venerdì 31 dicembre 2021

Chloé Zhao trionfa agli Oscar 2021 con due statuette e in una notte scrive la storia

 


93rd annual academy awards
CHLOÉ ZHAO

Chloé Zhao trionfa agli Oscar 2021 con due statuette e in una notte scrive la storia

La regista di Nomadland conquista il titolo di prima donna asiatica e di colore a vincere il premio alla regia.



Trionfo annunciatissimo, ma comunque storico. La cinese Chloé Zhao vince l’Oscar 2021 come regista per Nomadland, che viene decretato anche miglior film della stagione. Seconda donna in assoluto a portarsi a casa questo riconoscimento, la prima fu Kathryn Bigelow nel 2010 con la storia, guerresca e molto maschile, The Hurt LockerNomadland (in brevissima: una vedova sulla sessantina in viaggio attraverso gli States su un furgone dopo aver perso il lavoro a causa delle recessione, film che si potrà vedere dal 30 aprile su Star, canale di Disney+) aveva iniziato la corsa ai premi (corsa a ostacoli, per via della pandemia) già a Venezia 2020, con il Leone d’Oro. E ora fa il pieno di statuette, tre in tutto, compresa quella per l’attrice protagonista andata alla sempre ottima Frances McDormand.

los angeles, california   april 25 directorproducer chloe zhao, winner of best picture for "nomadland," poses in the press room at the oscars on sunday, april 25, 2021, at union station in los angeles photo by chris pizzello poolgetty images
Chloé zhao

Ma soprattutto scolpisce vari record, in un’edizione degli Oscar che già si preannunciava - come i tempi richiedono - infarcita di prime volte. Intanto 70 donne in corsa, per un totale di 76 nomination, con Zhao che è anche la prima a conquistare ben sei candidature in un anno. Inoltre a sfidarsi alla regia - dove di solito sono #tuttimaschi. Prima della cerimonia del 2021, erano state nominate soltanto Lina Wertmüller, Jane Campion, Sofia Coppola e Greta Gerwig - ben due donne, Zhao e la 35enne inglese Emerald Fennell per Promising Young Woman.


Frances McDormand e Chloé Zhao

Zhao, anche prima asiatica e prima di colore a vincere il premio alla regia agli Oscar, si è presentata sul palco con due lunghe trecce e scarpe da ginnastica bianche. Ha ringraziato i colleghi nominati e l'intero cast e la troupe che hanno contribuito a dare vita a Nomadland, citando poi una verso di una poesia cinese. "Ho pensato molto ultimamente a cosa faccio quando le cose si fanno difficili", ha detto la 39enne. “È una cosa che ho imparato da bambina, in Cina. Mio padre e io giocavamo a questo gioco. Memorizzavamo le poesie e i testi classici cinesi e le recitavamo insieme e cercavamo di finire le frasi l'uno dell’altro”. Zhao afferma di essere sempre stata particolarmente ispirata da una frase di The Three Character Classic: "Le persone, alla nascita, sono tutte intrinsecamente buone".


93rd annual academy awards
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"Quelle sei lettere hanno avuto un così profondo impatto su di me, quando ero piccola", ha continuato la regista. "E ancora oggi ci credo fortemente, anche se a volte può sembrare che sia vero il contrario. Ma ho sempre trovato la bontà nelle persone che ho incontrato, ovunque andassi nel mondo. Questo premio va a tutti coloro che hanno il coraggio di avere fede nella bontà che c’è in se stessi e negli altri, indipendentemente da quanto possa essere difficile".

Zhao, pseudonimo di Zhao Ting, è nata a Pechino e ha studiato tra Londra e gli Stati Uniti, dove si è diplomata in cinema alla New York University. Nomadland, tratto dal tratto dal libro di Jessica Bruder e girato con uno dei budget più bassi di sempre, è il suo terzo lungometraggio dopo il dramma del 2015 Songs My Brothers Taught Me e il western del 2017 The Rider. E ora Zhao ha cambiato decisamente registro, con il suo primo film fuori dal cinema indipendente. Una battaglia epica con supereroi della Marvel, Eternals, nel cast Angelina Jolie. Uscirà a novembre, sempre sperando che i cinema restino aperti e si possa tornare nelle sale. Incrociamo le dita.

