopo ci venga presentato il versante diur­no, oltretutto, con una serie di dissolvenze incrociate che accentuano un carattere di lento viaggio.
L’avventura dello sguardo prosegue. Nella scena della pro­stituta, appare sì la scritta «Introducing Sociology»; ma accanto a questo volume ce n’è un altro, poggiato su uno spec­chio. Ad una visione successiva mi è sembrato di decifrarlo: dovrebbe essere «Windows and Mirrors» (Mirror sicuramen­te). Tra alberi di Natale, manichini che sembrano usciti da Killer’s Kiss e un pianista che dice «Suono ad occhi bendati», si arriva con un’altra serie di dissolvenze incrociate, alla villa dell’orgia, con un carrello in avanti identico alla fuga in mac­china di Alex e dei drughi.
La scena è l’apice della visione del potere e insieme dell’av­ventura dello sguardo. Siamo dalle parti di Shining; ma alle convulsioni grottesche delle figure precedenti (l’ungherese, la figlia di Nathanson, il venditore Milic e la figlia, i giapponesi) subentra una rigida solennità. Cruise è contemporaneamente dentro e fuori, osservatore e partecipante, ed è a questo punto evidente come il film sia anzitutto la narrazione di un rappor­to tra un punto di vista e una serie di rapporti di potere. Tutto cospira a mettere sotto esame il voyeurismo dello spettatore.
La costruzione della scena meriterebbe un’analisi approfondita. Qui voglio solo notare un piccolo procedimento tecnico con il quale Kubrick riesce a costruire il proprio atteggiamento critico e un effetto fortemente disturbante. La com­posizione delle inquadrature è classica e squisita, da tableau vivant, con un gruppo di osservatori immobili che accerchiano dei corpi che si accoppiano. Saremmo paradossalmente vicini alle riletture hogarthiane di Barry Lyndon. Senonché, i corpi che scopano si muovono ad una velocità parossistica, antieste­tica, come se fossero sempre sull’orlo di un furibondo orga­smo. I “quadri” hanno perciò un conflitto interno insostenibi­le, un delirio d’immobilità in cui è impossibile immedesimarsi con alcuno. Non sappiamo se sentirci osservati o osservatori, coinvolti o lontanissimi, come se un porno avesse fatto irru­zione dentro l’arte borghese. Senza contare che la ritualità della scena richiama l’altro rito della festa iniziale e anche la ritualità del montaggio incrociato tra la Kidman a casa e Cruise al lavoro con i corpi, sulle note del valzer di Shostakovich. Il dottore vive già nell’orgia, e non lo sa. Qui Cruise sfiora pericolosamente un cortocircuito tra potere e sguardo, rischiando che l’avventura dello sguardo lo conduca alla condizione di corpo-vittima, rischiando la degradazione da sguardo a corpo. Smascherato, gli viene intimato di spogliarsi. Ci vorrà il sacrificio di una donna per salvarlo. E qui ancora si può discutere sulla misoginia kubrickiana, ma mi pare comunque che proprio l’assurdità, la gratuità del sacrificio della donna siano un dato non trascurabile. Perché una sconosciuta dovrebbe sacrificarsi per un idiota come il personaggio di Cruise? In che cosa consiste questo suo sacrificio? L’importante è che questo gesto sia gratuito, anche se poi la beffarda disposizione kubrickiana fa sì che anch’esso forse rientri in un grande gioco, e che insomma non abbia niente di nobile. Anche qui, nessun pathos.
E certo, la lunga spiegazione di Sydney Pollack lascia scon­certati. Questa parentesi didascalica, in una stanza dall’evi­dente arredo settecentesco con quadri dell’epoca alle pareti, fa acqua da tutte le parti: «Polizia soddisfatta», «La ragazza sarebbe morta comunque». È la parodia di una spiegazione. Comunque sia, è una beffa nei confronti degli spettatori: che convinca o meno, il suo senso è pazzesco. Ammettiamo dun­que che la contorta spiegazione mostri, al contrario che in Schnitzler, che davvero «tutto è burla»: Ma intanto qualcuno è morto davvero, come obietta Cruise. E poi, forse è anche peggio. Insomma, il potere è cavo, il suo nucleo è vuoto, esso non è che una gigantesca farsa- in cui però si muore davvero. La vertiginosa discesa di Cruise non approda a niente, e in fondo più che una presa di coscienza si tratta di una coscien­za del nulla, di una colossale impostura. Il sospetto è che alla fine del percorso Cruise, lungi dal ritrovare se stesso, ritrovi se stesso come impostura suprema, una “maschera nuda”. «Ciò che scopriamo nel nucleo più profondo della nostra personalità è una fondamentale, costitutiva, primordiale menzogna, il pròton pséudos, la costruzione fantasmatica per mezzo della quale cerchiamo di nascondere l’inconsistenza dell’ordi­ne simbolico in cui dimoriamo» (9).
Resta solo il «to fuck». Kubrick nega non solo la soddisfazione della redenzione, ma anche il piacere dell’ambiguità, e sembra dirci che anche l’avventura dello sguardo è votata alla sconfitta. Terribile ed enigmatico apologo sul dominio e sul fallimento dello sguardo, Eyes Wide Shut è davvero un’estrema beffa agli spettatori; e che sia incompiuto e postumo aggiunge sconfitta a sconfitta, in un senso di fine che esclude non dico qualsiasi feto astrale o luccicanza, ma anche qualunque catarsi.
(1) »La volontà di sapere». Feltrinelli 1977, p. 113.
(2) La Vienna di Schnitzler è ancora più chia­ramente del ‘700 un equivalente della “borghesia”, e anzitutto sotto il segno di Freud. Uno dei progetti mancati di Kubrick è l’adat­tamento di «Bruciante segreto» di Zweig, e uno dei riferimenti fondamentali di Kubrick è stato da sempre Max Ophuls (adattatore di «Liebelei», «Girotondo» e «Lettera da una sco­nosciuta» da Zweig), anche se in questo caso non bisogna dimenticare Eric von Stroheim che in una celebre sequenza censurata di Femmine folli ha una scena di orgia assai simile a quella di Eyes Wide Shut.
(3) «L’immagine-tempo», Ubulibri 1989, pp. 227-28.
(4) Louis Menand, «La Rivista dei Libri», ottobre 1999. L’autore a cui più si può avvicinare la ipersensualizzazione delle scene attraverso un allucinato realismo che sembra prodotto dalla sensazione dei personaggi è forse Kieslowski, altro beffardo amante dei giochi del caso. Del resto, una delle pochissime sortite pubbliche di Kubrick negli ultimi decenni era stata proprio la prefazio­ne all’edizione inglese della sceneggiatura del Decalogo.
(5) Nella versione italiana il ritaglio di giornale con la notizia del ricovero per overdose della ragazza è ritagliata curiosamente sotto una pagina di notizie economiche. L’occhiello recita: «I dubbi di Agnelli», e si accenna ad un passag­gio di azioni della Telecom. Sapendo che Kubrick dirigeva anche gli inserti, sarebbe curioso se anche nelle altre versioni ci fosse qualche ragguaglio del Capitale dei vari paesi.
(6) Ezio Alberione in «Duel», ottobre 1999.
(7) Sullo stesso numero di «Duel» lo ricorda Mario Sesti: «Ciò che è straordina­rio, ancora una volta, non è la qualità ideologica di questo teorema, ma la fenomenale ambiguità dello sguardo che l’attrezza: dire che Eyes Wide Shut è un film che disarticola (o celebra) la famiglia è come dire che 2001 condanna o celebra la tecnologia o che Arancia meccanica condanna o celebra la violenza».
(8) Slavoj Zizek, «Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di mas­sa», Feltrinelli, Milano 1999, p. 32.
(9) Slavoj Zizek, op. cit, p. 9
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Doppi sogni sullo schermo

Schnitzler da Curtiz a Kubrick

PAOLO VECCHI
«Qualcuno gioca con i soli, con le stelle, io gioco con le anime. Un senso lo troverà soltanto chi lo cerca. L’uno dentro l’altro scorrono sogno e veglia, verità e menzogna. In nessun luogo v’è certezza. Nulla sappiamo degli altri, nulla di noi; giochiamo sempre, chi l’intende è saggio».
(Arthur Schnitzler, «Paracelso»)
Nell’ambito degli scrittori della decadenza dell’Impero Absburgico, Arthur Schnitzler è certo quello che intrattiene rapporti più stretti col cinema. Come hanno documentato in Italia il suo esegeta principe Giuseppe Farese e, sul versante della critica cinematografica, Leonardo Quaresima, questo medico ebreo, in qualche modo alter ego letterario di Freud, comincia infatti ad interessarsi alla settima arte fin dai suoi albori (1). Da spettatore appassionato, registra nel Diario le sue acute impressioni: è entusiasta del Potëmkin, si commuo­ve per Lon Chaney, mentre di Metropolis apprezza l’apparato figurativo, sottolineando tuttavia la pochezza dell’aspetto narrativo-simbolico. Da addetto ai lavori, collabora alla riduzione cinematografica dei racconti Freiwild (Selvaggina, 1928) di Holger-Madsen, e Gioco all’alba (La piccola amica, 1931) di Jacques Feyder, realizzato a Hollywood, pare, in base alle sue istruzioni; delle pièces Amoretto (portata sullo schermo due volte, nel 1914 da Holger-Madsen e nel 1927 da Jacob e Luise Fleck) e Der junge Medardus (Il giovane Medardo, 1923), dell’ungherese Mihaly Kertesz, che avrebbe fatto carriera in Usa come Michael Curtiz; del monologo inte­riore La signorina Elsa (1929), di Paul Czinner, interpretato da quella stessa Elisabeth Bergner che il 7 febbraio 1926 l’a­veva letto al pubblico nella sala plenaria del Reichstag; men­tre è completamente estraneo alla prima versione di «Giro­tondo» (Richard Oswald, 1920), nella quale peraltro non rimane quasi nulla, a parte il titolo, del suo testo, e giudica «una delle opere più stupide del suo genere» Fragilità sei fem­mina! (1921), che il tycoon Cecil B. De Mille deriva da «Anatol». Lo scrittore elabora altre sceneggiature dai propri racconti: «Der Schleier der Pierrette» (Il velo di Pierrette), «Der Ruf des Lebens (Il richiamo della vita), «Die grosse Szene» (La grande scena), «Il flauto pastorale» e, naturalmente, «Doppio sogno», di cui ci occuperemo più avanti, azzardando perfino un lavoro concepito espressamente per lo schermo, «Kriminalfilm» (Film giallo), abbozzato negli ultimi mesi di vita e rimasto incompiuto.
Che Schnitzler abbia avuto un occhio particolare per il cinema – così come il cinema lo ha avuto per lui -, più dei contemporanei Musil e Kraus, Hofmannstahl e Roth, ai quali pure lo accomunava una curiosità moderna, assai poco da let­terato, lo si deve a una serie di motivi già agevolmente leggi­bili nella sua opera. Tra essi, due ci sembrano assumere particolare rilevanza: quello che Otto Brahm, direttore del Deutsches Theater, definiva uno stile pointillistisch, e che per Paolo Chiarini consiste nel «costruire la fisionomia dei personaggi attraverso la fitta tessitura di un dialogo giocato non tanto sul rapporto dialettico e logico, quanto su una impres­sionistica giustapposizione di elementi, di spunti, di macchie di colore, di squarci psicologici, di reazioni emotive colte non nella tonalità dispiegata e distesa delle decisioni, bensì nel tremito che accompagna il loro manifestarsi, nelle reticenze, nelle irresolutezze, nelle parole pronunziate a mezza bocca, nelle occhiate allusive e significanti più di qualsiasi rotonda verbosità» (2); il monologo interiore, che Schnitzler deriva da «Gli allori sono tagliati» (1888), di Edouard Dujardin, speri­menta nello straordinario «Il sottotenente Gusti» (1900, forse non a caso un anno dopo l’«Interpretazione dei sogni») e per­feziona nel corso degli anni fino a raggiungere l’esito indi­menticabile di «La signorina Elsa» (1926). Se il pointillisme lo si può riferire genericamente a un complesso di modalità narrative di stampo prettamente cinematografico, la tecnica del monologo interiore, che Joyce svilupperà nello stream of consciousness, rappresenta in qualche modo il corrispettivo lette­rario della soggettiva cinematografica: entrambi costituiscono un formidabile aggancio per un “‘linguaggio parallelo”. Non è dunque un caso se anche dopo la morte di Schnitzler il cinema continua a rivolgersi periodica­mente all’autore di «La signora Berta Garlan». Talora i risultati sono modesti, addirit­tura pessimi, Il piacere e l’amore (1964), di Roger Vadim, è una stupidaggine pseudoero­tica che banalizza il susseguirsi algido, lieve e insensato di “calci di Venere” in «Giroton­do», e altrettanto maldestro è il suo clone, Il girotondo dell’a­more (1973), di Otto Schenk, solo un po’ più ruvidamente teu­tonico nelle sequenze degli accoppiamenti; non ci pare poi sia il caso di infierire più di tanto su Il ritorno di Casanova (1977), di Pasqualino Festa Campanile, un regista che pure, col rispettabile Le voci bianche (1964), aveva dimostrato di trovarsi sufficientemente a proprio agio in ambiente settecen­tesco (3).
