venerdì 5 agosto 2016

Antonello Cannarozzo / La chirurgia ai tempi del Re Sole

La Saignée, Abraham Bosse, Biblioteca Nazionale di Parigi.

La chirurgia ai tempi del Re Sole

Nonostante il medico, il paziente era guarito!

Antonello Cannarozzo
5 DIC 2012 
Nell’anno di grazia 1686, per giorni e notti le suore del monastero benedettino di Saint Cyr pregarono e digiunarono per la salute del loro re, Luigi XIV, meglio conosciuto come il Re Sole, che doveva affrontare una delle prove più dure nel suo lungo regno. Cosa mai era accaduto al monarca più potente dell’epoca di così tremendo? Doveva sostenere un’operazione alle emorroidi, ritenuta, allora, la più dolorosa in assoluto. Fortunatamente le preghiere delle pie religiose furono ascoltate in Cielo e l’operazione riuscì perfettamente. Il re e la Francia erano fuori pericolo. Prese dalla commozione per la fausta notizia, le suore composero un inno di ringraziamento dal titolo Dieu blanc le Roi, che in seguito, vuole una leggenda, venne tradotto dagli inglesi in God save the King, che diventerà il loro celebre inno nazionale.
Ma torniamo alla salute del Re di Francia. Il sovrano era di salute assai robusta e riuscì a regnare senza gravi infermità, cosa assai rara in quei tempi. Tuttavia aveva, purtroppo, intorno a sé - come voleva l’etichetta di corte - una vera selva di medici che si sentivano in obbligo di prescrivere sempre e comunque nuove medicine, o meglio impiastri, anche se il regale paziente godeva di un’ottima condizione fisica. Infatti l’intervento chirurgico cui abbiamo accennato fu la conseguenza inevitabile delle purghe e dei clisteri che questi ciarlatani infliggevano al povero re, seguendo le mode dell’epoca. Un buon clistere - si diceva- era il rimedio sicuro per ogni infermità. Operato per ben due volte per questo problema, Luigi XIV dimostrò tutto il suo coraggio nell’affrontare l’operazione, ovviamente, senza alcuna forma di anestesia.
Supplizi spacciati per cure
Nello stesso anno un altro re, Carlo II Stuart, a Londra, subiva le pene dell’inferno a causa dei suoi medici, ma - a differenza del “collega” francese - senza esito fortunato. Colpito da un improvviso e lancinante dolore al petto e al braccio sinistro - probabilmente un infarto - fu letteralmente assediato da ben quattordici medici che cominciarono a praticargli quanto di più assurdo anche la fantasia più sfrenata poteva immaginare. Risulta dai documenti reali che al disgraziato paziente furono propinati nell’arco di due giorni: due salassi, un potente lassativo, una bevanda per farlo vomitare, gli fu addirittura rasata la testa per applicargli alcune sanguisughe e infine - e non è uno scherzo - i piedi furono imbrattati di sterco di piccione mentre gli veniva fatta bere una pozione con polvere di teschio umano. Alla fine di tali torture il re, ovviamente, morì e i medici si inchinarono alla volontà di Dio: per loro la scienza (sic) aveva fatto il possibile.

