Michael Cunningham |
Michael Cunningham: New York non è più una città per scrittori
Il Premio Pulitzer convertito alla letteratura leggendo "La signora Dalloway" di Virginia Woolf
Housing Works Bookstore, New York. Oggi, metà pomeriggio. Il sole verso ovest si riversa dalla finestra, Michael Cunningham è seduto davanti a uno dei racconti dei suoi studenti della Yale University. Finisce di correggerlo e si passa una mano sugli occhi stanchi. Quando li riapre nota una ragazza che cammina verso la cassa nel silenzio della libreria. Dopo poco si rende conto che ha un libro in mano. Non uno qualsiasi ma La signora Dalloway, il primo grande libro della sua vita.
Appoggia il mento sulla mano e ripensa a quando aveva quindici anni: era uno studente non molto promettente in un liceo pubblico della California meridionale che leggeva i libri che gli venivano fatti leggere e pensava che la letteratura fosse una forma d’arte in via di estinzione. Un giorno era fuori a fumare una sigaretta e all’improvviso si ritrovò accanto alla reginetta della scuola. Era bella, cattiva e intelligente, aveva lunghe unghie rosse e lunghi capelli lisci. Si ritrovò accanto a lei e pensò: “Ragiona in fretta, sii intelligente, profondo, dille qualcosa che ti farà amare per sempre”. Così le parlò delle canzoni di Bob Dylan e Leonard Cohen.
Lei lo fisso, aspirò l’intera Marlboro in una sola tirata, esalò un’immensa nuvola di fumo e disse: “Beh, sì, sono molto bravi, ma cosa ne pensi di T. S. Eliot e Virginia Woolf?”. Il giovanissimo Michael Cunningham aveva sentito parlare dei due scrittori e sapeva che Virginia Woolf era molto alta, pazza, che viveva in un faro e si era buttata nell’oceano, ma non si sarebbe mai aspettato di dover leggere nessuno dei due. Andò in biblioteca, non avevano nulla su Eliot, ma avevano un libro della Woolf, La signora Dalloway. Lo prese e lo portò a casa. “Cercai di leggerlo e non capii cosa stesse succedendo” – ricorda a un incontro del PEN. “All’improvviso capii la profondità e la densità, e le frasi, e si accese una piccola luce nel mio stupido cranio…”
La signora Dalloway di Virginia Woolf è un romanzo rivoluzionario di grande portata e profondità che racconta una giornata nella vita di una donna che sbriga alcune commissioni, vede un vecchio corteggiatore e dà una festa noiosa. È un capolavoro creato a partire dai materiali narrativi più umili. Lo adora perché la Woolf è stata tra i primi scrittori a capire che non esistono vite insignificanti, ma solo modi inadeguati di guardarle. In La signora Dalloway, la Woolf insiste sul principio che un singolo giorno, esteriormente ordinario, nella vita di una donna di nome Clarissa Dalloway, contiene praticamente tutto quello che c’è da sapere sulla vita umana, più o meno come quasi ogni cellula contiene la totalità del DNA di un organismo.
Micheal Cunningham sorride. È grazie a Virginia Woolf che ha vinto il Pulitzer. Decide di fare una pausa ed esce a prendere aria. Il sole luccica, ormai basso in cielo. Una barra di luce taglia l’entrata della libreria fino alla cassa. Lui prende una sigaretta e la batte sul braccio per condensarla.
È cresciuto a Cincinnati, nell’Ohio, ma è fuggito sulla costa occidentale per studiare letteratura all’Università di Stanford e poi un master presso l’Università dell’Iowa nel 1980. Cunningham ha ricevuto diverse sovvenzioni per il suo lavoro. Nel 1984 viene pubblicato il suo romanzo d’esordio Golden States, un romanzo che racconta alcune settimane della vita di un ragazzo di dodici anni. In un’intervista con Others Voices, spiega: “Sentivo di non aver scritto il libro che volevo e non ne ero felice”.