Sul piano di una dignitosa illustrazione si situano Das Weite Land (L’ampio paese, 1987), di Luc Bondy, un bravo teatrante che non sa andare oltre una regia televisiva, incapace di risolvere sul piano della stilizzazione quei nodi che recita­zione (Piccoli, Cluny), fotografia (lo herzoghiano Thomas Mauch) e décor affrontano con sicurezza, e Mio caro dottor Grasler (1990) di Roberto Faenza, film indubbiamente colto e pensato, smagliante per apporti tecnici (Rotunno, Canonero, Burchiellaro), ma che ancora una volta rimane sulla superficie del bellissimo racconto.
Su un altro pianeta, ovviamente, i due capolavori diretti da Max Ophuls, Aman­ti folli (1933), da «Amoretto», e La ronde (1950), da «Girotondo». Ma tra Schnitzler e questo genio del cinema, oltre al comu­ne ceppo etnico-culturale, c’è un’assonan­za che coinvolge temi profondi, come l’a­more e la sua impossibilità, l’ineluttabilità del destino e la consapevole malinco­nia con cui ad esso ci si rapporta, «il fatuo epicureismo e l’incredula sensualità della belle époque viennese» che svelano «il vuoto e la crudeltà della loro frivolezza epidermica» estenuandosi «in uno stanco e scettico gioco dei sentimenti, in un minuetto di passioni che non trovano la forza di credere in se stesse» (4), tanto che potrebbe essere riferita senza aggiustamenti allo scrittore la celebre defini­zione che Rivette e Truffaut hanno dato del regista: «Era così sottile da farlo giudicare pesante, così profondo da farlo definire superficiale, così puro da farlo scambiare per licenzioso». Esempio folgo­rante di sintonia tra scrittura letteraria e scrittura cinematografica, stile e morale, il connubio Schnitzler-Ophuls va oltre la meccanica derivazione racconto(o pièce)-film: tanto che il regista tedesco risulta profondamente legato all’universo schnitzleriano anche quando, ad esempio, adatta Zweig in un altro capo d’opera, Lettera da una scono­sciuta (1948), addirittura quando si misura con Goethe (e, sia pure in modo indiretto, con Massenet) nel limpido, commo­vente, magnifico Werther (1938).
Purtroppo non conosciamo Sylvesternacht – Ein dialog (Notte di San Silvestro – Un dialogo, 1977), il corto realizzato in Germania da un anziano Douglas Sirk in vesti didattiche, ma possiamo supporre a buon diritto che l’autore dell’indi­menticabile La prigioniera di Sydney(1937) possa essere stato in grado di cogliere quella dimensione filosofica del melo­dramma che appartiene anche a Schnitzler.
Concepito tra il 1921 e il 1925, «Doppio sogno» (nell’origi­nale, «Traumnovelle») costituisce un sog­getto ideale per il cinema, non fosse che per il suo onirismo insieme controllato e caleidoscopico. Lo ha ben presente lo scrittore, che nel 1930 abbozza una tren­tina di pagine di sceneggiatura, attuando già alcuni procedimenti di sviluppo e semplificazione (il ballo in presa diretta e non più rivissuto nel ricordo di Fridolin e Albertine, il montaggio parallelo degli eventi…) di cui si serviranno anche Raphael e Kubrick. Il regista di 2001 le riprende idealmente in mano verso la fine degli anni Sessanta, ma, come è noto, debbono passare tre decenni e tre film (in uno dei quali, Shining, si avvertono forse le suggestioni del progetto momentaneamente abbandonato nella sequenza della festa roaring twenties) prima che possano concretizzarsi in Eyes Wide Shut. Ammiratore dichiarato di Ophuls, col quale condivide la capacità «di cogliere la vanità e la falsità delle cose nonostante ne ricono­sca la futile bellezza» (5), pur non cercando un’analoga sintonia con Schnitzler, teso com’è a violentare il testo di partenza sotto la spinta di personalissime ossessioni, Kubrick rimane sostanzialmente fedele alla lettera di «Doppio sogno». Ci sono, per la verità, alcuni interventi di un certo peso, come l’introduzione del personaggio di Ziegler, deus ex machina e tramite fra il mondo della luce e quello delle tenebre, interpretato con luciferina autorevolezza da Sydney Pollack. Ma, nemmeno tanto paradossalmente, lo spostamento dell’azione in una New York di oggi, notturna e livida, con tutti gli aggiornamenti del caso, da quelli più ovvi (l’Aids in luogo del­la sifilide) a quelli più sottili (la parola d’ordine, «Danimarca», che brucia l’animo di Fridolin ricordandogli la passione non consumata da Albertine su una spiaggia dello Jutland, qui si trasforma in «Fidelio», l’opera di Beethoven che ha come significativo sottotitolo «o L’amor coniugale»), rientra in una sia pur più accentuata strategia dello spiazzamento che, nella ricerca di realtà che attengono al profondo (più precisa­mente, a quello che lo scrittore, adattando una categoria freudiana, chiama medioconscio, ovverossia «quella specie di ter­ritorio fluttuante fra conscio e inconscio») ci sembra appartenere anche al racconto (6). Dapprima, pur nella pratica dell’a­bituale, elevatissima cifra stilistica, Kubrick dilata i tempi della novella riempiendoli di dialoghi esplicativi non sempre di grande qualità letteraria. Si veda, per tutti, il confronto tra i coniugi, che dipana con qualche banalità la sublime ellissi schnitzleriana: «Si scambiarono domande ingenue eppure insidiose e risposte maliziose e ambigue; a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era in fondo sincero e si sentirono, così, inclini a una moderata vendetta. Esagerarono nel valutare l’attrazione che gli sconosciuti partners del ballo in maschera avevano esercitato su di loro, si beffarono, negandoli, dei moti di gelosia che lasciavano vicendevolmente trapelare. Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraeva­no appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino» (7). Al di là del parziale sacrificio del personaggio femminile (ma, si sa, Kubrick non ha mai fatto un “cinema di donne”), l’impressione è quella di un montaggio provvisoria­mente definitivo, per parafrasare un altro grandissimo scrit­tore austriaco; detto in altri termini, della mancanza di quel­le ultime rifiniture che il leggendario perfezionismo del regi­sta ha dovuto concedere alla morte. Poi, dopo lo snodo della strepitosa sequenza dell’orgia, il film prende una direzione accentuatamente horror, una vena che d’altronde attraversa un po’ tutta l’opera di Schnitzler, dall’allucinato «Fuga nelle tenebre» al curioso «Il destino del barone von Leisenbogh», che sconfina addirittura nella parapsicologia. Nella progres­sione verso il ribaldo soprassalto conclusivo che, affermando il primato del corpo, consuma la divaricazione ma non risolve, pur raggelandola, la sofferta ambiguità del testo lettera­rio, trionfano le ragioni del cinema del Demiurgo.
(1) Per quanto riguarda Farese, oltre alle impeccabili traduzioni e agli innumerevoli saggi, segnaliamo l’appassionante biografia «Arthur Schnitzler – Una vita a Vienna 1862-1931», Mondadori, 1997. Quaresima ha curato «Sogno viennese – Il cinema secondo Hoffmannstahl, Kraus, Musil, Roth, Schnitzler», Comune di Reggio Emilia/La casa Usher, 1984, antologia di materiali di estremo interesse. A entrambi questo excursus veloce e senza pretese di esaustività è in tutta evidenza debitore. Sul rapporto Schnitzler-Freud è nota la lettera nella quale il padre della psicoanalisi dichiara la propria ammirata cautela nei confronti del collega : «Io ritengo di averLa evitata per una specie di timore del sosia. Non che io sia facilmente incline a identificarmi con altri, o che voglia trascurare la differenza di talento che mi separa da Lei, ma in effetti ogniqualvolta mi sono immerso nelle Sue belle creazioni, ho sempre creduto di riconoscere dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi ed esiti che sapevo essere miei» («Let­tere 1873-1939», Boringhieri, 1960). Nel saggio «Il per­turbante» Freud analizza comunque il racconto di Sch­nitzler «La profezia».
(2) P. Chiarini, Introduzione ad «Anatol», Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967.
(3) Quando, nel 1975, Adelphi pubblicò quello che a nostro modesto ma fermo parere rimane il capolavoro dello scrittore viennese, elucubrammo a lungo, assieme a un gruppo di devoti schnitzleriani, su chi avrebbe potuto dirigerlo e interpretarlo. Sia pure con voto non unanime, ebbe la meglio l’accoppiata George Cukor/Rex Harrison. A titolo informativo, protagonista del telefilm di Festa Campanile è il simpatico ma incolpevole Giulio Bosetti.
(4) Claudio Magris, «Il mito absburgico nella lettera­tura austriaca moderna», Einaudi, 1963.
(5) Nicolas Saada, Scènes de Venule conjugale, «Cahiers du Cinema» n. 538, settembre 1999. Segnaliamo come pura curiosità che al racconto di Schnitzler è in qualche modo ispirato anche Il doppio sogno dei signori X (1981), di Anna Maria Tato.
(6) Per Schnitzler, ad esempio, l’orgia è un dato volutamente anacronistico che rappresenta la perversione del baccanale, una festa che egli definisce bella, semplice e pura: «L’umanità è ormai troppo empia. Invece di vivere naturalmente le situazioni naturali, essa le offusca con la sua maledetta psicologia. Al giorno d’oggi non si celebrano più baccanali, poiché la nostra vita amorosa è resa torbida, anzi avvelenata da menzogna e autoinganno, da gelosia e angoscia, da impudenza e rimorso».
(7) «Doppio sogno», trad. di Giuseppe Farese. Adelphi, 1977.
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Citizen K.

La messa in scena del tempo (e della propria fine)

FEDERICO GRECO
Haine: «Sente il Cinema come un mezzo supremo di espressione? O più esattamente: il Cinema è la forma espressiva che lei ha scelto definitivamente? Non potrebbe accadere che, più avanti, desiderasse essere romanziere o pittore?»Kubrick: «No, non penso proprio. Credo fermamente nel Cinema e ho io stesso la debolezza di essere convinto che sia la forma espressiva di importanza primaria per la nostra epoca». (1)
«Il tempo non era mai stato così concretamente spazializzato, né così chiaramente visibile, prima del Cinema: non solo noi vediamo davvero il tempo passare avanti ai nostri occhi, ma vediamo anche dove è stato e dove può andare…» (2). Per il momento limitiamoci a dare per scontato che questa cate­goria oggettiva sulla quale informiamo la nostra esistenza è al centro della riflessione di un regista che è stato considera­to, da 2001: Odissea nello spazio in poi, un regista-filosofo. Viene da chiedersi perché la scelta del Cinema, da parte di Kubrick, per ragionare su argomenti prettamente filosofici (oppure: perché la scelta di argomenti distale portata, non avendo che il Cinema con cui trattarli). È qui che aiuta a rispondere Cohen, se intrecciamo la sua ad un’altra fonda­mentale riflessione su tempo e racconto, quella ermeneutica di Ricoeur: «Le aporie della temporalità, refrattarie ad ogni soluzione teoretica, possono essere comprese, ma non in quanto oggetto di speculazione riflessiva, bensì in quanto materiale di elaborazione narrativa. Per esplorare i paradossi del tempo, insomma, occorre inventare intrecci narrativi» (3). E che cos’è il Cinema, se non la forma più alta di narrazione del XX secolo, così come il romanzo lo è stato per il XIX? Più di uno studioso di linguistica ha affermato che il Cinema avrebbe potuto evolvere in qualunque direzione, e che ha scelto quella della narrazione, strettamente vincolata ad una qualsivoglia progressione temporale, come privilegiata. «Vi erano tuttavia alcune ragioni per questo incontro. (…) l’immagine in movimento è un’immagine in perpetua trasformazione, (…) il movimento esige il tempo. Il rappresentato del cinema è un rappresentato in divenire. Ogni oggetto, ogni paesaggio, per quanto statico sia, si trova, per il semplice fat­to di essere filmato, inscritto nella durata e offerto alla trasformazione. (…) Si è dunque scoperto che il cinema offriva alla finzione la durata e la trasformazione: è in parte per que­sti punti in comune che ha potuto verificarsi l’incontro tra cinema e narrazione» (4). Prendendo le mosse dunque dall’af­fermazione di Ricoeur (5), sembrerebbe verosimile affermare come il cinema di Kubrick porti al massimo grado la capacità della narrazione di “illuminare”, non certo di spiegare, le aporie del tempo, altrimenti destinate ad un’eterna, oscura, incomprensione. Questo anche se riteniamo non casuale la coincidenza tra la traduzione di Ricoeur in “intrigo” (intrigue) dell’attività narrativo-poietica e l’accento esasperato sull’in­treccio (il modo in cui disporre formalmente e “temporalmen­te” il materiale della fabula, vedi per esempio Rapina a mano armata) che Kubrick pone nei suoi film.
