giovedì 22 dicembre 2016

Il ciclo dei vampiri di Anne Rice / Fra fantasia e miti demoniaci


Il ciclo dei vampiri di Anne Rice

Fra fantasia e miti demoniaci


7 DIC 2016 
di 
LUCA PERRONE


Creature maledette e splendide, dal sesso incerto, come quello degli angeli, ma decisamente più interessante
(Anne Rice)
Sto per spingere il primo passo in un terreno inesplorato dello scrivere dell’opera letteraria. Sebbene sia il mio percorso, non mi avventurerò nel giudizio di qualità del luogo che raggiungerò, se si tratti di deserto o di campo fertile, starà alla sensibilità del lettore valutare.
Nell’approcciarmi alla critica artistica e a quella letteraria, ormai da tempo, non riesco a separarmi dai precetti baudelairiani, che sebbene adopero con maniacalità quotidiana, non ho ancora appreso a memoria, pur avendoli metabolizzati: passione, parzialità, ecc. Dal momento che il vulcano Internet, collocato oltre le pendici delle vostre scrivanie, a ridosso delle pareti dei vostri studi, erutta a comando qualsivoglia aneddoto e nozione, a partire dal classico sfavillare delle pagine wikipedia fino a giungere alle composte fantasmagorie pirotecniche dei siti ufficiali degli autori, non mi prenderò la briga onesta e laboriosa di aprire il browser nel dissertare appassionatamente di una delle mie due saghe letterarie preferite. Ma vi racconterò la storia che ci lega, quella umana ed ermeneutica, e nel farlo vi premetto e prometto di non essere sincero, posso giurarvi che esagererò, arricchirò la realtà di creazione e frutti dell’immaginazione, spingerò il vostro sforzo di comprensione fino a resuscitare l’amigdala atrofizzata per ottenere un salvifico mal di testa e quindi, spero, la gioia della follia.
La prima volta che sentii parlare di Anne Rice accadde in una lingua che non era la mia. Mio malgrado, ma senza troppi crucci ipocriti, ho la fortuna di provenire da una famiglia che sono felice di non dover definire ricca o aristocratica, ma che mi ha comunque permesso di vivere gli anni della formazione agiatamente e senza preoccuparmi del sostentamento… ho vissuto la straordinaria esperienza dell’Erasmus. Fra il duemiladue e il duemilatré mi trovavo nella Siviglia dei Saraceni, della Rinascita del tredicesimo secolo, soprattutto in quei primi giorni in cui non sputavo ni agua ni pan e quei significanti musicali ed erotici erano vuote note che simpaticamente m’investivano declinati in cadenze amichevoli e accoglienti. Poi fu il whiskey, ma è un’anticipazione.
A differenza della maggior parte degli studenti Erasmus, soprattutto dal momento che avrei dovuto tenere a bada la spinta ormonale a cagione di una promessa d’amore fedele che mi legava a una donna italiana rimasta in patria e violenta, non frequentavo le feste ma i corsi universitari, non mi accompagnavo ai molti compatrioti ma agli indigeni, leggevo, mi ubriacavo e scrivevo, invece di far professione di libero amore. Fu a partire da queste premesse che scelsi d’abitare con due studenti spagnoli: Rafaél e Jésus, da me simpaticamente ribattezzato Gesù, per gioire nel nominarlo invano di tanto in tanto.
Per simmetria aprirò una digressione che mi vede recitare in un claudicante spagnolo il monologo principe di La vida es sueño dell’ottimo Calderòn, alla festa per il genetliaco di Rafa, completamente ubriaco. Ma alla fine dei conti fu con il timido e schivo Gesù ch’ebbi lo scambio intellettuale più proficuo. Gesù era figlio di un militare, un ufficiale di marina, ma a differenza di Jim Morrison non soleva accompagnarsi a uno stuolo di ragazzine adoranti o concedersi eccessi d’alcun tipo. In verità non studiava cinema o altra forma d’arte, oppresso dall’aspettativa e dai progetti paterni era iscritto con profitto a giurisprudenza… Ma coltivava sapientemente il passatempo della scrittura. Mi parlò del lavoro certosino alla creazione di un romanzo gotico, della propria passione per i vampiri, nominò il suo faro e modello: la scrittrice statunitense Anne Rice. Mi sintetizzò con potenza visionaria l’argomento della saga: creature immortali che si nutrono di sangue, caratterizzate da una sensualità ed erotismo che trascendono quelli umani, impegnati a riempire non le ore ma i secoli nell’acquisizione e nel perfezionamento delle competenze artistiche più disparate.Trovai accattivante la descrizione, ma il genere letterario a quel tempo si discostava parecchio dal mio gusto, ero infatti intento a leggere i consigli di quei due o tre amici avidi lettori di letteratura contemporanea che svolgevano per me il ruolo di filtro, evitavo di macchiarmi il cervello di banalità.
