Louise Glück |
Morta Louise Glück, poetessa premio Nobel
Quando nel 2020 fu conferito premio Nobel per la Letteratura a Louise Glück, non erano probabilmente in molti a conoscere questa poetessa statunitense nata nel 1943 a New York in una famiglia di immigrati ebrei provenienti dall’Ungheria. I lettori della sua poesia, tuttavia, conoscevano bene la necessità, la fondatezza e soprattutto la qualità del suo cantiere poetico, che è andato via via allargando la sua portata conoscitiva e spirituale, come se si fosse sviluppato a cerchi concentrici dissodando e annettendo territori sempre più ampi. Del resto, lo stesso premio Nobel era arrivato dopo una lunga serie di riconoscimenti importanti, dal Premio Pulitzer (1993), al National Book Award (2014), alla nomina a poeta laureato degli Stati Uniti nel 2003.
Il carattere più originale e riconoscibile della sua poesia sta probabilmente nella congiunzione tra l’asciuttezza e il rigore espressivo da un lato (è una poetessa, come suol dirsi, chirurgica), e la durezza dei temi e dei motivi più ricorrenti dall’altro. Sì, perché si tratta di una scrittrice con una visione assai poco edenica e compiacente dell’umano destino. Nelle sue raccolte di poesia parla anzitutto degli snodi traumatici che segnano lo sviluppo, se così si può chiamare, delle nostre vite (a partire dalla sua, che viene scrutata e analizzata senza alcun infingimento). E parla delle difficoltà dei rapporti interpersonali, delle meraviglie e insieme delle insidie dell’amore, della solitudine, degli irrigidimenti e delle falsificazioni ideologiche che intridono l’esistenza quotidiana compromettendone la possibile naturalezza. Sono versi, i suoi, scritti da qualcuno che ha conosciuto la violenza, la prevaricazione, l’ingiustizia, nella carne come nello spirito.
Proprio per questo, nelle sue poesie affiorano spesso non utopici e inarrivabili orizzonti di gioia, quanto degli attimi di reale condivisione e partecipazione umana, se non forse di felicità. Per esempio ne L’iris selvatico, la sua raccolta di poesia in assoluto più apprezzata, Glück scrive: «Nel giardino, nella pioviggine/ la giovane coppia che pianta/ un solco di piselli, come se/ nessuno l’avesse mai fatto prima,/ le grandi difficoltà non fossero mai state/ affrontate e risolte» (la traduzione è di Massimo Bacigalupo, mentre il libro, uscito in lingua originale nel 1992, è stato pubblicato in Italia nel 2020 da il Saggiatore, che poi è l’editore italiano della scrittrice statunitense).
Si vede bene, che a fronte del dolore, della sofferenza, dell’angoscia del vivere (che per questa autrice non sono solo o tanto di natura metafisica, ma ferite sempre storicamente ed esistenzialmente connotate), ciò a cui si aspira non è qualcosa di astratto, ma di direttamente vissuto e esperito, di conquistato adesso e qui. Non è una caso che L’iris selvatico sia il resoconto poetico — quasi un poema, o meglio una sinfonia in versi — di un periodo felice trascorso dall’autrice assieme al figlio in una casa del Vermont e in particolare nel suo rigoglioso giardino (grazie alle cure della poetessa-giardiniere). È la cura del vivente che più importa, quello che ci dicono i suoi versi.
Va poi aggiunto che Glück è riuscita come pochi altri poeti del nostro tempo a dialogare proficuamente con gli autori classici e in particolare con i miti antichi. Il che è senz’altro notevole, visto che si tratta di un’operazione sempre oltremodo pericolosa, in quanto a rischio di retorica e di anacronismo. E invece Glück di volta in volta sembra aver trovato nello schema-base del mito non solo un modello, ma una verifica e una certificazione per le sue intuizioni riguardo alla realtà presente della vita e più in genere dei comportamenti umani. Averno (2006), ad esempio, si rifà direttamente al mito di Persefone e della discesa agli inferi (gli antichi ritenevano che nel lago Averno si trovasse la porta d’accesso all’oltretomba) per indagare la natura dei rapporti familiari e coniugali.
E sono esattamente questi ultimi — la famiglia e l’amore (o il disamore) coniugale — i due motivi che ritornano con più continuità nei suoi versi. In Meadowlands (1997), ad esempio, tratta non solo della fine catastrofica, se così si può dire, di un matrimonio, ma anche e soprattutto della sostanza reale dei rapporti umani, della loro verità o della loro menzogna, della loro durata, dei loro condizionamenti. Mentre in Ararat (1990) il centro dell’attenzione sono le relazioni familiari, oscurate dalla presenza del lutto, anche se poi, proprio la presenza costante della ferita, dà adito a una voce poetica dolcissima e insieme struggente. In ogni caso, questa autrice, che oggi si compiange, è riuscita a fissare nei suoi versi la nostra esistenza lontano da ricette facili e da soluzioni falsamente concilianti (la sua poesia richiede lettori aperti e intelligenti), ma sempre con equilibrio e sobrietà, con intelligenza e una fraterna, umanissima partecipazione.
La vita, i premi e le opere
Louise Glück, morta venerdì 13 ottobre a 80 anni, era nata a New York nel 1943 in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi. Nel 2020 ha vinto il Nobel per la Letteratura. L’Accademia di Svezia, nelle motivazioni del Nobel, scriveva di aver scelto la poetessa «per la sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Prima del Nobel aveva ricevuto altri premi importanti, dal Pulitzer (1993) al National Book Award (2014), alla nomina a poeta laureato degli Usa nel 2003. Nel 2015 aveva ricevuto dal presidente Barack Obama la National Humanities Medal. In Italia nel 2022 le era stato consegnato il LericiPea alla carriera. In Italia i suoi libri sono pubblicati dal Saggiatore. Tradotti da Massimo Bacigalupo: L’iris selvatico (2020; era uscito nel 1992 per l’editore vicentino Giano), Averno (2020), Notte fedele e virtuosa (2021) e Ricette per l’inverno dal collettivo (2022); da Bianca Tarozzi: Ararat (2021; era apparso nel 2020 per l’editrice napoletana Dante & Descartes) e Meadowlands (2022)
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