Italo Calvino
L’avventura di una bagnante
Italo Calvino / La aventura de una bañista
Facendo il bagno alla spiaggia di ***, alla signora Isotta Barbarino capitò un increscioso contrattempo. Nuotava al largo, e quando, parendole tempo di tornare, si girò verso riva, si accorse che un fatto senza rimedio era accaduto. Aveva perso il costume da bagno.
Non poteva dire se le fosse caduto proprio allora, o se già da un po’ stesse nuotando senza; del nuovo duepezzi che portava, le restava solo il reggiseno. A un movimento dell’anca dovevano esserle saltati via certi bottoni, e lo “slip”, ridotto a uno straccetto informe, le era scivolato giù dall’altra gamba. Forse stava ancora affondando a pochi palmi sotto di lei; provò a calarsi sott’acqua per cercarlo, ma il respiro le mancò subito e solo confuse ombre verdi le baluginavano allo sguardo.
Soffocò l’ansia che le cresceva dentro, cercò di ordinare con calma i suoi pensieri. Era mezzogiorno, c’era gente in giro per il mare, sui sandolini e sui pattini, o a nuoto. Lei non conosceva nessuno; era arrivata lì il giorno prima, col marito che aveva dovuto subito far ritorno in città. Adesso non c’era altra via, la signora pensò, e si meravigliò del suo stesso nitido e tranquillo ragionare, che trovare tra queste la barca di un bagnino, che ci doveva pur essere, o d’una persona che comunque ispirasse fiducia, e chiamarla, omeglio avvicinarla, e riuscire a chiedere insieme aiuto e discrezione.
Queste cose la signora Isotta le pensava stando a galla quasi raggomitolata, annaspando, senz’osare di guardarsi intorno. Emergeva solo col capo e inavvertitamente abbassava il viso verso il pelo dell’acqua, non per frugarne il segreto ormai dato per inviolabile, ma con un gesto come chi strofina le palpebre e le tempie contro il lenzuolo o il guanciale per ricacciare le lacrime chiamate da un pensiero notturno. Ed era un vero incombere di lacrime, che le premeva gli angoli degli occhi, e forse quell’accenno istintivo del capo era proprio per asciugare nel mare queste lacrime: ecco com’era sconvolta, ecco quale divario c’era in lei tra ragionamento e sentimento. Non era calma, dunque: era disperata. Dentro a quel mare immobile, trascorso a lunghi intervalli da un’appena accennata gobba d’onda, si teneva immobile lei pure, non più con lente bracciate ma solo con un supplichevole moto delle mani a mezz’acqua, e il segno più allarmante della sua condizione, forse nemmeno da lei intuito, era quest’avarizia di forze che le veniva fatto d’osservare, quasi l’attendesse un tempo lunghissimo e sfibrante.
Il costume a due pezzi l’aveva messo quella mattina per la prima volta, e sulla spiaggia, in mezzo a tanti sconosciuti, le sembrò la facesse stare un po’ a disagio. Invece, appena in acqua, si sentì contenta, più libera nei movimenti e con più voglia di nuotare. Alla signora piacevano i lunghi bagni al largo, ma il suo non era un piacere da sportiva, perché era un po’ pingue e pigra, e quello a cui teneva di più era la confidenza con l’acqua, il sentirsi parte di quel mare sereno. Il costume nuovo le diede proprio quell’impressione; anzi, la prima cosa che pensò nuotando fu proprio: “Mi sembra d’essere nuda”. L’unica molestia era il pensiero di quella spiaggia affollata, non per altro
ma perché le sue future conoscenze balneari da quel costume si sarebbero forse fatta un’idea di lei che in qualche modo avrebbero dovuto poi cambiare: non tanto un giudizio sulla sua serietà, ché ormai al mare andavano tutte così, ma il crederla, per esempio, sportiva, o molto alla moda, mentre lei in realtà era una signora davvero alla buona e casalinga. Era forse perché aveva già addosso questa sensazione si sé diversa dal solito, che non s’era accorta di nulla quando il fatto era successo. Ora quel disagio provato sulla spiaggia, e la novità dell’acqua sulla pelle nuda, e la vaga preoccupazione di dover ritornare tra i bagnanti, tutto era amplificato e inghiottito dal nuovo e ben più grave suo sbigottimento.