La riflessione sul tempo, la sua “messa in scena”, e l’utilizzo del tempo come categoria non più oggettiva intrinseca allo scorrere narrativo ma – quasi metalinguisticamente – intesa come strumento stesso della narrazione, percorre trasversal­mente tutto il cinema kubrickiano.
Con Kubrick si recupera il gusto wellesiano per il piano sequenza a macchina fissa o in movimento, dove il montaggio è interno e il senso scaturisce dall’approfondimento dell’osservazione secondo un rapporto tempo-della-diegesi/tempo-del-discorso apparentemente il più possibile equilibrato, in realtà foriero di cortocircuiti complessissimi.
Lo sguardo kubrickiano sulle cose è anche uno sguardo “scandaloso”, ossessivo, immobile, impudente, cinico, attento a dettagli apparentemente banali, sicuro e testardo come se risiedesse lì la risposta a tutto; è uno sguardo che “pietrifica” ciò che incontra, lo sottopone alla luce impietosa di un freddo ragionamento deterministico, sotto l’egida di un desiderio di comprensione che non è altro che desiderio di controllo. E controllo è forse la parola-chiave del cinema kubrickiano: il controllo ma soprattutto la sua perdita, in forza della dialetti­ca paradossale e contraddittoria delle due energie che per Kubrick muovono la vita: la paura e il desiderio – Fear and Desire. A livelli più alti, al centro della ricer­ca stilistica e delle riflessioni filoso­fiche di Kubrick è sempre stata la perdita del controllo sullo spazio e sul tempo da parte dei suoi perso­naggi (leggi: l’uomo contempora­neo, che vive anche se addormenta­to nelle scimmie di 2001 e negli sguardi immobili di Redmond Barry).
«Trovo che il problema di Kubrick sia, dunque, la lotta contro il tempo, e il suo protagonista l’individuo che deve raggiungere uno scopo e che non ha il tempo necessario a farlo. Lo si ritrova nel suo modo di lavorare come nei suoi film, nel tema di questi ultimi così come nella sua esistenza personale. Come tutte le persone che avverto­no profondamente il problema del tempo, egli è affascinato dall’immortalità intesa come abolizione del tempo. Secondo Freud l’idea che tutti gli uomini sono mortali è stata accettata, dichiarata, eppure respinta inconsciamente da ciascuno di noi. L’accettazione della pro­pria fine è un fatto difficile da assimilare per l’uomo».
Questa affermazione di Michel Ciment, suo esegeta ufficia­le e amico, fa ora riflettere sotto una nuova e definitiva luce. Spazio e tempo assumono connotazioni umane, quasi volontà proprie, generalmente negative nei confronti dei soggetti. Questa implicita volontà agonistica affiora nelle lotte contro il tempo che spesso i personaggi kubrickiani sono costretti ad affrontare, con tutto il corredo di occasioni rinviate, di falli­menti in agguato, di cose perdute per un soffio – Rapina a mano armata, Il dottor Stranamore. Da questo punto di vista Shining può essere la chiave per comprendere Kubrick-uomo, soprattutto adesso che l’uomo è scomparso ed è rimasto, per sempre, Kubrick.
Il labirinto di Shining è dunque spazialmente e temporal­mente la figura dell’intrappolamento dell’uomo nelle maglie psicologiche e culturali della sua esistenza mortale, limitata. Tema caro alla tradizione archetipica del mito, che Kubrick tratta dunque con le categorie del mito (oltre al labirinto e al Minotauro, in Shining, è presente il mito di Edipo, il cannibalismo, le favole – «Peter Pan», «Cappuccetto Rosso» e «I tre porcellini»…). Kubrick ci permette così di vedere lo spazio e il tempo in cui sono intrappolati i personaggi-insetti del suo cinema. L’elemento espressivo interessante a questo proposito è dato dall’uso che Kubrick fa dei campi lunghi e lunghissi­mi, che isolano i soggetti in uno spazio ampio e ne mostrano l’annichilimento. Si tratta di uno sguardo distaccato, da entomologo, oppure dello sguardo del giocatore di scacchi sui suoi pezzi, costretti a mosse determinate all’interno di quella curiosa forma di labirinto in perenne ristrutturazione ma senza possibilità di uscita che è la scacchiera.
Kubrick vuole metterci di fronte alla fobia più inconscia e quindi più potente che affligge l’umanità: l’impossibilità di sapere e quindi di controllare la nostra esistenza e il suo significato. E insieme vuole farci riflettere sulla crisi della ragione nel pensiero moderno, crisi dei dispositivi di controllo (tecnologici e culturali) che non può far altro che condurre all’annullamento del soggetto, al suo “risucchiamento” da parte di forze ostili, o comunque annichilenti, quali sono le categorie superiori e incomprensibili dello spazio e del tempo. Quale metodo migliore se non quello di denudarle da qualun­que astrazione, mettendo freddamente spazio e tempo davan­ti ai nostri occhi?
Dice Metz sulla fotografia: «Essendo la fotografia fissa in qualche modo la traccia di uno spettacolo passato, come dice­va André Bazin, ci si dovrebbe attendere che la fotografia ani­mata (e cioè il cinema) venga accolta come la traccia di un movimento passato. Di fatto non è così, in quanto lo spettato­re percepisce sempre il movimento come attuale (anche se riproduce un movimento passato), di modo che l’impressione di un allora che irrealizza l’osservazione di una fotografia non è più in gioco davanti allo spettacolo di un movimento» (6). Dunque l’immagine fotografica come effigie, come richiamo immediato ad un tempo passato. Che cosa succede però ad una fotografia riprodotta per mezzo del cinema? Di che significato si carica un’immagine fissa, “freezata”, all’interno di un film, fatto di movimento? Una possibile risposta ad entrambe le domande la troviamo in Shining e Barry Lyndon.
«(…) In Barry Lyndon, nel passaggio dai primi piani ai tota­li, lo spettatore viene messo in grado di dominare visivamen­te non solo la complessità spaziale in cui il personaggio è inserito, ma anche la complessità temporale rappresentata all’interno del testo. Mostrandoci dei tableaux vivants, dei quadri animati in cui l’azione è immobilizzata; fermando dunque lo scorrere della temporalità cinematografica; e, più in generale, cogliendo ogni occasione per mostrarci immagini ferme quali dipinti o fotografie (cfr. la presenza ossessiva di fotografie in Il bacio dell’assassino, il quadro dietro il quale avviene l’assassinio di Quilty in Lolita, la fotografia finale di Shining e le visioni di Danny che assomigliano a “pose” foto­grafiche, come le due gemelle morte). Nel fare tutto questo Kubrick ci mette in grado di guardare il tempo, di osservare un tempo tramutato in forma spaziale e sincronica, esperien­za che solo un quadro o una fotografia possono offrire. Si trat­ta nuovamente del tema del tempo spazializzato e dunque reso plurale, sincronico, labirintico; e al tempo stesso tradotto in una forma osservabile, esperibile visivamente, se non dai personaggi almeno dallo spettatore del film» (7).
Nell’ultima scena di Shining, l’ambizione luciferina di Jack Torrance (raggiungere il tempo assoluto, fuori dalla storia) è quella di unificare e sovrappone presente e passato in una sola immagine. Kubrick attribuisce al cinema ciò che invano i personaggi cercano di raggiungere: la possibilità di condensa­re il tempo. Ci indica che nell’opera il tempo, da complemento oggetto, è diventato forma del discorso. Il significato del film, la condensazione di passato e presente, è il cinema stesso. L’immortalità. Bazin: «(…) la fotografia non crea eternità, come l’arte, ma imbalsama il tempo, lo sottrae solamente alla sua corruzione. In questa prospettiva, il cinema appare come il compimento nel tempo dell’oggettività fotografica».
Ultimo capitolo
Negli ultimi sei film di Kubrick, ad eccezione forse di Aran­cia meccanica, il discorso sulla fotografia (stili frame) si fa preminente. L’ossessione della perdita del controllo (Il dottor StranamoreArancia meccanicaShining) è l’ossessione della morte, atto ultimo di mancanza di controllo sulla propria vita. Ecco allora che acquistano un nuovo valore, definitivo, alcune immagini potenti dei film in cui Kubrick ragionava sulla morte, apparentemente ragionando su altro. E si fa più chiaro lo stretto legame che c’è sempre stato con la fotografia, veicolo di eternità ma al tempo stesso immagine della fine.
L’astronauta di 2001, nel tunnel dello spazio-tempo (generato con un trucco squisitamente fotografico) durante il viag­gio verso le lune di Giove, per alcuni attimi – quasi impercet­tibili – viene fotografato. Ci sono una serie di fermo-immagi­ne munchiani in quella sequenza, volutamente subliminali, che congelano l’astronauta nell’eternità di quel momento.
Redmond Barry è stato escluso dalla vita sociale che aveva conquistato: la sua storia non è più degna di essere racconta­ta; è stata “azzoppata” per sempre la sua abilità di arrampicatore sociale. Per Kubrick Redmond muore là: fotografato in un freeze frame (fotogramma “congelato”) mentre sale sulla carrozza che lo porta fuori scena e lo fa entrare in una dimen­sione temporale che per tutto il film abbiamo avvertito come irraggiungibile.
Jack Torrance ha raggiunto il suo scopo, quello di conden­sare tempo e eternità, cittadino ormai di una dimensione atemporale che appartiene solo alla morte o ai fantasmi, fotografato in un freeze frame “interno” alla scena, dovuto al rea­le congelamento fisico del suo corpo esposto al gelo per l’inte­ra notte. Non a caso segue la rivelazione dell’atemporalità di Jack tramite la fotografia del ballo del 1927, sul muro dell’Overlook.
Il cecchino di Full Metal Jacket desidera la morte, una vol­ta scoperto e ferito dai compagni di Joker. E chiede a Joker, che incarna la contraddizione del film: «Shot me!», «Spara­mi», ma anche: «Fammi una fotografia».
Nell’eternità senza tempo della villa settecentesca in cui si consuma il rito dell’orgia in Eyes Wide Shut i convenuti sono sempre stati lì (8). Il primo dei due rituali cui Bill assiste è l’archetipo di ogni rito, scagliato in un’atemporalità assoluta fatta di fermi immagine di volti, di espressioni congelate in un attimo dilatato all’infinito. Il valore universale (che pochi hanno saputo cogliere) delle vicende di Bill/Fridolin non poteva essere meglio rappresentato. Il Settecento kubrickiano – finalmente lo scopriamo – non poteva che essere abitato da fotografie.
(1) Raymond Haine, «Cahiers du Cinema» n. 73, 1957.
(2) Keith Cohen, «Cinema e narrativa», Eri, 1982, pag. 72.
(3) Pietro Montani. «Estetica ed Ermeneutica», Laterza, 1996. pag. 143.
(4) J. Aumont, A. Bergala, M. Marie, M. Vernet, «Estetica del film», Lindau, 1995, pag. 60.
(5) Ricoeur dice, più precisamente: «(…) La speculazione sul tempo è una ruminazione non conclusiva alla quale replica solo l’attività narrativa. (…) Solo una trasfigurazione poetica, non solo della soluzione ma anche dell’inter­rogativo stesso, libera l’aporia dal non-senso che incombe». «Tempo e racconto», Jaca Book 1994, pag. 21.
(6) C. Metz, op. cit., pag. 29.
(7) R. Eugeni, op. cit., pag. 137.
(8) «Lei è sempre stato qui», rivela Delbert Grady a Torrance nel bagno dell’Overlook Hotel.
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Stanley and Us

Genesi di un documentario “impossibile”

(f.g.) «Vi state avventurando in un territorio… pericoloso. Nel Maelstrom delle emozioni umane, in cui le persone pos­sono permettersi di essere quello che sono, senza finzioni. E se cominciate a “giocare” con questo, potrà esserci un “fallout”, non necessariamente positivo – a meno che non riuscia­te a realizzare il documentario. Io ho avuto a che fare con ossi duri come Peckinpah, oltre che Kubrick… Se mi chiedete un consiglio su come fare un documentario su Kubrick, vi dico: non fatelo, dimenticatevene, tornate sui vostri passi. E vi dirò perché: la vostra carriera ne soffrirà. La mia ne ha sofferto. Dopo il mio lavoro su Kubrick sono stato fermo per anni…».