Cos’è un “lettore onnivoro”? Fondamentalmente un drogato come un altro, un individuo cui l’assistenza sanitaria dovrebbe fornire gratuitamente la sua medicina, una fra tante anime belle che non tollerano la prosaica decadenza della società in cui vivono e sfruttano la letteratura quale strumento di consolazione ed evasione. Né artisti, né fruitori ideali, talvolta critici. Cos’è un critico? Quasi sempre un’artista sul cui uscio la cagna dell’ispirazione non si degna di pisciare. Non sono mai stato un lettore onnivoro, sebbene abbia tenuto ritmi vertiginosi di lettura, uno alla volta anche tre o quattro a settimana per alcuni intensi periodi d’interesse per argomento o genere, non mi sono mai lasciato andare alla tentazione di strumentalizzare un oggetto fornito di pagine per calmierare la smania d’evasione. Il genere di fantasma nato dallo schianto con la realtà, che uccide le mie visioni, io lo imprigiono su carta o su tela, posso al limite poggiarlo gentile sulle labbra di una donna intelligente.
Da questa mia attitudine conseguono periodi di astinenza dalla lettura e in particolare quello cui facciamo riferimento fu la naturale conseguenza del vuoto malinconico appiccicatomi addosso dalla conclusione di una maratona di studio della civiltà dei nativi amerindi, che mi vide impegnato per qualche mese, circa un anno dopo il mio rientro da Siviglia. Lessi tutto ciò che mi pareva avesse valore, saggistica, biografie di guerrieri, sciamani, raccolte di canti e miti e leggende. Rimasi prostrato dal dolore di sapere sparita per sempre una comunità che, pur senza avere la minima nozione del fatto che uno dei pilastri della sopravvalutata cultura occidentale l’aveva teorizzata secoli prima in un luogo lontano, aveva realizzato spontaneamente qualcosa di molto simile alla Repubblica Platonica.
Seguì il vuoto delle letture. Nessun argomento stimolava la mia curiosità e resistetti a lungo fra bagordi e sconvolgimento del ciclo circadiano, qualche sporadica creazione d’opere pittoriche. Poi ricordai la parola di Gesù in merito al ciclo dei vampiri. Fino a quel momento avevo provato repulsione per i generi gotico e horror. A oggi non ho mai letto Stephen King e ho avuto modo solo sporadicamente di guardare film di paura. Fu l’idea di un’immortale che affina le sue doti di pianista o violinista per l’eternità che stimolò la curiosità e accese l’istinto a recarmi dapprima in biblioteca, due città dopo la mia, che al tempo non era dotata di una biblioteca. Mi procurai Intervista col vampiro, il primo capitolo della saga. Fu amore a prima lettura, mi immedesimai subito con Lestat. L’ambientazione mi convinse che c’era un pezzo della torbida New Orleans strappato in qualche modo dal destino e collocato nel mio spirito di giovane uomo insoddisfatto e malinconico e notturno. Anch’io ero sempre combattuto fra la brama di sangue e l’etica pacifista di chi ripudia la sopraffazione, aborrisce il sopruso e investe a unico tabù l’omicidio.
Fui folgorato dalle trame avvincenti che vedevano agire queste creature soprannaturali, mi lasciai trascinare in un’empatia smisurata e senza precedenti dall’etereo sentire dei non morti, sempre innamorati e sempre combattuti fra il bisogno del riposo eterno, la noia, il rimpianto per aver rinunciato al sole e alla vera vita e lo sfruttamento del proprio potere demoniaco. Non persi tempo e dopo aver divorato il primo capitolo mi recai, questa volta in libreria, ad acquistare sia il primo (il senso del possesso non fu prealessandrino) che il secondo volume. Scelti dalle tenebre mi esaltò! In quegli anni rivestivo ancora l’immeritato e ingrato ruolo di volto e autore di una rock band… ragion per cui, leggere la narrazione della trasformazione di Lestat, in epoca contemporanea, da rampollo eterno della decaduta nobiltà francese in rockstar notturna internazionale, fu un piacere intenso che ancora oggi riverbera nel ricordo.
Sono passati almeno dieci anni dai mesi frenetici del divorare avidamente l’intera saga di Anne Rice, cui devo la mia gratitudine di lettore, creativo, essere umano. La memoria e l’inconscio sono indelebilmente pregni delle vicende e delle suggestioni che le sue creature hanno inciso. Purtroppo riportare a galla con precisione le trame sarebbe uno sforzo sovrumano oltreché spoilerante. Molti dei personaggi sono vivi nella memoria, tutti caratterizzati con sensibilità e gusto di genio, tutti originali e veri nel loro essere il parto di un rito appartenente alla magia nera e quindi di dubbia verosimiglianza per un ateo razionalista del nostro tempo, schiavo di secoli d’oscurantismo a opera di chiesa e scienza, quale non sono. Ma possiedo prove schiaccianti d’aver metabolizzato l’opera dell’erudita Rice.
