sabato 17 settembre 2016

L'altra parte del Milione / Alfred Kubin, ri-lettore di Marco Polo

Alfred Kubin

L'altra parte del Milione

Alfred Kubin, ri-lettore di Marco Polo


21 OTT 2011
di
SALVATORE INCARDONA


Quella della citazione è una prassi artistica consolidata e vecchia di secoli, se non addirittura di millenni. Una pratica che trova piena giustificazione nella volontà di ogni artista che tenta di rafforzare il senso o il valore della propria creazione mediante l’accreditato prestigio di un’altra opera, ossia concretizzando una serie di riferimenti che in maniera più o meno esplicita rimandano a una cosiddetta «fonte». Sfruttare un certo referente artistico-letterario per trovare conferma nella sua auctoritas è stata dunque la regola non scritta che ha disciplinato la consuetudine del citazionismo. Tuttavia, poiché con l’avvento della Modernità l’arte nel suo complesso si è gradualmente appropriata di nuovi e differenti codici espressivi, è diventato impossibile configurarla come una forma armonica e sistematica. L’arte diventa così un lavoro di rilettura, di revisione, di collage, vera e propria ars combinatoria che, al tradizionale gusto per l’elencazione, affianca e sovrappone un accumulo di citazioni attinte da fonti diverse e confluite in un prodotto finale nel quale diventa difficile poter distinguere l’oggetto creato dall’oggetto reperito.
Fra gli artisti del Novecento che hanno portato a maturazione questa pratica bisogna annoverare anche Alfred Kubin – disegnatore celebre e scrittore saltuario ma importante – la cui opera complessiva è carica di reminescenze e citazioni che rimandano tanto alla letteratura quanto alla filosofia o all’arte grafica. E dal momento che le fonti cui attinge a piene mani non sono soltanto letterarie, ma spaziano da un codice artistico all’altro, questa tendenza, se mai, viene portata da Kubin alle estreme conseguenze, poiché ogni sua creazione è spesso un repertorio inestricabile di citazioni, un mosaico di «ripetizioni transcontestualizzate», per usare le parole di Linda Hutcheon [1], in cui il rapporto nuovo e inedito fra l’originale e il contesto in cui questo confluisce obbliga il lettore a una competenza di tipo intertestuale che gli permetta di passare attraverso i vari livelli della narrazione per coglierne l’insieme più o meno visibile delle relazioni e delle interazioni.
A questo processo non si sottrae nemmeno l’unico romanzo scritto da Kubin, Die andere Seite (L’altra parte, 1909), un archivio di citazioni e rinvii, indicazioni, riferimenti e riscritture in cui il rapporto nuovo e inedito che si viene a creare tra le matrici del testo e il tessuto narrativo impone un approccio necessariamente filologico per poterne cogliere il significato e soprattutto il valore. Tuttavia, prima di addentrarsi nell’esame di alcuni collegamenti fra quest’opera e – come anticipato già dal titolo della nostra analisi – Il Milione di Marco Polo, sarà utile ricordarne brevemente la trama.
Un giovane disegnatore di Monaco si trasferisce insieme alla moglie in un’imprecisata regione dell’Asia centrale, dove un suo ex compagno di scuola, Claus Patera, ha fondato un vero e proprio reame grazie ai proventi di una favolosa eredità. Dopo un estenuante viaggio che li porta a toccare Batum, Krasnavodsk e Samarcanda, i due giungono a Perla, la capitale del cosiddetto Regno del Sogno. Qui, dove il progresso e la modernità sembrano essere stati banditi e il tempo è bloccato al secolo precedente. La quotidianità dei due coniugi è dominata da forze assurde e imprevedibili, mentre un destino incomprensibile e capriccioso grava sugli abitanti di Perla. Così, in un susseguirsi di fenomeni inspiegabili che portano la moglie prima all’esaurimento e poi alla morte, la vita del disegnatore si trasforma gradualmente in un vero incubo. Nel frattempo, l’arrivo dell’americano Herkules Bell, fermo assertore del progresso e naturale antagonista di Patera, getta la città nello scompiglio. Parallelamente