Questo è un breve estratto dall’intervista a Paul Joyce del dicembre 1998, nel suo appartamento di Londra. Joyce era stato l’unico a realizzare un documentario su Stanley Kubrick dal titolo The Invisible Man, nel 1996, per Channel Four. Ma una serie di motivi spinsero la Warner Bros e lo stesso Kubrick a cercare di bloccarne la messa in onda. Verosimilmente il problema fu l’utilizzo non autorizzato di Fear and Desire (film che Kubrick aveva cercato, kafkianamente, di sopprimere), di Arancia meccanica – che Kubrick censurò personalmente su tutto il territorio inglese (1) – e il taglio eccessivamente aspro e sensazionalistico della descrizione della personalità di Kubrick, sul lavoro e in privato, soprat­tutto da parte di Malcolm Mc Dowell e Shelley Duvall.
Questi erano i presupposti, tutt’altro che confortanti, quando decidemmo (Mauro Di Flaviano, Stefano Landini e il sottoscritto) di intraprendere le ricerche per la realizzazio­ne di quello che da subito doveva essere il “progetto” Stanley and Us (2), un documentario “in progress” sulla figura professionale e personale del grande regista angloamericano. Un progetto senza precedenti, se si esclude il lavoro di Joyce (che comunque ha avuto scarsissima visibilità, e che fu com­missionato per integrare una retrospettiva televisiva, e venne confezionato anche con l’ausilio di interviste acquistate altrove o realizzate anni prima, come quella ad Anthony Burgess). Un progetto che già prima di nascere doveva fare i conti con un immaginario collettivo che avrebbe distolto chiunque dal proseguire: Kubrick non avrebbe mai collabo­rato; se possibile avrebbe tentato di ostacolarci (3); i collabo­ratori più stretti non si sarebbero mai sbottonati; altri ave­vano paura di parlare; oppure erano stanchi di dare intervi­ste su Kubrick (4). Ma soprattutto il regista, quando deci­demmo di iniziare le riprese, era nel pieno della lavorazione di Eyes Wide Shut.
Durante i primi mesi del 1997 venne annunciato che il Festival di Venezia avrebbe conferito a Stanley Kubrick il Leone d’Oro alla carriera. L’occasione per iniziare non poteva essere più adatta. Alcuni collaboratori di Kubrick avreb­bero potuto essere presenti all’evento. Così a Venezia realiz­zammo delle interviste che ci diedero la conferma di ciò che avevamo sempre sospettato su quello che avrebbe dovuto essere un “documentario impossibile”, come era stato battez­zato da noi e da altri nostri colleghi: che da qualche parte una strada per accedere alla “fortezza” doveva pur esserci. Michel Ciment (critico di «Positif» e depositario ufficiale, in qualche modo, del pensiero critico su Kubrick) e Malcolm McDowell (Alex in Arancia meccanica,) furono le prime testi­monianze. Da parte di McDowell notammo un desiderio di poter finalmente dire con libertà tutto quello che avrebbe voluto dire da anni (Kubrick non era ancora morto). E quel­la è l’unica intervista “polemica” che abbiamo raccolto in venticinque mesi di lavoro, centrata sul metodo cinico e inu­mano di dirigere gli attori da parte di Kubrick. E strano come le testimonianze in merito siano discordanti. Murray Melvin (5), intervistato più tardi, ci avrebbe regalato un ritratto affettuosissimo di un uomo che “amava”gli attori, e che concentrava tutte le sue forze, una volta che i problemi tecnici erano risolti, esclusivamente su di loro. Anche Gordon Stainforth, prima assistente poi primo montatore di Shining – dopo l’abbandono di Ray Lovejoy per una strana forma di setticemia al braccio – ci rivela come la maggior parte delle volte l’enorme mole di ciak che ha sostenuto la leggenda dei set di Kubrick sia dovuta soprattutto alla ricer­ca della migliore interpretazione degli attori. «Kubrick gira­va una grande quantità di ciak a causa della recitazione. Qualche volta, come per esempio nella scena dell’esterno dell’Overlook Hotel sotto la neve, si trattava di mettere a punto questioni tecniche» (ne sa qualcosa Alan Whibley supervisore agli effetti speciali, che abbiamo incontrato a Londra). Ma nella maggior parte dei casi l’intento era quello di ottenere il meglio dagli attori, che secondo lui si esprimevano al massi­mo solo quando, esausti, lasciavano cadere metodi o “virgolettature” della recitazione che erano loro caratteristiche. Kubrick cercava di spogliarli delle loro attitudini professio­nali consuete per ottenere qualcosa che aveva in mente e che di solito corrispondeva – paradossalmente – ad una recita­zione molto vicina all’improvvisazione, che però arrivava solo dopo più di cinquanta ciak. «Non girava mai molte angolazioni diverse, aveva chiarissimo in mente quello che voleva. In fase di montaggio infatti il materiale di una sequenza era “vincolato”, non c’erano inquadrature di coper­tura, “di salvezza”. Diverse angolazioni venivano girate solo nel caso in cui la recitazione degli attori non lo convinceva del tutto e non era in grado di ottenerla dall’interpretazio­ne». Non a caso ciò accadde per esempio con un bambino, «durante le riprese nella cucina dell’Overlook tra Halloran (Scatman Crothers, il cuoco) e Danny (Danny Lloyd, il figlio di Jack), in cui girò in maniera convenzionale “coprendosi” con totali master». La testimonianza di Philip Stone (6) è più oggettiva, a metà tra l’attacco quasi isterico di Me Dowell e l’apologia di Melvin: «A Kubrick piaceva molto il mio modo di recitare, ma io non recitavo, ero naturale. Quel­lo che mi interessava era cercare di “essere”, solo “essere”, non interpretare. Dicevo le battute. Quello che facevo era solo dire le battute con autorevolezza sul volto. La gente avrebbe detto: che grande attore! Ma io non recitavo. E questo a Stanley piaceva molto». Anche Rade Sherbedgia (Milich, il proprietario del negozio di maschere in Eyes Wide Shut) conferma l’attenzione di Kubrick per un tipo di recitazione “spontanea”. Dalle testimonianze di Murray Melvin, Philip Stone e Michael Turn (il drugo Pete in Arancia meccanica) emerge un’attenzione particolare di Kubrick – soprattutto all’inizio del periodo inglese – verso il teatro. Tutti e tre ricordano come fossero stati scelti perché notati sulle tavole del palcoscenico e di come Kubrick costantemente ricordasse loro quelle origini, forse per richiamarli a quell’impostazione astratta. Solo nel caso di grandi “mattatori” Kubrick lascia­va fare, rischiando magari spesso l’esagerazione. Philip Sto­ne ricorda che sul set di Shining Nicholson non sbagliava un ciak e che – diversamente dalla maggior parte degli altri – si divertiva moltissimo (evidentemente perché lasciato a ruota libera): «Jack, poco prima della scena nella sala da ballo in cui gli verso addosso il vassoio con i drink, si mise ad urlare a squarciagola: “E lo chiamano lavorare, questo?!” Era un tipo senza paura» (7). Alexander Walker, amico di Stanley e critico londinese (8), conferma che la predilezione di Kubrick per i “grandi” lo portava spesso a farli improvvi­sare, soddisfatto di pochissimi ciak. Per esempio con Peter Sellers: «Un giorno sul set nell’ora di pausa Peter stava deli­ziando la troupe con una serie di imitazioni. Stanley passa­va di lì per caso e chiese immediatamente di preparare le luci per girare quella performance. Peter fu costretto a finge­re di essere zoppo per evitare di interpretare un quarto per­sonaggio nel Dottor Stranamore, quello che poi fu di Slim Pickens».
A dirla tutta non è stato poi così difficile incontrare la maggior parte dei collaboratori di Kubrick, «perché comun­que ognuna delle persone che avevano lavorato con lui aveva decine di storie da raccontare sul “mito” e si sentiva protago­nista di ognuna» (9).
La vera porta che ha aperto tutte le altre è stata senza dubbio l’intervista a Julìan Senior, vice-presidente della pubblicità della Warner di Londra e amico di Kubrick. Noi crediamo che il fatto di essere arrivati ad intervistare Leon Vitali, Jan Harlan, Christiane, Ken Adam (10), e molti altri – John Ward, Ken Shane, Dominio Harlan, Nigel Galt, Mario Maldesi, Riccardo Aragno (11)… – dipenda in parte dalla circostanza della sua morte, che ha reso tutti meno obnubilati dal rispettoso timore della deferenza, e in parte da un diverso, meno rigoroso, atteggiamento che Kubrick era in procinto di adottare, una volta finito il film, nei confronti dei media. Julian Senior ci aveva rivelato, nel gennaio 1999, due mesi prima della morte, che Kubrick sapeva del nostro lavoro e che avremmo dovuto aspettare la fine della lavorazione del film. Jan Harlan, nella sua casa di St. Albans, a poche miglia dal “castello”, ci accoglie così, dopo averci chie­sto quante persone avessimo incontrato: «They are so many. I wish you would have Stanley» (12).
Il progetto è ancora in corso, e con la “dote” e la consapevo­lezza che ormai possediamo, stiamo per affrontare il viaggio in America, dove ci aspettano Matthew Modine, Martin Hunter, Wendy Carlos e Rachel Elkind, James Harris, Mari­sa Berenson, Ryan O’Neal, Keir Dullea, Shelley Winters (13)… Con lo scopo di produrre una esaustiva “biblioteca” di immagini perennemente consultabile su una delle esperienze cinematografiche più esaltanti degli ultimi cinquanta anni del primo secolo del cinema.
(1) Il cinema Scala di Londra, negli anni ’70, proiettò Arancia meccanica di sua iniziativa. I legali di Kubrick denunciarono l’esercente. Barraclough Carey realizzò un documentario sulla censura per la televisione inglese, in cui utilizzò alcuni brani tratti da Arancia meccanica. Anche in quel caso Kubrick fece causa alla rete. Per quanto riguarda l’utilizzo di Fear and Desi­re e di Arancia meccanica nel documentario di Paul Joyce, i legali di Channel Four si appellarono al diritto di citazione «for the purposes of criticism and review», che consente di utilizzare estratti di film senza pagarne i dirit­ti o chiederne l’autorizzazione. Questa legge esiste praticamente solo in Inghilterra. Channel Four riuscì per questo, alla fine, a vincere la causa contro la Warner e Kubrick. Ma il documentario di Paul Joyce nel frattempo era stato ritirato.
( 2 ) Una prima parte è andata in onda per tutto il mese di settembre e il 7 ottobre 1999 su RaiSat Cinema, sotto forma di 30 puntate di 15′ ciascuna (Aspettando Stanley and Us), più la puntata finale di 1 ora, che è la storia – ispirata a Roger and Me, documentario premio Oscar del 1989 di Michael Moore – di tre fan alla ricerca del proprio mito.
(3) John Baxter, più tardi, ci avrebbe spiegato perché non contò mai sulla collaborazione di Kubrick per la sua biografia: «Se io avessi chiesto a Stan­ley un’intervista, lui avrebbe preteso di correggerla prima che andasse in stampa. Questo significava che avrei dovuto aspettare i suoi tempi. Cioè che non l’avrei più sentito e il mio libro avrebbe avuto un notevole ritardo». In effetti una cosa simile accadde quando un giornalista inglese volle scrivere un libro di critica su Kubrick, agli inizi degli anni 70. Il regista accettò l’intervista ma riuscì a tenere ferma la pubblicazione con lo stesso metodo, in attesa che uscisse un altro libro, questa volta supervisionato e approvato “in toto”: «Stanley Kubrick Directs», di Alexander Walker. Il libro dello scono­sciuto autore inglese non fu mai pubblicato, tanta l’esasperazione procurata all’editore.
(4) Questo è in effetti accaduto: con Adrienne Corri (la donna stuprata in Arancia meccanica, moglie dello scrittore), Milena Canonero (costumista), Andrew Birkin (assistente del regista in 2001 e nel progetto Napoleon, film mai realizzato ma sempre sognato), Steven Berkoff (attore in Arancia mec­canica – il poliziotto in questura che tortura Alex – e in Barry Lyndon – nobile che perde al gioco e sfida a duello Redmond Barry).
(5) Il Reverendo Runt in Barry Lyndon.
(6) Attore in Barry Lyndon; il padre di Alex in Arancia meccanica; Delbert Grady, il guardiano dell’Hotel, in Shining.
(7) «Fearless, Jack Nicholson was fearless!».
(8) Autore del già citato «Stanley Kubrick Directs», Harcourt Brace Jovanovich. 1971.
(9) John Baxter, biografo, intervistato nell’ottobre 1999 a Parigi.
(10) Rispettivamente: Lord Bullingdon in Barry Lyndon, intervistato nel luglio 1999 nei Pinewood Studios di Londra; cognato e produttore esecutivo; moglie di Stanley e pittrice: scenografo di Barry Lyndon e Il dottor Strana­more, e amico.