Quando una scrittrice della sua caratura vende i diritti al cinema sono solito profondermi in un’accorata canzone che celebri l’evento: si tratta d’un alternanza d’alleluja e bestemmie, per sottolineare a un tempo il dolore di vedere l’ennesimo capolavoro letterario fatto a pezzi dalle pragmatiche esigenze di profitto della manipolatrice industria dei sogni e la gioia solidale per la pioggia di strameritati quattrini che inonderanno una vera artista, dandole modo di circondarsi dell’ispirante bellezza d’un’esistenza affrancata dal gioco della necessità del lavoro, consentendole di confezionare ulteriori perle da spargere a noi porci.
Dolorosamente obbligati a prendere atto della morte di Mircea Eliade, Anne Rice è a oggi la studiosa di religioni vivente di maggiore spessore. Non è concepibile che abbia creato affabulazioni d’argomento esoterico tanto intense e verosimili senza una sudata e solida preparazione sulle materie affrontate e infatti così non è. Nella mia breve e infelice carriera d’esoterista, qualche pericolosa scorribanda nel mondo della magia, dell’alchimia, della mistica, ho avuto modo di assimilare suggestioni che mi dicono inconfutabilmente che dietro la magistralmente confezionata opera narrativa della Rice si nascondono innumerevoli ore di studio, da sommare ad altrettanto innumerevoli ore di stesura e revisione.
Anne Rice scrive la voce “psicosi” nell’enciclopedia dell’immaginario collettivo e lo fa con stile, acume e gusto, impareggiabili. Ha qualcosa di divino il processo alchemico attraverso il quale la scrittrice compie il miracolo di manipolare con la fantasia il mito demoniaco. Il risultato è miracoloso
Luca Perrone
Luca Perrone non riesce proprio a trovare uno pseudonimo. Inizia a creare adolescente: canta i testi punk scritti di suo pugno e composti con la banda di amici. Qualche mese dopo si appassiona all’arte visiva, crea installazioni concettuali, passa alla pittura. L’Accademia delle Belle Arti di Carrara decide di tentarlo a reagire come Adolf Hitler non ammettendolo, ma Luca non ci casca, è sportivo nella sconfitta e soprattutto pacifista. Il liceo classico ha tentato di storpiarne l’estro reprimendolo nel bigio tanfo stantio della classicità, ma la rivoluzione in petto e le conferme di Mark Twain in merito a quella propedeutica all’ospizio dello spirito ch’è l’istituzione scolastica, l’hanno salvato.
A diciotto anni si iscrive ai corsi della facoltà di filosofia di Genova e continua a cavalcare la spocchia anticonformista finendo per laurearsi a pieni voti praticamente da autodidatta. In quel periodo dipinge fino a tre tavole al giorno con acrilico ad acqua. Seguiranno lunghi anni di ricerca pittorica, accompagnati a quella letteraria. Partecipa entusiasta ad alcuni laboratori teatrali e si avvicina così ulteriormente al linguaggio di una delle forme espressive che considera più sublimi.
Il vezzo principale che distingue Luca Perrone è quello di lasciare incompiuti sparsi per il mondo, che si tratti di narrativa, quadri, installazioni, relazioni amorose. Proprio non riesce a riappacificarsi con disciplina alla compiutezza. La passione per il Genio lo porta a redigere due tesi di laurea sull’argomento. Il rapporto fra il genio e la follia sarà l’oggetto di studio della prima, affrontato a partire dalla vicenda umana del pittore Vincent van Gogh. Si dedicherà poi nello specifico allo studio della malattia mentale e della sua terapia, ottenendo per altro la pubblicazione di un proprio articolo su una rivista specializzata, destinata agli specializzandi in psichiatria.
Purtroppo la formazione di quest’artista impiegato, quella accademica perlomeno, risulterà in definitiva quella fuorviante, caleidoscopica e destabilizzante di un epistemologo, un filosofo della scienza. Fermamente deciso a prestare gratuitamente la propria opera di poeta nel corso della costruzione del ponte per l’Età dell’Oro, egli è alla continua ricerca della mano libertaria e onesta di un saggio editore che pungoli con scadenze e ultimatum la pigra penna e in ultimo, non certo per importanza, di un ristretto pubblico di affezionati in grado di seguirlo lungo gli scoscesi crinali su cui compie acrobazie intellettuali suicide.
Per Luca l’arte è celebrazione, l’unica vera religione. Scaturisce dall’Amore.