Quel che mai avrebbe voluto guardare era la spiaggia. E la guardò. Suonava mezzogiorno, e sulla sabbia gli ombrelloni a cerchi neri e gialli concentrici gettavano ombre nere in cui i corpi s’appiattavano, e il brulichio dei bagnanti traboccava in mare e nessuno dei pattini era più a riva, e appena uno tornava era preso d’assalto prima ancora di toccar terra e l’orlo nero della distesa azzurra era mosso da un continuo schizzare di getti bianchi, specie dietro le corde dove ribolliva la marmaglia dei bambini e ad ogni blanda onda si levava un gridio con note subito inghiottite di boato. Al largo di quella spiaggia, lei era nuda.
Nessuno l’avrebbe sospettato, vedendo solo la sua testa sporgere dall’acqua e un po’ le braccia e il petto, mentre nuotava con circospezione, senza alzare mai il corpo in superficie. Pareva dunque compiere la sua ricerca d’un aiuto senza esporsi troppo. E per verificare quanto di lei s’intravedesse da occhi estranei, la signora Isotta ogni tanto si fermava e cercava di guardarsi, galleggiando quasi verticale. E con ansia vedeva nell’acqua i raggi del sole occhieggiare in limpidi mulinelli sottomarini, e mettere in luce alghe natanti e velocissimi sciami di pesciolini striati, e giù in fondo la sabbia ondulata, e quassù il suo corpo. Invano lei, avvitandolo a gambe serrate, tentava di nasconderlo allo stesso suo sguardo: la pelle del nitido ventre biancheggiava rivelatrice, tra il bruno del petto e delle cosce, e né il muovere d’un onda né il navigare a mezz’acqua d’alghe semi sommerse confondevano lo scuro e il chiaro del suo grembo. La signora riprese a nuotare in quella sua ibrida maniera, tenendo il corpo più basso che poteva, ma pur senza fermarsi, si voltava a guardare con la coda dell’occhio dietro le spalle: e a ogni bracciata tutta la bianca ampiezza della sua persona ecco appariva al giorno nei contorni più riconoscibili e segreti. E lei ad affannarsi, a cambiare modo e senso del nuoto, e si girava nell’acqua, s’osservava in ogni inclinazione e in ogni luce, si contorceva su se stessa; e sempre quest’offensivo nudo corpo le veniva dietro. Era una fuga dal suo corpo, che lei stava tentando, come da un’altra persona che lei, signora Isotta, non riusciva a salvare in un difficile frangente, e più non le restava che abbandonare alla sua sorte. Eppure questo corpo così ricco e innascondibile era ben stato una sua gloria, un suo motivo di compiacimento; solo una contraddittoria catena di circostanze in apparenza sensate poteva farne ora una ragione di vergogna. Oppure no, forse sempre la sua vita consisteva solo in quella della signora vestita che lei era anche stata in ciascuno dei suoi giorni, e la sua nudità le apparteneva così poco, era un inconsulto stato della natura che si rivelava di tempo in tempo destando meraviglia negli esseri umani e in lei per prima. Ora la signora Isotta ricordava che anche sola o in confidenza col marito aveva sempre accompagnato il suo essere nuda con un’aria di complicità, d’ironia tra impacciata e grottesca, come se temporaneamente indossasse dei camuffamenti gioiosi ma spropositati, per una specie di segreto carnevale tra sposi. Ad avere un corpo la signora s’era abituata con un po’ di riluttanza dopo i primi delusi anni romantici, e se n’era investita come chi apprende di poter disporre d’una proprietà da molti ambita. Ora, la coscienza di questo suo diritto, rispariva tra le antiche paure, nell’incombere di quella spiaggia urlante.