Quasi duecento anni dopo, la situazione medica non era certo cambiata. Alla fine del XIX secolo, in piena rivoluzione industriale, la politica degli Stati Uniti fu sconvolta dall’attentato al suo presidente, Abraham Garfield, avvenuto nel 1881. L’attentatore, un disoccupato del New Jersey, lo centrò con due proiettili, uno alla scapola e l’altro all’inguine in un punto imprecisato. Nei giorni seguenti all’attentato si alternarono al capezzale dell’illustre paziente ben 16 medici ognuno con la propria équipe, per capire dove fosse andata a finire la pallottola. Senza alcuna precauzione, si cominciò ad aprire la ferita in modo da poter esplorare meglio l’eventuale localizzazione del proiettile. Qualcuno arrivò addirittura con le mani nude a toccare il fegato del pover’ uomo con tutto quello che questo può significare sia come dolore che come infezione. Venne chiamato al capezzale anche Graham Bell, noto come l’inventore (fasullo, ndr) del telefono, il quale aveva approfondito gli studi per un primitivo metal detector. Effettivamente con questo strumento fu segnalata la presenza di metallo, ma si trattava in realtà delle molle del materasso. L’agonia del presidente durò ben 80 giorni, poi anche la sua forte fibra dovette soccombere alle “cure” dei medici. Durante il processo all’attentatore venne dimostrato che la pallottola, tanta cercata, fu trovata durante l’autopsia, vicino alla colonna vertebrale, ma in un punto completamente innocuo; dunque la morte del presidente, secondo i difensori dell’imputato, non era da addebitare al loro assistito, ma all’imperizia dei medici. Giusta difesa, ma i giurati e la corte non accettarono questa ipotesi e l’uomo venne impiccato l’anno seguente.
Guarire nonostante i medici
Il concetto di medicina, come scienza nel senso letterale del termine, inizia in Europa con la fine del Rinascimento, ma, come vedremo, i risultati iniziali furono spesso tragicomici e per questo motivo circolava la battuta che, “nonostante i medici, il paziente era guarito” come nel caso di Samuel Pepys. Nel 1655 Pepys, scrittore di successo e anche segretario dell’ammiragliato inglese, all’età di 22 anni si ammalò di calcolosi urinaria: data la natura della malattia, essa si poteva curare solo con un intervento chirurgico, estraendo dalla vescica i calcoli. Era questa, all’epoca, una delle operazioni più frequenti e, dal Medioevo fino ad allora, la tecnica operatoria era rimasta immutata: la utilizzò anche Thomas Holister, il chirurgo chiamato a operare il giovane Pepys, che ci ha lasciato un’interessante testimonianza. Il paziente, mai termine fu più appropriato, veniva spogliato, messo in ginocchio sul tavolo operatorio e i polsi venivano legati alle caviglie così, oltre l’immobilità del paziente, si poteva avere la perfetta visibilità della parte da operare. L’operazione avveniva in tre tempi: prima veniva infilato un catetere, in seguito si poteva inserire un tubo più grosso per individuare l’eventuale presenza del calcolo e infine, una volta trovato, si procedeva alla sua estrazione. Senza alcuna forma di disinfestazione, veniva aperta con un coltello ben affilato prima la parete inguinale così da penetrare nel peritoneo; si giungeva poi alla vescica e all’asportazione del calcolo, durando il tutto poco più di un’ora. L’operazione riuscì solo grazie alla tempra del giovane Peyes, il quale rimase con un’unica menomazione: era diventato sterile.

Quando gli specialisti erano i “Norcini”
Ieri, come oggi, c’erano gli specialisti per ogni genere di operazione. Ad esempio dal XIII secolo, da quando abbiamo le prime notizie, fino agli inizi del '700, per quanto riguardava la parte urinaria e vescicale, i “chirurghi” più titolati erano i Norcini. Sì, proprio gli abitanti della valle di Norcia, famosi ovunque, oltre che per la lavorazione della carne suina, anche per la castrazione dei tori per i lavori della campagna e dei maiali per l’ingrasso. Questi ”luminari” della scienza chirurgia erano così famosi che gli ospedali del tempo se li contendevano a peso d’oro. Per capire meglio la situazione della situazione medica del tempo dobbiamo ricordare che fin dal XIII secolo la professione del medico e quella del chirurgo erano decisamente separate. Il medico era lo studioso, il filosofo del corpo ed era destinato a curare i mali interni, mentre il chirurgo, chiamiamolo così, era il manovale dell’arte medica che imparava di solito la professione nella bottega paterna. Il suo compito era rivolto alle malattie esterne che andavano dall’amputazione degli arti, la cosiddetta chirurgia ferramentosa, fino al massaggio o a spalmare unguenti pomate e rimettere a posto le fratture, la chirurgia medicamentosa. Per molti secoli in Francia, ma anche in altre nazioni europee, il chirurgo aveva una propria dignità e non di rado indossava la veste propria di questa categoria: una veste lunga e nera, simile a quella dei medici, che cambiava di foggia secondo i vari ruoli o importanza. Abbiamo, così, il chirurgo maggiore, il chirurgo semplice, quello minore, il sottochirurgo per arrivare, infine, senza la veste nera, a barbiere e sotto barbiere. Sarà solo con l’Illuminismo, nel XVIII, con lo studio dell’anatomia che la professione di chirurgo uscirà dalle botteghe per approdare alle facoltà di medicina ed essere equiparata alla professione del medico, ma ciò non evitò per almeno altri due secoli la tortura dei poveri malati.