(11) Rispettivamente: operatore steadycam in Full Metal Jacket; assistente alla regia in Full Metal Jacket; pianista (esecutore di Ligeti in Eyes Wide Shut), nipote di Kubrick; montatore di Eyes Wide Shut; direttore di doppiag­gio da Arancia meccanica; traduttore da Arancia meccanica.
(12) «Sono moltissime. Sarebbe stato bello se aveste potuto incontrare Stan­ley».
(13) Rispettivamente: Joker in Full Metal Jacket; montatore di Full Metal Jacket; compositrici di musica contemporanea (Arancia meccanica e Shining); primo produttore di Kubrick, fino a Lolita; Lady Lyndon in Barry Lyndon; Redmond Barry in Barry Lyndon; David Bowman in 2001; Charlot­te Haze in Lolita.
* * *

Fuck ut ardeat cor menni

BRUNO FORNARA
ARTURO INVERNICI
Finali di partita. Ultime parole di ultimi film, belli, meno belli, sbagliati. Parole d’addio di registi che si sapevano vicini ad andarsene o che non ci pensavano proprio. L’ultima parola di Stanley Kubrick è «Fuck». Al dialogo finale di Schnitzler, Kubrick aggiunge l’esplicita richiesta di Albertine/Alice: «C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare appena pos­sibile. Scopare». Con la speranza che il cuore, di questi brutti tempi, ricominci ad ardere. Una volta si cantava: fac/fuck ut ardeat cor meum.
Lui, Adam Belinski, maturo intellettuale, rifugiato politico polacco antinazista. Lei, Cluny, giovane proletaria idraulica. E un’Inghilterra incartapecorita nelle sue sterili e idiote con­venzioni. Belinski, alla fine, conquista Cluny. Per vivere, lui scriverà un giallo: «Un delitto. Hanno ucciso un uomo». Lei: «Chi è l’uomo?». Lui: «Un uomo ricco». Lei: «Eh, via… A che serve ammazzare un poveraccio…». Lui: «Come hai ragione. Vedi come si lavora bene insieme». Lei: «Chi l’ha ucciso? Chi è stato?». Lui: «Per 365 pagine non lo saprò neanch’io. Ma quando a pagina 366 lo verrò a sapere, resterò di stucco. E con me milioni di altri. Cluny, faremo quattrini abbastanza per due». Lei: «Signor Belinski, e se poi diventassimo tre?». Lui: «Allora scriverò il seguito. Ma poi perché limitarci. Ne scriverò una serie». Lei, felice e insinuante: «Oh, signor Belinski, lavoreremo notte e giorno». Si baciano con passione. Nell’ultima scena, nessuna parola: la macchina da presa sta nella libreria mentre il signore e l’elegantissima signora Belinski osservano in vetrina i volumi del giallo «The Nightingale Murder». Si baciano. Si ferma gente, anche un poli­ziotto. La signora spiega che il marito è l’autore del libro. Ha un mancamento: il primo Belinski è in arrivo. Saranno una serie: una dissolvenza ci mostra in vetrina un secondo giallo, «The Nightingale Strikes Again!». Semplice, a quei tempi, fare l’amore e bambini. Ernst Lubitsch, nell’ultimo film por­tato a termine, Fra le tue braccia (1946).
Rachel Cooper, in cucina, sta cuocendo il pranzo di Natale. Dopo aver scambiato i doni con i bambini che ha accolto in casa, ci guarda negli occhi: «Signore, proteggi questi innocen­ti. Dovrebbe vergognarsi il mondo di celebrare la nascita del divino fanciullo se continua ad essere cattivo. Mi sento umile quando vedo come i piccoli accettano la loro croce. Signore, proteggi gli innocenti. Il vento e le piogge li flagellano ed essi sopportano». John la ringrazia dell’orologio ricevuto in regalo. Rachel ci guarda ancora: «Sopportano e resistono». Ultime parole del primo e ultimo film di Charles Laughton regista, La morte corre sul fiume (1955).
Sette donne nella missione, che ha tutto l’aspetto di un for­te militare al femminile. La dottoressa Cartwright porge la coppa di veleno al capo dei barbari: «So long, bastard», «Salu­te, bastardo». Tunga Khan beve e cade stecchito. Beve anche lei, butta la ciotola a terra, ma non cade, resta dritta, forte. La macchina da presa si allontana. Lo schermo si fa nero. John Ford, Missione in Manciuria (Seven Women, 1965).
Un’altra donna riceve la visita dell’amico Nygren e tira le somme. «Io ho molto sofferto e ho commesso molti errori. Però, ho amato». La sua tomba sarà all’ombra di un gelso. Due sole parole e nessun nome sulla lapide: «Amor omnia», l’amore è tutto. «Il giardiniere ha già avuto l’ordine. Io non voglio che erba sulla mia tomba. Solo in primavera ci saranno gli anemoni. Se passerai di là un giorno, cogli un anemone e pensa a me. Consideralo come una parola d’amore, spesso pensata, però mai pronunciata. E adesso è meglio che tu vada, se no corriamo il rischio di fuggire insieme a Parigi, come una volta. Un giorno, questa tua visita sarà un ricordo unito a altri ricordi, lontani nel tempo. Di tanto in tanto pen­so al mio passato e mi sprofondo in esso. E allora ho l’impres­sione di fissare un fuoco che si spegne. Addio, Axel. Grazie della visita e grazie del libro». Axel: «Addio, Gertrud». Gertrud ci saluta con la mano e chiude la porta. Cari Th. Dreyer. Gertrud (1964).
I discepoli e Maria tornano al sepolcro. L’avevano chiuso con una pesante pietra. Incrociano due soldati che scappano. Arriva correndo una donnas che si butta ai piedi di Maria: «È vuoto! E vuoto il sepolcro! E vuoto!». Maria, davanti al sepol­cro spalancato, alza gli occhi e le braccia al cielo. Roberto Rossellini, Il Messia (1975).
Il piccolo Ometto, sdraiato per terra, solo, sotto l’albero spo­glio: «In principio era il Verbo. Perché, papà?». Andrej Tarkovskij, Sacrificio (1986).
I Gruppi Armati Rivoluzionari del Bambin Gesù mettono bombe in giro per Parigi. Un altoparlante, in un passage: -Questi attentati, del tutto immotivati e inspiegabili, sono destinati a provocare nella nostra società una confusione totale». Mathieu e Conchita girano per i negozi. Un’ultima notizia dall’altoparlante: «L’arcivescovo di Siena, monsignor Fiesole, è in coma. Nel corso dell’attentato che ha subito la settimana scorsa, uno dei proiettili lo ha raggiunto alla caro­tide. Le sue condizioni sono gravissime. L’attività cerebrale è praticamente cessata anche se il flusso di sangue attraverso l’arteria tracheale si è mantenuto normale. Pertanto monsi­gnor Fiesole potrebbe restare in questo stato anche per parec­chi mesi. La protesta dei cardinali della curia romana ha avuto largo seguito e anche il partito comunista ha condan­nato energicamente l’odioso crimine. E ora vogliate ascoltare un programma di musica lirica». Mathieu a Conchita: «Vieni a vedere». Osservano, dietro una vetrina, una donna che ha preso da un sacco due camicie da notte immacolate e una ter­za, strappata e macchiata di sangue. La donna la rammenda. Dall’altoparlante si sente il duetto d’amore, scena terza, atto primo della «Walkiria». Siegmund canta alla ritrovata sorella Sieglinde il suo amore, da cui nascerà Siegfried: «Ein Minnetraum / gemahnt auch mich: / in heissem Sehnen / sah ich dich schon» («Un sogno d’amore me pure rammemora: in ardente anelito già io ti vidi!»). Mathieu e Conchita si allonta­nano. Lei è seccata, non si lascia prendere sottobraccio. La bomba esplode. Aperto da un occhio tagliato, il cinema di Luis Bunuel si chiude, in Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977), con una scena e una notizia molto surrealiste e con un’esplo­sione che è un “fuck” a tutto e a tutti.
La Feria, locale malfamato di Brest. Lysiane “vede” qualco­sa nei tarocchi. Si mette a ridere, sempre più forte: «Mi sono sbagliata. Non hai nessun fratello. Hai capito. Mi sono sba­gliata. Mi stai a sentire. Tu non hai nessun fratello. Lui non ha nessun fratello, davvero». Ridono tutti. Le risate risuona­no sul ponte della nave dove i marinai sono al lavoro, in un giallastro crepuscolo infuocato. Uno scritto a pieno schermo, letto da una voce: «Nel suo atto di nascita c’è scritto: “Nato il 19 dicembre 1918, alle dieci del mattino. Madre: Gabrielle Genet. Padre: sconosciuto”. Tranne i suoi libri, non sappiamo nulla di lui. Neppure la data della sua morte che prevede vicina». Firmato: Jean Genet. E Rainer Werner Fassbinder, Querelle (1982).
Passati attraverso l’Antinferno, il Girone delle Manie, il Girone della Merda e il Girone del Sangue, giungiamo all’Epilogo. Due ragazzi in una saletta della villa. Uno cambia sin­tonia alla radio: dai «Carmina Burana» di Orff a una canzo­netta ascoltata più volte nel film, «Son tanto triste». Chiede all’altro: «Sai ballare?». «No». «Dai, proviamo. Proviamo un po’». Ballano, rigidi. «Come si chiama la tua ragazza?». «Mar­gherita». Fine. Dal fondo dell’inferno, pensano a ballare, alla ragazza, al loro mondo di fuori. Pier Paolo Pasolini, Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975).
Clay, che ha voluto comperare una leggenda di marinai, è morto sulla sua sedia, sul patio. Paul ha amato Virginia, è partito e le ha lasciato una conchiglia. Elishama, il capo con­tabile, trova Clay morto: «Ha aspettato fino all’alba per assa­porare la coppa di questo suo trionfo ma il contenuto era troppo forte per lui. E davvero duro desiderare qualcosa al punto da non poterne fare a meno. Se non la si ottiene, è duro. E quando la si ottiene è ancora più duro». Elishama porta all’orecchio la conchiglia: «L’ho già sentito. Molto tempo fa. Ma dove?». La leggenda continuerà a vivere.
Quanti finali per Orson Welles? Questo, di Storia immortale (1968), ultimo suo film di finzione portato a termine? 0 i finali dei film mai finiti, The Deep e The Other Side of the Wind? L’addio, consapevole e defini­tivo, i suoi occhi fissi nei nostri, è in Filming Othello (1978): «Voglio congedarmi da voi con una confessione. Non è stato facile come avrei desiderato. Troppi rim­pianti, troppe cose che avrei voluto rifare da capo. Se non fosse stato un ricordo ma un progetto per il futu­ro, parlare di Othello sarebbe stato soltanto un piace­re. Le promesse sono più divertenti delle spiegazioni. Con tutto il cuore vorrei che Othello fosse non un pez­zo del mio passato ma un progetto del mio futuro. In tal caso, allora sì che Othello sarebbe un capolavoro». Welles spegne la lampada vicina alla moviola e si met­te un bel sigaro in bocca.
Amelita, una lunga cicatrice sul volto, aiuta McNally a camminare: «Signor McNally, voi siete un uomo così… così… non trovo la parola…». McNally, ferito, si appoggia a lei: «No, per favore. Adesso non dite… mor­bido». Se ne vanno voltandoci le spalle. Nel primo e perduto film di Howard Hawks, The Road to Glory (1926), una coppia si ritirava sulle montagne per gua­rire, lei cieca, lui vittima di un incidente. Nell’ultimo, Rio Lobo (1970), una coppia zoppa e ferita, un Adamo impotente e invecchiato e un’Eva sfigurata, lascia ad altri questo mondo.
Il critico François Truffaut sui «Cahiers» (n. 55): «Finirò sottolineando la bellezza dell’ultima inquadra­tura: Lola, nel serraglio, offre la sua mano da baciare attraverso le sbarre di una gabbia; la macchina da presa si ritrae con un movimento all’indietro, gli spettatori del circo avanzano da sotto lo schermo così che noi, spettatori del cinema, ci mescoliamo con loro; per la prima volta, l’uscita dalla sala avviene attraverso lo schermo. Tutto il film si mette così sotto il segno di Pirandello, come del resto l’intera opera di Max Ophuls». Mentre la macchina da presa arretra, si sen­te la voce dello scudiero e presentatore: «Avanti, signo­ri. Un ricordo indimenticabile per un dollaro. Avvici­natevi, signori. Un dollaro, è niente. Non rimpiangere­te i vostri soldi. Un dollaro». Il sipario scende su Lola Montès, chiusa in gabbia e offerta a chiunque per un dollaro, nell’ultimo, bistrattato film di Ophuls (1955).