alla sua propaganda politica si intensificano però i sintomi della decadenza del regno. Aiutato dagli uomini dagli occhi azzurri – gli unici che sembrano potersi affrancare dal potere negativo del sovrano – il protagonista riesce a sopravvivere alla visione apocalittica della mostruosa lotta tra il fondatore del regno e l’americano. Patera muore insieme alla sua creazione, mentre su Perla sorge il sole e avanzano le truppe del mondo reale. Il disegnatore riesce così a far rientro in Europa, ma l’esistenza a questo punto gli sembra soltanto una deformante caricatura del Regno del Sogno che lo ha ospitato per tre anni [2].
Nel capitolo Die Reise il protagonista del romanzo afferma di voler descrivere, in maniera rapida, il viaggio intrapreso insieme alla moglie per raggiungere il Regno del Sogno. Nonostante questa programmatica affermazione il racconto del lungo viaggio alla volta del Traumreich non sarà poi così rapido né tanto meno povero di dettagli. Le prime città menzionate espressamente dopo la partenza in treno da Monaco sono due grandi capitali europee: «Da Budapest in poi si cominciò a notare un’atmosfera abbastanza asiatica». Nelle fasi successive del viaggio verso est viene lambita da principio la costa del Mar Nero, passando da Costanza e da Batum, nel sudovest della Georgia, per poi inoltrarsi nella Russia transcaucasica: «Sì, la Russia! Questa era un paese davvero di mio gradimento: vasto, rigoglioso, incolto». L’arrivo a Krasnovodsck, al di là del Mar Caspio, coincide con il termine della prima settimana di viaggio, dopodiché la seconda verrà spesa per raggiungere prima Merv, poi Bukara e infine Samarcanda, nell’attuale Uzbekistan: «È proprio come da noi, ma all’orientale. Camminammo in qua e in là lungo strade e piazze, aprendoci continuamente il cammino attraverso scene da Mille e una notte». Qui, lungo la via della seta che collega la Cina all’Occidente, si arresta il viaggio ferroviario dei due coniugi, i quali, prima di raggiungere il tanto atteso Regno del Sogno, saranno costretti a proseguire per altri due giorni su di un carro trainato da cammelli.
Come si può facilmente notare l’itinerario seguito dal protagonista del romanzo lungo il suo viaggio dalla Germania all’Uzbekistan è del tutto verosimile e privo di alcun dato fittizio. Tuttavia, subito dopo la partenza da Samarcanda e mano a mano che egli si avvicina al Regno del Sogno, la descrizione si fa vaga e priva di elementi oggettivi, per poi cessare del tutto in seguito al sonno che colpisce sia lui che la moglie: «Nel nostro carro, che era coperto, regnava l’oscurità. Il paesaggio diventava spoglio, pietroso; tutto, lì intorno, era immerso in un verde freddo. Nella monotona e verdastra penombra fluttuavano talvolta alberi spogli, cactus e salicornie. Il carro oscillava con ritmo regolare. Dalla testa della carovana arrivava una melodia strascicata e lamentosa, e mi addormentai».
La sola e unica opera in cui Kubin avrebbe potuto trovare il resoconto di un viaggio analogo a quello compiuto dal protagonista del suo romanzo, cioè attraverso un percorso che dall’Europa giungesse sino al cuore all’Asia, è Il Milione di Marco Polo, e non a caso la sua biblioteca personale ne conserva una copia illustrata edita nel 1907, vale a dire un anno prima che Die andere Seite venisse scritto. Tutte le varie mete citate dall’esploratore veneziano nella sua cronaca, sebbene spesso volutamente circondate da un alone di fascino e di meraviglia, sono comunque località reali e facilmente rintracciabili in qualsiasi atlante storico. Fa eccezione una sola di queste tappe, ossia la semileggendaria Mulecte (Milice), che, non individuabile in nessuna carta né antica né attuale, viene situata da Marco Polo in mezzo a un territorio compreso fra una serie di villaggi e due grosse città: Gobiam (nei pressi dell’attuale Deserto del Gobi) e Samarcanda. Qui, secondo il racconto, dimorava Alaodin, chiamato anche Veglio della Montagna, il quale aveva fondato un regno-giardino circondato da un lato da una catena montuosa e dall’altro da una fortificazione: «Milice è una contrada dove anticamente dimorava il Veglio della Montagna. Il veglio è chiamato nella loro lingua Alaodin. Egli aveva fatto fare tra due montagne, in mezzo ad una valle, il più grande e il più bello dei giardini. All’ingresso del giardino c’era un castello così forte che non temeva nessuno al mondo» [3].