BAZAAR


giovedì 30 dicembre 2021

Linn, la figlia di Ingmar Bergman e la sua musa Liv Ulmann, ha scritto un libro sulla sua famiglia mitica

 

libro ingmar bergman
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Linn, la figlia di Ingmar Bergman e la sua musa Liv Ulmann, ha scritto un libro sulla sua famiglia mitica

"Non si può mai sapere molto degli altri, specie dei propri genitori, di certo non se i genitori si sono sempre ostinati a trasformare la propria vita in storie"

Un nome ingombrante con cui si rifiutò sempre di farsi chiamare. Linn Ulmann, la più giovane dei nove figli avuti dal regista svedese Ingmar Bergman, non perdonò mai il padre di averla abbandonata all’età di tre anni insieme alla madre Liv Ulmann per convolare a nozze con Ingrid Karlebo von Rosen. Ed è forse anche per questo che decise di assumere il cognome della madre, continuando a farsi chiamare Linn anziché Karen Beate, vero nome di battesimo mai utilizzato. I suoi genitori si erano conosciuti nel 1965 quando il regista era giunto all’isola nordica di Farö per girare Persona con la bellissima Liv. Era la prima volta che l’attrice norvegese prendeva parte a una pellicola del maestro e sul set i due si innamorarono. Nell'estate dell'anno successivo nacque Linn. Ai tempi lui era ancora sposato con la pianista Käbi Laretei, ci fu uno scandalo, lasciò la moglie e si trasferì ad Hammars con Liv. Ma la loro storia durò lo spazio di appena qualche anno perché poi, nel 1969, i due si lasciarono. Linn era solo una bambina e quello della famiglia resterà un ideale a cui aspirare tutta la vita, prima nei suoi sogni d’infanzia e poi nelle sue invenzioni letterarie.

libro ingmar bergman
Liv divenne la musa di Ingmar Bergman e recitò in dieci suoi film, l’ultima volta nel 2003 in Sarabanda.

Ora che Linn Ulmann è cresciuta ed è un’affermata scrittrice non ha potuto esimersi dal ripercorrere la vita dei suoi “genitori bambini”, che amavano raccontarsi storie e rifugiarsi nell’arte, dimenticandosi di quella bambina che più di chiunque aspirava a diventare grande. Nasce con queste suggestioni il romanzo di Linn Ullman Gli inquieti, l’ultima fatica letteraria della scrittrice svedese, edita in Italia da Guanda. Inquieti come il freddo mare che lambisce la piccola isola di Farö del mar Baltico, inquieti come i suoi genitori che si lasciarono e ritrovarono innumerevoli volte sui set cinematografici (Liv divenne la musa di Ingmar e recitò in dieci suoi film, l’ultima volta nel 2003 in Sarabanda), ma anche come i personaggi protagonisti di molti film del maestro, che ha sempre vissuto in maniera angosciata e problematica il suo rapporto con Dio e con la morte.

libro ingmar bergman
Nel libro Linn Ulmann non nomina mai i genitori.
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Fu proprio a causa della sopraggiunta morte di Bergman che Linn nel 2007 non poté terminare le sue “conversazioni paterne”, un ciclo di sei incontri che padre e figlia avevano programmato per quell’anno per parlare della vecchiaia ed esorcizzarne la terribile paura che Ingmar provava. Aveva paura di perdere la parola, la memoria. "Invecchiare è un lavoro duro", diceva. Per questo aveva sentito il bisogno di scrivere un libro sul tema, a quattro mani con la figlia. Seguirono telefonate, lettere, incontri per raccogliere il materiale e intanto passarono i mesi. Come spesso accade nei rapporti umani il momento adatto non siamo noi a sceglierlo, ma è la vita, e quando finalmente Linn si decide a raggiungerlo, capisce di essere arrivata troppo tardi: alla fragilità fisica è sopraggiunto il declino mentale e i ricordi del padre stanno gradualmente scomparendo.