venerdì 16 dicembre 2016

Alberto Moravia / La guerra


Alberto Moravia nel suo studio

Alberto Moravia
LA GUERRA

Questo è certamente uno
dei peggiori effetti della guerra:
di rendere insensibili,
di indurire il cuore,
di ammazzare la pietà.



giovedì 15 dicembre 2016

In topless a 52 anni / La bellezza senza tempo di Monica Bellucci

Monica Bellucci

In topless a 52 anni

La bellezza senza tempo 

di Monica Bellucci




«L’età è solo un numero per Monica Bellucci» scrive il Daily Mail, commentando le immagini hot di «Mozart in the Jungle», serie televisiva americana targata Amazon Studio, arrivata alla sua terza stagione e nella quale quest’anno recita anche la Bellucci, 52 anni. In una scena della saga la bellezza di Città di Castello che interpreta il ruolo della cantante Alessandra detta «La Fiamma» finisce a letto con il protagonista Rodrigo De Souza (l’attore Gael Garcìa Bernal) e mostra un corpo sensazionale (Instagram) 
a cura di Francesco Tortora

CORRIERE DELLA SERA


mercoledì 7 dicembre 2016

Christoph Waltz / Prometto sarò cattivo


Prometto sarò cattivo
Christoph Waltz

Prometto sarò cattivo

Falso pittore e perfido marito in Big Eyes di Tim Burton, poi arcinemico di 007 in Spectre, Christoph Waltz dice: «Con Bond posso solo perdere, ma mi diverto»