Nel 1990 Cunningham pubblicò cosi un altro libro: A home at the end of the world (Una casa alla fine del mondo, Bompiani, traduzione di Ettore Capriolo, 2003). La storia di un triangolo amoroso tra due uomini gay e la loro comune amica donna, il romanzo regala un’interpretazione innovativa della famiglia non tradizionale. Anche se non è stato pubblicato con grande clamore, l’opera ha attirato recensioni impressionanti che hanno immediatamente riconosciuto il dono di Cunningham nell’usare il linguaggio per definire le voci dei suoi personaggi e delineare le loro motivazioni.
David Kaufman ha notato lo “squisito modo di usare le parole e… la sua sorprendente felicità nel trasmettere sia i suoi personaggi che la loro storia”, e ha osservato che “questo è semplicemente uno di quei rari romanzi impregnati di intuizioni aggraziate in ogni pagina”. Da questo libro è stato tratto un film omonimo per la regia di Michael Mayer con Colin Farrell, Dallas Roberts e Robin Wright Penn.
Due anni dopo pubblica Flesh and Blood (Carne e sangue, Bompiani, tradotto da Ettore Capriolo), la storia della disfunzionale famiglia degli Stassos dalle radici al futuro incerto dei figli. Il New York Times Book Review ha osservato che “il signor Cunningham azzecca tutte le piccole cose…. ma anche quelle importanti. Perché il cuore della storia non sta nei riferimenti nostalgici, ma nelle complesse relazioni tra genitori e figli, tra fratelli, amici e amanti”.
Micheal Cunningham sospira, poi avvicina la sigaretta alle labbra. Aspira la prima boccata poi alza il mento e soffia una nuvola di fumo verso il tramonto.
Nel 1998 viene pubblicato The Hours (Le Ore, Bompiani, traduzione di Ivan Cotroneo). Il libro racconta tre storie di tre donne collegate alla Woolf. La prima è proprio Virginia Woolf, che l’autore descrive confinata nella sonnacchiosa Richmond per tenere sotto controllo la schizofrenia. La seconda è Laura Brown, una casalinga americana della Los Angeles degli anni ’40 che ha appena cominciato a leggere il romanzo ed è intrappolata da una società che si aspetta che annulli sé stessa in nome del marito, dei figli, e della casa. La terza è Clarissa Vaughan, che vive nella Greenwich Village degli anni ’80 e sta organizzando una festa per l’amico Richard, malato di AIDS allo stadio terminale.
Dell’ambizioso progetto di Cunningham, USA Today ha scritto: “The Hours è una combinazione rara: un’incredibile forza letteraria e un’esperienza di lettura assolutamente rinvigorente. Se questo libro non vi fa saltare in piedi dal divano, guardando alla vita e alla letteratura in modi nuovi, controllate se avete il polso della situazione”. The Hours ha vinto sia il Premio Pulitzer che il PEN/Faulkner Award per la narrativa ed è stato adattato in un film di grande successo, diretto dal regista inglese Stephen Daldry e interpretato da Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman.
Dopo il successo di The Hours, Cunningham si è dedicato a un progetto più tranquillo, l’omaggio/viaggio Land’s End: A Walk Through Provincetown. (Dove la terra finisce, Una passeggiata per Provincetown, Bompiani, traduzione Ivan Cotroneo, 2003).
Micheal Cunningham spegne la sigaretta sul muro, la brace esplode in pezzetti rossi che si frantumano a contatto con i mattoni. Entra in libreria e getta il mozzicone nell’indifferenziata. Prima di tornare al suo posto nota l’insegna di una sessione letteraria, quella gay. Scuote il capo e si avvicina. Ci sono tutti i suoi libri, anche i suoi ultimi quattro: Specimen Days (2005) By Nightfall (2010) , The Snow Queen (2014) e A Wild Swan and Other Tales (2015).
