mercoledì 7 dicembre 2016

Christoph Waltz / Prometto sarò cattivo


Prometto sarò cattivo
Christoph Waltz

Prometto sarò cattivo

Falso pittore e perfido marito in Big Eyes di Tim Burton, poi arcinemico di 007 in Spectre, Christoph Waltz dice: «Con Bond posso solo perdere, ma mi diverto»

DI GABRIELE PORRO
(23 DICEMBRE 2014)
Come si fa a prendersela con 007? È scontato che mi batterà, è un eroe mitologico, ha sempre il vento in poppa, non può perdere. Sarebbe come pretendere di mettere sotto Ercole». La prospettiva di interpretare un cattivo destinato fin dall’inizio a soccombere, all’apparenza piuttosto frustrante, non sembra turbare più di tanto Christoph Waltz. Perché nella sua recente, fantastica galleria di malvagi con charme da grande schermo, dall’ufficiale nazista di Bastardi senza gloria allo schiavista di Django, dal pessimo padre di Carnage al non molto migliore marito di Big Eyes, mancava proprio l’anti-007.Waltz, che si dice «molto emozionato dai progetti che mi mettono in situazioni di pericolo, perché lì posso testare i miei limiti» (discorso più attoriale che spionistico, si suppone) ora sarà Oberhauser in Spectre, l’episodio numero 24 del serial più lungo e fortunato della storia dello schermo: uscita mondiale, novembre 2015. Qualcuno dice che in realtà rivedremo in lui il mitico Blofeld, gran capo della società segreta Spectre che sfidò Bond nei primi anni 60 (in Dalla Russia con amore e Thunderball): era quel misterioso malvagio che accarezzava sempre un gatto persiano. Il plot, infatti, in gran parte ovviamente segreto (anche Waltz conferma di saperne pochissimo) rimanda Bond indietro nel tempo, mettendolo di fronte a nemici e incubi lontani. Si girerà da gennaio in Tirolo, con set successivi a Londra e Roma, in Messico e Marocco. Regia di classe, Sam Mendes, che ha rilanciato la serie 007 alla grande (l’ultimo, Skyfall, ha superato il miliardo di dollari al box-office, videogiochi esclusi), confermatissimo il protagonista Daniel Craig, più Ralph Fiennes nel ruolo di M (al posto della sublime Judi Dench) e due bond girl per una già volta famose, Monica Bellucci e Lea Seydoux. Intanto il 58enne attore viennese, figlio e nipote di attori, attrici, uomini di teatro, forte di solidi studi in patria e al mitico Actor’s Studio, e di un doppio Oscar tarantiniano (per Bastardi senza gloria e Django) racconta la sua felice collaborazione con Tim Burton per Big Eyes. È la storia della tormentata coppia artistica formata da Margaret e Walter Keane, nell’America a cavallo tra 50 e 60: s’incontrano, si amano, si sposano, poi lui rende famosi e ricchissimi entrambi attribuendosi la paternità dei quadri. Cosa falsa, ma a lungo creduta dal pubblico. E tutto, amore e arte, finisce in un tribunale di Honululu. È in uscita a inizio 2015 in Italia, insieme a un’altra sua prova d’attore più scherzosa, Come ammazzare il capo 2 di Sean Anders.

È vero che se Big Eyes s’è fatto molto è merito suo? Il progetto girava da anni, ma è veramente partito solo quando lei ha incontrato Burton, convincendolo a dirigerlo... 

«Non è andata esattamente così, non l’ho convinto a dirigerlo, però è vero che abbiamo avuto una bellissima discussione sull’arte e il kitsch, partendo dal copione di Big Eyes. All’inizio lui era deciso a produrlo, e gli stessi sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski volevano girarlo. Ma a un certo punto ha deciso di prendere in mano la regia, e l’ha fatto con gioia, volontà, decisione»

È davvero diverso dai suoi ultimi film, un bel salto. Qualcuno ha parlato di un Burton che torna sulla terra, ricordando il bel biopic sul regista Ed Wood. 

«Sì, anch’io lo apprezzo molto: così fabolous ma senza effetti speciali, tutto reale, anche San Francisco che non è ricostruita in studio, e una vera, forte relazione al centro del film. Pochi personaggi, perfettamente caratterizzati, ancorati nel loro mondo, nel loro tempo, nella loro storia: e gli attori che recitano quasi nello stile degli ultimi anni 50».  

Anche il suo personaggio è un perfetto pessimo marito anni 50: se il film fosse ambientato ai giorni nostri, l’avrebbe fatto diverso? 