DI GABRIELE PORRO
(23 DICEMBRE 2014)
Come si fa a prendersela con 007? È scontato che mi batterà, è un eroe mitologico, ha sempre il vento in poppa, non può perdere. Sarebbe come pretendere di mettere sotto Ercole». La prospettiva di interpretare un cattivo destinato fin dall’inizio a soccombere, all’apparenza piuttosto frustrante, non sembra turbare più di tanto Christoph Waltz. Perché nella sua recente, fantastica galleria di malvagi con charme da grande schermo, dall’ufficiale nazista di Bastardi senza gloria allo schiavista di Django, dal pessimo padre di Carnage al non molto migliore marito di Big Eyes, mancava proprio l’anti-007.Waltz, che si dice «molto emozionato dai progetti che mi mettono in situazioni di pericolo, perché lì posso testare i miei limiti» (discorso più attoriale che spionistico, si suppone) ora sarà Oberhauser in Spectre, l’episodio numero 24 del serial più lungo e fortunato della storia dello schermo: uscita mondiale, novembre 2015. Qualcuno dice che in realtà rivedremo in lui il mitico Blofeld, gran capo della società segreta Spectre che sfidò Bond nei primi anni 60 (in Dalla Russia con amore e Thunderball): era quel misterioso malvagio che accarezzava sempre un gatto persiano. Il plot, infatti, in gran parte ovviamente segreto (anche Waltz conferma di saperne pochissimo) rimanda Bond indietro nel tempo, mettendolo di fronte a nemici e incubi lontani. Si girerà da gennaio in Tirolo, con set successivi a Londra e Roma, in Messico e Marocco. Regia di classe, Sam Mendes, che ha rilanciato la serie 007 alla grande (l’ultimo, Skyfall, ha superato il miliardo di dollari al box-office, videogiochi esclusi), confermatissimo il protagonista Daniel Craig, più Ralph Fiennes nel ruolo di M (al posto della sublime Judi Dench) e due bond girl per una già volta famose, Monica Bellucci e Lea Seydoux. Intanto il 58enne attore viennese, figlio e nipote di attori, attrici, uomini di teatro, forte di solidi studi in patria e al mitico Actor’s Studio, e di un doppio Oscar tarantiniano (per Bastardi senza gloria e Django) racconta la sua felice collaborazione con Tim Burton per Big Eyes. È la storia della tormentata coppia artistica formata da Margaret e Walter Keane, nell’America a cavallo tra 50 e 60: s’incontrano, si amano, si sposano, poi lui rende famosi e ricchissimi entrambi attribuendosi la paternità dei quadri. Cosa falsa, ma a lungo creduta dal pubblico. E tutto, amore e arte, finisce in un tribunale di Honululu. È in uscita a inizio 2015 in Italia, insieme a un’altra sua prova d’attore più scherzosa, Come ammazzare il capo 2 di Sean Anders.

È vero che se Big Eyes s’è fatto molto è merito suo? Il progetto girava da anni, ma è veramente partito solo quando lei ha incontrato Burton, convincendolo a dirigerlo... 

«Non è andata esattamente così, non l’ho convinto a dirigerlo, però è vero che abbiamo avuto una bellissima discussione sull’arte e il kitsch, partendo dal copione di Big Eyes. All’inizio lui era deciso a produrlo, e gli stessi sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski volevano girarlo. Ma a un certo punto ha deciso di prendere in mano la regia, e l’ha fatto con gioia, volontà, decisione»

È davvero diverso dai suoi ultimi film, un bel salto. Qualcuno ha parlato di un Burton che torna sulla terra, ricordando il bel biopic sul regista Ed Wood. 

«Sì, anch’io lo apprezzo molto: così fabolous ma senza effetti speciali, tutto reale, anche San Francisco che non è ricostruita in studio, e una vera, forte relazione al centro del film. Pochi personaggi, perfettamente caratterizzati, ancorati nel loro mondo, nel loro tempo, nella loro storia: e gli attori che recitano quasi nello stile degli ultimi anni 50».  