Il funerale di Annie, morta senza rivedere la figlia. In chie­sa, Mahalia Jackson canta uno spiritual. La bara di Annie viene portata fuori. Una giovane donna si fa largo fra la folla, supera ogni resistenza. E la figlia, Sarah Jane, arrivata trop­po tardi. Piangendo, abbraccia la bara: «Mamma, mamma… Io non volevo, non volevo… Mamma, mi senti? Ti prego, perdonami, devi perdonarmi. Io ti volevo tanto bene». Lora, l’at­trice di cui Annie è stata la governante, prende fra le braccia Sarah che singhiozza: «Sono stata io. Sono stata io ad ucci­derla. Sono stata io. Avevo deciso di tornare a casa e lei non lo saprà mai». Mèlo fino all’ultimo istante per Douglas Sirk, nel suo ultimo lungometraggio Lo specchio della vita (1958).
Una bambina chiede un autografo alla giovane attrice, ex­cameriera: «Un giorno voglio diventare esattamente come lei». L’attrice: «Oh, mai! Sii te stessa. Questo è importante. Il mondo venera gli originali». Vincente Minnelli, Nina (1976).
Liza e Merry, davanti al caminetto. Liza: «Siamo fantasti­che. Abbiamo fatto un sacco di cose nello spazio di una vita. Ci meritiamo un po’ di riposo». Merry: «E non dovremmo litigare sempre». Liza: «E vero, hai ragione. Lo sai che dovrem­mo fare? Un anno di vacanza. Navigare intorno alle isole gre­che, dormire soltanto con tizi che non sanno pronunciare il nostro nome. Tutti greci». Merry, stupefatta: «Beh, io non potrei farlo». Liza: «Solo i pescatori». Merry: «Ma come potrei fare una cosa del genere?». Liza: «E semplice. Tu vai là e lasci che ti capiti». Merry: «Ma io… Non saprei da che parte cominciare… Che cosa direi…». Liza: «Tutta la vita ho voluto che gli uomini trovassero misterioso e seducente il mio lavo­ro. Della poesia». Merry: «Anch’io». Liza: «E ora che trovino la poesia nel mio corpo. Al diavolo i libri». Suona mezzanotte. Liza: «Merry, fammi un favore. Baciami». Merry: «Dopo tutti questi anni,, vorresti dirmi che hai dei gusti un po’ particola­ri?». Liza: «E l’ultimo dell’anno. Ho voglia di sentire un con­tatto… umano. Tu sei l’unica cosa umana. Dammi un bacio». Si abbracciano, si baciano. Brindano. Nel camino arde un bel fuoco. George Cukor, Ricche e famose (1981).
Nessuna parola nell’ultima scena quando Barbara e Julien si sposano e i ragazzini del coro giocano con il copriobiettivo caduto dalle mani del fotografo. Ma, nella scena precedente, l’assassino, prima di morire, è stato molto chiaro al telefono: «No, non ho nessun rimorso. Non ho mai fatto parte della società degli uomini. Tutto quello che ho fatto è per le donne: perché mi è sempre piaciuto guardarle, toccarle, respirarle, godere di loro e farle godere. Le donne sono magiche, signor Lablache. E allora anch’io sono diventato un mago». Francois Truffaut, Finalmente domenica (1983).
Da Truffaut, passaggio obbligato a Hitchcock che, in Com­plotto di famiglia (1976), fa la sua ultima, canonica appari­zione soltanto come silhouette in controluce, come riflesso di se stesso, dietro la porta a vetri di un ufficio dell’anagrafe su cui sta scritto, profeticamente, «Death and Birth Certificate». L’ultima battuta del film è per George, al telefono: «Signori­na, mi passi la polizia». L’ultimo sguardo è per Bianche, che da vera veggente ha trovato il diamante tra i vetri a goccia del lampadario. Bianche, soddisfatta e sorridente, si volta verso di noi e ci strizza l’occhio.
Un pozzo fra le sterpaglie. La luna, le rane, gli uccelli, il vento. Salvini si volta verso di noi: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio… forse qualcosa potremmo capire». Si piega sul pozzo per sentirne le “voci”. Noi sentiamo solo il vento. Federico Fellini. La voce della luna (1990).
«I giornali hanno ragione. La neve copre tutta l’Irlanda. Cade su tutta la pianura centrale, sulle colline senza alberi, cade silenziosa sulla palude di Alien e ancora più a Ovest cade morbida sulle acque scure e tumultuose dello Shannon. Uno per uno, tutti diventeremo ombre. Meglio passare all’al­tro mondo baldanzosamente, nella piena gloria di qualche passione piuttosto che appassire e spegnersi lentamente di vecchiaia. Per quanto tempo hai tenuto chiuso nel cuore il ricordo degli occhi del tuo innamorato mentre ti diceva che non voleva vivere. Io non ho mai provato niente di simile per nessuna donna, ma so che questo sentimento dev’essere l’a­more. Penso a tutti quelli che sono esistiti sin dall’inizio dei tempi. E a me, come loro di passaggio, vacillante, verso il gri­gio mondo d’ombre. Come ogni cosa intorno a me, anche que­sto stesso solido mondo in cui essi hanno vissuto sta per dis­solversi e sparire. Cade la neve. Cade nel cimitero solitario dove giace sepolto Michael Furey. Cade leggera su tutto l’uni­verso. Cade lenta. Come la discesa della loro ultima fine. Su tutti i vivi e sui morti». John Huston (e James Joyce), The Dead (1987).
Il cinema di Ozu finisce una, due, tre volte. Alla fine di Tar­da primavera (1949), di Tardo autunno (1960) e di Il gusto del saké (1962), un genitore vedovo torna a casa dopo aver visto il figlio o la figlia sposarsi. Nell’ultimo dei tre finali, il vecchio Shuhei torna ubriaco dalla cerimonia nuziale della figlia Michiko. L’altro suo figlio Kazuo lo ammonisce perché non si metta a bere. Shuhei seduto a un tavolino dice a se stesso: «Alla fine si resta soli».
* * *

Avvisaglie della fine impossibile

di Francesco Cattaneo
«…è l’individuo tale quale, elementare e tortuoso, vomitato dal Caos in piena Versailles“. E.M. Cioran (1).
«La luce è tenebra quando è solo luce» Franco Rella (2).
Una delle immagini più vulgate del Settecento è sine dubio quella afferente alla formula kantiana secondo cui «l’Illumi­nismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione o coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo» (Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo», 1784).
Kubrick contro la definizione kantiana dell’Illuminismo
Se da una parte questa immagine rende conto della spre­giudicatezza intellettuale di un secolo che ha voluto contra­stare il sapere dogmatico e oscurantista ereditato dalla tradizione, dall’altra è quanto mai estranea al trattamento propo­sto da Kubrick per Barry Lyndon ( 1975). In cosa consiste pre­cisamente questo scarto? La filosofia illuministica, nella sua esaltazione dell’intelligenza umana, se pur sapeva evitare le insidie di un razionalismo assolutistico e in definitiva dottri­nario quale era quello proprio di Cartesio, Spinoza e Leibniz (3) e con Lessing riconosceva che non si perviene al possesso della verità, bensì si tende verso di essa, in ogni modo era una filosofia della borghesia in ascesa ed era impegnata a lavorare per il progresso: dunque le era propria un’impostazione tendenzialmente fiduciosa nelle sorti dell’uomo. Kubrick si impegna a filmare lo sforzo d’ordine e di disciplina di questa età, ma lo legge all’esterno di ogni trionfalismo, e così pure di ogni fiducia nell’avvenire. Se il piccolo Bryan chiede al padre Barry di lasciargli accese le “luci” nel corso della notte, e se tutto il film è girato con un’illuminazione omogenea e abbacinante, in ogni modo questo surplus di chia­rezza gioca paradossalmente contro se stesso, tradisce una qualità cadaverica profondamente disturbante; dà la sensazione di quella luce da tavolo chirurgico, da obitorio, che tan­to spesso si irradia nei film del regista (4). Allo stesso modo le azioni ritualizzate e disciplinate dall’etichetta, se pure rendo­no una certa sensazione di compostezza e di equilibrio, d’al­tra parte vengono connotate da una meccanicità, da un auto­matismo davvero disumano: annichilimento di ogni sussulto vitale nell’inscenamento della decenza; occultamento della carne sotto gli orpelli della cosmesi; smarrimento dell’indivi­duo nell’organizzazione spersonalizzante dei ranghi dei bat­taglioni in avanzamento. La vita è come tutta raffrenata nel­l’artificio; da fluida e malleabile quale la si intende, irrigidita in cerimoniali e rituali sclerotizzanti, per quanto poi conte­gnosi e magari anche “belli” (lo splendore figurativo del film è innegabile e si radica cospicuamente in questa geometria dei movimenti). Il discorso rientra nella sottile ambiguità kubrickiana circa il valore estetico, già spinta a esiti estremi in Arancia meccanica, dove ogni “bellezza” è il prodotto di una violenza, di un “condizionamento”, di una “macchinazio­ne”; in Barry Lyndonci si può scervellare sul senso di volti imbellettati che celano il deterioramento delle carni e di par­rucche pompose che nascondono i pidocchi.
La ragione e gli spettri
Alla luce di queste considerazioni, una prospettiva più sin­tonica alla manipolazione kubrickiana del Settecento è quella espressa da E.M. Cioran. Nel saggio intitolato «Amatori di memorie» (5) affiora un ritratto piuttosto insolito del secolo dei lumi, ritratto che intreccia svariati spunti e motivi decisa­mente omogenei alle sensazioni indotte dal film. L’excursus di Cioran ha come centro ideale un’affermazione della marchesa du Deffand alla duchessa de Choisuel: «Voi avete molta espe­rienza, ma ve ne manca una che spero non avrete mai: la pri­vazione del sentimento, col dolore di non poterne fare a meno». L’artificiosità di un secolo portato ad impettirsi di fronte all’immagine del suo ordine, del suo gusto e della sua raffinatezza fu quanto di più contrario e nefasto per qualsiasi moto spontaneo. Bandita da ogni rifugio di fortuna, l’inge­nuità, non potendo allignare in spiriti tanto affinati e anemi­ci divenne un puro mito, sostanziato nell’immagine del selvaggio, l’unico che poteva ancora conservare l’autenticità e l’immediatezza dei sentimenti, tanto “rozzi” quanto “palpi­tanti” e “vivaci”. «Una volta diventata sovrana, l’intelligenza si erge contro tutti i valori estranei alla sua attività e non offre nessuna sembianza di realtà alla quale ci si possa appigliare. Chi vi si dedica per culto o mania giunge infallibil­mente alla “privazione del sentimento” e al rimpianto di essersi votato a un idolo che dispensa soltanto il vuoto» (6). L’artificio va inteso in questa direzione: rottura irreparabile con il senso della natura, rescissione con la trascendenza del­le fonti vitali. Un processo che alla fine, in mancanza d’Altro, si ripiega su se stesso, diventa autoreferenziale. Si riesce così a capire lo stile diafano ed esangue dei salotti settecenteschi, in cui la sensazione era completa­mente soffocata dalla sovrastrutturazione linguistico-retorica, che, bruciata l’esperienza vitale, si indu­striava nell’edificazione di sottili e letali giochi verbali, di bon mots, di pointe, di calembours (7), di analo­gie imprevedibili: il tutto giostrato da un’immaginazione che volteggia­va ariosamente sulla vuotezza di una gratuità insensata. «L’eccesso di libertà uccide invariabilmente la libertà. Ecco come un movimento d’emancipazione, in qualsiasi àmbi­to, rappresenta ad un tempo un pas­so avanti ed un indizio di declino». Nel puzzle si inserisce senza sforzi l’ironia settecentesca, «derivazione di un desiderio d’ingenuità deluso, insaziato, che, a furia di fallimenti, s’inasprisce e s’invelenisce. Essa assume inevitabilmente un’estensio­ne universale; e, se critica di preferenza la religione e la mina, è per­ché prova in segreto l’amarezza di non poter credere». Il coerente risul­tato è che «non poteva esserci di sacro altro che la conversazione, i discorsi corrosivi, le battute di stile faceto e d’intento micidiale». All’interno dei salotti si svolgeva il reiterato sacrificio dell’ammira­zione e della pietà in nome di una autocoscienza e di una razionalità che non lasciavano spazio ad alcuna idea di purezza. Il mondo era una grossolana incrostazione, piuttosto primitiva, che doveva essere nobilitata dall’agilità subdolamente funesta dell’intelligenza. La danza del verbo, la panto­mima della razionalità… Le passiones venivano singolarmen­te notomizzate, decostruite, e ciò, paradossalmente, nel momento stesso in cui venivano richiamate come fattore di movimento all’interno della stasi virtuale della ragione. «Una delle idee fondamentali dell’Illuminismo sarà che i naufragi sono il prezzo da pagare perché l’assoluta calma del vento non renda impossibile agli uomini ogni rapporto con il mon­do. È la giustificazione delle passiones discriminate dalla filo­sofia che viene formulata in questa figura: la ragion pura sarebbe la bonaccia, l’immobilità dell’uomo nel pieno possesso di ogni ragionevolezza» (8). Se le emozioni erano giustificate come palliativo di una stasi imminente, era perché l’immobi­lità si imponeva come fatale… Proprio in quegli anni Chamfort si vantava «di potere, al culmine dell’amplesso, risolvere un problema di geometria».