Nonostante l’itinerario descritto nel Milione sia del tutto verosimile e rispondente a quello che dovrebbe essere stato l’effettivo percorso seguito da Marco Polo durante il suo viaggio in Cina, tracciarlo con precisione su di una carta e cercare di rispettarne tutte le stazioni con il solo ausilio del resoconto stesso fornito dal libro è un’impresa comunque difficoltosa. Non sorprenderà, dunque, che il viaggio del personaggio di Kubin sia molto simile a quello di Marco Polo, ma non identico, tenendo inoltre presente che l’edizione posseduta dallo scrittore austriaco, così come quasi tutte le precedenti edizioni del Milione, è priva di una carta storica che ripercorra l’esatto tragitto compiuto dal nostro esploratore. Rimane il fatto che la corsa ferroviaria dei due coniugi diretti al Regno del Sogno si arresta proprio a Samarcanda, e che il seguito del loro cammino – a bordo di un carro trainato da cammelli, come detto, quasi a voler sottolineare il distacco dalla realtà precedentemente simboleggiata da ciò che allora sarà stata di certo una suprema espressione della tecnologia, e cioè il treno – a differenza di quanto accadeva in precedenza è calcolatamente privo d’informazioni toponomastiche che possano aiutarci a stabilire l’esatta ubicazione del Traumreich. Detto ciò, è piuttosto evidente il fatto che Kubin abbia utilizzato in qualche modo il Milione sia per quanto riguarda le notizie relative alle varie tappe del viaggio che il suo protagonista compie dall’Europa all’Asia Centrale, ma soprattutto per collocare nello spazio il regno esotico e misterioso creato da Claus Patera. Quest’ultimo, infatti, viene posto entro un’area geografica non ben definita ma collocabile con buona approssimazione lì dove doveva trovarsi la leggendaria Mulecte, tanto più che lo spazio che separa la civiltà reale dal Regno del Sogno, come già per la favolosa città descritta da Marco Polo, è occupato da un’ampia zona desertica.
Le analogie fra i due testi, tuttavia, non si limitano alla sola collocazione geografica dei due misteriosi regni, ma riguardano anche la struttura fisica del territorio e la sua demarcazione. Come detto, infatti, Milice si trova in una valle protetta da un lato dalle montagne e dall’altro da un castello o fortificazione. E sorprendentemente simile risulta altresì la configurazione del Traumreich: «E soltanto allora scoprii in mezzo alla foschia una muraglia immensa, sconfinata. Era emersa davanti a me all’improvviso, del tutto inattesa. Qualcuno ci precedeva con una luce verso un grande buco nero: era la porta del Regno del Sogno. solamente da presso notai le dimensioni colossali. A nord delimitavano il regno delle montagne imponenti. Le cime erano perennemente nascoste da una zona di nebbia».
Con buona probabilità anche le vicende della città di Mulecte, e soprattutto la figura del Veglio della Montagna, sono state per Kubin una preziosa fonte d’ispirazione sia per dar vita al Regno del Sogno che per delineare l’identità del suo sovrano Claus Patera. Secondo il racconto di Marco Polo, infatti, entro i confini di Mulecte dimoravano molte persone, per lo più giovani, che Alaodin aveva appositamente scelto affinché ubbidissero devotamente ai suoi comandi. Dopo averli selezionati con attenzione il Veglio della Montagna dava loro da bere degli oppiacei e li conduceva entro la città, così che al loro risveglio credevano di trovarsi in un luogo di delizie: «E quando i giovani si svegliavano trovandosi là dentro e vedendo tutte quelle cose che ho detto credevano davvero di trovarsi in paradiso» [4], e nessuno, una volta entrato in questo regno-paradiso, credeva più possibile una vita al di fuori di esso.