Anche il suo personaggio è un perfetto pessimo marito anni 50: se il film fosse ambientato ai giorni nostri, l’avrebbe fatto diverso? 

«Probabilmente sì. Però non sono così sicuro che sia del tutto un “bad husband”. Certo, è cinico, manipolatore, sfrutta i sentimenti d’amore di Margaret per lui, ma io lo definirei piuttosto un imbroglione. E poi Margaret scopre subito chi è: in fondo lui non la obbliga ad aver successo, e avere successo non è proprio questa gran sofferenza. Lei è ben contenta dei soldi e della fama, e decide tutto insieme a lui. Alla fine non è che la sfrutti o la riduca in schiavitù». 

Un po’ schiava lo è, in soffitta a dipingere i quadri che lui firma. E nel finale, in tribunale, Walter è sgradevole, aggressivo, offensivo. Lei lo recita benissimo... 

«Grazie, ma lasciamo da parte la mia interpretazione. Io sono sicuro che lei saprà di divorzi anche molto più brutti di questo. Il film è soprattutto una storia di relazioni, più che di arte parla di interdipendenza tra le persone, e di come siamo bravi a strumentalizzarle e piegarle ai nostri vantaggi. L’interessante è vedere tutto questo nell’ambiente pulito, levigato, dei 50-60. Come in un dipinto di Hopper: tutto nelfilm di Burton è realistico e iperrealistico insieme. Capisci che dietro la superficie perfetta, colorata, delle case, delle auto, delle persone, c’è ben altro. E questo ne fa una storia di relazioni estremamente moderna». 

Come si affronta un ruolo ispirato a una persona realmente esistita, ma riscritto per la fiction? 

«Walter è morto da tempo, e io non amo recitare per riprodurre la verità reale dei personaggi che impersono: del resto il film è esattamente il contrario di questo, è un anti-documentario. Non credo che sia una buona idea studiare tutto ciò che si può sapere su un personaggio. Non ti porta a far un buon lavoro. Neanche se fosse stato vivo, sarei andato a trovarlo: più cose sai su una persona, più ti senti obbligato a portarle sullo schermo, e più senti questa responsabilità, che ti blocca e restringe le tue opzioni di attore». 

Che regista è Tim Burton? Esigente, aperto... 
«È molto preciso, il che non vuol dire che non abbia una mente aperta. È un artista e sul set comunica da artista. Una persona molto visionaria, attentissima al lato visuale. E adorabile: non dà mai ordini, non dice “devi fare questo, quest’altro, devi muoverti così”. Spiega la direzione del suo lavoro, e ti dà gli elementi per farti trovare a tuo agio, con la tua professionalità, nel seguire la linea su cui si muove il film. Perciò non hai tutte le strade aperte, anche se non viene certo a portarti via per il naso, sul set, come un ragazzino. Accetta i suggerimenti, le opinioni degli attori, ma se non è della stessa idea cerca di fare in modo che gli altri la cambino. Non tronca mai il tuo flusso interpretativo, ma, supportandolo, lavora per indirizzarlo dove vuole lui». 
Prometto sarò cattivo
Ma a lei piace la pop art della vera Margaret Keane? Quei bambini tristi con gli occhi grandi? Burton dice che quello stile l’ha influenzato, visivamente... 

«Il nostro approccio è sempre eurocentrico. E non per snobismo. Il fatto è che abbiamo i massimi geni dell’arte degli ultimi millenni. Vai a Ravenna, per dire, o in qualsiasi museo di New York: il meglio degli ultimi 12 secoli è europeo, non certo americano. Le cose sono cambiate solo dopo, a metà XX secolo. Questo noi lo diamo per scontato, e restringe parecchio la questione: è tutto quello che c’è da dire sull’arte e la sua storia. Quindi non posso dire di amare la pittura di Margaret: potrei scrivere una lunga lista di obiezioni alla sua arte e sono certo che sarebbero valide. Anche Burton credo sappia bene cos’è l’arte della Keane, cosa rappresentano i suoi quadri, ma non vuole approfondire troppo la cosa. E l’interessante è che alla fine sono stato io a dover metter da parte il mio punto di vista: perché se avessimo guardato il plot partendo dalle mie opinioni, sarebbe stato il racconto di due idioti che pasticciano col kitsch. Non ci sarebbe stata storia, né film. Che oltretutto è collocato 60 anni fa, un tempo lontano dall’oggi, ma non abbastanza da essere storico».