Naufragato il progetto, Linn Ulmann archivia i nastri delle loro registrazioni in soffitta dove restano per 10 anni. Nel 2017 suo marito li ritrova e l’autrice decide di riprendere in mano l’idea del romanzo, lavorando con i materiali che ha a disposizione. Non le resta che immergersi nei ricordi e reinventare la storia, mettendo il materiale biografico a servizio dell’invenzione. Ne viene fuori la storia di un padre pieno di strane manie (come quella delle finestre chiuse e delle tende tirate: aveva il terrore degli insetti e non sopportava la luce), una madre viaggiatrice e una figlia cresciuta tra gli scaffali della libreria della nonna, “che le ha insegnato a chiamare le cose con il loro esatto nome”. La storia di una bambina che non vede l'ora di crescere e che alla fine così diversa dagli inquieti genitori non è.

“Ho guardato foto e letto lettere, li ho sentiti raccontare di quando erano insieme, ho sentito raccontare di loro, ma la verità è che non si può mai sapere molto degli altri, specie dei propri genitori, di certo non se i genitori si sono sempre ostinati a trasformare la propria vita in storie, che hanno poi raccontato con sovrana indifferenza verso ciò che era vero e ciò che non lo era" – scrive l'autrice, che in questa miscela di ricordi e finzioni si scopre alla perenne ricerca di una madre e di un padre che non nomina mai nelle pagine del libro, ma che avverte il bisogno di far rivivere nel proprio passato, fatto di continue partenze, rigide regole, telefonate intercontinentali, fratelli e sorelle scoperti per caso e siderali distanze, che solo sulla carta riesce a colmare, mentre riflette sul concetto di perdita e memoria, arte e vita.


ELLE




lunedì 27 dicembre 2021

Morta Joan Didion, raccontò la perdita della figlia Quintana

 

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Quintana Roo Dunne, John Gregory Dunne e Joan Didion (foto John Bryson dal documentario «Il centro non reggerà», Netflix)

Morta Joan Didion, raccontò la perdita della figlia Quintana

di CECILIA BRESSANELLI24 dicembre 2021 (modifica il 24 dicembre 2021 | 14:58)

La scrittrice americana scomparsa il 23 dicembre affrontò il lutto per il marito in «L’anno del pensiero magico» e in «Blue Nights» quello per la figlia morta a 39 anni


Dieci anni fa, nel 2011, Joan Didion intitolò Blue Nights il libro (edito in Italia da il Saggiatore) che dedicò alla figlia Quintana Roo Dunne, al calvario che la portò alla morte a soli 39 anni nel 2005: «Un titolo che viene dal crepuscolo, che nei Paesi del nord si attarda all’inizio dell’estate creando l’impressione che le tenebre potrebbero non calare mai», confidò la scrittrice scomparsa il 23 dicembre 2021 a 87 anni ad Alessandra Farkas in un’intervista uscita sul «Corriere» il 17 marzo 2012.

Blue Nights arrivava sei anni dopo L’anno del pensiero magico (il Saggiatore), che Joan Didion dedicò a un’altra scomparsa che aveva segnato la sua vita, quella di John Gregory Dunne, scrittore come lei e suo marito per quarant’anni. Con lui, sposato nel 1964, aveva adottato Quintana quando la piccola, classe 1966, era appena nata. Con lui condivise il lavoro, la vita in California e a New York, i viaggi… John morì all’improvviso la sera del 30 dicembre 2003 per un attacco cardiaco che lo colpì di ritorno dall’ospedale dove la figlia Quintana era ricoverata in terapia intensiva.

Quintana Roo Dunne, che conduceva una vita riservata e si era sposata nel luglio di quell’anno con Gerry Michael, era malata da giorni. Quella che sembrava una semplice influenza — ricostruisce il documentario Netflix del 2017 Joan Didion: il centro non reggerà, diretto nel 2017 dal nipote della scrittrice, Griffin Dunne — peggiorò velocemente. Finì in coma per uno shock settico derivato da una polmonite. Joan Didion ritardò per mesi il funerale del marito, in attesa che Quintana fosse abbastanza in forze per partecipare. Dopo il funerale Quintana andò a Los Angeles, per tornare a Malibu, dove era cresciuta. Non si era ancora ripresa dalla malattia e una caduta mentre scendeva dall’aereo le procurò un ematoma cerebrale che richiese sei ore di intervento chirurgico al cervello.