Passato il mezzogiorno, tra i bagnanti dispersi in tutto il mare cominciava un riflusso verso riva; era l’ora del pranzo alle pensioni, delle colazioni davanti alle cabine, e pure l’ora in cui si gode la sabbia più rovente sotto il sole verticale. E carene di barche e galleggianti di pattini passavano vicini alla signora, e lei studiava i visi degli uomini a bordo, e talora faceva per decidersi a muovere loro incontro; ogni volta il baleno d’uno sguardo tra le loro ciglia, o l’accenno a uno scatto angoloso delle spalle o dei gomiti, la mettevano in fuga, con bracciate falsamente disinvolte, la cui calma mascherava una stanchezza già gravosa. Quelli in barca, soli o in banda, ragazzi tutti infervorati nell’esercizio fisico, o signori dalle pretese scaltre e dallo sguardo insistente, incontrando lei spersa nel mare col viso col viso compunto che non nascondeva una trepida ansia supplichevole, con la cuffia che le dava una bambolesca espressione lievemente permalosa, e con le spalle soffici annaspanti attorno incerte, subito uscivano dal loro nirvana assorto o scalmanato, e quelli in compagnia se l’indicavano con mosse del mento o ammicchi, e quelli soli frenando con un remo viravano con intenzione le prue per tagliarle la strada. Al suo bisogno di confidenza rispondeva quest’ergersi di siepi di malizia e sottinteso, un roveto di pupille pungenti, d’incisivi scoperti in risi ambigui, di repentine soste interrogative dei remi a fior d’acqua; ed a lei non restava che fuggire. Qualche nuotatore passava dando dentro all’acqua con testate cieche e camuse, e sbuffando zampilli senza alzare lo sguardo; ma la signora diffidava di loro e li sfuggiva. Difatti, pur passandole al largo, i nuotatori presi da improvvisa stanchezza si lasciavano andare a fare il morto e a sgranchirsi le gambe in uno sciacquio insensato, e giravano lì intorno, finché lei andandosene non mostrava il suo disdegno. Ecco che questa rete d’allusioni obbligatorie era già tesa intorno a lei, come l’aspettasse al varco, come se ognuno di questi uomini da anni fantasticasse d’una donna cui doveva capitare quel che era capitato a lei, e passasse le estati al mare sperando di essere lì al momento buono. Non c’era scampo, il fronte delle preordinate insinuazioni maschili s’estendeva a tutti gli uomini, senza brecce possibili, e quel salvatore che lei s’era ostinata a sognare come un essere il più possibile anonimo, quasi angelico, un bagnino, un marinaio, era sicura ormai che non potesse esistere. Il bagnino che vide passare, certo l’unico che con un mare tanto calmo girasse in barca a prevenire possibili disgrazie, aveva labbra così carnose e muscoli così fusi coi nervi che lei non si sarebbe mai sentita il coraggio d’affidarsi alle sue mani, fosse pure – pensò addirittura nell’eccitazione del momento – per fare aprire una cabina o piantare un ombrellone.
Nelle sue deluse fantasie, le persone cui aveva sperato di potersi rivolgere erano sempre uomini. Non aveva pensato alle donne, eppure con queste tutto doveva essere più semplice; una specie di solidarietà femminile si sarebbe certo mossa, in quella congiuntura così grave, in quell’ansia che solo una di loro poteva capire fino in fondo. Ma le comunicazioni con le persone del suo stesso sesso avevano occasioni più rare e incerte, al contrario della facilità pericolosa degli incontri con gli uomini , e una diffidenza questa volta reciproca le ostacolava. Il più delle donne passavano sui pattini in coppia con un uomo, gelose e inaccessibili, e cercavano il largo, dove quel corpo di cui lei soffriva solo l’onta passiva, era per loro l’arma di una lotta aggressiva e calcolabile. Qualche barca s’avanzava gremita di giovanette pigolanti e accaldate, e la signora pensava alla distanza tra l’infima volgarità della sua pena e la volatile spensieratezza loro; pensava a quando avrebbe dovuto ripetere loro il suo appello perché la prima volta certo non l’avrebbero intesa; pensava ai mutamenti dei loro visi alla notizia; e non sapeva risolversi a chiamarle. Passò pure una bionda abbronzata sola in sandolino, piena di sufficienza e d’egoismo, e certo andava al largo per far la cura del sole tutta nuda, e nemmeno la sfiorava il pensiero che quella nudità potesse essere una disgrazia o una condanna. La signora Isotta s’accorse allora di come la donna sia sola, di come tra le sue simili sia rara (forse spezzata dal patto stretto con l’uomo) la bontà solidale e spontanea, che previene gli appelli e che le affianca a un cenno d’intesa nel momento della disgrazia segreta che l’uomo non comprende. Mai le donne l’avrebbero salvata: e le mancava l’uomo. Si sentiva all’estremo delle forze.
Una piccola boa di color ruggine, presa fin allora d’assalto da un grappolo di ragazzi tuffatori, tutt’a un tratto, a un tuffo generale, restò sgombra. Vi si posò un gabbiano, sventagliò con le ali, e volò via, perché la signora Isotta s’afferrava all’orlo. Annegava, se non riusciva ad aggrapparsi in tempo. Ma neanche la morte era possibile, neanche questo ingiustificabile, sproporzionato rimedio le si lasciava; perché già stava per venir meno e non riusciva a sollevare il mento trascinato verso l’acqua, quando aveva visto un rapido drizzarsi d’uomini sulle imbarcazioni intorno, pronti a tuffarsi in suo soccorso: erano lì solo per salvarla, per portarla nuda e svenuta tra le domande e le occhiate d’un pubblico curioso, e il suo pericolo di morte non avrebbe sortito che l’esito ridicolo e vile cui invano lei tentava di sfuggire.