In definitiva, il Settecento, nelle espressioni più tipiche del­la sua aristocrazia, era secolo artefatto. La ragione e l’ironia, non certo disgiunte, già insufflavano i loro spiriti venefici: la noia dilagava e con essa apatia e stanchezza. All’animo settecentesco rimaneva solo il proprio stile, proteso verso una limpidezza, un nitore e una perfezione insieme bramati e rifuggi­ti: certo inevitabili. Il verbo (9), divorziando dalla realtà – che non vantava più il suo vecchio fondamento metafisico – divenne, insieme all’idea di progresso, l’ultima forma di illu­sione di un’epoca.
In questa prospettiva risultano più che azzeccate le consi­derazioni di Alberto Crespi sull’estraneità di Barry Lyndon rispetto al contesto in cui si arrabattava (10). La sua differen­za viene motivata, fra l’altro, facendo riferimento ad «uno dei rituali meno appariscenti, ma più importanti: il linguaggio». Barry non riesce a padroneggiare questa pratica, che funzio­na come «deterrente delle passioni. In svariati dialoghi del film emerge una sorta di “falsa decenza”, che maschera le tensioni: quanto più i personaggi si dicono delle cose terribili, tanto più il loro linguaggio diventa urbano e artefatto» (11). In uno dei momenti più drammatici del film, Barry picchia selvaggiamente e brutalmente il suo figliastro: fa emergere una violenza primitiva che non poteva che inorridire e maldisporre coscienze troppo manierate e affettate. Questo sussul­to di violenza incontrollabile segna l’esclusione di Barry da una società che già lo digeriva a fatica, ma nella quale i soldi acquisiti con il matrimonio erano un ottimo lasciapassare.
L’alienazione di Barry dal suo contesto fu indizio sufficien­te per alcuni per rilevare nel film la condanna di un secolo, il senso di caduta da cui era ormai permeato. L’incombere dello sconvolgimento romantico era presagio della fine di un’intera società, di un intero ordine. Barry sembrava aprire una brec­cia, una falla all’interno di un sistema classista che era lì lì per essere travolto da una nuova era. In tal senso venivano interpretate anche le musiche del film (che nel finale presentavano un compositore romantico come Schubert) e le scelte “sentimentali” di Barry: i suoi amori falliti per mancanza di calcolo e di mali­zia; la sua gamba persa per un atto di compassione nei confronti del figliastro… Molto più penetranti le osservazioni di Sandro Bernardi, che in un passo sentenzia lapidariamente: «Se infatti il senso del mondo esiste, perché dovrebbe essere, per definizio­ne, fuori di esso; e fuori del mondo, come ci ricorda Wittgenstein, non c’è niente, appare chiaro allora che anche Barry Lyndon, che non ammette niente al di fuori di sé, al di fuori di ciò che è esplicitamente detto, non ha un senso» (12). La rivoluzione romantica è come già logorata nel corpo del film, una possibilità già esaurita. Perché si ha questa sensazione?
Il Settecento di…domani: sguardo “strabico” di Kubrick
Lo sguardo di Kubrick verso il Settecento è affetto da un particolare strabismo: si rivolge indietro e insieme in avanti, verso la fine del tempo, il dopo-Storia. Cadute le utopie della raffinatezza stilistica (la cui essenza mortifera, diventa morta e basta) e del progresso, non rimangono nella ricostruzione di Kubrick che forme vuote, rimasugli meccanici di un’umanità che per accidia e apatia non trova più neppure la forza e la motivazione di distruggersi, di sterminarsi salubremente. I rituali, l’etichetta, i ceri­moniali diventano così i luoghi ultimi di una rinuncia a sé, de-individualizzazione possibile solo continuan­do a vivere come dei morti; senza uccidersi, perché ciò denuncerebbe un amore di sé, una cura per la propria sorte che diventa troppo dispendiosa, troppo scandalosamente vitalistica. L’uomo si affloscia su se stesso in una perfetta passività che si esprime nell’e­secuzione automatica di una programmazione este­riore, deliziosamente superficiale. «La situazione, l’avvenimento, vengono presentati sempre come qualcosa che si para davanti a Barry, una scena tea­trale già pronta per il suo ingresso e per le sue deter­minate battute. Non c’è foga o incertezza, il suo movimento tipico è il caracollare verso gli appunta­menti già predisposti (da un secolo), che siano la rapina nel bosco annunciata nella scena precedente con gli “attori” che lo aspettano quasi annoiati fuori dall’osteria vedendolo arrivare, o l’incontro col cava­liere compatriota, cui si presenta comparendo da un porta in fondo alla stanza, l’ingresso del palcoscenico che coincide col centro dello schermo» (13). E la dopo-Storia, in cui cadono volontà, orgoglio, desiderio: rimane solo il vuoto otre del corpo umano, inerte nella sua nullità, nella sua assurdità. Questo Settecento futuribile si distingue dal suo antenato anche perché l’assenza di avvenire non è più il monopolio di una classe, ma si estende a tutte, in una super­ba democratizzazione attraverso la vacuità. I personaggi, non uno escluso, sono spettri esangui, incapaci di vivere… Perché come ci si può abbandonare ai propri istinti dopo aver sfama­to la coscienza, dopo aver intuito che «manifestarsi, operare, in qualsiasi ambito, è cosa da fanatico più o meno camuffato» o dopo aver presagito che «vivere è un plagio»? Non resta così che adeguarsi a routines insensate, diventando quel «borghe­se di nessun luogo» o quello «spettro conformista» preconizza­ti da Cioran in alcuni dei suoi più lucidi frammenti. «Non sarebbe preferibile, dopotutto, orientarci verso una condizio­ne di automi? Alle nostre tristezze individuali, troppo gravo­se, subentrerebbero tristezze in serie, uniformi e facili da sop­portare; non più opere originali e profonde, non più intimità, dunque non più sogni né segreti. Felicità, infelicità perdereb­bero ogni senso perché non avrebbero un dove da cui emana­re; ognuno di noi infine sarebbe idealmente perfetto e nulla: nessuno…» (14). Se il dottor Stranamore aveva imparato ad amare la bomba, perché la pantoclastia della deflagrazione atomica era comunque segno di un destino esclusivo (elezione al rovescio), qui Kubrick compie l’ultimo passo contro l’uomo: lo svuota completamente. A rigor di termini non è neppure contro di lui: è solo indifferente. Il suo meccanismo non distrugge più nulla: fa solo girare a vuoto.
Kubrick è insieme fedele e infedele al Settecento: egli ne coglie un moto intimo e lo proietta in avanti, verso il futuro, verso la fine del tempo… Ecco perché si tratta di un film di fantascienza. Il residuo settecentesco di vitalità è negato sul­la scorta di un presagio, di una profezia. «L’uomo continua e continuerà fino a che non avrà polverizzato il suo ultimo pre­giudizio e la sua ultima credenza; quando infine vi si deci­derà, accecato e annientato dalla propria audacia, si troverà nudo di fronte al baratro che si apre dietro il tramonto di tut­ti i dogmi e di tutti i tabù» (15). Rimane un dubbio: questa escoriazione di tutti i pregiudizi, di tutte le illusioni è davve­ro possibile? La post-Storia sarà accessibile all’uomo? Il con­fronto con il baratro del disinganno segna davvero la fine del tempo? Alcune sequenze parlano del dolore incontenibile di fronte alla morte, alla scomparsa di sé o dei propri cari: così accade nell’episodio dell’uccisione in battaglia del capitano Grogan, amico e protettore di Barry; oppure in corrisponden­za dell’incidente mortale del piccolo Bryan, la cui bara depo­sitata su un carro avanza con tragica lentezza e ineluttabilità durante la processione; o ancora nel momento in cui Lady Lyndon tenta il suicidio, episodio che viene ripreso con la macchina a mano per accentuare visivamente gli spasmi della donna (16). Anche la conclusione di Barry Lyndon è enigmati­ca: che senso ha la menomazione finale, con quel viaggio in carrozza che porta chissà dove, forse proprio da nessuna par­te (il fermo-immagine blocca il movimento, lo pietrifica, in un congelamento implicito che non manca di richiamare, in una ver­tiginosa anticipazione, Shining)? Barry si presterà ad essere un personaggio della grande stagione del romanzo – l’Ottocento -, arra­battandosi in quel surrogato metafisico che sono i tourbillonspsicologici, prodotti di un ripiega­mento su di sé di chi non ha più mondo? 0 forse avrà la decenza di spegnersi, di rinunciare ai propri aneliti, alla propria volontà, alla propria voglia di destino (17) per accedere finalmente al silenzio della post-Storia, dove il baccano umano si azzittirà in un uniforme (ma certo equivoco) brusio della non-vita? La risposta (o non-risposta) a 2001: Odissea nello spazio (1968), dove Kubrick si getta «oltre l’infinito».
Il Settecento del futuro
Annette Michelson (18) in un suo saggio su 2001 attribuiva il fascino del film, la suggestione che esercita sugli spettatori al suo carattere di esperienza sensoriale (19). Facendo propri gli assunti dell’arte moderna che, a seguito della crisi della metafisica occidentale, ha spostato l’attenzione da una mime­si legittimata dalla trascendenza al “corpo” stesso dell’opera d’arte (Flaubert: «Ciò che io reputo bello, ciò che mi piacereb­be fare è un libro sul nulla, un libro senza alcun tipo di lega­me esterno, che si regga su se stesso, sulla forza interiore del proprio stile, come la terra sta nell’aria senza alcun punto d’appoggio, un libro senza soggetto. O, per lo meno, con un soggetto quasi invisibile, se possibile»), la Michelson interpre­ta 2001 come uno «schema del movimento» (Bergson) e un’«architettura del movimento». Ciò che importa è la rifles­sione sulla conoscenza in sé, sul suo prodursi e sul suo evol­versi. Da questo punto di vista il film «non propone nulla di maggiormente interessante della sua stessa fisicità, della sua “espressione formale” della natura del movimento nello spa­zio; non suggerisce nulla di così totale ed essenziale quanto la prova dei sensi, la tesi della conoscenza attraverso la perce­zione come azione e, infine, della natura del medium come “film d’azione”, come metodo e modello di cognizione». 2001, conseguentemente, è detto essere un po’ “più film” degli altri film, in quanto la sua essenza di viaggio nella conoscenza, di reinvenzione della percezione diviene la poetica stessa della pellicola, e non è solo sottintesa, implicata dalla sua natura cinematografica. Il film produrrebbe una messa in questione di ogni “spazialità oggettiva” per far percepire sensibilmente come la consapevolezza della spazialità sia il risultato di assestamenti progressivi, che si dipanano da una “spazialità primordiale” senza mai risolverla definitivamente, e instau­rando così un equilibrio dinamico. «Mettendo costantemente in discussione questa “spazialità oggettiva”, Kubrick incarna il grande tema del sapere come indagine su se stessi, della crescita come costante rottura e ricreazione dell’equilibrio nel cammino verso la conoscenza. Questa successione di ricrea­zioni dell’equilibrio è una perfetta metafora della mente di fronte alla realtà, e noi ripercorriamo il suo cammino in una serie di shock sconcertanti che mettono alla prova la nostra ricettività». Tra gli esempi offerti dalla Michelson, mette con­to di ricordarne almeno uno: «Non appena la hostess comin­cia a muoversi all’interno dell’astronave, camminando sul muro e scomparendo a testa in giù nel soffitto, noi ci trovia­mo di fronte a una rivelazione – mediante lo shock, la sorpresa per la sconfitta della forza di gravità – della natura dei nostri movimenti nello spazio. Il piacere che riceviamo dalla stra­nezza del suo movimento è la prova della maggiore coscienza di qualcosa di fondamentale in noi stessi. Il sistema di aspet­tative su cui si basa il nostro senso dello spazio, le coordinate stesse del corpo sono “sospese” e poste in discus­sione. Questa messa in discussione (e il suo riconoscimento) sono il lascia­passare per un altro spazio e un altro modo di essere, da cui le nostre consuetudini possono essere osservate». Prendendo spunto dalle ricerche di Piaget, secondo cui «la logica delle azioni è la più profonda e la più primitiva», la Michelson conclude che «vedendo un film, in generale, si diventa coscienti del legame che esiste tra lo sviluppo della conoscenza senso­rio-motoria e quello dell’intelligenza».