Di quello che successe dopo non si sa molto. A un nuovo coma seguirono due anni di riabilitazione, ma alla fine — raccontano gli amici — Quintana «perse la voglia di vivere e la sua salute si deteriorò rapidamente». Morì per una pancreatite acuta il 26 agosto 2005 — si parlò anche di alcolismo —, durante il tour promozionale de L’anno del pensiero magico.

In Blue Nights, Joan Didion affrontò il lutto: a quello per il marito si era aggiunto quello per la figlia. Ma si interrogò anche su sé stessa: il timore di non aver capito la paura di abbandono che la figlia adottiva poteva avere, di averle imposto troppe aspettative, ma anche la preoccupazione che Quintana la vedesse non tanto come una madre che potesse prendersi cura di lei ma come una donna fragile di cui doveva essere lei a prendersi cura. Come confessò nell’intervista del 2012: «Dal momento in cui Quintana è entrata nella mia vita, ho vissuto con il timore che qualcosa di terribile le sarebbe potuto accadere. Sono certa che se lei fosse ancora viva, quell’impulso sarebbe ancora più forte».


CORRIERE DELLA SERA



venerdì 24 dicembre 2021

Morta la scrittrice Joan Didion / Il suo stile nitido sulle orme di Hemingway

Joan Didion

Morta la scrittrice Joan Didion: il suo stile nitido sulle orme di Hemingway

di MATTEO PERSIVALE23 dicembre 2021 (modifica il 24 dicembre 2021 | 14:43)
Vinse il National Book Award nel 2005 per la saggistica con L’anno del pensiero magico. Un suo articolo di crudele franchezza mandò su tutte le furie la first lady Nacy Reagan

Da bambina ricopiava i racconti di Hemingway in cerca del segreto che nessuno era mai riuscito a rubare, la magia della sintesi fulminante e del linguaggio trasparente che avevano cambiato la letteratura americana. Da grande dimostrò al mondo che quel segreto a lei era stato svelato. Il gigante con i baffi di Oak Park, Illinois, si era reincarnato nella minuta ragazza-bene di Sacramento, California. Joan Didion, morta ieri a New York pochi giorni dopo il suo ottantasettesimo compleanno e dieci anni dopo l’uscita del suo ultimo libro, Blue Nights , uno dei capolavori di terribile bellezza e infinito dolore della sua vecchiaia, soffriva da tempo del morbo di Parkinson (un bel documentario-lettera d’amore a lei dedicato dal nipote attore Griffin Dunne ce la mostrò su Netflix quattro anni fa senza fare sconti al declino fisico, sempre più sottile nel corpo e nella voce).

Come Hemingway, Didion ha preso la lingua inglese degli americani e l’ha portata su un piano diverso, nel quale la chiarezza dello stile illumina ogni cosa: i personaggi, i dettagli, le idee dell’autore. Superando anche il maestro in materia di analisi politica, che a lui non interessava (troppo preso da caccia e pesca e dall’inseguimento della sua idea di mascolinità) e alla quale lei ha dedicato alcune delle sue pagine più strabilianti, passando ai raggi X gli uomini di potere di Washington degli ultimi quarant’anni (un suo articolo di devastante, crudele franchezza provocò nell’allora first lady della California Nancy Reagan un odio per i giornalisti che non la abbandonò mai più).

Didion è stata giornalista e narratrice fondendo le tecniche e le regole dei due mestieri proprio come Hemingway prima di lei, e applicando un senso dell’osservazione quieto e spietato. Leggendo Didion si prova la stessa sensazione che si prova, da miopi o da presbiti, infilando gli occhiali: tutto diventa improvvisamente, finalmente, nitido. La ragazza che sognava di fare la giornalista vinse un concorso di «Vogue» e dalla natìa California andò a New York a scrivere didascalie di moda (palestra fondamentale: Didion ci insegna, tra le tante cose, che per capire una donna non si può non considerare anche come si veste e come si trucca).

Una foto famosa — gli scrittori americani hanno chissà perché il dono della fotogenia: ottantenne, fu testimonial di Céline — la ritrae ragazza chic in giacca cerata inglese da caccia e foulard Hermès accerchiata dai fricchettoni della San Francisco della Summer of Love, l’estate dell’amore (e soprattutto dell’Lsd). Più avanti, eccola con la tunica fluente nella casa Malibu con la sua Stingray coupé. E nella bella cucina luminosa con la figlia adoratissima Quintana Roo e il marito-mentore John Gregory Dunne, bravo romanziere e critico sagace che molto la fece soffrire ma senza il quale, come vedremo, non poteva vivere.