Dalla boa, guardando i nuotatori e i rematori che sembravano riassorbiti a poco a poco dalla riva, ricordava le stanchezze meravigliose di quei ritorni; e i richiami che udiva da un’imbarcazione all’altra: - Ci rivedremo a riva! – o: - Facciamo a chi torna prima! – la riempivano d’un’invidia sconfinata. Ma le bastò notare un uomo magro, con certe lunghe brache, unico rimasto in mezzo al mare, ritto in piedi su una ferma barca a motore, che guardava chissà cosa nell’acqua, e subito quella voglia di ritorno le si rintanò nella paura d’essere vista, nell’ansia di nascondersi dietro la boa.
Era lì ormai non ricordava più da quanto: già la spiaggia sfollava, e la fila dei pattini s’era ridisposta in secco, e degli ombrelloni ammainati uno a uno restava solo un cimitero di pertiche mozze, e i gabbiani volavano a fior d’acqua, e nella motobarca ferma era scomparso l’uomo magro e al suo posto una testa stupefatta di ragazzetto riccio si sporgeva dal bordo; e sul sole passò una nuvola spinta da un vento appena sveglio incontro a un cumulo addensato sopra i monti. La signora pensava a quell’ora vista dalla terra, ai pomeriggi cerimoniosi, al destino di modesto decoro e di gioie rispettose che credeva predisposto per lei ed alla incongruenza spregevole che sopravveniva a contraddirlo, come il castigo di una colpa non commessa. Non commessa? Ma forse quel suo abbandono balneare, quella sua voglia di nuotare da sola, quell’allegria del proprio corpo nel costume a due pezzi scelto con troppa spavalderia, non erano i segni di una fuga iniziata da tempo, la sfida a una inclinazione al peccato, le tappe di una folle corsa a quello stato di nudità che ora le appariva in tutto il suo misero pallore? E la consorteria degli uomini, in mezzo ai quali lei credeva di trascorrere intatta come una grossa farfalla, fingendo una complice disinvoltura bambolesca, ecco svelava le sue crudeltà fondamentali, la sua duplice essenza diabolica, come presenza d’un male da cui lei non s’era abbastanza premunita, e insieme come strumento d’esecuzione della pena.
Aggrappata ai bulloni della boa coi polpastrelli esangui cui il prolungato stare in acqua dava ondulati rilievi, la signora si sentiva messa al bando dal mondo intero, e non capiva perché questa nudità che tutti portano con sé da sempre, bandisse ora lei sola, come fosse la sola a essere nuda, l’unica creatura che potesse restare nuda sotto il cielo. E sulla barca a motore alzando gli occhi vide ora insieme uomo e ragazzo ambedue in piedi che facevano verso di lei gesti come per dire che doveva restar lì, che era inutile affannarsi. Erano seri e compresi, i due, al contrario d’ogni altro prima, come se le annunciassero un verdetto: doveva rassegnarsi, era stata scelta lei per pagare per tutti; e se gesticolando tentavano una specie di sorriso, era senz’ombra di malizia: forse un invito a accettare la sua pena di buon grado.
Subito la barca partì, veloce più di quanto si potesse supporre e i due badavano al motore e alla rotta e non si voltarono più verso la signora che provava a sua volta a sorridere loro, come a dimostrare che se di nient’altro la si accusava che d’essere fatta a questo modo caro e geloso a ognuno, se le toccava d’espiare solo questa nostra un po’ goffa tenerezza di forme, ebbene lei ne avrebbe accettato su di sé tutto il peso, contenta.
La barca coi suoi moti misteriosi, e quel confuso groppo di ragionamenti l’avevano tenuta in tale timoroso stupore che tardò ad accorgersi del freddo. Una dolce pinguedine permetteva alla signora Isotta certi bagni lunghi e gelidi che riempivano di meraviglia marito e familiari, gente magra. Ma troppo tempo era restata immersa, e il sole era offuscato, e la sua liscia pelle si sollevava in grani puntiformi, e un lento ghiaccio s’impadroniva del suo sangue. Ecco, in quei brividi che la scuotevano, Isotta si riconobbe viva, e in pericolo di morte, e innocente. Perché quella nudità che le era a un tratto come cresciuta addosso, lei l’aveva sempre accettata non come una sua colpa ma come la sua innocenza ansiosa, come la fraternità segreta con gli altri, come carne e radice del suo essere al mondo, e loro invece, gli scaltri dei sandolini e le impavide degli ombrelloni, che non l’accettavano, che l’insinuavano come un reato, come un capo d’accusa, solo loro erano i colpevoli. Non voleva pagare per loro, e si contorse avvinghiata alla boa battendo i denti e con le guance in lacrime... E laggiù dal porto la motobarca ritornava, veloce più ancora di prima, e a prua il ragazzo sollevava una stretta vela verde: una sottana!