Specimen Days (Giorni Memorabili, Nave di Teseo. Tradotto da Ivan Cotroneo) è un romanzo con tre storie: una che si svolge nel passato, una nel presente e una nel futuro. Ognuna è caratterizzata dagli stessi personaggi, alcuni come protagonisti altri come comparse. La poesia di Walt Whitman è un filo conduttore in ognuno dei tre racconti, e il titolo è tratto dalle opere in prosa dello stesso Whitman.
By Nightfall (Al limite della notte, Bompiani, tradotto da Andrea Silvestri, 2011) racconta di Peter e sua moglie Rebecca, direttrice di una rivista d’arte di medio livello, che vivono a Manhattan, ma la loro stabile esistenza viene sconvolta dall’arrivo del fratello molto più giovane di Rebecca, Ethan, un tossicodipendente.
The Snow Queen (La Regina delle Nevi, Bompiani, tradotto da Andrea Silvestri) racconta dei fratelli Tyler, un musicista che vuole scrivere una canzone d’amore alla fidanzata che sta per morire, e Barrett, che camminando per Central Park vede una luce pallida e divina e si butta a capofitto nel misticismo.
A Wild Swan and Other Tales, (Un cigno selvatico, La nave di Teseo. Traduzione di Carlo Prosperi) che racconta i momenti delle fiabe dimenticati o deliberatamente nascosti, illustrati da Yuko Shimizu.
Micheal Cunningham smuove il capo. Ha sempre odiato la definizione di letteratura gay. Lui preferirebbe una “narrativa post-gay”, come la descrive in una recente intervista al Chicago Tribune, quella in cui sia il sesso che la sessualità sono solo sfaccettature della vita dei personaggi. “Non ho mai scritto, né ho intenzione di scrivere, un romanzo in cui tutti i personaggi sono gay. E non ho mai scritto, né ho intenzione di scrivere, un personaggio la cui sessualità sia la cosa più importante di lui o lei”, sbuffa.
Ha fatto outing e la maggior parte dei suoi romanzi riguarda la vita di persone gay. “Ma quello che non ho mai voluto era essere spinto in una nicchia”, racconta a Out. “Non volevo che gli aspetti gay dei miei libri fossero percepiti come la loro unica e principale caratteristica. Come ogni scrittore che si rispetti, cerco di scrivere di qualcosa di più delle qualità esteriori dei miei personaggi e di concentrarmi sulla profondità dei loro esseri, sulle loro paure e sulle loro devozioni, che hanno luogo a un livello più profondo dell’orientamento sessuale. Gli omosessuali si innamorano e si disinnamorano, per esempio, in modi che non sono del tutto estranei a quelli degli etero. Ci sono ovviamente delle differenze reali nel modo in cui i gay vivono e in quello che sperimentano, ma non veniamo da Marte.”
“Ho imparato però ad accettarlo”, ammette al Guardian, “lo accetto usando l’ironia. Rido infatti quando mi chiedono se gli uomini gay, e per estensione gli scrittori gay, siano più sensibili di quelli etero. Rispondo sempre: datemi un’ora, posso far venire qui dieci uomini gay di un’insensibilità così schiacciante che quell’idea vi uscirà per sempre dalla testa”.
Sorride. Si volta, torna al suo posto, e riprende a lavorare sui racconti dei suoi studenti della Yale University. La Lambda Literary gli chiese se New York fosse ancora una città per scrittori. Lui ha risposto senza indugio di no. “New York è diventata davvero troppo cara per gli scrittori. Voglio dire, se volessi davvero vivere a New York, dovresti vivere a New York, ma non per promuovere la tua scrittura. Essere lì, fisicamente, non fa alcuna differenza. Gli scrittori, come chiunque altro, dovrebbero vivere, se possibile, dove vogliono vivere di più.”
LA VOCE DI NEW YORK
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