Strutturalmente incapace di sentimentalismo e proprio per questo ancora più emozionante, come il cinema di Michelangelo Antonioni, Didion nel 1970 pubblicò un romanzo — Prendila così, tradotto in Italia da Bompiani e poi da Il Saggiatore — che ha lanciato, oltre alla sua, anche la carriera di una generazione di scrittori americani dopo di lei (il giovane Bret Easton Ellis la idolatrava, ricopiandone i testi come lei faceva con Hemingway), e la cui scena più famosa è quella, terrificante, di un aborto (allora ancora illegale).

Doveroso ricordare Didion come la creatrice di frasi indimenticabili e molto citate — «È facile vedere l’inizio delle cose, più difficile vederne la fine», «raccontiamo storie a noi stessi per vivere», «la vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita», «questa città che svanisce rapidamente nell’abisso tra la sua vita reale e le sue narrazioni preferite», riferendosi a New York — ma in lei lo stile lapidario e difficilissimo da tradurre (per fortuna in Italia abbiamo Vincenzo Mantovani e Delfina Vezzoli) è sempre lo strumento per raccontarci senza fronzoli la verità. I politici? Pupazzi, cinicissimi, spiazzati dagli eventi. A volte in buona fede, altre meno. La sua California? Rievocata senza nostalgie, con la bravura con la quale descrive le sue spaventose emicranie.

Gli articoli di Verso Betlemme The White Album Nel paese del Re pescatore (Il Saggiatore) prendono a prestito le tecniche della narrativa e i suoi romanzi come Miami sono prodigi di giornalismo. Lavorò, con John, anche per il cinema ma Hollywood, nella sua inevitabile volgarità, ne capiva a fatica la sottigliezza e non riuscì a tradurla davvero sullo schermo per commercializzarla: lei non se ne dolse.

Gli ultimi anni, quelli della vecchiaia, sono aperti e chiusi da due libri brevi e devastanti, nei quali la profondità assoluta dello sguardo didioniano si rivolge all’immagine dello specchio, l’autrice e la sua vita. Sono due racconti di perdite irrimediabili: L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore) è quello della morte improvvisa di John, a cena, una sera come tante, lui che si accascia, lei all’ospedale (Didion viene descritta al medico come «un osso abbastanza duro»), e dopo la morte del marito la malattia della figlia Quintana, un calvario che la porterà alla morte in giovanissima età raccontato nel libro finale della carriera di Didion (le uscite successive furono raccolte e riedizioni), Blue Nights (edito dal Saggiatore).

Adesso che non c’è più, adesso che la grande casa sulla Settantunesima est a pochi passi dal parco è vuota, è giusto ricordare Joan Didion con le ultime parole del suo ultimo libro: «So cos’è la fragilità, so cos’è la paura. La paura non è per ciò che è andato perso. Ciò che è andato perso è già murato in una parete. Ciò che è andato perso è già chiuso dietro porte sbarrate. La paura è per ciò che c’è ancora da perdere. Potreste dire che non vedete cosa ci sia ancora da perdere. Eppure non c’è giorno della sua vita in cui io non la veda».

L’anno del pensiero magico, d’ora in poi, sarà ogni anno nel quale crederemo di vedere uno scrittore simile a Joan Didion.


CORRIERE DELLA SERA



sabato 18 dicembre 2021

Piedad Bonnett / In continua ricerca di una vita da abitare

Piedad Bonnett


Piedad Bonnett: in continua ricerca di una vita da abitare

Un universo quasi onirico, pieno di metafore, di corpi, di buchi dove si cade e luci che si spengono

13 NOVEMBRE 2021, 


L’autunno è appena iniziato: vedo dal finestrino del treno Francoforte-Leipzig dei paesaggi colorati dove gli alberi sono i protagonisti: ognuno sfoggia il suo miglior fogliame, dal rosso opaco al giallo limone e tutto si fa dipinto. Era da tempo che non scrivevo e mi sento arrugginita, ma l’idea di scrivere in un viaggio in treno mi affascina da sempre. E allora comincio, allungo le mani sulla tastiera del computer, mi muovo da un lato all’altro con il ballo irregolare del treno in movimento. Tutto il mio corpo è sottomesso a sostenere questa mia volontà. La mente comincia a riempirsi di pensieri mentre guardo passare, come un ventaglio aperto, i colori di questi alberi che mi ricordano quelli del cielo al tramonto il giorno in cui ho letto, per la prima volta, Los habitados di Piedad Bonnett, scrittrice e critica colombiana, autrice di vari libri di poesia, di romanzi e opere di teatro.