Quando la barca fermò vicino a lei, e l’uomo magro le porse una mano perché salisse a bordo, e con l’altra si tappò gli occhi sorridendo, la signora era già così lontana dalla speranza di qualcuno che la salvasse, e il giro dei suoi pensieri era arrivato così distante, che per un momento non riuscì a collegare i sensi al ragionare e ai gesti, e alzò la mano verso quella tesa dell’uomo prim’ancora di capire che non era un’immaginazione sua, ma che quella motobarca c’era davvero, ed era venuta proprio in suo soccorso. Capì, e a un tratto tutto diventò perfetto ed immancabile, e i pensieri, il freddo, la paura erano dimenticati. Da pallida, venne rossa come il fuoco, ed ora ritta sulla barca s’infilava quella veste mentre l’uomo e il ragazzo voltati verso l’orizzonte guardavano i gabbiani.
Avviarono il motore e lei seduta a prua in una gonna verde a fiori arancione vide sul fondo della barca la maschera per la pesca subacquea e seppe come i due avevano capito il suo segreto. Il ragazzo, nuotando sott’acqua con la maschera e la fiocina, l’aveva vista e aveva avvertito l’uomo che era sceso pure lui a vedere. Poi le avevano fatto cenno di aspettarli, senz’essere capiti, ed erano filati al porto a procurarsi un vestito dalla moglie d’un pescatore.
I due sedevano a poppa con le mani sui ginocchi e sorridevano: il ragazzo, un riccio sugli otto anni, era tutt’occhi, con uno stupefatto sorriso da puledro; l’uomo, una testa ispida e grigia, un corpo rosso mattone dai muscoli lunghi, aveva un sorriso lievemente triste, con una sigaretta spenta appiccicata al labbro. Alla signora Isotta venne in mente che forse i due guardandola vestita cercavano di ricordarsela come l’avevano vista sott’acqua; ma non se ne sentì a disagio. In fondo, dovendo pur qualcuno vederla, era contenta che fossero stati proprio quei due lì; ed anche che ne avessero provato curiosità e piacere. Per arrivare alla spiaggia l’uomo conduceva la motobarca costeggiando il molo e i quartieri del porto e gli orti in riva al mare; e chi guardava da terra certo credeva che quei tre fossero una famigliola che faceva ritorno in barca come ogni sera dalla pesca. Alla banchina s’affacciavano le grigie case dei pescatori, con rosse reti tese addosso a corti pali, e dalle barche attraccate qualche giovanotto alzava pesci color piombo e li passava a ragazze ferme con ceste quadrate dal basso orlo puntate all’anca, e uomini con minuscoli orecchini d’oro seduti in terra a gambe distese cucivano reti interminabili, e in certe nicchie bollivano mastelli di tannino per ritingerle, e muretti di pietre dividevano piccoli orti sul mare dove le barche giacevano a fianco delle canne dei semenzai, e donne con la bocca piena di chiodi aiutavano i mariti sdraiati sotto la chiglia a riparare falle, o su ogni casa rosa una tettoia copriva i pomodori spaccati in due e messi a seccare col sale su un graticcio, e ai piedi delle piante d’asparago i figlioli cercavano lombrichi, e certi vecchi con un soffietto davano dell’insetticida ai loro nespoli, e i meloni gialli crescevano sotto foglie striscianti, e le donne anziane friggevano nelle padelle calamaretti e polipi oppure fiori di zucca nella farina, e s’alzavano prue di pescherecci in cantiere odorosi di legno appena tolto dalla pialla, e una rissa tra ragazzi calafati era sorta con minacce di pennelli neri di catrame, e lì cominciava la spiaggia con piccoli castelli e vulcani d’arena abbandonati dai bambini.
Alla signora Isotta, seduta in motobarca con quei due, in quell’esagerato vestito verde e arancione, sarebbe pure piaciuto che il viaggio continuasse ancora. Ma la barca puntava già la prua verso la riva, e i bagnini portavano via le sedie a sdraio, e l’uomo s’era chinato sul motore voltandole le spalle: le spalle rosso mattone, traversate dalle nocche della spina dorsale, su cui la pelle dura e salata scorreva come mossa da un sospiro.
1951.
Italo Calvino da “Gli amori difficili”