Poi farà pure Bond 25, dopo Bond 24?
«Non ne so nulla, ma lei lo scriva pure, così lo leggono e forse ci pensano e mi scritturano».

E il nuovo progetto con Polanski?
«Neanche di questo so niente, però sarebbe magnifico. Certo che lei sa un sacco di cose. Forse la assumo come mio agente».
REPPUBLICA



sabato 3 dicembre 2016

Oroscopo della settimana

Sagittario

LA TUA GIORNATA

Sagittario







Avete un modo di pensare molto originale, che porterà giovamento. Si avvia una posizione vantaggiosa dell'astro notturno, per voi Sagittario, oggi... La vostra buona vena vi consente di conseguire obiettivi e mete, nei rapporti interpersonali soprattutto, che pensavate impossibili. Sia nelle relazioni nate per lavoro e studio, sia in quelle legate ad amore e sesso, riscuoterete apprezzamenti: la gente che vi frequenta vi troverà parecchio originali e singolari!

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giovedì 1 dicembre 2016

Il fascino senza tempo di Julianne Moore / A 56 anni è più bella che a 30

Julianne Moore


Il fascino senza tempo di Julianne Moore: a 56 anni è più bella che a 30




Nella Hollywood che produce starlette a getto continuo ci sono le eccezioni. Una di queste è Julianne Moore: talentuosa e camaleontica come pochissime altre, e più bella oggi a 56 anni di quanto fosse agli esordi: basta vederla senza trucco nella foto del nuovo Calendario Pirelli 2017 scattato da Peter Lindbergh (clicca qui). Unica nel suo genere la diva è adorata dai colleghi, dai registi e dai produttori per la sua capacità di passare dalle produzioni indie ai blockbuster senza perdere un colpo. Regina dei red carpet con il suo tocco glamour altero, che ricorda quello delle divine del passato, si è costruita una felice vita famigliare con il regista Bart Freundlich  e i figli, Caleb e Liv, di 21 e 14 anni, con i quali riesce a vivere lontana dai riflettori. Julianne (all'anagrafe Julie Anne Smith), è nata nel North Carolina il 3 dicembre del 1960. È senza ombra di dubbio il prototipo della star contemporanea: a proprio agio in qualunque situazione, dalla soap opera ("As the world turns", in cui recita alla fine degli anni '80 vincendo anche un Daytime Emmy), ai film di nicchia  come "Safe" di Todd Haynes del '95, su una ricca donna annoiata che si scopre allergica al mondo. Fino ai pop "Nine Months" e "Jurassic Park - Lost World". Dopo decine di candidature, con Still Alice, pellicola in cui interpreta il ruolo di una studiosa malata d'Alzheimer, vince l'oscar come migliore attrice 2015. Il suo stile va di pari passo con tanta ecletticità, visto che anche sul tappeto rosso l'attrice non ha certo paura d'osare. Gli stilisti l'adorano: è stata testimonial per Bulgari e Karl Lagerfeld l'ha voluta in passerella per l'Alta Moda di Chanel. Ma il legame "stilistico" più saldo è quello con lo stilista e regista Tom Ford, che l'ha vestita spesso e l'ha voluta anche nel suo primo film "A Single Man". A 56 anni, la star è di sicuro uno dei simboli del miglior cinema, nonché uno dei più eleganti. In questa gallery ecco com'è cambiato il suo stile negli anni partendo da quando era bambina e arrivando agli abiti da sera di Givenchy e Chanel.