Los habitados è un libro di una bellezza cruda, non convenzionale, con un linguaggio così oscuro da essere abbagliante. Nella prima parte del libro, le poesie nascono dal guardare, dallo sguardo verso una realtà che si trova fuori e dentro al tempo stesso:

Yo me miro mirar.

(Doble)

Mi guardo guardare.

(Doppio)

Todo es adentro aquí, en este gran vientre.

(La madre es la gran noche)

È tutto dentro qui, in questo grande grembo.

(La madre è la grande notte)

Si inizia a percepire un universo quasi onirico, pieno di metafore, di corpi, di buchi dove si cade e luci che si spengono, il tutto per parlare di un dolore che è anche il dolore di tutte le persone, di chi almeno una volta ha provato questo sentimento nel profondo, fino a farsi sconvolgere e sommergere, a los habitados per chi la vita è chirriante disonancia (Los habitados). Le poesie si avvolgono in un’oscurità continua, oscuridad de pozo (Ramera), il nero inonda le pareti delle poesie, la paura e l’inquietudine accompagnano la notte mentre Piedad sviscera il suo dolore, di persona, di madre attraverso il linguaggio. Dico madre perché questo libro, Premio de Poesía Generación del 27, nasce da un evento tragico nella storia di Piedad, il suicidio del figlio Daniel all’età di 28 anni. Un evento terribile che fa da sfondo a questo libro che Piedad scrive non come forma di sfogo e nemmeno con l’obiettivo di sanarsi, ma lo scrive per capire, per farsi domande, anche quelle di cui sa già che non c’è una risposta e per recuperare quello che è andato perso e che solo la memoria - e di conseguenza, il dolore - possono mantenere vivo:

Pido al dolor que persevere.
Que no se rinda al tiempo, que se
incruste como una larva eterna en mi
costado

para que de su mano cada día
con tus ojos intactos resucites,
con tu luz y tu pena resucites
dentro de mí.

Chiedo al dolore che perseveri.
Che non si arrenda al tempo,
che si conficchi come una larva eterna
nel mio fianco

affinché dalla sua mano
tu possa resuscitare ogni giorno,
con i tuoi occhi intatti
con la tua luce e il tuo dolore tu possa resuscitare
dentro di me.

Provare dolore è sentire la presenza interna di qualcuno o qualcosa che si trova in un tempo fuori dal tempo. Quanta forza e coraggio racchiusi in questi versi che fanno parte della poesia Pido al dolor que persevere che chiude il libro e la seconda parte, Noticias de casa, con una sorta di leggera malinconia e con la certezza che la scrittura e quindi la parola siano accompagnamento necessario per (soprav)vivere.

Noticias de casa nasce come insieme di poesie della memoria, di pezzi di memoria. Piedad ripercorre i momenti della relazione con suo figlio, ricordando i luoghi dove vivere e piangere para que no te mueras doblemente (Pido al dolor que persevere).

Una cocina puede ser el mundo,
un desierto, un lugar para llorar.

(Cocina)

Una cucina può essere il mondo
un deserto, un luogo per piangere.

(Cucina)

L’Último instante dell’esistenza di suo figlio.

En qué pupila
quedaste tú grabado para siempre

aún vivo
pero volando triste hacia la muerte,

en el último instante, el cielo a tus espaldas.

In quale pupilla
sei rimasto impresso per sempre

ancora vivo
ma volando triste verso la morte,
nell’ultimo istante, il cielo alle tue spalle.

Le ferite e l’anniversario:

Llega la fecha y rasga, con discreta violencia,
a venda.

(La fecha)

Arriva la data e strappa, con discreta violenza,
la benda.