Questo lungo preambolo serve per chiarire uno dei punti di partenza del­la nostra interpretazione: la “freschezza” del film. Essa è il risultato della costante reinvenzione percettiva che 2001 pro­pina allo spettatore, costringendolo ad una rimeditazione delle sue stesse esperienze motorio-spaziali e ad un costante riassestamento di quell’equilibrio cognitivo che è sempre un work in progress. Il viaggio diventa giustamente metafora degli sconvolgimenti della conoscenza, che vengono resi nel film con una fisicità inedita, recuperando quel nesso percezio­ne-intelligenza propugnato da Piaget e dai fenomenologi. 2001, in effetti, è un grande affresco delle modalità della nostra esperienza: dalla preistoria (gravità terrestre) alle profondità dello spazio (gravità zero); dall’interno geometrico e ordinato dell’astronave (immobilità apollinea) al tunnel visivo del finale (scatenamento dionisiaco). Per non parlare, poi, di ciò che l’astronauta “scopre” nel corso del suo viaggio caleidoscopico: ripercorre l’origine del cosmo, passando dal big bang, alla formazione degli astri e dei pianeti, dal raffred­damento del magma primordiale, alla solidificazione delle rocce… Davvero in 2001 si riscontra un costante «fremito del­la nascita», un incessante «godimento di una conoscenza car­nale».
Eppure, per contrasto, il finale del film dice qualcos’altro. Dopo aver esaurito ogni possibilità di esperienza, cos’altro rimane? Cosa può seguire al riepilogo della totalità della vita umana, addirittura al sunto dell’intera storia del Cosmo? Se il film, in base all’assunto fenomenologico secondo cui l’arte non si basa sulle cose viste ma sulla vista in sé, sottende con­tinuamente una strategia auto-riflessiva, nel senso che la conoscenza indaga se stessa, si confronta con il percorso della sua formazione e della sua indefinita ridefinizione, è inevita­bile che alla fine l’occhio rimanga in una solitudine auto-refe­renziale. Lo stupore della visione, esauriti i suoi oggetti, si ritrova tristemente avviluppato in se stesso; l’occhio guarda l’occhio, vive il lusso di non esprimere più niente se non l’e­quivoco del suo proprio gioco. In una serie di straordinari campi/controcampi Bowman si guarda mentre incanutisce, inchiodato ai suoi limiti umani, al decadimento del suo corpo. Ma quel che è più flagrante, quel che denuncia questo irrepa­rabile “invecchiamento”, questa “apatia”, è il décor. Se in Barry Lyndon avevamo solo ipotizzato che lo sguardo sul Settecento fosse strabico e si rivolgesse al passato per guardare in avanti, qui in effetti una camera settecentesca (stile rococò) è posta nel futuro remoto, per indicare con la sua pre­senza la fine del tempo nella sclerosi della ripetizione. L’uomo mangia, si sdraia, si aggira in un bagno con una freddezza che trasmette sì un brivido, ma non per il senso di nascita: piuttosto per la patina di morte che avvolge la sequenza. Dopo il suo viaggio cosmico l’uomo sopravvive a se stesso: non ha più slancio vitale; si accascia nella passività di una pace mortifera, ectoplasmatica («borghese di nessun luogo», «spettro conformista»). E un residuo biologico. Se la Michelson, citando Simmel, rilevava come «non il contenuto, ma il desiderio di esperien­za determina l’avventura» e associava questa dinamicità ad una categoria più o meno concreta di gioventù, non bisogna lasciarsi sfuggire che a lungo andare questo atteggia­mento ci lascia senza “sostanze”, soli con noi stessi, con la vuota “struttura” della nostra esperienza: cocente delusio­ne…che farebbe avvizzire chiunque.
Un’altra nascita?
Al cappezzale di morte dell’agonizzante Bowman, la cine­presa riscopre il monolito e in un campo/controcampo tra la sua nera presenza e il letto rivela un nuovo embrione, un essere che sta per nascere. Già Cioran, dopo aver elogiato la vacuità (che è anche “futilità”) della post-Storia, si chiedeva: «Chi ci dice tuttavia che, raggiunto il suo scopo, la nuova umanità non ricadrebbe nelle sventure della vecchia? E come credere che non si stancherebbe della felicità o che sfuggireb­be all’attrattiva della caduta, alla tentazione di avere anch’essa una propria parte? La noia in mezzo al paradiso fece nascere nel nostro primo antenato un appetito d’abisso che ci ha meritato quella sfilata di secoli di cui ora intrave­diamo la fine. Questo appetito, vera nostalgia dell’inferno, finirebbe col devastare la razza che venisse dopo di noi e col farne la degna erede delle nostre storture» (20). L’uomo, orri­do intrico di contraddizioni, essere che non può uccidersi (in vista di quale illusione? – 21), per il residuo di vita che gli rimane appiccicato continua a rinascere, in una sospensione di senso striata dall’ironia della sempiterna, grottesca ripetizio­ne del tutto. Osceno plesso degli opposti, egli non può risol­versi in nessuno di essi: continuare nell’assurdità, questo è la sua costrizione biologica, retaggio di una natura e di una spe­cie troppo invadenti, di un senso di sopravvivenza che non sa estinguersi… e che rilancia una sfida vuota di thrilling. Il feto cosmico, allora, in quanto forma di vita manifesterebbe un’ineluttabile deficienza d’essere, che, compensata dall’orgo­glio congenito dell’esistente (22), riattiverebbe le spirali mefi­tiche della Storia. Ricaduta coatta nei ranghi disperanti del Tempo, in cui l’inseguimento dei propri ideali è un preciso allontanamento da essi, una condanna involontariamente pronunciata contro di sé, ma mai troppo risolutamente (per impedimento biologico…o forse divino).
Un’altra possibilità ci si prospetta, che depone sempre a detrimento del presunto “ottimismo” del film. La carrellata in avanti che attraversa il nero del monolito (carrellata che sim­boleggia la morte, secondo Marcello Walter Bruno) potrebbe effettivamente significare un salto nel buio, una metamorfosi dell’uomo che, oltrepassando la Vita e la Storia, si ritrovereb­be a fluttuare nello spazio: uscita dalla carne terrestre, per accedere a un non-tempo in cui il degrado biologico è interrot­to per mancanza di cellule. Il fanciullo astrale appare essere etereo, puro spirito. Se queste suggestioni sono servite spesso come giustificazione del preteso “lieto fine” del film, esse non mancano di suonare ambigue, perché postulano una palinge­nesi la cui positività starebbe nell’allontanamento dalla vita, dalla sua miseria, in ciò rinnovando la vexata quaestio circa il significato dell’al di qua.
Tuttavia, occorre forse andare oltre, e cogliere, piuttosto che l’ef­fettivo accadimento della meta­morfosi, un celato sberleffo kubrickiano, ennesimo capitolo del­la sua sardonica ironia. Il feto cosmico non è un organismo che sta per nascere, ma che sta per accede­re ad un secondo embrione, ben più appagante, le cui pareti sono costi­tuite dall’immensità dello spazio. «Bisognava accontentarsi dello sta­to di larva, rinunciare a evolvere, rimanere incompiuti, gioire della siesta degli elementi, e consumarsi quietamente in un’estasi embriona­le». La conquista dell’immortalità avverrebbe, dunque, solo in senso regressivo, verso quell’infantilismo che fa capolino in tutti i film del regista (il finale di Arancia Meccanica, in cui il Mini­stro degli Interni imbocca Alex; il finale di Full Metal Jacket, che presenta un battaglione di marines intenti a cantare la canzone di Topolino, ecc). Il feto non è la promessa di una rinascita, ma il sogno di un ritorno: ritorno che, ironicamen­te, non si orienta verso la madre, dal cui utero si viene espul­si, ma verso le profondità dello spazio, regione in cui non si può affatto nascere, in cui si permane in un perenne stand by di onnipotenza/impotenza. E, si badi bene, anche in Barry Lyndon si rinnova questa disposizione, solo che appare ribal­tata: impotenza/onnipotenza, dove il primo carattere è quello più apparente e il secondo quello implicito. La post-Storia è un altro embrione, sui generis, certo, ma proprio per questo molto efficace… Addirittura affascinante nella sua spietatez­za, nella sua glacialità. Nel deperire settecentesco, nell’ap­piattimento dell’umano, tutti i conflitti vengono sedati, zittiti: non ci sono più asperità, né rugosità; vengono bandite le incertezze e le zone d’ottusità in virtù di un livellamento generalizzato.
Punti d’arrivo illusori, apparenti, necessariamente ironici, questi percorsi regressivi non sono certo un compimento; testimoniano invece il disagio del vivente, la sua insolubile contraddizione, alimentata da quel «sogno di onnipotenza frustrata» che, nella sua parodia della perfezione, è una delle delusioni più cocenti, dei fallimenti più emblematici.
(1) E.M. Cioran, Squartamento,Adelphi. Milano 1996. pag. 41.
(2) Franco Rella, Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero, Feltrinelli. Milano 1994, pag. 12.
(3) Giova ricordare a questo proposito la spietata satira dell’ottimismo leibniziano esercitata da Voltaire nelle pagine del Candido. Una scambio di battu­te tra Cacambò e Candido chiarisce esemplarmente l’atteggiamento: «Cos’è l’ottimismo?» diceva Cacambò; «Ahimè!», disse Candido «È la mania di sostenere che tutto va bene quando si sta male».
(4) Il suggerimento è tratto da Giorgio Cremonini, L’arancia meccanica, Lindau, Torino 1996, pag. 53.
(5) E.M. Cioran, op. cit. [nota 1], pag. 37-52
(6) E.M. Cioran, op. cit. [nota 1]. Le successive citazioni, a meno di specifiche attribuzioni, sono tratte dalle pagine 47-49 di quest’opera.
(7) Non dimentichiamo che un motto di spirito detto in presenza di una corti­giana fruttò a Tallevrand un’abbazia (E.M. Cioran, La tentazione di esiste­re, Adelphi, Milano 1998, pag. 117).
(8) Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore, il Mulino, Bologna 1985, pag. 54.
(9) «In ogni civiltà raffinata si opera una divaricazione tra realtà e verbo» (Cioran, op. cit. [nota 7], pag. 120).
(10) Alberto Crespi. Spazio e tempo in Barry Lyndon: la quadratura del cer­chio, in Gian Piero Brunetta (a cura di), «Stanley Kubrick», Marsilio, Venezia 1999, pag. 205-218. Fino a diversa indicazione, le seguenti citazioni saranno tratte da questo saggio.
(11) Questa osservazione coincide singolarmente con un passo di Saint-Simon su Luigi XV: «Senza costanza in tutto, fino al punto di non poter comprendere che si potesse averne, egli era di un’insensibilità che lo rendeva senza fiele nelle offese più mortali e più pericolose». Cioran (op. cit. [nota 1], pag. 45-46) definisce questo atteggiamento un’«apatia miracolosa», e si rifà all’espressione di Michelet sul Reggente secondo cui «nel suo animo c’era il nulla».
(12) Sandro Bernardi, Barry Lyndon: i percorsi circolari del viaggiatore, in Gian Piero Brunetta, op. cit. [nota 10], pag. 220.
(13) Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, il Castoro, Roma 1993, pag. 120.
(14) E.M. Cioran, op. cit. [nota 7], pag. 139.
(15) E.M. Cioran. op. cit. [nota 1], pag. 49.
(16) Ghezzi scrive: «Si avverte il dolore dei personaggi costretti a entrare nel quadro per morirci. Il dolore di un percorso che non è neppure razionalmente necessario. Una delle chiavi del film (si dovrebbe dire: del cinema) è proprio il nodo perfetto, nel mondo settecentesco, di causalità e casualità» (Enrico Ghez­zi, op. cit. [nota 13], pag. 120).
(17) «Quello che ci rovina, no, quello che ci ha rovinati, è la sete di un destino, di un destino qualunque» (Cioran, op. cit. [nota 1], pag. 66).
(18) Annette Michelson, Corpi nello spazio: il cinema come “conoscenza carna­le”, in Gian Piero Brunetta, op. cit. [nota 10], pag. 171-190. A meno di diverse indicazione, le successive citazioni sono tratte da questo saggio.
(19) Indicazioni in tal senso erano già contenute in Enrico Ghezzi, op. cit. [nota 13], pag. 78, e in Ruggero Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mur­sia, Milano 1995, pag. 70-80.
(20) E.M. Cioran, op. cit. [nota 1], pag. 81.
(21) Vedi Emmanuel Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1997, e Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute, Adelphi, Milano 1988. Levinas rileva come l’uomo non possa non amare la vita, e anche nel momento in cui tenta di uscirne attraverso il suicidio lo fa nella vaga speranza di una condi­zione migliore (dunque, in un certo senso lo fa per la vita…). Michelstaedter precisa che le aspettative legate al suicidio sono possibili perché ci si illude, magari inconsapevolmente, che dopo la morte perdurerà il nostro stato di coscienza: solo così, infatti, potremmo godere della pace conquistata. Invece, dal momento che non permane alcuna consapevolezza, non c’è neppure alcuna felicità.
(22) Vedi la riflessione di Leopardi così come si dipana nello Zibaldone di pensieri.
Cineforum, n. 389 (Anno 39 N. 9) – Novembre 1999