Q** uindici secondi per un’amputazione**
La bravura del chirurgo era non solo quella di far sopravvivere alle sue cure il paziente, cosa che non sempre riusciva, ma consisteva anche nella velocità con cui si potevano effettuare le amputazioni, una necessità dovuta alla mancanza di anestesia e al rischio di collassi dovuti al dolore. Insomma più velocità, più sicurezza. Il medico di Napoleone, Dominique Lorrey, si vantava, unico al mondo, di poter amputare una gamba in appena 15 secondi, un caso limite. Qualche anno dopo la durata media era stabilizzata a 28 secondi, grazie alla tecnica dello scozzese Robert Liston. Come si sa, però, la fretta non è sempre una buona consigliera. Durante uno di questi interventi rapidi sembra che proprio Liston abbia tagliato due dita al suo assistente e un testicolo al proprio paziente. Comunque far presto diventava un imperativo categorico specialmente nei campi di battaglia dove la chirurgia aveva la sua massima operatività. In poco tempo si dovevano estrarre pallottole dalle carni vive dei soldati, ricucirli e, quando era possibile, rimandarli al fronte. Per questo, per secoli fino agli inizi della Prima guerra mondiale, si usava in tutti gli eserciti lo stesso strumento per estrarre le pallottole: l’Alfonsino, dal nome del suo inventore, l’italiano Alfonso Ferri nel XVI secolo. Consisteva in un lungo tubo di ferro contenente tre nastri d’acciaio; al loro estremo da un lato c’era uno scodellino e dall’altro una vite. Una volta introdotto il tubo nella ferita, uscivano i tre nastri che si allargavano intorno al proiettile, finalmente catturato. Si cominciava allora a stringere sempre più forte con la vite intorno al proiettile per poi estrarlo repentinamente. Comprendiamo bene perché l’Alfonsino fosse il terrore di tutti i soldati, senza alcuna distinzione di nazionalità. Spesso, come abbiamo avuto modo di apprendere, era più l’ignoranza dei medici a uccidere i pazienti che non la malattia stessa.

Poche regole, ma sicure
Un esempio classico fu quello della febbre puerperale che falcidiava moltissime madri appena dopo il parto. Si pensava a un morbo riconducibile al feto stesso oppure all’aria che si respirava. Qualcuno diceva, chissà perché, che era in relazione all’assunzione elevata di sale. Nel 1850 un giovane viennese, assistente di ostetricia, Ignaz Semmelweis, si accorse che le infezioni erano molto più alte nei padiglioni universitari che in quelli semplicemente medici. Dopo aver investigato a lungo, ebbe l’intuizione che tutto dipendeva dal fatto che i medici addetti alla sala parto nei padiglioni universitari, spesso avevano già fatto autopsie, toccato persone infette, strumenti chirurgici e il tutto senza mai pensare di lavarsi almeno le mani. La teoria di Semmelweis fu considerata ridicola fino a quando i medici chirurghi dell’università viennese non presero l’abitudine di lavarsi con acqua e cloro prima di entrare in sala parto. In brevissimo tempo la febbre puerperale divenne solo un triste ricordo.

La storia dell’anestesia iniziò con uno shock
Come abbiamo visto, per secoli il dolore procurato dalla chirurgia era impossibile da controllare e spesso per la sofferenza il paziente aveva un collasso che lo poteva portare alla morte immediata. C’erano alcuni palliativi, ma erano veramente tali, come l’oppio, le erbe medicinali, le spugne che irroravano di acqua gelida la parte da operare, ma nulla di veramente efficace. I chirurghi che facevano sentire meno dolore erano ricercatissimi e, all’inizio dell’Ottocento, re Giorgio IV d’Inghilterra nominò baronetto il chirurgo che senza molte sofferenze gli aveva tolto delle cisti dalla testa. La prima operazione avvenuta con una forma di anestesia moderna, attraverso una maschera sul viso e un inalatore di etere, avvenne a Boston nel 1846 per le mani di George Haywood e Andrew Morton. L’intervento consisteva nell’amputazione di una gamba, ormai in cancrena, a una ragazza di appena vent’anni. Alla fine dell’operazione Haywood tutto soddisfatto si rivolse alla paziente per chiederle come era andata, se aveva sofferto, ma la ragazza rispose che era come se avesse fatto un lungo sonno. Felice di quella risposta il chirurgo non esitò a far vedere alla ragazza dove era finito l’arto amputato estraendola da una scatola con della segatura. La giovane alla vista di quella gamba amputata ebbe un collasso e svenne; in seguito visse in uno stato di shock per tutta la vita. Per concludere ricordiamo come, ancora agli inizi del XIX secolo, uno psichiatra, Jean Esquirol, aveva accertato le dieci cause che portavano alla sicura demenza precoce: al primo posto era il trauma di cambiare casa, poi farsi strizzare un foruncolo, l’età avanzata, il parto (a quel tempo più rischioso di una roulette russa), il ciclo mestruale (i dolori che questo stato procurava alla donna non erano curati), l’intervento chirurgico alle emorroidi, l’uso improprio del mercurio per curare la sifilide, la delusione d’amore, l’attività sessuale disordinata e il cattivo uso del salasso.

Antonello Cannarozzo
Giornalista professionista dal 1982. Nasce come grafico pubblicitario, in seguito entra nella redazione del quotidiano Il Popolo, dove diviene redattore capo.
Dal 1995 è libero professionista e collabora con diverse testate su argomenti di carattere sociale. In questi anni si occupa anche di pubbliche relazioni e di uffici stampa.
La sua passione rimane, però, la storia e in particolar modo quella meno conosciuta e curiosa. Attualmente, è nella direzione del giornale on line Italiani.net, rivolto ai nostri connazionali in America Latina.


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