(La data)

Fino al:

Ahora que ya no
ahora que nada.

(Ahora que ya no)

Ora che non ci sei più
ora che niente.

(Ora che non ci sei più)

Piedad, in un’intervista con lo scrittore spagnolo Fernando Aramburu nel giornale El Cultural, afferma che scrivere è trasformare le angustie in parole e questo mestiere le serve per scongiurare le sue fragilità e le sue paure. Il processo di scrittura di Piedad ricerca una forza espressiva, un’onestà, un’empatia nel comprendere ciò che ci rende umani.

E quando leggo e rileggo questo libro penso alla mia cara amica V. che me lo regalò proprio quando ne avevo più bisogno e a tutto il dolore che ho provato, a questo flusso di onde desolate che mi inonda quando provo dolore, e che solo grazie alla scrittura, la lettura (e le amicizie) sono riuscita a far accompagnare e, poco a poco, curare. Mi sento parte anche io di questo gruppo di habitados in continua ricerca di una vita da abitare.

(Traduzione dei versi di Piedad Bonnett di Laura Boscardin)

WSI



lunedì 13 dicembre 2021

L’intensità poetica di Idea Vilariño

 

Idea Vilariño


Idea

L’intensità poetica di Idea Vilariño

13 SETTEMBRE 2020, 

Ascolto la voce di Idea recitare le sue poesie in una tranquilla serata di inizio giugno. Lei mi guarda con i suoi occhi malinconici e io, meravigliata, scopro di avere finalmente trovato la poetessa che dà forma ai miei pensieri, ai miei sentimenti.

Idea Vilariño nasce nel 1920 a Montevideo, Uruguay. Poetessa, traduttrice (tra le sue traduzioni, esemplari quelle di alcune opere di Shakespeare), saggista, insegnante e perfino compositrice di canzoni, fa parte della Generazione del ‘45, assieme ad altri importanti scrittori come Mario Benedetti, Ida Vitale e Juan Carlos Onetti.

Da piccola, impara a suonare il violino e nel corso della sua vita diventa un’appassionata della musica del tango. Scrive fin da giovane e partecipa alla direzione di varie riviste, tra cui Número dove appaiono pubblicate alcune sue raccolte di poesie come Paraíso perdido e Por aire sucio. Proviene da una famiglia colta, di classe media in cui scorre nelle vene la letteratura e la musica: suo padre, Leandro Vilariño, è poeta e da lui impara a prestare attenzione al ritmo, al suono incantevole che emana la poesia. Sua madre, Josefina, una grande amante della letteratura europea, mentre i suoi fratelli si chiamano, come per inevitabile destino, Alma, Azul, Poema, Numen.

Il dolore, per la prematura morte dei genitori e del fratello maggiore e per i forti problemi di salute, diventa un elemento intrinseco nella poesia di Idea.

Mi piace chiamarla così come se fosse un’amica, una mentore e come lei stessa firmava i suoi scritti. A tale proposito, è curioso sapere che a volte usasse uno pseudonimo, Elena Rojas, da uno dei cognomi della nonna materna, come per ricreare quel legame famigliare che purtroppo si era dissolto. La fragilità fisica ed emozionale, quindi, porta Idea a coltivare una sensibilità senza precedenti e successori, oserei aggiungere.

Quando si legge la poesia di Idea, ci si trova di fronte a una vera e propria artista in grado di pronunciarsi e allo stesso tempo, tutti noi lettori ci sentiamo pronunciati. Il concetto meglio spiegato con parole di Juan Gelman, poeta argentino:

L’altro scopre in lei uno spazio ignorato di se stesso, ormai battezzato per sempre con le parole di Idea, che lo hanno disvelato. Risveglia ciò che dormiva in ciascuno di noi, apre spazi che ignoravamo di poter avere e di conseguenza non sapevamo di avere.

In un’intervista con Elena Poniatowska1, scrittrice e giornalista messicana, Idea non sa come definire cosa sia per lei la poesia. Con la calma di sempre, chiarisce che è una forma d’essere, del suo essere. Non è stato un incidente che Idea diventasse una poetessa. La poesia sono io, dice. Tutto ciò che scriveva era molto privato, Idea era una persona riservata e distante, non le interessava comunicare, raggiungere il cuore del lettore. E proprio per questo motivo non le interessava la pubblicazione.