Kubin si serve di tutti questi elementi ma li sviluppa secondo l’esigenza della sua pagina: nel cuore dell’Asia centrale Claus Patera fonda un improbabile Regno del Sogno scegliendo personalmente e uno per uno gli abitanti che vi dovranno dimorare; questi sono trattenuti entro i confini del Traumreich per mezzo di un misterioso incantesimo che li rende delle marionette nelle mani del sovrano, incapaci persino di poter immaginare una qualche forma di esistenza e civiltà che non sia quella del loro stesso regno: «Il Regno del Sogno ci sembrava grandioso e sconfinato, il resto del mondo non veniva preso in considerazione, lo si dimenticava. Nessuno che vi si fosse acclimatato voleva uscirne, il «là fuori» era un inganno, non esisteva. […] Il modo di agire di Patera rimaneva impenetrabile, e altrettanto incomprensibile la forza che faceva di noi, nel Paese del Sogno, delle marionette. Lo si avvertiva on ogni inezia. Il sovrano possedeva la nostra volontà, offuscava la nostra ragione. Si serviva dei suoi sudditi burattini, ma a che scopo?».
Il regno creato da Patera, dunque, come già la Mulecte di Marco Polo, si fa inconsapevole prigione per i suoi abitanti, costretti loro malgrado a dimorarvi e ad essere mossi e diretti come delle pedine inermi, oramai prive di volontà se non quella di mantenersi entro i confini dell’unico mondo ritenuto possibile e reale. Ma se la città di cui racconta l’esploratore veneziano era percepita dai suoi residenti come un vero e proprio paradiso, gli «abitanti del sogno», se pur ignari della loro effettiva condizione di prigionieri, sono ben lungi dal considerare il regno di Patera come un eden nel quale dimorare per sempre felici e liberi da vincoli. Ciò che pervade gli abitanti del Traumreich è piuttosto una sorta di muta rassegnazione, un adeguamento ai criteri di vita che regolano un microcosmo divenuto per loro sosta inevitabile e unica possibilità. Un punto di non ritorno, quindi, che annulla di colpo l’eventualità di un qualsiasi altrove, di un’ennesima altra parte felice o infelice, di un potenziale «là fuori». Tant’è che il tono con cui gli abitanti del Regno del Sogno pronunciano il loro «da draußen» (là fuori) non sembra molto diverso dal distacco che nella Montagna Incantata di Thomas Mann utilizzano i degenti del sanatorio dicendo «im Flachland» (nella pianura).
[1] Cfr. Linda Hutcheon, Narcissisitc Narrative. The Metafictional Paradox, Routledge, London and New York, 1980.
[2] Cfr. Alfred Kubin, Die Andere Seite, Munchen, 1908 (ed. it. L'altra parte, Milano, 1965).
[3] Marco Polo, Il Milione, a cura di G. Ronchi, Milano, 2006, pp. 352-53
[3] Op. cit., p. 354.


WALL STREET INTERNATIONAL
Salvatore Incardona
Salvo Incardona è nato a Vittoria. Formatosi accademicamente presso l'Università di Pisa, dove ha conseguito la laurea in lettere moderne, si è successivamente specializzato in letteratura tedesca e filologia moderna presso l'Università di Augsburg, in Germania, e dottorato infine in letterature comparate. Ha iniziato la propria carriera collaborando con alcuni periodici di filosofia e critica letteraria (Studi Germanici, Ctonia), in qualità di consulente per numerose case editrici (fra cui ArteStampa e Carocci) e come pubblicista per la rivista Tratti. Ha firmato numerosi articoli per il Wall Street International Magazine, partecipando attivamente alla nascita della testata. Ha tradotto e curato, fra gli altri, il saggio «Antropologia delle immagini» di Hans Belting, alcuni testi di André Malraux e tutte le ultime pubblicazioni di Gianni Salvaterra. Nella città di Imola, dove ha trascorso gli ultimi anni, è stato attivo sia come insegnante di lingua tedesca che in qualità di docente di scrittura e scrittura creativa. Rientrato di recente in Sicilia, lavora in qualità di direttore artistico presso l'associazione culturale Démodé.

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