Le mie finestre guardano un cortile sempre quieto, lontano da Manhattan e abbastanza appartato rispetto al chiasso delle grandi strade di Brooklyn. Ma la mia immaginazione si affaccia su una città che non esiste più. Ha smesso di esistere vent'anni fa, per lasciare spazio a un posto più educato. Gentile, che sa trattare con i turisti tanto quanto con i suoi abitanti. Qualcosa ancora sopravvive, ma si limita a pochi gesti inconsueti, dettagli che un occhio poco allenato non coglie. Qualche ratto nella metropolitana, uno scarafaggio che esiste solo se si abbassa lo sguardo e potrebbe decidere o meno di passarvi sopra le scarpe, il buio di certi angoli e la luce amara di certi lampioni. In qualche quartiere che non ha perso completamente la ruvidezza, quando si va a sbattere contro un passante è costume non fermarsi e non chiedere scusa. «Excuse you», si dice. You, come se fosse più importante stabilire la colpa che ammettere la debolezza. A parte questo, nient'altro.
La New York del 1994 è un miraggio sbiadito tra i cassonetti traboccanti di Church Street e un paio di vicoli di Chinatown. Quando i quartieri erano sigillati ermeticamente e si vergognavano per il fatto di essere obbligati a sfiorarsi continuamente. Come tutte le leggende, quella città è destinata a popolare la nostalgia e la nostalgia a echeggiare nella letteratura.
In un libro di racconti del 1990, pubblicato da Black Sparrow e intitolato Homesick, Lucia Berlin si lascia andare a un adagio roboante, in cui descrive il suo approccio con la città fatta ancora dei suoi locali di jazz e di musicisti che tiravano a campare trascinando il pianoforte per le strade del Village. Ricorda, nel tono pacato con cui dipinge la crudezza di uno dei posti contemporaneamente più affascinanti e desolanti al mondo, un verso con cui Leonard Cohen ne restituiva la stessa dolce brutalità. Casualmente, senza calcare la mano: «New York is cold, but I like where I'm living / there's music in Clinton Street all through the evening». I racconti di Berlin sono pezzi di America, dalle lavanderie del New Mexico ai collegi cattolici del New England. Popolati di nativi muti e affascinanti e suore arcigne e terribili. La stessa America che ha partorito la New York di prima di Rudy Giuliani, quella in cui non si poteva scendere in strada senza finire nella traiettoria di una pallottola. La sua prosa è potente e trasandata. Viene come viene, ma segue un ordine spontaneo che conduce alla fine di ogni scritto a domandarsi se la perfezione non stia davvero nel caso. Tra i deserti della California e i rampicanti di New Orleans.
Lydia Davis, che ha contribuito alla riscoperta di Berlin a undici anni dalla sua morte e collaborato alla nuova selezione di racconti intitolata A Manual for Cleaning Women, uscita nell'agosto del 2015 da Farrar, Straus & Giroux, ha detto: «La metterei da qualche parte tra Alice Munro, Grace Paley e forse Tillie Olsen». Con Munro condivide lo sguardo lucido e preciso, con Paley la purezza di intenti. Ma è con Olsen che spartisce la disarmonia propria degli assoli vocali, tradotta in paragrafi brevissimi e lancinanti, parole spezzate e situazioni surreali che durano lo spazio di un ricordo di tre righe, per poi tornare alla narrazione. Come certi vagoni della metropolitana, dove i graffiti superstiti al lavaggio solo per metà hanno perso il loro senso compiuto, ma mantengono intatta la loro intollerante aria di sfida.
Di Eileen Myles avevo letto alcune poesie sparse, che poi venivano da una raccolta chiamata Not Me, pubblicata nel 1991 da Semiotext(e). Mi ci sono voluti ventun anni e una ristampa per scoprire la sua prosa, con il romanzo composto da ventotto racconti autobiografici Chelsea Girls, uscito originariamente nel 1994 e recuperato da HarperCollins a fine settembre 2015. La cronaca cruda di una trasformazione intrisa di alcol ed equivoci, che inizia come Berlin dal cattolicesimo per passare attraverso la scoperta dell'omosessualità nella New York senza pietà degli anni Settanta. La sua “Lesbianity”, come la chiama, sbattuta in faccia al mondo mentre cerca di sopravvivere facendo la poetessa. Dopo averlo finito non ho fatto che battere tutte le librerie dell'usato per trovare altro in edizione originale: The New Fuck You (Semiotext(e), 1995), School of Fish (Black Sparrow, 1997), Cool for You(Soft Skull, 2000). Un piccolo buco nell'acqua dietro l'altro.
Myles è uno sciamano in trance quanto Berlin è la voce della ragione. Non c'è niente di lucido nella sua visione di Chelsea, quella sporca delle marchette e della vicenda di Sid e Nancy del secolo scorso, non quella modaiola e ordinata di oggi. Lo scenario è spietato, il dramma imminente, ma scorre con la facilità dell'ironia canaglia di chi sa di potersela cavare. E se non sopravviverà sarà affare dei posteri sentirsi in colpa. Dentro la scrittura di Myles c'è la consapevolezza sfrontata del punk rock e la necessità di annientamento della metà degli anni Novanta. «I'm a significant person», scriveva. «Maybe a saint or larger than life. I hear that you judge a saint from her whole personality, not just for her work» — Ho sentito dire che una santa va giudicata per intero, non solo dal suo lavoro. Lavarsene le mani e piantare una bandiera di conquista in un terreno devastato, usando lo stesso strumento che può salvarla dalla dannazione o metterla nei guai.
Scrive Michelle Tea sulla Los Angeles Review of Books che Myers è stata per decenni il suo segreto. Lo stesso vale per Berlin, in molti casi. La prima è stata la voce incattivita e menefreghista della comunità gay, quanto la seconda è stata il candore perverso strizzato fuori dalla repressione dell'educazione cattolica. Entrambe parlano ancora di un mondo che esiste solo nell'immaginazione di alcuni, oramai. Di una città che non ha più il coraggio degli sputi ma nemmeno la faccia tosta della negazione. Entrambe vanno rilette, adesso.
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