Pubblicare non è stato un atto coerente con la sua personalità, Idea lo riteneva un atto di esibizionismo, era gelosa di mostrare l’intimità creata nella poesia. Adesso questo poco importa e possiamo solo ringraziare di avere la possibilità di leggerla.

La poesia di Idea è una poesia sobria, cosmica per la presenza della natura, a cui collega la sua spiritualità, e pura come pure sono le immagini. È una poetica che non ha confini temporali, è eterna perché eterne sono le certezze di cui ci rende partecipi: amore, morte, solitudine e negazione della speranza. Si potrebbero definire “ossessioni” invece di “certezze”, ma queste sono le parole di Idea nel documentario, Idea, del regista Mario Jacob. Di fronte all’inevitabilità della vita, non ci resta che continuare a vivere e per Idea, continuare a scrivere.

In generale, le sue poesie sono corte, contenute e misurate e si leggono in sequenza, una sequenza che avvolge. La sua conoscenza del ritmo e della forma nei minimi dettagli si dimostra in ogni verso che si presenta dominato dall’uso della ripetizione.

È perfezione ritmica: leggere ad alta voce le sue poesie è come trasportarsi in un universo musicale che da alla creazione finale coerenza e significato. Un esempio, in Un ospite, traduzione di Milton Fernández2, Idea comincia con questi versi:

Non sei mio
non ci sei
nella mia vita
accanto a me
non mangi al mio tavolo
non ridi né canti
né vivi per me.

Come scrive nei suoi diari, Idea ritorna sempre a la “semplicità senza nome”, uno stato in cui la poesia si spoglia di costruzioni artificiose e si presenta per quello che è: l’intima verità. Non ci sono mancanze e nemmeno eccessi. È la voce di una donna che ha il coraggio di parlare, di esprimersi e con inusuale incisività, esprime la sensibilità dei suoi vuoti interiori e li nomina, uno ad uno. Idea, osa. È orgogliosa, reticente, solitaria, ma soprattutto consapevole di essere una poetessa, di avere un mondo interiore forte e intenso a cui fare ritorno nei momenti di difficoltà e solitudine.

La scrittura di Idea si può considerare anche come politica, nella rivendicazione del soggetto femminile. C’è una forte preoccupazione sociale e politica, è una poesia di resistenza non solo contro la dittatura dell’epoca in Uruguay, ma contro un sistema tradizionale che non lascia spazio all’espressione della donna, che anzi, la sopprime. Idea, quindi, lotta con i suoi versi, una poetica affilata, ma moderata.

Anche nel caso dell’amore, si può parlare di poesia di resistenza. Le sue relazioni amorose sono tormentose, ma fruttuose. Si innamora di persone inadeguate alla sua forma d’essere, come nel caso di Juan Carlos Onetti (1909 – 1994) a cui dedica i Poemas de amor (1957), un esercizio di immersione profonda nei meandri abissali dell’amore e le relazioni. Idea racconta in una delle sue ultime interviste:

Mi sono innamorata dell’ultima persona di cui avrei dovuto, eravamo fatti di una materia impossibile da legare. Non ha mai capito l’abc della mia vita, non mi ha mai capito come essere umano, come persona. Ancora mi chiedo perché ho sopportato tanto, perché sono tornata sempre da lui.

Queste poesie combattono, con potenza e delicatezza, il complicato mondo dei sentimenti. Idea cerca una risposta alle sue molteplici domande.

Anche noi, al leggerle, ci rivolgiamo le stesse domande e ci soffermiamo a pensare alle possibili risposte: cos’è, poi, l’amore? Perché le relazioni sono così complicate?

E rimangono impresse, queste lotte esistenziali, queste parole, per ricordarci quanto potenti siano i nostri mondi interiori e quanto sia necessario identificarli, nominarli.

E Idea ci può aiutare in questo percorso, è una boccata d’aria la sua poesia, una verità che ci rende liberi di vivere le nostre emozioni.

1 Esencial y desesperada. Una entrevista con Idea Vilariño, Elena Poniatowska.
2 Idea Vilariño, L’amore – [Antologia] (miltonfernandez.wordpress.com ), Rayuela Edizioni, 2016.

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