«Probabilmente sì. Però non sono così sicuro che sia del tutto un “bad husband”. Certo, è cinico, manipolatore, sfrutta i sentimenti d’amore di Margaret per lui, ma io lo definirei piuttosto un imbroglione. E poi Margaret scopre subito chi è: in fondo lui non la obbliga ad aver successo, e avere successo non è proprio questa gran sofferenza. Lei è ben contenta dei soldi e della fama, e decide tutto insieme a lui. Alla fine non è che la sfrutti o la riduca in schiavitù». 

Un po’ schiava lo è, in soffitta a dipingere i quadri che lui firma. E nel finale, in tribunale, Walter è sgradevole, aggressivo, offensivo. Lei lo recita benissimo... 

«Grazie, ma lasciamo da parte la mia interpretazione. Io sono sicuro che lei saprà di divorzi anche molto più brutti di questo. Il film è soprattutto una storia di relazioni, più che di arte parla di interdipendenza tra le persone, e di come siamo bravi a strumentalizzarle e piegarle ai nostri vantaggi. L’interessante è vedere tutto questo nell’ambiente pulito, levigato, dei 50-60. Come in un dipinto di Hopper: tutto nelfilm di Burton è realistico e iperrealistico insieme. Capisci che dietro la superficie perfetta, colorata, delle case, delle auto, delle persone, c’è ben altro. E questo ne fa una storia di relazioni estremamente moderna». 

Come si affronta un ruolo ispirato a una persona realmente esistita, ma riscritto per la fiction? 

«Walter è morto da tempo, e io non amo recitare per riprodurre la verità reale dei personaggi che impersono: del resto il film è esattamente il contrario di questo, è un anti-documentario. Non credo che sia una buona idea studiare tutto ciò che si può sapere su un personaggio. Non ti porta a far un buon lavoro. Neanche se fosse stato vivo, sarei andato a trovarlo: più cose sai su una persona, più ti senti obbligato a portarle sullo schermo, e più senti questa responsabilità, che ti blocca e restringe le tue opzioni di attore». 

Che regista è Tim Burton? Esigente, aperto... 
«È molto preciso, il che non vuol dire che non abbia una mente aperta. È un artista e sul set comunica da artista. Una persona molto visionaria, attentissima al lato visuale. E adorabile: non dà mai ordini, non dice “devi fare questo, quest’altro, devi muoverti così”. Spiega la direzione del suo lavoro, e ti dà gli elementi per farti trovare a tuo agio, con la tua professionalità, nel seguire la linea su cui si muove il film. Perciò non hai tutte le strade aperte, anche se non viene certo a portarti via per il naso, sul set, come un ragazzino. Accetta i suggerimenti, le opinioni degli attori, ma se non è della stessa idea cerca di fare in modo che gli altri la cambino. Non tronca mai il tuo flusso interpretativo, ma, supportandolo, lavora per indirizzarlo dove vuole lui». 
Prometto sarò cattivo
Ma a lei piace la pop art della vera Margaret Keane? Quei bambini tristi con gli occhi grandi? Burton dice che quello stile l’ha influenzato, visivamente... 

«Il nostro approccio è sempre eurocentrico. E non per snobismo. Il fatto è che abbiamo i massimi geni dell’arte degli ultimi millenni. Vai a Ravenna, per dire, o in qualsiasi museo di New York: il meglio degli ultimi 12 secoli è europeo, non certo americano. Le cose sono cambiate solo dopo, a metà XX secolo. Questo noi lo diamo per scontato, e restringe parecchio la questione: è tutto quello che c’è da dire sull’arte e la sua storia. Quindi non posso dire di amare la pittura di Margaret: potrei scrivere una lunga lista di obiezioni alla sua arte e sono certo che sarebbero valide. Anche Burton credo sappia bene cos’è l’arte della Keane, cosa rappresentano i suoi quadri, ma non vuole approfondire troppo la cosa. E l’interessante è che alla fine sono stato io a dover metter da parte il mio punto di vista: perché se avessimo guardato il plot partendo dalle mie opinioni, sarebbe stato il racconto di due idioti che pasticciano col kitsch. Non ci sarebbe stata storia, né film. Che oltretutto è collocato 60 anni fa, un tempo lontano dall’oggi, ma non abbastanza da essere storico».

Poi farà pure Bond 25, dopo Bond 24?
«Non ne so nulla, ma lei lo scriva pure, così lo leggono e forse ci pensano e mi scritturano».

E il nuovo progetto con Polanski?
«Neanche di questo so niente, però sarebbe magnifico. Certo che lei sa un sacco di cose. Forse la assumo come mio agente».
REPPUBLICA



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