Il biellese magico e misterioso: Dopo secoli manca una prova sicura sulla vera fine di Fra Dolcino
A cura di Roberto Gremmo
28 maggio 2017, 07:56Il mistero Dolcino.
Raniero Orioli nello studio più accurato e documentato sul celebre eresiarca che nel Trecento mise a ferro e fuoco per mesi la Valsesia ed il Biellese orientale scrive giustamente che il suo fu “un episodio ereticale italiano, quanto mai anomalo ed unico nel suo genere; tanto unico e tanto anomalo che ancor oggi la storiografia non è riuscita a chiarire tutta la vicenda, a cogliere il pieno significato di certi aspetti, le reali motivazioni sottese a certi episodi, la dinamica di certi fatti”.
Di Fra Dolcino non ci sono notizie sicure neanche sulla famiglia, sul luogo e sulla data della nascita perciò, in mancanza di fonti certe, la maggior parte degli studiosi é costretta a restar nel vago e questo ha costretto uno storico serio come il biellese Giulio Pavignano a scrivere di un vero e proprio “mistero delle origini”.
Oscuro, e non poteva essere altrimenti, resta il periodo adolescenziale quando, probabilmente sedicenne, Dolcino non ancora “Frà” diventò ‘fratello’ e si legò alla setta degli Apostolici, una congrega mistica delirante, caratterizzata da un “millenarismo sociale, intriso di concezioni umanitarie”. Diventato il loro capo, il mistico predicatore sintetizzò nelle tre missive “Ad universos Christi fidelis” il suo pensiero.
Altrettanto sconosciute le ragioni che lo spinsero con una compagnia di seguaci eterogenei prima sui monti del Trentino e poi della Valsesia dove, al culmine della propria esaltazione spirituale, cercò e trovò nella “Parete Calva” il luogo elevato dove tentò di creare dal niente una sorta di ‘Città di Dio’ in Terra.
La sua schiera non comprendeva gente della montagna.
Per poter sopravvivere in qualche modo in condizioni ambientali cui erano poco avvezzi, Dolcino ed i suoi seguaci saccheggiarono i pochi beni delle popolazioni locali ed i valsesiani arrabbiati gli si rivoltarono contro.
Lo studioso valsesiano Mario Tancredi Rossi descrisse le feroci razzie necessarie al sostentamento della massa comunitaria, ricorsa al saccheggio, perché “nelle stalle dei valligiani sono capre, pecore e vacche.
Dolcino organizza le spedizioni predatrici. Spintasi una di queste fino a Varallo e saccheggiatala, il podestà della villa, un Brusati di Novara, tenta invano la vendetta ed è sconfitto ed ucciso”.
L’ostilità della gente del posto costringe gli Apostolici alla fuga “di vetta in vetta” finché il 10 marzo 1306 s’avventarono su Trivero, feudo dei conti Bulgaro, dove l’esercito ribelle senza pietà “piomba sul paesetto addormentato, lungi dal sospettar sì vicino il predatore eresiarca e fa strage di abitanti e ruba tutte le vettovaglie e risale quindi il monte rebello, ch’egli ridurrà, con vera mente di condottiero geniale, un imprendibile campo trincerato ed una potente fortezza”.
Di Dolcino resta oscuro anche il periodo in cui si trovò invischiato in un occulto maneggio di nobili spregiudicati che tentarono di strumentalizzare il suo ardore e le sue indubbie capacità di guerrigliero.
Proprio Orioli ha giustamente sottolineato che vi fu un tempo in cui il movimento apostolico parve ridursi a “strumento della strategia viscontea per recuperare prestigio politico e territoriale dopo le batoste subite dall’azione congiunta dei Torriani e dei Guelfi lombardo-piemontesi”.
I dolciniani vennero invece messi in scacco da una coalizione di capifamiglia paesani e di nobili vercellesi che li costrinsero ad arroccarsi in una indifendibile ridotta alpina quando il 7 settembre del 1306 papa Clemente V nel primo anno del suo pontificato ordinò personalmente da Bordeaux la repressione armata per estirpare la presenza di quei pericolosi dissidenti religiosi e ribelli sociali.
Catturato dopo un lungo assedio sulle montagne del Triverese nei giorni della settimana santa dell’anno successivo, Dolcino venne giudicato dal potere politico, non dalla Chiesa e questo potrebbe voler dire che, ‘bolle papali’ a parte, i suoi vincitori non vollero sanzionare la sua stravagante dottrina né castigarlo per le ‘eresie’ professate e per l’eclettica predicazione (qualcuno direbbe ‘il libero pensiero’) ma solo perché gli addebitavano fatti concreti come i saccheggi indiscriminati, le rapine, le ‘espropriazioni’, gli omicidi.
La repressione ecclesiastica, tirata in ballo a sproposito da una certa storiografia politicizzata, proprio non c’entrava. Tuttavia chi ha esaminato la vicenda scevro da pregiudizi o alieno da spirito propagandistico non ha mancato di notare che “Non è dato sapere chi fu l’inquisitore di Dolcino”, precisando poi che “Neppure si sa con esattezza dove e come fosse celebrato il processo” ed infine constatando che “Sulle modalità e sul luogo dell’esecuzione, da sempre é aperta una viva disputa fra gli storici”.
Scusate se é poco.
Soprattutto, non conosciamo neanche il testo della sentenza.
Anzi, non sono stati rinvenuti gli atti relativi ad un processo vero e proprio, neanche una tavola accusatoria, niente di niente, al punto che un ricercatore molto serio come Giulio Pavignano nel suo libro pubblicato dall’editore “Ieri e Oggi” si é sentito autorizzato a sospettare che un vero e proprio procedimento penale non ci sia neanche stato.
Mancando del tutto la documentazione in merito, va da sé che non si sa con certezza quale fu davvero la pena cui venne condannato Dolcino.
Morì su un vero e proprio rogo ?
Si alzarono alte e cremisi le fiamme sulla pira fumante immortalata nelle tavole iconografiche che lo resero famoso dall’Ottocento romanticheggiante ed estetizzante in poi ?
Le poche e frammentarie fonti non lo affermano con certezza ed anche in merito alle modalità della morte di Dolcino i conti storiografici non tornano.
Difforme dalle fonti più accreditate é ad esempio il racconto di Benvenuto da Imola che descrive a forti tinte il supplizio di Dolcino dentro le mura della città di Vercelli mentre stando all’”Anonimo sincrono” il luogo dell’esecuzione sarebbe stato lontano dalla città.
Qualcosa non quadra.
Ancor diversa, e non di poco, la versione fornita dal cosiddetto “Anonimo fiorentino” per cui “ Dolcino non si volle mai pentere, né confessare l’errore suo ché forse gli sarebbe stato perdonato, anzi dicea che se egli morisse risusciterebbe il terzo dì. Egli fu attanagliato, e fu di tanta costanza che mai si dolse, né fece vista che gli dolesse”.
Stranamente, non parla d’un rogo.
Insomma, per l’imprecisione delle versioni giunte fino a noi, non v’é prova certa che il corpo dell’eretico sia poi finito tutto in cenere.
Se si fossero salvate, che fine potevano aver fatto le sue ossa, ‘pericolose’ e dotate d’un fascino macabro e misterioso ?
Saremo grati a chi vorrà segnalarci realtà analoghe a quelle esaminate in questo articolo scrivendo a storiaribelle@gmail.
Per conoscere meglio la vicenda di Fra Dolcino segnaliamo un libro pubblicato da Storia Ribelle casella postale 292 - 13900 Biella.
NEWSBIELLA